Gazzetta Forense n. 4 del 2013

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Gazzetta Forense n. 4 del 2013
Gazzetta
F O R E N S E
Bimestrale
Anno 7 – Luglio‑Agosto 2013
direttore responsabile
Roberto Dante Cogliandro
comitato di direzione
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Corrado d’ambrosio
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redazione gazzetta forense
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Giuseppe Tesauro
Renato Vuosi
n. registraz. tribunale
N. 21 del 13/03/2007
finito di stampare da
360o ‑ Roma – nel XXXX del 2013
SOMMARIO
Editoriale
[ A cura di Roberto Dante Cogliandro ]
Diritto e procedura civile
Alla prova dei fatti la nuova disciplina dei ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali in cui è parte la pubblica amministrazione
Raffaele Picaro
La mediazione familiare: un istituto da decifrare e incentivare
Antonio Bova
9
27
Trascrizione e conflitto tra l’acquirente “a domino” e l’acquirente “a non domino”
Nota a Corte di Cassazione, sezione civile II, 09 maggio 2013, n.10989
Daria Valletta
38
Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio]
46
Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa] 48
In evidenza
Corte di Cassazione, sezione III Civile, sentenza 22 marzo 2013, n. 7273
In evidenza
Tribunale di Napoli, Sezione X Civile, sentenza 13 maggio 2013, n. 6114
In evidenza
Tribunale di Nola, sezione Ii Civile, sentenza 1 luglio 2013
50
53
56
Diritto e procedura penale
Il sistematico impiego di minori nella pratica dell'accattonaggio:
la (ir)rilevanza penale del fattore culturale
61
Claudia Santoro
Sulla individuazione dell’organo dell’accusa nella fase della esecuzione
Nota a Cassazione penale, sez. I, sentenza 11 gennaio 2013, n. 6324
69
Fabiana Falato
La Corte Costituzionale e la Corte Edu sul ricongiungimento familiare del reo
79
Vittorio Sabato Ambrosio
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
A cura di Angelo Pignatelli
82
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
88
90
Diritto amministrativo
I diritti edificatori nella gestione pianificatoria del territorio 97
Gaetana Marena
Accessibilità degli atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione
Nota a Tar Lazio – Roma, sez. II, 20 maggio 2013, n. 5021
102
Alessandro Barbieri
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n.163 e ss. mm.)
109
A cura di Almerina Bove
Diritto tributario
La detassazione dei premi di produttività prorogata anche per il 2013
115
Enza Sonetti
Diritto internazionale
Rassegna di diritto internazionale
125
Francesco Romanelli
Questioni
[ A cura di Mariano Valente ]
È sempre possibile, in attuazione degli artt. 3 e 32 Cost., trovare tutela ex art. 700 c.p.c.? Profili
processuali e costituzionali scaturenti dalle recenti richieste d’urgenza di accesso alla speri‑
mentazione e trattamenti con cellule staminali, secondo il metodo Stamina. Analisi di quattro
131
ordinanze in materia. / Domenico Spena
Nesso di causalità e colpa: un percorso argomentativo tra profili logico‑scientifici ed emozio‑
135
nali. / Elisa Asprone
Un Istituto scolastico statale può impugnare un provvedimento emanato da un’Amministrazio‑
ne non statale, (nella specie la Regione), avvalendosi del patrocinio di un avvocato del libero
142
Foro? / Elia Scafuri
Recensioni
Il capitale sociale e le operazioni straordinarie, di Michele Nastri, Paolo Divizia,
Luca Olivieri, Milano, 2012 A cura di Sara Frizzoni
149
Gazzetta
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●
Quando i poteri
dello stato
non si parlano
● Roberto Dante Cogliandro
Notaio
L U G L I O • A G O S T O
2 0 1 3
5
Quanto sta accadendo in questi giorni sul fronte della ri‑
strutturazione delle sedi giudiziarie sull’intero territorio nazio‑
nale è l’emblema di come nel nostro amato Paese le riforme
radicali se partono incontrano poi sulla loro strada mille diffi‑
coltà, naturali e cercate a mò di pretesto per non fare o frenare.
Come infatti tutti sappiamo sul finire dell’estate e l’arrivo
dell’autunno molti tribunali saranno eliminati, moltissime sedi
distaccate accorpate e un alto numero di uffici di Giudici di
Pace soppressi. Insomma assisteremo ad una vera rivoluzione
geografica delle sedi giudiziarie con una redistribuzione sul
territorio di nuovi uffici con la creazione di nuovi Tribunali. La
ratiodella riforma avviata dal governo Berlusconi, proseguita
con il governo Monti e oggi che vede la luce con il governo
Letta è volta alla razionalizzazione degli uffici giudiziari spar‑
si sul territorio che spesso sono cresciuti a dismisura e creati per
mere convenienze campanilistiche degli enti locali. Inutile dirci
che girando per i vari borghi d’Italia ciascuno di noi si sarà
imbattuto in curiose ed inaspettate sedi dei Giudici di Pace o in
incredibili sezioni distaccate di Tribunali. Cosa impensabile
oggi dove la pubblica amministrazione e lo Stato tutto ha av‑
viato una forte cura dimagrante con il cercare di eliminare rami
secchi e quanto di inutile o superfluo per la sua organizzazione.
Pertanto, nonostante le mille resistenze riscontrate, ormai la
tanto cercata riforma delle strutture giudiziarie si avvia al com‑
pimento con tutte le lentezze che possiamo immaginare per le
partenze e le novità. Ma la cosa più sconvolgente riguarda il
riempimento di queste nuove sedi di Tribunali. Se infatti il
personale tecnico‑amministrativo è di stretta competenza dei
ministri di Giustizia e della Pubblica Amministrazione e si
spera che i ministeri relativi si siano attivati per le dotazioni di
nuovi cancellieri e tecnici da reclutarsi per le sedi giudiziarie, le
nuove piante organiche dei magistrati con la creazione dei ri‑
spettivi presidenti e procuratori generali sono di competenza
del Consiglio Superiore della Magistratura, la quale si trova ad
arrancare rispetto alle procedure volte a riempire i posti vacan‑
ti. Solo a fine agosto il Csm ha fatto sapere che potrebbero es‑
serci seri problemi per reclutare circa 700 giudici da assegnare
alla nuova geografia giudiziaria italiana. Motivo i tempi per
espletare i bandi e le incompatibilità che potrebbero esserci tra
i diversi giudici già applicati a strutture. Insomma siamo al
paradosso che poteri dello stato (quello esecutivo e quello legi‑
slativo da un lato, e quello giudiziario dall’altro) non organiz‑
zandosi preventivamente creano riforme monche o che necessi‑
tano di rettifiche in corso d’opera. Come è possibile che solo
ora il Csm sollevi una serie di problemi di organico quando la
riforma è partita oltre due anni fa? Forse come tutte le cose
Italiane si credeva che il riassetto geografico‑giudiziario non
venisse mai alla luce? In altri casi, cito per tutti l’istituzione
sulla carta del Tribunale di Giugliano in Campania che vide
anche una cerimonia pubblica per la posa della prima pietra ma
poi è rimasto l’unico mattone, il Consiglio Superiore della Ma‑
gistratura si attivò da subito a nominare tutti gli organismi
dirigenti (presidente e procuratore) ma poi dovette ad un certo
punto liberarli visto che le pietre del tribunale non decollavano.
Ed allora dobbiamo pensare che stavolta il Csm per evitare il
tempismo del passato abbia preferito giocare di rimessa ed
aspettare che le strutture venissero trovate o costruite prima di
iniziare a vedere l’organico di dotazione. In questo modo però
i tempi delle riforme si allungano ed i cittadini per tutti paghe‑
ranno l’ennesimo caso di mala giustizia.
Diritto e procedura civile
Alla prova dei fatti la nuova disciplina dei ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali in cui è parte la pubblica amministrazione
Raffaele Picaro
La mediazione familiare: un istituto da decifrare e incentivare
Antonio Bova
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27
Trascrizione e conflitto tra l’acquirente “a domino” e l’acquirente “a non domino”
Daria Valletta
38
Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio]
46
Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa] 48
In evidenza
Corte di Cassazione, sezione III Civile, sentenza 22 marzo 2013, n. 7273
In evidenza
Tribunale di Napoli, Sezione X Civile, sentenza 13 maggio 2013, n. 6114
In evidenza
Tribunale di Nola, sezione Ii Civile, sentenza 1 luglio 2013
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civile
Nota a Corte di Cassazione, sezione civile II, 09 maggio 2013, n.10989
Gazzetta
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F O R E N S E
Alla prova dei fatti
la nuova disciplina
dei ritardi di pagamento
nelle transazioni
commerciali in cui è
parte la pubblica
amministrazione
● Raffaele Picaro
Professore aggregato di diritto privato
Sommario: 1. La genesi dell’intervento normativo sui ritardi
di pagamento nelle transazioni commerciali: quando il diritto
sovranazionale orienta gli ordinamenti interni. – 2. L’appli‑
cazione del d.lgs. n. 231 del 2002 in rapporto alla deadline
per la stipula dei contratti commerciali, fissata dal d.lgs.
n. 192 del 2012. Quid iuris? – 3. La nuova disciplina. Ambi‑
to soggettivo ed oggettivo di operatività. – 4. Gli interessi
moratori ed il risarcimento del danno. – 5. I limiti posti all’au‑
tonomia negoziale nelle transazioni commerciali. – 6. Gli
ostacoli all’operatività delle previsioni normative.
