Dei delitti e delle pene: giustizia ed economia politica

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Dei delitti e delle pene: giustizia ed economia politica
 INCONTRO –DIBATTITO Dei delitti e delle pene: giustizia ed economia politica Roma, 26 novembre 2014 Intervento del Ministro Andrea Orlando Dei delitti e delle pene: Giustizia ed economia politica
Aspen Institute Italia
Roma 26 Novembre 2014
Intervento del Ministro Andrea Orlando
Ringrazio l’Aspen Institute e i suoi organi direttivi per l’invito rivoltomi e per aver
organizzato una giornata di riflessione di grande qualità attorno ad una delle figure
intellettuali più straordinarie del settecento europeo.
Un saluto a tutti i gentili ospiti e relatori, con i quali mi scuso per non aver potuto
seguire i loro contributi che so per certo essere stati di eccellente valore.
Sono sempre stato molto affascinato dalla figura del Beccaria, non solo per la portata,
la forza della sua opera e il successo che ha avuto nelle codificazioni europee, ma
anche per altri due aspetti: Beccaria è uno dei pochi, per il livello di notorietà
raggiunto forse l’unico, “Idéologue” italiano pienamente inserito nella cultura
europea del tempo. Fu capace di coniugare la ricerca scientifica all’impegno civile e
allo stesso tempo fu un funzionario pubblico.
Beccaria rappresenta in questo senso la sintesi della ricomposizione tra cultura e
politica, un tema molto attuale: un funzionario pubblico che promuove le riforme,
disegna una pubblica amministrazione che non è soltanto oggetto delle riforme, ma
che si fa promotrice delle stesse. Un elemento questo di straordinaria attualità e di
rottura rispetto ai molti luoghi comuni che caratterizzano anche il nostro dibattito
contemporaneo.
Anche la scelta del linguaggio, nonostante l’impianto scientifico dell’opera, è più
simile a quello della pamphlettistica e tale caratteristica contribuì certamente a fare
della sua opera uno strumento per una battaglia civile e politica.
Nel caso di Beccaria è emblematico quanto le circostanze contribuiscano alla fortuna
della diffusione delle idee. Furono una serie di favorevoli circostanze, oltre al pregio
assoluto dell’opera la cui vitalità è giunta sino ai nostri giorni, che fecero del primo
sistematico “trattato” di diritto e procedura penale del secolo dei lumi, uno
strumento di battaglia politica nelle varie assemblee nazionali allora impegnate a
riformare e dare legittimità al diritto di punire.
Furono sempre le circostanze, in questo caso sfavorevoli, a far sì che l’opera
economica di Beccaria, “Elementi di economia pubblica”, non avesse lo stesso
successo di “Dei delitti e delle Pene”.
Se, infatti, quelle lezioni che Beccaria tenne per due anni presso le scuole Palatine di
Milano fossero state pubblicate in contemporanea e non dopo la sua morte, esse
avrebbero anticipato di alcuni anni “La ricchezza delle Nazioni” di Adam Smith.
Sarebbe sicuramente apparso più evidente il carattere di forte innovazione e di rottura
rispetto al pensiero economico sin allora dominante, a partire dall’individuazione del
lavoro umano e dei mezzi di produzione come fonte originaria della ricchezza delle
Nazioni.
Beccaria, insomma, fu un grande teorico, applicò la sua filosofia utilitaristica
riassunta nella fortunata formula, “La massima felicità divisa nel maggior numero”,
a vari campi del sapere. Tuttavia in lui la teoria fu sempre fortemente legata alla
società reale, di cui riconosceva la vitalità, l’impossibilità di ridurre essa all’ordine
“che soffre la materia bruta e inanimata” (Dei delitti e delle Pene, False idee di
utilità).
Fu, innanzitutto, un uomo di Stato che come Machiavelli trasse quindi la sua dottrina
non solo dai libri, ma dalla quotidiana necessità di confrontarsi con la soluzione di
problemi reali. Traccia di questo intenso legame si trova non solo nelle sue opere, ma
persino negli atti che adottò quale pubblico funzionario.
L’intima simmetria tra il Beccaria uomo di diritto e il Beccaria pensatore economico
è rinvenibile in un passo di “Elementi di economia pubblica” attorno al concetto di
libertà: “Tutto deve essere diretto da questa massima che non ha eccezione, cioè che
le restrizioni della libertà non debbono essere poste per amore della perfezione ma
soltanto per l’esigenza della necessità, non per far meglio, ma per trattenere un
disordine”
Un uomo del secolo dei Lumi, ma che si inserisce in quel fiume di pensiero con
grande originalità.
