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Riportiamo un ulteriore ampio estratto del saggio dedicato dalla professoressa Betri all’ottocentesco “stimatissimo signor dottore”. Lo“stimatissimo signor dottore” (dai “galatei” e carteggi dell’Ottocento) MARIA LUISA BETRI Al progetto di consolidamento professionale si deve il successo durante l’intero Ottocento di quella ricca trattatistica deontologica di “galatei medici”, che consente di seguirne il procedere, mettendo a confronto i compendi editi nei primi decenni del secolo, improntati alla prudenza e alla valorizzazione delle risorse morali, con quelli pubblicati negli ultimi decenni, i cui codici di comportamento si adattavano invece ad un ruolo ormai rinfrancato dalle acquisizioni della scienza. Gli Aphorismi medico-politici centum di Alessandro Knips Macoppe, professore nello Studio di Padova, editi nel 1795 e più volte ristampati nei primi decenni del secolo successivo – una loro traduzione italiana del 1824 si intitolò significativamente La politica del medico nell’esercizio dell’arte sua esposta in cento aforismi – furono l’opera più fortunata di un genere che arrivò a contare alcune decine di esemplari, anche se spesso editi in una versione meno aulica, sotto forma di “consigli” o “ricordi al giovane medico”, di “avviso alla studiosa gioventù” o di istruzioni “al medico giovane al letto dell’ammalato”, e in una veste tipografica solitamente dimessa. Il modello che essi proponevano sembrava comunque attagliarsi prevalentemente ai futuri “liberi esercenti dell’arte” nelle città o nei borghi popolosi, piuttosto che ai meno fortunati destinati ad affollare i ranghi dell’esercito dei condotti o a intraprendere una carriera ospedaliera dal lungo tirocinio e all’epoca ancora lontana da gratificanti prospettive. La precettistica dettava norme di comportamento volte a conquistare una clientela dalla fisionomia inequivocabilmente abbiente, mediante una rete di relazioni che non poteva essere intessuta se non in una realtà urbana. Per un giovane medico che si affac- 12 ciava alla professione contava innanzitutto il sostegno di un collega più anziano e affermato, sotto la cui ala protettrice era assai opportuno collocarsi. Ma i consigli dei galatei non disdegnavano di sottolineare l’importanza di accattivarsi i favori del gentil sesso e, ancor più, di assicurarsi una buona reputazione presso la servitù, che avrebbe molto agevolato l’accesso all’“anticamera del ricco”. Proprio nella frequentazione delle dimore aristocratiche, tuttavia, i medici avevano modo di saggiare quanto fosse difficile affermare l’indipendenza della professione borghese: i nobili non la stimavano e soprattutto guardavano con diffidenza l’ambizione di ascesa sociale e le pretese in materia di onorario. Questione tra le più spinose, poiché le “persone comode e facoltose” seguitavano a considerare l’operato del medico una sorta di servigio dovuto, da ricompensare a discrezione dell’altolocato paziente. Soltanto intorno all’Unità, agli esordi dell’associazionismo professionale che ebbe uno dei suoi centri più attivi in Milano, i medici stabilirono i primi tariffari delle loro prestazioni, peraltro allora assai meno remunerate di quelle degli avvocati e ingegneri. I precetti dei galatei erano generalmente ripartiti nei distinti capitoli della “scuola clinica” e della “scuola politico morale”, il cui dettato, per lo meno nelle edizioni della prima metà del secolo, sembrava nel complesso rivestire maggiore importanza delle norme per accostarsi al malato, raccogliere accuratamente l’anamnesi, studiarne la malattia, formulare la diagnosi e la prognosi, prescrivere i farmaci. Il versante relazionale, con il paziente, con la sua famiglia e, più ampiamente, con la società, sembrava dunque nettamente prevalere sulla precettistica di una clinica ancora larga- mente inefficace. Un trattato dato alle stampe proprio nell’anno in cui la prima violenta epidemia di colera imperversò nella Penisola, il 1836, insisteva non a caso sulle coordinate di una prassi professionale da fondarsi in primo luogo sulla comprensione e sulla attitudine consolatoria: “Ben di frequente penetrando negli intimi segreti delle famiglie [il medico] ne deterge le piaghe morali, e conoscendo la via di raddolcire il calice amaro, perviene anche a sanarle, coltivando il sentimento riparatore, come è solito di coltivare la forza vitale per la redenzione dell’organismo”. Sulla “famigliarità” e sulla “devozione” si imperniava il paradigma etico additato ai giovani medici dell’età della Restaurazione, durante la quale il razionalismo di certa letteratura consolatoria o deontologica di fine Settecento era stato ormai sopraffatto, mutato il clima politico e culturale, da un moralismo fondato sul sentimento e suggellato dalla