1. La genesi dell’intervento normativo sui ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali: quando il diritto sovranazionale
orienta gli ordinamenti interni.
Il problema dei ritardi delle pp.aa. nel pagamento delle
somme dovute ai propri “fornitori” – intendendo questo ter‑
mine in un’accezione lata, come meglio si dirà in prosie‑
guo – ha progressivamente acquisito il carattere dell’insoste‑
nibilità, tanto da costringere l’attuale Governo ad adottare,
appena qualche mese fa, l’ennesimo provvedimento in mate‑
ria1. Tale correttivo è stato concepito al dichiarato fine di
immettere liquidità nel sistema economico ‑sebbene attraverso
procedure estremamente complesse e farraginose‑ e di consen‑
tire, per tale via, una ripresa dei consumi, nel tentativo di
matrice keynesiana di un parziale superamento della spirale
recessiva che ormai da anni prostra il nostro Paese.
Invero, la materia è destinataria di una disciplina partico‑
larmente giovane e, perciò, oggetto di quei rimaneggiamenti
imposti dalle difficoltà emerse dal suo concreto atteggiarsi nel
quotidiano confronto con i meccanismi di funzionamento
delle relazioni contrattuali e, dunque, del mercato nel suo
complesso. Si potrebbe dire che ogni mercato genera i propri
contratti, influenzando la disciplina del loro concreto operare,
ma anche che il complesso dei singoli contratti genera il pro‑
prio mercato, dando vita a quelle relazioni, a quegli scambi,
che ne tessono l’esistenza e ne condizionano il divenire. Dun‑
que il mercato è, al contempo, regola e struttura 2. Al riguardo,
non può revocarsi in dubbio la particolare solerzia mostrata
durante la XVI legislatura, attraverso l’adozione di una serie
di interventi normativi e regolamentari3, sia pure per adempie‑
1
D.l. n. 35 dell’8 aprile 2013, (c.d. decreto “sblocca debiti”), recante “Disposiz‑
ioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della p.a., per il riequilibrio fi‑
nanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli
enti locali. Disposizioni per il rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia
tributaria”, pubblicato in G.U. n. 82 dell’8 aprile 2013 e convertito, con modi‑
ficazioni, con l. n. 64 del 6 giugno 2013, pubblicata in G.U. n. 132 del 7 giugno
2013. Per uno sguardo alla novità legislativa si rinvia infra § 6.
2 Quanto alla stretta correlazione tra mercato e contratti, e alla necessaria con‑
divisione della regola iuris ad essa sottesa, cfr. Lanzara, Ritardati pagamenti
nelle transazioni commerciali. Profili comparatistici, in Atti di Convegno del II
Colloquio biennale dei giovani comparatisti “Privato, Pubblico, Globale nelle
prospettive del Diritto Comparato”, Catania‑Enna, 28‑29 maggio 2010, p. 2
ss., laddove si evidenzia come ogni novità che involge i singoli contratti, neces‑
sariamente si riverbera sul mercato nel suo insieme; Rossi Carleo, recensione
a La tutela del consumatore, a cura di Musio – P. Stanzione, in Trattato dir. priv.,
diretto da Bessone, XXX, Torino, 2009, in www.comparazionedirittocivile.it;
De Cristofaro, La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni com‑
merciali, in Nuove leggi civ. comm., 2004, p. 461 ss.; Sacco – De Nova, Il
contratto, in Trattato dir. civ., diretto da Sacco, I, Torino, 2004, p. 14.
3 Cfr. d.l. 29 novembre 2008, n. 185; d.l. 31 maggio 2010, n. 78; d.lgs. 6 settem‑
bre 2011, n. 149; art. 13, l. 12 novembre 2011, n. 183, cd. Legge di Stabilità
2012; art. 39, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, cd. Salva Italia; d.l. 7 maggio 2012,
n. 52; art. 12, d.l. 2 marzo 2012, n. 16; dd.mm. economia 22 maggio 2012, 25
giugno 2012 e 19 ottobre 2012; d.m. sviluppo economico 26 giugno 2012.
civile
●
10
D i r itto
e
p r o c e du r a
re a precisi obblighi comunitari. Due, infatti, le normative
europee sul tema: dapprima la direttiva 2000/35/CE del Par‑
lamento Europeo e del Consiglio del 29 giugno 2000 4, e poi
la recente direttiva 2011/7/UE del 16 febbraio 2011, sostitu‑
tiva della prima. Quest’ultimo provvedimento ha dato alla
luce, in Italia, il d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, peraltro
approvato in anticipo rispetto alla scadenza prevista dalla
direttiva stessa per il proprio recepimento (16 marzo 2013)5,
e destinato a disincentivare ‑attraverso una disciplina ancor
più stringente‑ la deprecabile prassi dei ritardi nei pagamenti
nelle transazioni commerciali, benché solo per i contratti
conclusi a far data dal gennaio 2013. Nondimeno, il problema
resta aperto e di difficile risoluzione, attesa la particolare
congiuntura politico‑economica nazionale, europea e mon‑
diale, che costringe le imprese in una condizione di partico‑
lare sofferenza, amplificata in maniera esponenziale dall’in‑
capacità di rendersi competitive per carenza di liquidità, pa‑
radossalmente connessa ad una situazione creditoria, rimasta
però insoluta a causa della lentezza della p.a. Per non parlare
poi degli aggravi di costi conseguenti all’avvio delle procedu‑
re per recuperare coattivamente i propri crediti; disponibilità,
questa, ulteriormente sottratta all’attività di investimento, con
chiari risvolti anticoncorrenziali rispetto a quelle imprese che
operano in Stati UE dove i pagamenti vengono effettuati con
regolarità6.
4
Direttiva 2000/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione
Europea, del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali, pubblicata in GUCE n. L 200/35 dell’8 agosto
2000. Tra i primi commenti alla direttiva e a come questa abbia inciso sugli
istituti civilistici dell’ordinamento italiano, si veda Conti, La direttiva 2000/35/
CE sui ritardati pagamenti e la legge comunitaria 2001 di delega al Governo
per la sua attuazione, in Corr. giur., 2002, 6, p. 802 ss.; Costantino, Lotta
contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Atti di convegno
della Giornata di studio: La direttiva UE 35/2000 sui ritardati pagamenti
nelle transazioni commerciali ed il d.lgs. n. 231, Cons. sup. magistratura, Pa‑
lermo, 23 novembre 2002, p. 3; De Marzo, Ritardi di pagamento nelle tran‑
sazioni commerciali, in Contratti, 2002, p. 628 ss.; Id., I ritardi nei pagamenti
degli appalti pubblici, in Urb. appalti, 2002, pp. 631 ss.; Fauceglia, Direttiva
2000/35/CE in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, in Contratti, 2001, 3, p. 311 ss.; Mengoni, La direttiva 2000/35/
CE in tema di mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, in Eur. dir. priv.,
2001, p. 74 ss.; Zaccaria, La direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i
ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Stud. jur., 2001, p. 259.
Sull’argomento cfr. anche Frignani – Cagnasso, L’attuazione della direttiva
sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2003,
p. 308 ss.; Grondona, Introduzione: dalla direttiva n. 2000/35/Ce al d.lgs. 9
ottobre 2002, n. 231, in I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali,
profili sostanziali e processuali, a cura di Benedetti, Torino, 2003, p. 1 ss. Più
di recente cfr. Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali.
Profili comparatistici, cit., p. 1 ss.
5 Differentemente da quanto era avvenuto con la direttiva del 29 giugno 2000
che aveva assegnato agli Stati membri il termine dell’8 agosto 2002 per confor‑
marvisi e dare, per tale via, effettività all’ambizioso progetto del legislatore
europeo, pena l’instaurazione di una procedura d’infrazione; Termine, questa
volta, non pienamente rispettato dall’Italia.