Un fiume di idee che ha contribuito a plasmare il nostro mondo così come oggi lo
conosciamo. L’ideale di quei pensatori era di liberare ogni ambito del sapere da
pregiudizi. La tradizione, le consuetudini furono sottoposte ad una critica
severissima. La ragione era elevata a fonte ultima di autorità. In ambito giuridico
l’ideale di un diritto razionale ispirò numerose riforme, delle quali si fecero promotori
i sovrani regnanti. In quest’opera di razionalizzazione rientrava il tentativo di
umanizzazione degli atteggiamenti d’immotivata crudeltà.
Questa volontà non investì solamente il diritto penale, ma interessò l’intera struttura
giuridica della società: privilegi, discriminazioni, violazioni della libertà individuale,
la libertà religiosa, la libertà d’iniziativa economica. Veniva sancito che tutti gli
uomini fossero titolari di diritti fondamentali inalienabili, che i diritti naturali
individuali dovessero essere riconosciuti e recepiti dalla legge positiva, che le stesse
leggi dovessero essere comprensibili ai più, che la funzione della legge dovesse
essere rendere esigibili tali diritti da un lato e dall’altro dare certezza circa il
contenuto e i limiti di essi. La nascita dello Stato moderno, infine,
poneva
definitivamente il diritto di punire sotto la esclusiva sovranità dello Stato stesso.
Lo straordinario contributo di Cesare Beccaria s’inquadra in questo contesto. “Dei
delitti e delle pene”, di cui quest’anno celebriamo il duecento cinquantenario della
prima edizione, fu, insieme, a “Lo Spirito delle leggi” di Montesquieu, il trattato che
influenzò maggiormente la revisione del diritto penale ad opera dei sovrani
“illuminati”.
Non è compito mio, non ne ho la presunzione, di fronte ad un Consesso tanto
qualificato, dilungarmi a parlare sull’opera di Beccaria e sulla sua importanza.
Tuttavia voglio in questa sede affermare, da un lato, la stringente attualità di alcuni
dei princìpi esposti nel trattato del filosofo milanese, dall’altro, richiamare il peso
della responsabilità che sta in capo al nostro Paese per aver dato i natali ad un
pensatore di tale spessore. Fu proprio uno Stato italiano, il Granducato di Toscana a
emanare la prima legge penale, il Codice Leopoldino, che accoglieva i princìpi di
Beccaria, aboliva la tortura e la pena di morte. Le sue idee invasero il dibattito sul
diritto penale di tutta Europa. Nel dibattito sul codice francese del 1791 il nome di
Beccaria emerge continuamente, tutte le riforme del continente sono ispirate a molti
dei principi contenuti nei suoi scritti.
Per il ruolo che oggi rivesto vorrei che questo anniversario fosse utile al nostro Paese
per una riflessione organica sul diritto di punire dello Stato e sulla modalità della sua
esecuzione.
Eredi di Beccaria furono sicuramente i nostri Padri costituenti.
Nella maggioranza dei testi costituzionali, infatti, in materia di pena si rinvengono
generalmente, a proposito della “qualità” di essa e delle modalità esecutive, solo
prescrizioni “negative”, consistenti in divieti.
La Costituzione italiana, insieme a quella spagnola varata 27 anni dopo, fa eccezione,
infatti, ambedue i testi contengono esplicite indicazioni “positive” sulla finalità
rieducativa della pena.
Il messaggio costituzionale contenuto al comma 3 dell’articolo 27 convisse per oltre
venticinque anni con la normativa fascista del regolamento degli istituti di
prevenzione e pena del 1931.
Pertanto, nonostante fosse già vigente la Costituzione, il regolamento del 1931
continuò a rappresentare, per quasi un ventennio, la normativa per le nostre carceri.
Cito questo dato, per evidenziare la distanza che si è creata nella nostra storia
repubblicana tra i princìpi contenuti nella nostra Carta e la sua coerente traslazione
legislativa.
Nel 1949, Pietro Calamandrei, rifacendosi al discorso di Turati del 1904 sulle carceri
come “cimitero dei vivi”, scriveva: “Le carceri italiane, cimitero dei vivi: erano così
cinquant’anni fa, sono così oggi, quasi immutate […] Il sistema penitenziario
italiano anzi, sotto qualche aspetto, è peggiorato […] E ciò per due ragioni: sotto
l’aspetto edilizio e igienico, perché la seconda guerra mondiale con tutte le rovine da
essa causate, ha distrutto numerosi stabilimenti di pena, in modo che oggi nelle
prigioni vi è una spaventosa crisi degli alloggi, che condanna a rimanere stivata in
locali diminuiti di numero e ridotti spesso a nude mura, una popolazione
sovrabbondante; e sotto l’aspetto spirituale, perché il passaggio del ventennio
fascista ha deliberatamente portato nella disciplina dei reclusori […] un soffio di
gelida crudeltà burocratica e autoritaria, che senza accorgersene sopravvive al
fascismo.”