religione. “Niun medico” avrebbe dovuto “dichiararsi fautore dell’ateismo, macchia per errore di pochissimi ingiustamente contratta”, ma anzi, curante del corpo, avrebbe dovuto anche vegliare sulla salute dell’anima, consigliando al malato di accostarsi ai sacramenti e di osservare in ogni caso il digiuno quaresimale. “Medicus sit christianus” esortavano i galatei, senza che si dovesse scadere negli eccessi, abbozzati con schizzo caricaturale in talune pagine, di coloro che, pur di ingraziarsi i favori della famiglia particolarmente devota di un infermo, “nelle case in cui c’è odor di santità nel trarre di saccoccia il fazzoletto a bella posta si fan cadere una corona”. Sino all’Unità, l’intervento dei medici interagì molto spesso con quello dei sacerdoti, che anzi lo sostennero e lo agevolarono. I rudimenti del medicare erano infatti divulgati in opuscoli – a Milano, ad esempio, si diedero alle stampe nel 1826 i Dialoghi di Giacomo Barzellotti dal titolo Il paroco istruito nella medicina per utilità spirituale e temporale de’ suoi popolani – che, nelle mani dei sacerdoti, i più vicini alle sofferenze della popolazione e i primi ad essere chiamati in caso di necessità, li istruivano a prestare le prime cure e a sollecitare in seguito la chiamata del medico. In età preunitaria dunque medico e sacerdote agirono spesso di conserva in un’opera di educazione igienica che mirava a dissuadere la popolazione, soprattutto rurale, dal ricorrere alla terapeutica consuetudinaria, il più delle volte innocua, ma non di rado dannosa. Quest’intesa, o quanto meno reciproco rispetto, tra il “curante” del corpo e il “curatore” dell’anima era destinata tuttavia a incrinarsi fino a sfociare, nella temperie dello scientismo positivista e nel clima permeato di umori anticlericali della seconda metà del secolo, nella contrapposizione del medico al prete, in nome di un umanitarismo laico coloratosi poi di socialismo. Partecipe della radicalizzazione politica dei ceti medi intellettuali e nello stesso tempo confortata dai progressi della scienza che le avevano assicurato maggior prestigio e potere contrattuale, la classe medica poté svolgere allora un’importante funzione di tramite tra i ceti popolari e lo Stato. Anche se proprio in quel volgere di tempo falliva il decollo di un’organizzazione sanitaria pubblica e si rendeva sempre più evidente il distacco fra un’élite che si avvantaggiava nell’esercizio privato della professione dei successi conseguiti nelle nuove strutture specialistiche ospedaliere e una più vasta schiera di colleghi collocati a livello medio-inferiore della gerarchia sociale, ben più partecipi della quotidiana fatica esistenziale dei loro assistiti e attenti agli sviluppi della politica sanitaria. La letteratura parenetica percepì subito questo significativo complesso di cambiamenti, riservando maggior spazio ai consigli per un agire “politico”, e attenuando la severità moraleggiante del modello professionale sino allora proposto, vale a dire quello di un medico fortificato dalla filosofia e sorretto dalla fede, prudente ed equilibrato, e soprattutto dotato di capacità di mediazione. Poiché a queste in primo luogo si era dovuto far ricorso, sfumando nel concreto della pratica i toni intransigenti della foga polemica e della censura perentoria dei galatei, là dove, nei paragrafi dedicati ai comportamenti da evitare, si biasimava “il medico che alla presenza di spirito unisce un fondo di ciarlatanismo o al certo un carattere ameno insinuante e pieghevole alle diverse circostanze”. Un comportamento che doveva per altro essere assai diffuso, come lasciavano intuire anche le pagine delle riviste più importanti, dagli “Annali universali di medicina” a “La medicina politica”, ove si criticava, tra le mancanze dei condotti, la “colpevole tolleranza per umani rispetti verso gli esercenti abusivi e gli stessi spargirici” o 13 invece, più duttilmente, si suggeriva di scendere a compromesso con l’“opinione massime pregiudicata del popolo in medicina”, evitando di avversare in modo palese la terapeutica popolare, e nel “darsi sommo pensiero di cattivarsi la stima universale” nel paese in cui si era chiamati, di “tener conto delle simpatie e antipatie dei malati rapporto ai singoli medicamenti”, assecondandole se del caso, o altrimenti “ingannandole”. Il paradigma generalizzante del “dover essere” proposto dai galatei – sia nella pars construens che in quella destruens – non poteva incarnare, com’è ovvio, le diverse articolazioni di un mondo professionale disomogeneo, con caratteristiche diverse da Stato a Stato, nel quale convivevano travet che, spuntandola sulla concorrenza dopo competizioni combattute senza risparmio di colpi, andavano a guadagnarsi il pane esercitando nelle campagne; medici agiati, appartenenti a famiglie di