6 Un esaustivo excursus dell’attività legislativa in materia di ritardi di pagamen‑
to da parte dello Stato e degli enti locali nelle transazioni commerciali, è offer‑
to dal dettagliato documento di inizio legislatura (XVII) della Camera dei De‑
putati, reperibile sul sito internet www.camera.it. Per un approfondimento
della consistenza, a dir poco impressionante, dei crediti commerciali comples‑
sivamente vantati dalle imprese nei confronti di amministrazioni pubbliche, si
rinvia alla nota dell’EUROSTAT, Note on stock of liabilities of trade credits
and avances, in www.ec.europa.eu/eurostat, dalla quale emerge che la stima dei
debiti, per la sola Italia e fino al 2011, ammonterebbe provvisoriamente a € 67,3
miliardi. Perplessità sulla ricostruzione di tali stime, specie per la difficoltà
oggettiva di estrapolare i dati utili all’individuazione dello stock dei debiti
commerciali dai bilanci degli enti locali, sono state avanzate dalla Corte dei
Conti, nella persona del suo Presidente, Luigi Gianpaolino, in occasione dell’au‑
dizione del 13 marzo 2012 presso la V Commissione Bilancio, Tesoro e Pro‑
grammazione. Per un maggiore dettaglio si rimanda al resoconto stenografico
c i v il e
Gazzetta
F O R E N S E
Il primo provvedimento normativo con il quale l’ordina‑
mento giuridico italiano ha dettato previsioni specifiche per
contrastare la deprecabile prassi dell’eccessiva dilatazione dei
tempi di adempimento delle obbligazioni pecuniarie7 assunte
dalle pp.aa. nei confronti di soggetti terzi (ed in modo parti‑
colare dei fornitori di beni e servizi, ivi compresi quelli di
natura professionale)8, è rappresentato dal d.lgs. 9 ottobre
2002, n. 231, recante “Attuazione della direttiva 2000/35/CE
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transa‑
zioni commerciali”, entrato in vigore il 7 novembre 20029.
dell’audizione, Analisi annuale della crescita per il 2012 (COM 2011) 815 def.,
reperibile sul sito www.camera.it.
7 In tema di obbligazioni pecuniarie della p.a., si segnala ex plurimis, De Cri‑
stofaro, Obbligazioni pecuniarie e contratti di impresa: i nuovi strumenti di
“lotta” contro i ritardi nel pagamento dei corrispettivi di beni e servizi, in Stud.
jur., 2003, p. 3 ss.; Mengoni, La direttiva 2000/35/CE in tema di mora deben‑
di nelle obbligazioni pecuniarie, cit., p. 74 ss.; Di Geronimo, La disciplina
delle obbligazioni pecuniarie dello Stato fra normativa contabile pubblica e
comuni regole di diritto civile, in Riv. amm., II, 1993, p. 1227; Scarnecchia,
In tema di responsabilità per ritardo nell’adempimento di debiti pecuniari
della Pubblica Amministrazione, in Riv. not., 1984, p. 33 ss; Lo Torto, Le
obbligazioni pecnuniarie della p.a.: pagamento degli interessi moratori in caso
di ritardo ingiustificato, in Nuova rass., 1981, p. 2069; Segré, Obbligazioni
pecuniarie dello Stato e pagamento degli interessi, in Arbitrati e appalti, 1968,
pp. 329 ss. In generale cfr. E. Quadri, Le obbligazioni pecuniarie, in Trattato
dir. priv., diretto da Rescigno, IX, Torino, 1999, p. 563 ss.; Inzitari, voce
Obbligazioni pecuniarie, in Dig. disc. priv. sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 471
ss.; Breccia, Le obbligazioni, in Trattato dir. priv., a cura di Iudica – Zatti,
Milano, 1991, p. 286 ss.; Mastropaolo, voce Obbligazione, V, Obbligazioni
pecuniarie, in Enc. giur., XXI, Roma, 1990, p. 10 ss.; Inzitari, La moneta, in
Moneta e valuta, in Trattato dir. comm. pubbl. econ., diretto da Galgano, VI,
Padova, 1983, p. 119 ss.; Di Majo, voce Obbligazioni pecuniarie, in Enc. dir.,
XXIX, Milano, 1979, p. 261 ss.; Distaso, voce Somma di denaro (debiti di),
in Noviss. dig. it., XVII, Torino, 1970, p. 867 ss.; Ascarelli, Obbligazioni
pecuniarie, in Comm. c.c., a cura di Scialoja – Branca, Bologna‑Roma, 1959,
p. 170 ss. e p. 441 ss.
8 Per un’accurata ricostruzione delle reali dimensioni del fenomeno in esame e
delle ragioni che lo hanno determinato e progressivamente acutizzato, si veda
il contributo di Degni – Ferro, I tempi e le procedure di pagamento delle
pubbliche amministrazioni, in www.camera.it.
9 Pubblicato in G.U. n. 249 del 23 ottobre 2002. Tra i primi commenti, si segna‑
la Bastion, Direttive comunitarie e tutela del creditore in caso di ritardato
pagamento nelle transazioni commerciali: prime osservazioni a proposito del
d.lgs. n. 231/2002, in Dir. un. eur., 2003, 2‑3, p. 395 ss.; Roppo, Prefazione, in
I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, profili sostanziali e pro‑
cessuali, a cura di Benedetti, Torino, 2003, IX, passim; Caringella, La nuova
frontiera del controllo giurisdizionale sull’abuso negoziale nel d.lg. 231/2002,
in Dir. form., 2003, I, p. 7 ss.; Id., I ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, in Urb. appalti, 2003, 2, p. 57 ss.; Conti, Il d.lgs. n. 231/2002 di
trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle obbligazioni commer‑
ciali, in Corr. giur., 1, 2003, p. 99 ss.; G. De Nova – S. De Nova, I ritardi di
pagamento nei contratti commerciali, Milano, 2003, passim; Scotti, Aspetti
di diritto sostanziale del d.lgs.vo 9 ottobre 2002, n. 231, “Attuazione della
direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali”, in Giur. merito, 2003, IV, p. 603 ss.; Grondona,
Introduzione: dalla direttiva n. 2000/35/Ce al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, cit.,
p. 1 ss.; Frignani – Cagnasso, L’attuazione della direttiva sui ritardi di paga‑
mento nelle transazioni commerciali, cit., p. 308 ss.; Maffeis, Abuso di dipen‑
denza economica e grave iniquità dell’accordo sui termini di pagamento, in
Contratti, 2003, p. 623 ss.; Pandolfini, La nuova normativa sui ritardi di
pagamento nelle transazioni commerciali, Milano, 2003, passim; Atelli,
Contratti della Pubblica Amministrazione e normativa in materia di ritardi di
pagamento nelle transazioni commerciali (d.lgs. 231/2002): brevi note su tre
aspetti sensibili nella prospettiva amministrativo‑contabile, 2002, in www.
amcorteconti.it, il quale, nel sottolineare che il decreto in commento si applica
anche ai contratti di appalto di forniture o servizi di cui sia parte una P.A., se‑
gnala che “gli interessi di mora dovuti dalle amministrazioni sulle somme non
tempestivamente corrisposte ai fornitori di beni o servizi” presentano risvolti
di interesse della Corte dei Conti in termini di debito erariale; De Marzo, Ri‑
tardi di pagamento nei contratti tra imprese: l’attuazione della disciplina comu‑
nitaria, in Contratti, 2002, p. 1155 ss; Gentile, Commento al D.Lgs.vo
231/2002, in Guida dir., 2002, 43, p. 24 ss. Su posizioni opposte, quanto alla
portata innovativa del d.lgs. n. 231 del 2002, Clarizia, Il decreto legislativo
sui ritardati pagamenti e l’impatto sul sistema, in Nuova giur. civ. comm., 2003,
1, II, p. 57 ss., che esorta a minimizzarne la forza sovversiva, evitando fretto‑
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
Tale decreto – che ancora oggi detta la disciplina generale
in materia – apparentemente innocuo e dall’impatto, per ta‑
luni10, tutt’altro che dirompente ed innovativo, in realtà, ha
costretto l’interprete ad una revisione o, quanto meno, ad una
rilettura sistematica della complessiva disciplina di quegli
istituti civilistici, di natura sostanziale o processuale, su cui
ha dispiegato i suoi effetti. Non manca, però, chi giudica il
nostro impianto codicistico incapace di reggere il passo ac‑
celerato della vita mercatorum, risultando obsoleto ed ana‑
cronistico di fronte al fermento di quest’ultima ed al progres‑
sivo delinearsi del cd. nuovo diritto dei contratti, perifrasi con
cui si è soliti inquadrare quelle regole scaturenti dalle antino‑
mie tra fonti di derivazione eterogenea (comunitaria in pri‑
mis), spesso inconciliabili attraverso il ricorso ai tradizionali
principi civilistici11.