Ancora oggi, nonostante siano passati molti anni dallo scritto di Calamandrei, il
nostro Paese è stato sottoposto, nella ormai nota sentenza pilota Torreggiani, ad un
severo richiamo da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, a causa della
condizione di strutturale sovraffollamento delle nostre carceri.
Da allora, anche grazie ai numerosi richiami del Capo delle Stato, agli interventi della
nostra Corte costituzionale, e all’imporsi del dibattito sulla condizione delle carceri
nel nostro Paese, molto è stato fatto. Proprio in queste ultime settimane sono state
pubblicate alcune decisioni della Corte Edu che testimoniano i rilevanti passi avanti
compiuti dal nostro Paese. La Corte ha, infatti, dichiarato irricevibili, per mancato
esaurimento delle vie interne, migliaia di ricorsi in materia di condizioni detentive in
carcere. La Corte ha motivato la decisione sulla base dei recenti provvedimenti
normativi in materia di sovraffollamento carcerario, con cui sono stati introdotti il
rimedio giurisdizionale preventivo (DL 146/2013) e il rimedio giurisdizionale
risarcitorio (DL 92/2014, convertito dalla legge 11 agosto 2014, n.117).
Il problema del sovraffollamento non è tuttavia questione che riguarda solo il nostro
Paese, ma molti sistemi penali. L’ultimo decennio del secolo scorso si è
contraddistinto, infatti, per un aumento vertiginoso dei detenuti reclusi nei nostri
istituti di pena. Si tratta, però, come dicevo, di una tendenza comune a tutti i sistemi
penali del mondo, in molti Paesi iniziata negli anni ’80, che l’Italia ha conosciuto
solo nel decennio successivo. Sono molti gli studi che collegano l’aumento del tasso
di detenzione dei maggiori Paesi del mondo al crollo del Welfare State, cioè ad un
utilizzo delle politiche penali per affrontare problemi sociali. Un esempio su tutti è
rappresentato dall’aumento del numero di condannati per reati connessi agli
stupefacenti. La c.d. “detenzione sociale” rappresenta un fenomeno globale che quasi
ovunque ha contribuito a creare il fenomeno del “prison overcrowding”. Questo
fenomeno è ben sintetizzato nel titolo di un libro di Loic Wacquant: Punire i poveri.
Alle criticità e precarietà sociali, molto spesso si sono date risposte penali.
Non è aumenta la criminalità, ma la criminalizzazione. Non è diminuita la sicurezza,
ma è aumentata, anche grazie al contributo determinate dei mass-media, la percezione
dell’insicurezza. Le aree di criminalità rilevante sono rimaste sostanzialmente stabili,
il sovraffollamento si è sviluppato a causa dell’aumento, per l’appunto, della c.d.
“detenzione sociale”: immigrati, tossicodipendenti, poveri, che, oggi, rappresentano
in molti Paesi occidentali i due terzi dell’area di detenzione.
La sentenza Torreggiani, alla luce di questa analisi, deve costituire una leva per
costruire un nuovo approccio al tema della pena e della sua esecuzione. Ridurre l’area
d’intervento del diritto penale così come inizieremo a fare con l’utilizzo della delega
del Parlamento sulle depenalizzazioni, aumentare l’utilizzo delle misure alternative
alla detenzione, ricondurre l’istituto della custodia cautelare nel suo alveo naturale di
misura di “extrema ratio”, implementare e rafforzare la funzione rieducativa della
pena, attraverso uno strumento fondamentale per il reinserimento sociale, qual è il
lavoro dei detenuti.
Ripensare, a 250 anni dal trattato di Beccaria, l’intero assetto delle sanzioni criminali,
potenziando quelle non detentive e rivedendo in modo sistematico l’entità delle pene
nell’ottica dell’impatto che esse hanno sulla prevenzione della recidiva.
Allo stato abbiamo un sistema sanzionatorio che costa moltissimo e che produce
risultati pessimi: Un tasso di recidiva tra i più alti d’Europa. Credo che questa sia la
questione centrale sulla quale dobbiamo concentrarci.