notabili, che potevano permettersi di tenersi aggiornati con una biblioteca ben provvista e con abbonamenti ai più importanti periodici; cattedratici di fama, membri di accademie scientifiche, al centro di un circuito di relazioni culturali e richiesti spesso del loro “parere sperimentatissimo”. Risulta comunque arduo reperire nelle fonti più tradizionalmente esplorate, archivistiche o a stampa, elementi che facciano emergere le declinazioni del rapporto tra questo variegato mondo di medici e i loro pazienti. Il diffondersi nel corso dell’Ottocento dell’abitudine alla corrispondenza, divenuta via via, nell’ambito di un processo di “sentimentalizzazione” dei legami familiari e della più generale affermazione della sfera dell’individualismo e del privato, da forma di scrittura elitaria, colloquio “ordinario”, intimo, dai toni dimessi della quotidianità, ha tuttavia, e fortunatamente, costituito, giacimenti documentari che possono aprire uno spiraglio sulle pieghe più riposte della soggettività e della mentalità. Acquistano dunque grande rilievo a tal fine i carteggi tra medici e pazienti, oppure diari, memorie, autobiografie – quel complesso di scritti che i letterati e gli storici ormai denominano “fonti autonarrative” o “forme primarie di scrittura” –, anche se le aperture sui versanti di questa relazione non possono che offrircene una visione parziale. Infatti, chi si rivolgeva per lettera al medico – quanto meno in possesso dei rudimenti della scrittura, se non in 14 grado di stendere un testo in bello stile – apparteneva quasi esclusivamente a quel ceto aristocratico o borghese, prevalentemente urbano, che andava mutando il suo atteggiamento di altezzosa superiorità e di diffidenza per ricorrere sempre più di frequente a lui, non solo come curante dei mali fisici, ma anche come confidente con cui sfogare ogni sorta di afflizione dell’animo e di problema esistenziale. Anche se, ma assai più di rado in verità, può accadere di imbattersi in carte illuminanti su questo rapporto in un milieu più popolare, simili a quelle del medico biellese Bartolomeo Sella, della famiglia degli industriali tessili, e che sembrano smentire la consolidata immagine del difficile rapporto tra le due diverse culture e mentalità: annotazioni scrupolose, appuntate giorno per giorno in una sorta di taccuino personale nel corso di un esercizio professionale svolto nei primi decenni dell’Ottocento, sul decorso delle malattie dei pazienti, sull’ambiente, sulla circolazione delle idee scientifiche, e assai più eloquenti sull’alterno andamento del processo di medicalizzazione in una periferia rurale. Una lettera indirizzata a Sella da un amico sacerdote pare testimoniare l’importanza crescente assunta anche per fasce sempre più ampie delle popolazioni di campagna dalla figura del medico, che mutuava al capezzale dell’infermo funzioni sino allora prerogativa dei parroci, come cercava di accreditare anche la pubblicistica dell’epoca, apparentando sempre più spesso l’esercizio della professione a un ministero sacerdotale, a una “civile religione”: “Io l’osservai, e voi l’avrete osservato più di me – gli faceva notare – che l’amalato, tutto ché dopo molte volte abbia provato che per la complicazione del male o per mancanza de’ principi suscettibili di riordinazione, l’arte medica non lo può sollevare, con importune istanze domanda ad ogni momento il medico”. E ne attribuiva la ragione “al sollievo” che l’infermo traeva dalla “medicale presenza”, per l’“intima persuasione” che essa fosse l’unica in grado di “umanamente soccorrerlo”. Sulle questioni interpretative sollevate dallo studio di “documenti dei sentimenti” per eccellenza quali gli epistolari e carteggi e sul grado della loro attendibilità, ha lungamente dibattuto, in questi ultimi anni, la critica storiografica, suggerendo di accostarvisi con un approccio assai cauto, anche se un eccessivo, smaliziato distacco, nel timore di essere ingannati da una fuorviante illusione realistica, può far correre il rischio di congelare nelle loro potenzialità evocative le tracce multiformi di percorsi esistenziali che essi invece fanno emergere con prepotenza. In fogli e fogli di lettere scambiate fra medici e la cerchia a volte molto ampia dei loro corrispondenti si scriveva di malattie reali o ipocondriache, ansie, malinconie, si discuteva in materia di consulti e di questioni scientifiche, si malignava su intrighi e rivalità accademiche, si commentavano matrimoni, lutti, eredità, affari, avvenimenti politici. E il destinatario era di volta in volta, e spesso nello stesso tempo, il curante, il collega illustre o il confrère confinato in un borgo sperduto, il protettore, il consigliere, l’amico che diveniva depositario dei più intimi turbamenti dell’animo. Sorprende, in particolare, il linguaggio