Il d.lgs. n. 231 del 2002 è stato di recente oggetto di rima‑
neggiamenti, su impulso delle istituzioni comunitarie, inter‑
venute a riformare la materia con l’adozione della menziona‑
ta direttiva 2011/7/UE in sostituzione della direttiva 2000/35/
CE. Stante l’obbligo, anche dal punto di vista costituzionale
ex art. 117, co. 1, della Carta Fondamentale, di assicurare la
conformazione dell’ordinamento interno alla richiamata fon‑
te comunitaria, si è pervenuti, sebbene in modo estremamen‑
te difficoltoso e farraginoso12 , all’emanazione del d.lgs. n. 192
del 201213, che ha introdotto previsioni innovative destinate
losi proclami. In senso critico rispetto alle scelte del legislatore italiano nel dare
esecuzione alla direttiva 2000/35/CE, cfr. Bregoli, La legge sui ritardi di pa‑
gamento nei contratti commerciali: prove maldestre di neodirigismo?, in Riv.
dir. priv., 2003, p. 715; Perrone, L’accordo gravemente iniquo nella nuova
disciplina sul ritardato adempimento delle obbligazioni pecuniarie, in Banca
borsa e tit. cred., 2004, p. 65; E. Russo, La nuova disciplina dei ritardati pa‑
gamenti nelle transazioni commerciali, in Contr. e impr., 2003, p. 446; Id., Le
transazioni commerciali, Padova, 2005, passim. Più di recente, si segnala la
ricostruzione, anche in una dimensione comparatistica, di Lanzara, Ritardati
pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili comparatistici, cit., p. 2 ss.
Si sono occupati del tema anche De Cristofaro, La disciplina dei ritardi di
pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 461 ss.; Cuffaro, La disci‑
plina dei pagamenti commerciali, Milano, 2004, passim; Zaccaria, Il coordi‑
namento fra la recente disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali e la precedente disciplina in materia, in Stud. jur., 2004, 3,
p. 305.
10 Nel dibattito intorno alla portata rivoluzionaria o meno della disciplina in
questione, appaiono degne di attenzione le posizioni degli autori richiamati
nella nota precedente, cui si rimanda per un’accurata analisi.
11 In tal senso Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali.
Profili comparatistici, cit., p. 3 ss.; D’Amico, Regole di validità e regole di
comportamento: i principi e i rimedi, in Eur. dir. priv., 2008, p. 599 ss.; Aa.Vv.,
Il nuovo diritto dei contratti. Problemi e prospettive, a cura di F. Di Marzio,
Milano, 2004, p. 179, ove l’a. osserva che la riconduzione ad equilibrio delle
posizioni contrattuali, nella logica del nuovo diritto dei contratti, passa attra‑
verso diversi strumenti di tutela della parte debole che si snodano lungo tutta
la vita del rapporto negoziale e che “hanno indotto alla rivisitazione di conso‑
lidati capisaldi della disciplina tradizionale del contratto”; Aa.Vv., Materiali e
commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. Vettori, Padova, 1999,
passim.
12 Per un approfondimento di tali questioni si rinvia a Gnes, La nuova disciplina
sui ritardi dei pagamenti, in Giorn. dir. amm., 2013, pp. 117‑119.
13 D.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, recante “Modifiche al decreto legislativo 9
ottobre 2002, n. 231, per l’integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali,
a norma dell’articolo 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180”,
pubblicato in G.U. n. 267 del 15 novembre 2012 ed entrato in vigore il 30
novembre 2012. Per un primo commento sul decreto in esame, si vedano Vi‑
sconti, Le norme sul contrasto ai ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, in www.fiscoetasse.com e Rossi, Ritardati pagamenti: conto sa‑
lato per gli enti se si superano i 30 giorni, in www.diritto24.ilsole24ore.com.
Di recente, v. Pandolfini, I ritardi di pagamento nelle transazioni commercia‑
li dopo il D.Lgs. 9 novembre 2012, Torino, 2013, passim; Id., Le modifiche
alla disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Commen‑
to al d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, in Corr. merito, 4, 2013, p. 387.
2 0 1 3
11
ad incidere significativamente sul d.lgs. n. 231 del 2002. Le
principali linee di azione di tale provvedimento normativo,
valevoli per i contratti conclusi a decorrere dal gennaio 2013,
sono in sintesi rappresentate dalla previsione che il termine
ordinario per i pagamenti sia di trenta giorni, derogabile
nell’ambito delle transazioni tra imprese con propria pattui‑
zione; che il prolungamento del termine di pagamento oltre i
trenta giorni, nel caso il debitore sia una p.a., risulti sempre
espressamente e, in ogni caso, non superi i sessanta giorni;
che gli interessi moratori, che decorrono automaticamente
alla scadenza del termine –fino ad allora stabiliti al 7 per
cento in più rispetto al tasso fissato dalla BCE per le opera‑
zioni di rifinanziamento‑ aumentino all’8 per cento.
Giova, al riguardo, sottolineare come tanto l’emanazione
del d.lgs. n. 231 del 2002, quanto l’adozione del d.lgs. n. 192
del 2012, non siano state frutto di una libera scelta di politi‑
ca economica del legislatore nazionale, rappresentando piut‑
tosto una soluzione, per certi versi, imposta dalla necessità di
assicurare l’assolvimento di obblighi europei. Appare oggi
incontrovertibile, anche per gli spunti offerti in subiecta ma‑
teria, come l’influsso delle fonti comunitarie integri un poten‑
te fattore evolutivo dell’ordinamento giuridico italiano, dal
momento che pone l’interprete nella significativa difficoltà di
scontrarsi con logiche spesso estranee al patrimonio del nostro
codice civile e delle leggi ad esso collegate, imponendo l’ado‑
zione di soluzioni talvolta lapalissianamente stridenti con il
complessivo impianto normativo interno. Ma è anche questo
il prezzo che i singoli Paesi membri dell’Unione Europea, e
quindi l’Italia, hanno accettato di pagare per effetto della
partecipazione alla costruzione ed al progressivo rafforzamen‑
to di un’entità giuridica sovranazionale. La rinunzia a parte
della propria sovranità nazionale e la correlativa cessione di
potere statale, da ritenersi autorizzate ai sensi dell’art. 11
Cost., recano con sé lo sforzo ultroneo, per l’operatore del
diritto, di misurarsi costantemente con nuovi scenari, nuove
dimensioni normative e nuove (almeno parzialmente) catego‑
rie giuridiche che, nel perseguimento di una sempre maggiore
omogeneizzazione ‑auspicabilmente feconda‑ dei singoli siste‑
mi giuridici nazionali, determinano una trasformazione so‑
stanziale, quando non addirittura il sovvertimento, del qua‑
dro ordinamentale vigente14. Risulta significativo, al riguardo,
il considerando n. 10 della direttiva 2000/35/CE – poi raffor‑
zato dalle premesse della successiva direttiva 2011/7/UE – poi‑
ché consente di cogliere agevolmente come il ridimensiona‑
mento del primato dei Governi nazionali abbia il più alto fine
di consentire l’integrazione tra nazioni. La sensibilità per il
problema dei ritardi di pagamento nelle transazioni commer‑
ciali ha, infatti, scaturigine nelle sedi comunitarie, allorché la
14 Sui rapporti fra ordinamento comunitario e nazionale si vedano Angelini,
Ordine pubblico e integrazione costituzionale europea. I principi fondamenta‑
li nelle relazioni interordinamentali, Padova, 2007, passim; P. Perlingieri, Il
diritto civile
3 nella legalità costituzionale secondo il sistema italo‑comunitario
delle fonti , I, Napoli, 2006, passim; Celotto, L’efficacia delle fonti comuni‑
tarie nell’ordinamento italiano, Torino, 2003, passim; Albino, Il sistema delle
fonti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, in Riv. it. dir. pubbl.
com., 2001, 2, p. 923 ss. Con specifico riferimento alle relazioni intercorrenti
fra attività provvedimentale interna e fonti normative europee si rinvia, ex
plurimis, a G. Pepe, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività
amministrativa, Roma, 2012, passim; Laudante, Fonti comunitarie ed attività
amministrativa statale tra separazione e integrazione degli ordinamenti, in Rass.
dir. pubbl. eur., 2005, 1, p. 229 ss.
civile
Gazzetta
12
D i r itto
e
p r o c e du r a
Commissione U.E., esortata dal Parlamento Europeo ad of‑
frire soluzioni adeguate, ha dapprima adottato la Raccoman‑
dazione del 12 maggio 1995 sui termini di pagamento nelle
transazioni commerciali15 e, in un secondo momento, tenuto
conto dei risultati infruttuosi della stessa, così come emersi
da apposita Relazione della Commissione pubblicata il 17
luglio 199716, è giunta a formulare una vera e propria propo‑
sta di direttiva del Consiglio17: di qui, la direttiva 2000/35/
CE. Diversamente dagli altri provvedimenti comunitari di
analoga portata giuridica, la direttiva de qua, attraverso una
lunga serie di considerazioni introduttive, esplicita con estre‑
ma chiarezza e precisione non solo le ragioni che ne hanno
determinato la genesi, ma altresì le finalità che con essa si
intendono perseguire18. Ciò che ha a cuore il legislatore comu‑
nitario, qui più che altrove, è il corretto svolgersi di quelle
interrelazioni sociali che si tessono attraverso gli scambi e che
danno luogo al libero mercato aperto. Ma questo significa, in
altre parole, garantire il mantenimento di un equilibrato e
leale dispiegarsi della concorrenza tra operatori economici19.