Intervenire per ridurre la popolazione carceraria era indispensabile per adempiere alla
sentenza della CEDU. Ma si tratta solo di un primo passo. Non è esaurita la necessità
di cambiamento del sistema penitenziario e del funzionamento del carcere nel nostro
Paese. In questo quadro nel corso del 2015 partiranno “Gli stati generali del carcere”,
i quali rappresenteranno l’occasione per fare un bilancio di quanto si è fatto negli
ultimi anni e di ciò che resta da fare.
La mancanza di possibilità di scelta e la mancanza di responsabilità costituiscono il
primo punto di negazione del percorso di rieducazione imposto dalla Carta
costituzionale.
E’ indispensabile modificare questo assetto proseguendo verso un modello di carcere
più aperto che permetta ai detenuti di trascorrere la giornata in spazi comuni, come
peraltro previsto in modo chiaro dalle norme contenute nell’ordinamento
penitenziario. Ciò soltanto consente di osservare la vita sociale dei ristretti dando
forza e contenuto maggiore al ruolo degli educatori ed agli altri operatori, spesso
confinato nel colloquio che si svolge nelle sezioni detentive. Il lavoro di recupero
dalla devianza deve proseguire nel perimetro esterno al carcere, attraverso la rete
degli uffici dell’esecuzione penale esterna, destinati ad assumere sempre più un ruolo
centrale nelle politiche del trattamento.
In questo senso assume un’importanza decisiva lo schema di riorganizzazione del
Ministero della giustizia, nel quale è compresa una radicale rimodulazione funzionale
del settore penitenziario, rispondente all’esigenza di definire una struttura
organizzativa che abbia come mandato specifico l’esecuzione di tutte le misure
alternative e le sanzioni sostitutive della detenzione. Con il nuovo regolamento di
organizzazione del Ministero si prevede il Dipartimento per la giustizia minorile e di
comunità, così realizzandosi una semplificazione del sistema dell’esecuzione penale,
poiché si costituiscono due dipartimenti ciascuno incaricato di adempiere ad una
mission coerente: l’una, la detenzione negli istituti di pena, l’altra, le pene non
detentive nel contesto sociale di appartenenza.
Il quadro degli interventi normativi finalizzati a ridurre il ricorso al carcere è in via di
completamento con l’attuazione della legge delega n. 67/2014, che demanda al
Governo di prevedere:
1) la non punibilità per particolare tenuità del fatto,
2) le pene detentive non carcerarie,
3) la depenalizzazione di varie ipotesi di reato.
La Commissione Palazzo da me istituita per attuare la delega ha consegnato due
schemi di decreto legislativo, uno sull’archiviazione e proscioglimento quando il fatto
di reato è di particolare tenuità e l’altro relativo alle pene detentive non carcerarie (in
attuazione dell’art. 1, l. n. 67/2014), e sta proseguendo i suoi lavori per predisporre un
articolato attuativo dell’art. 2 della legge 67/2014.
Nel disegno di legge sul processo penale approvato nel CdM del 29 agosto 2014, poi,
ho inteso prevedere una delega di più ampio respiro, volta a riordinare il sistema
penitenziario e a fare del codice penale la sede tendenzialmente unica delle norme
penali, in nome della certezza del diritto e prevedibilità della punizione.
Oltre alle iniziative legislative, sono state messe a punto azioni amministrative e
organizzative, quali convenzioni con le Regioni per l’avvio di detenuti
tossicodipendenti in comunità terapeutiche, e un riesame dell’edilizia carceraria, per
la quale è stato posto fine al regime del commissario straordinario.
Il disegno di legge sul processo penale mira ad accrescere il tasso di efficienza del
sistema giudiziario penale, ma non trascura il bisogno di rafforzare al contempo le
garanzie della difesa e, più in generale, la tutela dei diritti delle persone coinvolte nel
processo.
In una prospettiva di deflazione dei processi penali ma anche di configurazione della
pena criminale come extrema ratio, si prevede:
- l’estensione della procedibilità a querela per alcune fattispecie criminose che si
connotano per il coinvolgimento di interessi privati;
- l’estinzione del reato per riparazione del danno, per i reati punibili a querela, sempre
che non sia prevista l’irrevocabilità della stessa, e per alcuni delitti contro il
patrimonio, oggi procedibili d’ufficio, ma di limitato allarme sociale.