puntuale, esplicito e disinvolto nell’addentrarsi in delicati particolari di quadri patologici, di molte missive scritte da mano femminile, come se il colloquio per via epistolare con il medico, richiamandone l’attenzione, volesse essere una forma di riscatto dalla indifferenza generalmente riservata alle sofferenze muliebri e una rivendicazione di una corporeità negata o nascosta. Le corrispondenti di Carlo Speranza, ad esempio – uno dei medici più autorevoli dell’età preunitaria, titolare della cattedra di igiene pubblica e medicina legale nell’Università di Parma, in seguito direttore della Facoltà medica nell’ateneo pavese, nonché presidente della Sezione di medicina in due dei congressi degli scienziati italiani, a Lucca nel 1843 e a Genova nel 1846 – furono aristocratiche dalla intensa vita mondana, salonnières ammirate, ricche borghesi di città e più modeste dame di provincia, fanciulle valetudinarie e donne in età più matura tediate da un’esistenza monotona. Dallo sfondo delle loro storie cliniche, prive di ogni ambiguità seduttiva da cui la serietà dell’interlocutore non poteva che dissuadere in partenza, affiora una duplice percezione del loro vissuto: ora concepito come condizione subalterna da sopportare con rassegnazione, ora avvertito come costrizione dalla quale affrancarsi. “Io, siccome sempre riservata alla perfetta, umiliante nullità…” gli confessava sconsolata una paziente, non diversamente da molte altre destinate a consumare un’esistenza umbratile tra le pareti domestiche. Ma la scrittura, e non solo quella epistolare, l’“immischiarsi di penne e calamajo”, pur guardato con sospetto dai famigliari, poteva già costituire una sorta di affermazione di indipendenza, come lasciava intuire colei che si era cimentata nella stesura di un breve trattato sulla manifattura del lino, forse per ingannare la monotonia della vita in campagna, e lo inviava al cattedratico per averne un parere. La malinconia, patologia tipica dell’Ottocento, definito il “secolo della mestizia”, era un’afflizione assai diffusa anche tra i pazienti di Speranza, e non solo di sesso femminile, ripiegati spesso in una osservazione ossessiva del loro corpo e dei loro malesseri, da cui non riuscivano a distrarli nemmeno le occasioni mondane, le villeggiature marine o il “passare le acque” nelle località termali più alla moda. “Il clima placido, la vista di queste amene colline, il sussurro del grazioso fiume […] non avevano nessuna influenza sull’anima mia – scriveva da Recoaro una dama in preda a una crisi di solitudine –. Il paese più bello del mondo è un orrore se non è abitato di esseri che vi intendono e simpatiscono con noi”. Un semplice mutamento di clima o di stagione, l’interruzione dei ritmi di vita consueti potevano sconvolgere il fragile equilibrio di questi pazienti sino a farli precipitare nello spleen: “nel rinfrescarsi della stagione le mie palpitazioni e gli altri incomodi si fanno più sensibili”, lamentava un’altra corrispondente, concludendo amaramente: “insomma la mia esistenza è infelice, ma vivo”. Ma le “difficoltà di respiro”, le “palpitazioni di cuore”, l’“intermittenza quasi continua del polso” tormentavano anche pazienti che si poteva supporre avrebbero meglio dominato simili manifestazioni patologiche, come quel collega che invece apriva il “suo animo costernato oltre ogni credere”, disperando ormai di guarire. Nel “moto attivo, aria, distrazione, campagna, bagno fresco” si compendiavano le prescrizioni per la cura di un complesso di “mali di nervi” dalla più varia sintomatologia – svenimenti, capogiri, crisi convulsive, “intumescenze” isteriche e via dicendo – subdoli e logoranti, ansiosamente sottoposti alla valutazione del clinico. Al quale si chiedeva anche un parere sui farmaci prescritti, nel timore di loro effetti controproducenti, come faceva, in poche ma eloquenti righe, una nobildonna di Mantova: “Le mando la ricetta perché se mai fosse veleno lo adatta lei come crede meglio”. 15 Bibliografia M.L. Betri, Il medico e il paziente: i mutamenti di un rapporto e le premesse di un’ascesa professionale (1815-1859), in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, 1984, pp. 209-232. Id., “La politica del medico nell’esercizio dell’arte sua”: splendori e miserie di una professione liberale (1815-1861), in Sanità e società. Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria, secoli XVII-XX, a cura di F. Della Peruta, Udine, 1989, pp. 347-364. E. Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, in Storia d’Italia, Annali 7, cit., pp.5-147. G. Cosmacini, Medici nella storia d’Italia. Per una tipologia della professione medica, Roma-Bari, 1996. Id., Il mestiere di medico. Storia di una professione, Milano, 2000. E. Shorter, La tormentata storia del rapporto medico paziente, Milano, 1986. 16