Tanto, sul presupposto che il fenomeno dei ritardati pagamen‑
ti è suscettibile di ripercuotersi in misura consistente sulla
crescita e sullo sviluppo delle imprese – in particolare, di di‑
mensioni medio/piccole – e, conseguentemente, sul corretto
funzionamento delle regole concorrenziali e sullo sviluppo
ordinato del mercato unico, alterando le condizioni di opera‑
tività delle imprese europee, a seconda dei diversi termini
contrattuali di pagamento cui sono tenute a sottostare nei
vari Stati UE, che talvolta differiscono notevolmente20. La
divaricazione tra norma e prassi, che troppo frequentemente
viene a realizzarsi, compromette l’armonico andamento del
mercato interno con evidenti distorsioni della concorrenza. È
appena il caso di rammentare che la direttiva in esame rap‑
presenta, come è stato acutamente osservato, il primo atto
comunitario che si preoccupa di disciplinare l’ambito delle
obbligazioni senza lambire forme di tutela del consumatore21.
15 Pubblicata in GUCE n. L/127 del 10 giugno 1995.
16 Si tratta della Comunicazione della Commissione dell’Unione Europea, intito‑
lata “Relazione sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali” del 17
luglio 1997, pubblicata in GUCE n. C/216 del 17 luglio 1997.
17 Pubblicata in GUCE n. C/168 del 3 giugno 1998 e in GUCE n. C/374 del 3
dicembre 1998.
18 Grondona, Introduzione: dalla direttiva n. 2000/35/Ce al d.lgs. 9 ottobre
2002, n. 231, cit., p. 5 ss.; Costantino, Lotta contro i ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali, cit., p. 3.
19 Il rilievo giuridico del concetto di concorrenza è tutto condensato nei riflessi
che la stessa riverbera sul diritto dei contratti avuto particolare riguardo alla
situazione di dipendenza economica di un contraente rispetto all’altro ed al
potenziale abuso che può scaturire dalla correlata posizione di supremazia
della parte dominante in quel precipuo rapporto obbligatorio. In proposito cfr.
De Benedetto, Il principio di concorrenza nell’ordinamento italiano, in Riv.
scuola sup. ec. fin., VII, 2, 2010, in www.rivista.ssef.it; Monfreda, Il regime
comunitario della concorrenza e la compatibilità delle agevolazioni fiscali per
le fondazioni bancarie, nota a Corte di Giustizia CE, 10 gennaio 2006,
C‑222/04, in Riv. scuola sup. ec. fin., VII, 2, 2010, in www.rivista.ssef.it; Gian‑
nantonio Guglielmetti – Giovanni Guglielmetti, voce Concorrenza, in
Dig. disc. priv. sez. comm., III, Torino, 2007, p. 301 ss.; Vincenti – Venturi‑
ni, La nuova disciplina comunitaria in materia di concorrenza, in Nuove leggi
civ. comm., 2003, p. 537; N. Irti, Iniziativa privata e concorrenza (verso la
nuova Costituzione economica), in Giur. it., IV, 1997, c. 226.
20 Al riguardo interessante è il Piano d’azione per il mercato unico del 4 giugno
1997 disposto dalla Commissione dell’Unione Europea, e peraltro richiamato
nelle premesse della direttiva recepita, in www.ec.europa.eu.
21 Roppo, Introduzione, in Trattato resp. contr., diretto da Visintini, Padova,
2009, II, p. 15 ss.; Zaccaria, La direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro
i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 259.
c i v il e
Gazzetta
F O R E N S E
Dalle predette motivazioni causali è discesa la necessità di
assicurare la repressione di potenziali degenerazioni del mec‑
canismo concorrenziale, determinate dalla situazione di di‑
sparità contrattuale tra soggetto creditore e soggetto debitore
e dal conseguente vantaggio che le imprese (ed, in particolare,
le pp.aa.) possono acquisire imponendo ‑in virtù della propria
forza economica e/o negoziale, benché in posizione debitoria‑
termini di pagamento eccessivamente dilazionati nel tempo
ovvero prolungati differimenti dell’adempimento delle proprie
obbligazioni 22. La direttiva in questione, infatti, era manife‑
stamente diretta a “proibire
l’abuso della libertà contrattuale
23
in danno del creditore” . Abuso rinvenibile nelle ipotesi
‑dettagliatamente indicate dal medesimo provvedimento co‑
munitario‑ di un contratto avente ad oggetto essenzialmente
l’arricchimento della parte debitoria in danno del creditore
(sub specie di liquidità aggiuntiva lasciata nelle sue casse),
così come, nell’ambito degli appalti, del contratto con cui il
fornitore principale, in assenza di una ragionevole giustifica‑
zione, imponga ai propri fornitori o subappaltatori termini di
pagamento dilazionati rispetto a quelli concessigli. Nondime‑
no, il legislatore della direttiva 2000/35/CE era ben consape‑
vole che per dissuadere concretamente il debitore dal tardivo
adempimento ‑da considerarsi alla stregua di una vera e pro‑
pria “violazione contrattuale”‑ bisognava far sì che questo
apparisse poco appetibile e, dunque, economicamente pregiu‑
dizievole per il debitore, al contrario di quanto registrato fino
a quel momento. Ed è esattamente questo l’ambizioso obiet‑
tivo prefissato con la richiamata direttiva e condiviso dai
successivi provvedimenti modificativi o sostitutivi: per un
22 Sul rapporto obbligatorio in generale e, in particolare, in tema di adempimen‑
to dell’obbligazione cfr. C. M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni,
in Comm. c.c., a cura di Scialoja‑Branca, sub artt. 1218‑1229, Bologna‑Roma,
1970, p. 129 ss; Carnelutti, Appunti sulle obbligazioni, in Riv. dir. comm.,
1915, I, pp. 515‑517; Id., Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 244 ss.;
Barassi, La teoria generale delle obbligazioni. L’attuazione, III, Milano, 1946,
p. 863; Di Blasi, Il libro delle obbligazioni, Parte generale, Milano, 1950, p. 11
ss. Riguardo alla definizione di rapporto obbligatorio si rinvia all’analisi di
Pugliatti, Gli istituti di diritto civile, Milano, 1943, p. 253 ss.; Id., Il rappor‑
to giuridico unisoggettivo, in Id., Diritto civile. Metodo, teoria, pratica (Saggi),
Milano, 1951, p. 396 ss.; Butera, Il codice civile italiano, Libro delle obbliga‑
zioni, I, Torino, 1943, passim; Longo, Diritto delle obbligazioni, Torino, 1950,
p. 13 ss., dove afferma che «nella nozione di obbligazione, momento essenzia‑
le e preminente è il diritto di esigere l’adempimento del dovere giuridico di
prestazione, che scolpisce l’elemento personale nella nozione»; Messineo,
9
Manuale di diritto civile e commerciale , III, Milano, 1959, p. 41; Giorgian‑
ni, voce Obbligazione (diritto privato), in Noviss. dig. it., XI, Torino, 1965,
p. 581 ss.; Id., Inadempimento, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 861 ss.;
Distaso, Le obbligazioni in generale, in Giur. sist. civ. comm., Torino, 1970,
p. 6 ss.; Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbliga‑
torio, Milano, 1968, p. 97 ss.; Di Majo, Obbligazioni e contratti. L’adempi‑
mento dell’obbligazione, Bologna, 1993, p. 2; Cannata, Le obbligazioni in
generale, in Tratt. dir. priv. Rescigno, 9, 1, Torino, 1999, p. 35 ss.; Galgano,
3
Diritto civile e commerciale , II, Le obbligazioni e i contratti, I, Obbligazioni
in generale, Contratti in generale, Padova, 1999, p. 7 ss.; Chianale, voce
Obbligazione, in Dig. disc. priv. sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 338 ss.; P. Per‑
lingieri – Ferroni, Situazioni di credito e di debito, in P. Perlingieri, Ma‑
6
nuale di diritto civile , Napoli, 2007, p. 211. In una prospettiva storica cfr.