Come è noto, si interviene sulla prescrizione del reato, con una modalità che tiene
tuttavia conto non solo delle esigenze di indagine e conduzione del processo, ma
anche del principio di ragionevole durata del processo. Si prevede un periodo di
sospensione della prescrizione per due anni dopo la condanna di primo grado e per un
anno dopo la condanna di appello, per dare modo ai giudizi impugnatori di disporre
di un tempo congruo di svolgimento.
In questo quadro vorrei che ci ispirassimo ad una massima di Beccaria che trovo
utilissima in materia di legislazione:
"Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un
inconveniente, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l'acqua
perché annega, che non ripara al male che col distruggere". (Dei delitti e delle
Pene).
Trovo, infatti, che non vi sia nulla di più sbagliato che legiferare in materia
penale sotto il peso di urgenze ed emergenze.
Le innovazioni della prescrizione saranno accompagnate da altre misure che vogliono
assicurare che sia la fase delle indagini preliminari, sia il vero e proprio processo, si
svolgano in un tempo ragionevole.
In tale prospettiva, si rafforzeranno i poteri di controllo del procuratore generale e del
procuratore della Repubblica al fine di assicurare la tempestiva iscrizione delle
notizie di reato nel relativo registro. Si rivedranno i riti alternativi, e segnatamente il
patteggiamento, mentre sarà introdotta la condanna su richiesta dell’imputato. Sarà
altresì potenziato il controllo del giudice sulla pertinenza e rilevanza delle richieste di
prova.
Sempre a tutela dei diritti difensivi in fase di indagine, nell’udienza preliminare
verranno eliminati i poteri officiosi del giudice rispetto all’assunzione di mezzi di
prova, salvo le acquisizioni probatorie d’ufficio finalizzate al proscioglimento. Ai
principi di delega sarà, inoltre, affidata la revisione delle impugnazioni, secondo
canoni di maggiore aderenza al rito accusatorio.
Ho voluto sintetizzare il lavoro che stiamo svolgendo per dare al mio intervento la
concretezza che si richiede ad un uomo di governo.
All’attività del governo in questi anni si è associata, sul tema del processo penale e
della pena, anche una intensa attività del Parlamento.
In Parlamento pende, per esempio, un disegno di legge in materia di misure cautelari,
di cui auspico una rapida approvazione, che riduce notevolmente gli spazi di
discrezionalità del giudice e che scandisce in modo puntuale i tempi del tribunale del
riesame, a pena di decadenza della misura custodiale.
Ritengo notevole questo lavoro, non solo per la sua importanza intrinseca, ma anche
per il contesto in cui si è realizzato, cioè controcorrente. Controcorrente perché in
tema di diritto penale assistiamo quotidianamente a campagne demagogiche e
populiste che fanno leva sulla paura, paura che in tempo di crisi viene amplificata
anche per via delle tante insicurezze sociali che quest’ultima produce.
Per ritornare a Beccaria e alla sua più difficile battaglia, - quella contro la pena di
morte - considero un risultato storico che nei giorni scorsi, in seno alla terza
commissione dell’assemblea generale dell’ONU, ben 114 Paesi abbiano votato a
favore della risoluzione per la moratoria sull’uso della pena di morte, che sarà posta
in votazione in Assemblea generale a metà dicembre.
Il risultato è storico per l’alto numero di adesioni registrato, e premia l’impegno che
l’Italia e l’Unione europea hanno messo in campo per molti mesi.
Avviandomi alle mie conclusioni, vorrei soffermarmi su ciò che rappresenta la cifra
vera e la filosofia dell’azione del Governo e del mio Dicastero, che ho cercato di
sintetizzare.
Ciò che abbiamo messo in campo è un cambio di paradigma in materia penale, stiamo
tentando di chiudere una stagione. La stagione in cui la sfera del diritto penale ha
rappresentato terreno di propaganda politica per la conquista di facile consenso; La
stagione in cui alle inquietudini sociali provocate dalle grandi trasformazioni
dell’economia e della società si rispondeva trattando le aree di marginalità non come
un problema sociale, ma come un problema penale.
E’ una grande sfida culturale che ancora è assediata da numerosi nemici e che
richiede quindi di essere vissuta dall’intero Paese con la massima consapevolezza. Il
diritto di punire dello Stato va esercitato con la massima attenzione, avendo riguardo
di quegli interessi che meritano un tipo di tutela tale da poter incidere su un bene
tanto importante quanto la libertà personale, e avendo sempre bene in mente che
qualsiasi esigenza di tutela non può mai comprimere la dignità umana. Con questa
consapevolezza intendiamo andare avanti pensando così di realizzare dei passi
importanti nella direzione della modernizzazione del Paese.
Vi ringrazio.
Andrea Orlando