Cannata, voce Obbligazioni nel diritto romano, medievale e moderno, in Dig.
disc. priv. sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 407 ss. Per alcuna dottrina dei primi
del novecento, cfr. Lomonaco, Delle obbligazioni e dei contratti in genere, I,
in Il diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza, diretto da
Fiore e continuato da Brugi, 10, Delle obbligazioni, Napoli‑Torino, 1924,
passim; Id., Delle obbligazioni e dei contratti in genere, II, ivi, Napoli‑Torino,
1925, passim; De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, II, Messina, 1939,
8
pp. 1‑48; De Ruggiero e Maroi, Istituzioni di diritto privato , II, Milano‑Mes‑
sina, 1954, p. 60 ss.
23 Così il considerando n. 19 della direttiva 2000/35/CE.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
verso, aumentando i tassi di interesse della mora debendi 24 e,
per altro, snellendo, e quindi rendendo più celeri, le procedu‑
re finalizzate al recupero coattivo del credito25. E infine pre‑
vedendo, a corollario della corresponsione degli interessi
moratori dovuti, una forma di risarcimento del danno per il
ritardo nell’adempimento26.
In maniera non dissimile, come anticipato, l’intervento
correttivo del d.lgs. n. 192 del 2012 non trova certo la sua
origine nella consapevolezza del legislatore nazionale dell’ac‑
clarata inadeguatezza dell’impianto del d.lgs. n. 231 del 2002
a fronteggiare il fenomeno dei ritardi dei pagamenti nelle
transazioni commerciali (specie con riferimento ai contratti
di cui è parte la.a.) ‑che pure avrebbe dovuto indurlo in tale
direzione ben prima dello sprone comunitario sopraggiunto
dopo un decennio di operatività della legislazione in questio‑
ne‑ bensì nella necessità di assicurare il recepimento di
un’ulteriore direttiva comunitaria intervenuta in subiecta
materia 27.
L’intento di questa breve indagine è scoprire che discipline
speciali come questa siano utili, non già a sconfessare la re‑
gola iuris, bensì a confermarla ed avvalorarla, se si è in grado
24 Sulla mora del debitore, cfr. Riccio, La mora non imputabile in materia di
obbligazioni pecuniarie, in Contr. e impr., 2002, 3, p. 1037; Valacca, La
nuova disciplina degli interessi di mora, in Corr. trib., 2004, 11, p. 815; Va‑
scellari, Interessi di mora e usura: la normativa attuale anche alla luce della
nuova disciplina contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali,
in Stud. jur., 2004, 2, p. 166 ss. Il ritardo, per taluna dottrina minoritaria,
rappresenterebbe una species del più ampio genus dell’inadempimento. In tal
senso, si v. amplius Mazzarese, voce Mora del debitore, in Dig. disc. priv. sez.
civ., XI, Torino, 1994, p. 443 ss.; Natoli – Bigliazzi Geri, Mora accipiendi
e mora debendi, Milano, 1975, p. 245. Su posizioni opposte, reputando il ri‑
tardo alla stregua di fatto oggettivo, e perciò non riconducibile alla sfera di
imputabilità del debitore, Visintini, Inadempimento e mora del debitore, in
Comm. c. c., diretto da Schlesinger, Milano, 1987, p. 309; Id., L’inadempimen‑
to delle obbligazioni, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, IX, Torino, 1984,
p. 237. Sia consentito rinviare a Picaro, L’impossibilità sopravvenuta della
prestazione per fatto del creditore, Napoli, 2012, passim.
25 Cfr. Sandulli, La posizione dei creditori penuiari dello Stato, in Riv. trim. dir.
pubb., 1952, p. 543 ss.; Zeno, Crediti pecuniari e azione verso la p.a., Dir. e
giur., 1979, p. 648 ss. In giurisprudenza, cfr. Cass., sez. un., 8 giugno 1985,
n. 3451, con nota di Memmo, Locazione di immobili alla p.a. Obbligazioni
pecuniarie delle p.a., in Nuova giur. civ. comm., 1986, I, p. 63 ss.
26 In tema di risarcimento del danno per il ritardo nell’adempimento e responsa‑
bilità per inadempimento, si rinvia a F. Bocchini, Estinzione del rapporto
4
obbligatorio. Adempimento, in F. Bocchini – E. Quadri, Diritto privato ,
Torino, 2011, p. 557; Di Majo, voce Obbligazione, in Enc. giur., XXI, Milano,
2
1990, p. 3; Id., La tutela civile dei diritti , Milano, 1993, p. 155 ss.; Id., voce
Pagamento (diritto privato), in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, p. 548 ss.; Id.,
Obbligazioni e contratti. L’adempimento dell’obbligazione, Bologna, 1993,
p. 12 ss.; Prosperetti, voce Pagamento (diritto civile), in Enc. giur., XXII,
Roma, 1990, p. 1 ss.; Cian, voce Pagamento, in Dig. disc. priv. sez. civ., XIII,
Torino, 1995, p. 234 ss.; G. Romano, Interessi del debitore e adempimento,
Napoli, 1995, p. 188 ss.; Chessa, L’adempimento, Milano, 1996, p. 7 ss.;
Cannata, L’adempimento delle obbligazioni, in Cannata – Prosperetti – Vi‑
2
sintini, Obbligazioni e contratti , in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 9, 1,
Torino, 1999, p. 61 ss.; Cannata, Le obbligazioni in generale, ivi, p. 34 ss.;
2
Visintini, Inadempimento e mora del debitore , in Comm. c. c., diretto da
Schlesinger, Milano, 2006, passim; Castronovo, La responsabilità per ina‑
dempimento da Osti a Mengoni, in Eur. dir. priv., I, 2008, p. 1 ss; Garri,
Adempimento delle obbligazioni pecuniarie della pubblica amministrazione,
rilevanza della procura contabile di spesa e decorrenza degli interessi corrispet‑
tivi e moratori, in Enti pubblici, 1998, p. 455 ss. Sul tema cfr. Cass., 5 maggio
1983, n. 3071, in Giust. civ., 1983, I, p. 2977, con nota di Costanza, Sugli
interessi spettanti ai creditori della p.a.
27 Su cui si vedano Gnes, La disciplina europea sui ritardi dei pagamenti, cit.,
p. 821 ss.; Ambrosi, Direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Con‑
siglio, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni com‑
merciali del 16/02/2011, in Fam. pers. succ., 2011, 6, p. 477 ss.; Canavesio,
La nuova direttiva 2011/7 in tema di lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali: prospettive di recepimento, in Contr. e impr. Europa,
2011, p. 449.
2 0 1 3
13
di non smarrire le direttrici civilistiche da cui l’interprete sa
che possono dipanarsi statuizioni derogatorie, e dunque spe‑
ciali, che proprio nel loro essere tali, e quindi ontologicamen‑
te diverse dalla disciplina generale, trovano la propria ragione
giustificatrice, in un quadro d’insieme capace di ricondurre
ad unità la complessiva ed apparentemente caotica ramifica‑
zione del sistema giuridico, in quella stessa mappa rappresen‑
tata dal codice civile e dai principi giuridici su cui si fonda,
tracciata dal legislatore e vivificata dall’interprete.
2. L’applicazione del d.lgs. n. 231 del 2002 in rapporto alla deadline per la stipula dei contratti commerciali, fissata dal d.lgs. n. 192
del 2012. Quid iuris?
La formulazione originaria del d.lgs. n. 231 del 2002,
come già anticipato, è rimasta fondamentalmente invariata,
al di là di talune modifiche di dettaglio28, sino all’emanazione
del d.lgs. n. 192 del 2012 le cui disposizioni trovano applica‑
zione limitatamente ai contratti conclusi a decorrere dal
gennaio 201329.
Invero, la previsione di un’applicazione ex nunc delle
modifiche apportate dal d.lgs. n. 192 del 2012, finisce per
sterilizzarne gli effetti favorevoli alle imprese e ai professio‑
nisti creditori, e dunque al mercato, circoscrivendo eccessiva‑
mente la sfera dei beneficiari del provvedimento stesso. Ma
risponde all’evidente intento di prevenire possibili conseguen‑
ze negative, in termini di esborso, a carico delle pp.aa., posto
che se del nuovo modello si fosse fatta applicazione retroatti‑
va, ciò avrebbe determinato un sensibile aggravio dei costi
indiretti sopportati dai soggetti pubblici per assicurarsi for‑
niture di beni e servizi nonché l’esecuzione di lavori30. Per
altro verso, l’irretroattività di tale atto normativo, anzi la sua
validità futura (applicandosi alle ipotesi di ritardo connesse
ai contratti conclusi dal 2013 in poi, ben oltre dunque la data
della sua entrava in vigore, fissata al 30 novembre 2012), ha
finito per realizzare una circostanza anomala, quella dell’at‑
tuale contemporanea vigenza di due formulazioni, succedute‑
si nel tempo, del medesimo provvedimento, id est il d.lgs.
n. 231 del 2002. Se la versione originaria, così come concepi‑
ta dal legislatore del 2002, continua ad applicarsi ‑sempre che
ovviamente ne ricorrano i presupposti‑ a tutti i pagamenti
connessi alle transazioni commerciali sorte entro il 31 dicem‑
bre 2012 (fungendo pertanto da disciplina transitoria limita‑
tamente alle previsioni oggetto di riforma), del pari esplicano
i loro effetti le singole previsioni del medesimo decreto, così
come riformulate dalle innovazioni del 2012, con esclusivo
riguardo a quei contratti stipulati a partire dal 2013. Nella
sostanza, nell’ambito del novellato d.lgs. n. 231 del 2002,
talune previsioni operano indipendentemente dal discrimine
temporale, mentre per altre occorre avere come riferimento il
28 Apportate, a titolo esemplificativo, dalla l. n. 27 del 2012 di conversione, con
modificazioni, del d.l. n. 1 del 2012.
29 Cfr. Pandolfini, I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali dopo il
D.Lgs. 9 novembre 2012, cit., passim.
30 La Relazione illustrativa al d.lgs. n. 192 del 2012 chiarisce che la scelta del
differimento nell’effettiva entrata in vigore delle nuove disposizioni è dovuto
alla necessità di permettere a tutti gli interessati (e, in particolare, alla p.a.) di
adeguarsi alle nuove previsioni, soprattutto per quanto concerne la modulistica
contrattuale da adottare e le procedure interne di pagamento. Al riguardo, si
vedano le riflessioni di Mazzini, Un’applicazione non retroattiva della disci‑
plina riduce l'impatto positivo sulle imprese creditrici, in www.ilsole24ore.
comm.
civile
Gazzetta
14
D i r itto
e
p r o c e du r a
31 dicembre 2012. In conclusione, l’interprete cui è deman‑
data la ricognizione, nella fattispecie concreta, della ricorren‑
za dei requisiti di validità della normativa in questione, dovrà
preliminarmente verificare se il pagamento di cui si contesta
il tardivo adempimento sia relativo ad un contratto concluso
entro od oltre la deadline rappresentata dal 31 dicembre 2012.
Solo a quel punto sarà infatti in grado di stabilire la discipli‑
na da applicare (il regime ante o post riforma del 2012) ma
anche i presupposti di operatività della stessa, potendo il caso
de quo collocarsi all’esterno di essa. Fino a che dunque non
vengano smaltite tutte le pendenze contrattuali collegate a
transazioni commerciali realizzatesi entro la fine del mese di
dicembre del 2012, e quindi non vada a regime la disciplina
dei ritardi nei pagamenti introdotta con il d.lgs. n. 192 del
2012, non potrà non darsi conto di ambedue le formulazioni
delle norme del d.lgs. n. 231 del 2002 sottoposte a revisione,
attesa la loro attuale convivenza nell’ordinamento giuridico
interno.
3. La nuova disciplina. Ambito soggettivo ed oggettivo di opera‑
tività.
Operata tale sintetica, eppure doverosa, premessa, si ritie‑
ne opportuno svolgere alcune essenziali considerazioni circa
la portata precettiva delle disposizioni dettate dal d.lgs. n. 231
del 2002 nella formulazione originaria, comparata con le
innovazioni apportate in sede di modifica, nell’obiettivo di
afferrare le logiche sottese ai successivi provvedimenti corret‑
tivi in sede comunitaria e, conseguentemente, in ambito na‑
zionale.
Dalla semplice e piana lettura delle statuizioni ivi conte‑
nute è agevole cogliere come il raggio d’azione del d.lgs. n. 231
del 2002 risultasse estremamente esteso, posto che, nella
prima versione, esso disciplinava ‑e ancora disciplina, lo si
ribadisce, con riguardo ai contratti stipulati entro il 31 dicem‑
bre 2012‑ la quasi totalità dei rapporti intercorrenti fra im‑
prese ovvero fra imprese e pp.aa. 31, considerando, peraltro, sia
le une che le altre nel senso più ampio possibile.
In via preliminare, per quel che concerne il profilo sogget‑
tivo dell’ambito di applicazione della normativa in commento,
corre l’obbligo di evidenziare come emergano, da subito, due
questioni principali: da un lato, quella del ricorso ad un’acce‑
zione di imprenditore talmente dilatata da concedere dimora
anche al libero professionista; dall’altro, con riguardo al ver‑
sante pubblicistico, quella del riferimento ad una altrettanto
nutrita e variegata famiglia, comprensiva persino del “nipote
eclettico” di origini comunitarie noto come organismo di
diritto pubblico. Quanto al primo profilo, vale a dire al sog‑
getto “impresa”, giova considerare che quella nozione che
rinviene i propri natali nella Francia napoleonica per appro‑
dare nei codici italiani postunitari (del commercio prima e
civile poi), ha da tempo lasciato spazio ad un’idea più confa‑
cente alle esigenze del nuovo mercato globalizzato ed al mo‑
dello contemporaneo di organizzazione d’impresa32. Muoven‑
31 Cfr. art. 2, d.lgs. n. 231 del 2002, ante modifiche del 2012.
32 Si v. Grossi, Itinerari dell’impresa, in Quad. fiorentini, Per la storia del pen‑
siero giuridico moderno, XXVIII, Tomo I, Milano, 1999, p. 1003 ss., il quale
riteneva già allora superato l’“individualismo giuridico”, avendo acquisito
importanza per il mondo contemporaneo “l’organizzazione”, “cioè non i sin‑
goli rapporti slegati ma piuttosto i loro collegamenti in intreccio di connessioni
c i v il e
Gazzetta
F O R E N S E
do dalla constatazione che c’è impresa ogni volta che si è di‑
nanzi ad un’attività potenzialmente capace di produrre un
profitto, e considerando che i liberi professionisti non solo
sono in grado di generare ricchezza, ma oggi sono sempre più
supportati nella loro attività da una struttura complessa di
uomini e mezzi al pari ‑quando non addirittura al di sopra‑
delle imprese medio/piccole, appare oramai destituita di ogni
significato la loro sottrazione al rischio d’impresa, se non per
quel retaggio culturale, di medievale reminiscenza, che rico‑
nosceva privilegi alle corporazioni. Il comun denominatore
dell’idoneità a creare profitto ha così persuaso ad includere
nell’alveo della nozione di imprenditore ‑benché sotto spinte
comunitarie e solo per singoli settori, come nel caso della
disciplina che qui interessa‑ la figura del libero professionista,
storicamente sottratto al rischio d’impresa, secondo un’impo‑
stazione più pragmatica ed attenta a dare risposte ai problemi
piuttosto che dilettarsi in questione teoretiche33. Non pare,
pertanto, congruo dilungarsi sulle riflessioni che hanno ani‑
mato, e tuttora vivacizzano, il dibattito sulla vexata quaestio
della differenza tra obbligazioni di mezzo ed obbligazioni di
risultato, dai tratti oggi estremamente sfumati34, benché fre‑
quentemente invocata in sede giurisdizionale35.
Se tale era il contesto per quanto attiene all’ambito sog‑
gettivo di applicazione, con l’emanazione del successivo d.lgs.
n. 192 del 2012 si è riconosciuto inoltre ai liberi professionisti
il diritto di compensare i crediti con la.a., per cui dal gennaio
2013 anche le parcelle professionali dovranno essere pagate
puntualmente, essendo la riscossione di queste assistita da
regole più severe. Prendendo in prestito il linguaggio scienti‑
fico della matematica è possibile affermare che l’equazione
libero professionista=imprenditore nel nostro ordinamento
non può essere considerata un’identità, giacché non è sempre
spesso complicatissimo”.
33 Si v. amplius, Timellini, voce Liberi professionisti, in Dig. disc. priv. sez.
comm., Agg., Torino, 2008, p. 535; Spada, voce Impresa, in Dig. disc. priv. sez.
comm., VII, Torino, 2007, p. 53 ss.; Gabrielli, Il consumatore ed il professio‑
nista, in Gabrielli – E. Minervini, I contratti dei consumatori, Torino, 2005,
p. 13 ss.; G.F. Campobasso, Le società fra professionisti, in Diritto privato
comunitario – Lavoro, impresa e società, a cura di Rizzo, II, Napoli, 1997,
passim; Galgano, L’imprenditore, Bologna, 1991, p. 18 ss.; F. Bocchini,
Tutela del consumatore e mercato, in Commentario al capo XIV‑bis del codice
civile: dei contratti del consumatore, a cura di C. M. Bianca e Busnelli, in
Nuove leggi civ. comm., Padova, 1997, passim; Id., Nozione di consumatore e
modelli economici, in Aa.Vv., Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, a
cura di F. Bocchini, I, Torino, 2003, passim.
34 Sul tema si veda l’articolata ricostruzione di Mengoni, Obbligazioni di risul‑
tato e obbligazioni di mezzi. La funzione della colpa nella responsabilità con‑
trattuale, II, in Riv. dir. comm., 1954, p. 280 ss.; Id., Il limite di responsabilità
nelle due categorie di rapporti, III, ivi, p. 306 ss. il quale ricostruisce la teoria a
partire da Bernhöft e Fischer; Id., Obbligazioni di risultato e obbligazioni di
mezzi, L’onere della prova, IV, ivi, p. 367 ss.; De Lorenzi, voce Obbligazioni
di mezzi e obbligazioni di risultato, in Dig. disc. priv. sez. civ., XII, Torino, 1995,
p. 398 ss.; C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. c.
c, a cura di Scialoja – Branca, Bologna‑Roma, 1967, p. 30 ss., secondo cui «la
distinzione tende soprattutto a spiegare una certa ripartizione dell’onere pro‑
batorio dell’inadempimento e l’applicazione di una diversa misura di respon‑
sabilità debitoria». In senso conforme, un interessante e recente arresto della
Suprema Corte, reso in tema di responsabilità contrattuale delle strutture sani‑
tarie: Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, in Nuova giur. civ. comm., 2008,
p. 612, con nota di De Matteis, La responsabilità delle strutture sanitarie; in
Resp. civ. prev, 2008, p. 397, con nota di Calvo, Diritti del paziente, onus
probandi e responsabilità della struttura sanitaria.
35 Cfr. De Lorenzi, voce Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato, cit.,
p. 403; Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005,
p. 206.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
verificata ‑né esiste un obbligo in tal senso da parte del legi‑
slatore europeo36‑ ma senz’altro risulta vera ogni qual volta
l’incognita di cui ricercare il valore opera sul piano della
concorrenza37. Ragioni di completezza impongono di precisa‑
re, in proposito, che il Parlamento italiano sembra convergere
con le prospettive europee, nel segno della demolizione del
dogma dell’intangibilità delle prerogative dei liberi professio‑
nisti38. D’altra parte, l’atecnicismo che caratterizzava la diret‑
tiva 35/2000/CE ha creato non poche difficoltà agli ordina‑
menti di quei Paesi membri abituati ad una disciplina diffe‑
renziata dell’attività libero‑professionale, come ad esempio la
Germania (oltreché l’Italia). Il legislatore tedesco ha dovuto,
infatti, coniare ‑come opportunamente segnalato in dottrina‑
il neologismo (almeno in ambito giuridico) unternehmer, per
poter ricomprendere in una categoria unitaria libero‑profes‑
sionista ed imprenditore in senso classico39.
Sotto altro profilo, il d.lgs. n. 231 del 2002 accedeva,
nella prima versione, come sopra accennato, ad un significato
ampio della stessa nozione di.a. che, a prescindere da una
considerazione esclusiva del profilo soggettivo, finiva per
accogliere, coerentemente con una tendenza chiaramente
percepibile nell’ordinamento giuridico italiano (ed anch’essa,
in buona sostanza, di derivazione comunitaria), un’accezione
sostanziale di ente pubblico imperniata, in disparte la veste
giuridica, sul rilievo preminente attribuito al perseguimento
di finalità d’interesse generale e sull’utilizzo prevalente di ri‑
sorse pubblicistiche lato sensu intese, ovvero sulla sussistenza
di un rapporto di controllo fra.a. e soggetto giuridico formal‑
mente agente in regime di diritto privato40.
36 Il libero professionista è (considerato) imprenditore quando è creditore di
pagamenti a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale e solo per
le finalità perseguite dai relativi provvedimenti comunitari. Inutile dire dell’ef‑
fetto dirompente che avrebbe avuto la diversa previsione dell’obbligo genera‑
lizzato di considerare il libero professionista alla stregua di un imprenditore.
Resta il fatto che nella definizione di imprenditore di cui all’art. 2, co. 1, lett.
c), d.lgs. n. 231 del 2002 rientrano non solo tutte le persone, fisiche e giuridiche,
che esercitino in forma organizzata un’attività economica ma anche i lavorato‑
ri autonomi e gli esercenti una libera professione (sia o meno l’esercizio di
quest’ultima subordinato all’iscrizione in albi od elenchi, e indipendentemente
dalla presenza del requisito della “organizzazione” di beni, capitale o lavoro),
nonché le associazioni e fondazioni, le quali esercitino in via esclusiva un’atti‑
vità commerciale, e gli enti no profit, ai quali l’ordinamento giuridico riconosce
la possibilità, sebbene con talune limitazioni, di svolgere attività economiche di
natura commerciale, artigianale o agricola. Resta, in ogni caso, una definizione
di più ampio respiro rispetto a quella offerta dall’art. 2082 c.c.
37 Si v. al riguardo il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30. Copiosa è la giurisprudenza
comunitaria in materia. Tra tutte, cfr. Corte giust., 19 febbraio 2002, in cause
C‑309/99 e C‑35/99; Corte giust., 12 settembre 2000, in cause C‑180/98 e
C‑184/98; Corte giust., 18 giugno 1998, in causa C‑35/96; Corte giust., 23
aprile 1991, in causa C‑41/90, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1992, p. 1322.
In dottrina, invece, si segnala, ex plurimis, Timellini, voce Liberi professioni‑
sti, cit., p. 535; Ticozzi, Avviamento degli studi professionali, in Contr. e impr.,
2007, 3, p. 647 ss.; Spada, voce Impresa, cit., p. 53 ss.; Gabrielli, Il consu‑
matore ed il professionista, in Gabrielli – E. Minervini, I contratti dei con‑
sumatori, cit., p. 13 e ss.; Di Via, L’impresa, in Diritto privato Europeo, a cura
di Lipari, Padova, 1997, I, p. 252 e ss.
38 Cfr. Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili
comparatistici, cit., p. 13, il quale ricorda come la regolamentazione della
professione forense abbia, da ultimo, proseguito proprio in tale direzione,
laddove ha introdotto il cd. patto di quota lite, con il d.l. 4 luglio 2006, n. 223
(c.d. decreto Bersani), come modificato dalla l. 4 agosto 2006, n. 248.
39 Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili compa‑
ratistici, cit., p. 11.
40 Il d.lgs. n. 231 del 2002 accoglie, in buona sostanza, il concetto di organismo
di diritto pubblico su cui si v. Caringella, Corso di diritto amministrativo, 2.
Enti pubblici e pubblico impiego, Roma, 2013, p. 10 e p. 18 ss.; Di Giulio,
Ancora sulla nozione di organismo di diritto pubblico, in Rass. giur. quadrim.
pubb. serv., 2001, p. 168; Santoro, Soggetti pubblici e privati nella nozione
2 0 1 3
15
Tra le novità di maggiore rilievo introdotte con il d.lgs.
n. 192 del 2012, si ritiene opportuno segnalare la nuova de‑
finizione di.a. di cui al novellato art. 2, lett. b), d.lgs. n. 231
del 2002, che fa propria quella offerta dal Codice dei contrat‑
ti pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, includendovi ogni
altro soggetto tenuto al rispetto della disciplina sugli appalti
pubblici, e solo entro i limiti in cui esso svolge tale attività;
negli altri casi, invece, smette le vesti di.a.41. A ben vedere, la
definizione è pressoché omnicomprensiva e finisce con il ri‑
condurre ‑ai fini che qui vengono in rilievo‑ entro il perimetro
pubblicistico, anche soggetti totalmente estranei all’apparato
organizzativo della p.a., quali, a titolo esemplificativo, i con‑
cessionari di pubbliche funzioni42.
In altri e più semplici termini, dunque, il d.lgs. n. 231 del
2002 si applica a tutti i contratti stipulati fra imprese, tra le
stesse e la.a., nell’accezione lata del concetto precedentemen‑
te espresso, fra professionisti intellettuali ed imprese, fra
professionisti intellettuali e la.a., fra due o più professionisti
intellettuali, con esclusione, per contro, dei contratti dei qua‑
li sia parte un consumatore. Sicché, anche la.a. resta soggio‑
gata ‑sin dal 2002‑ dal meccanismo della mora debendi, a cui
fino ad allora si sarebbe, secondo alcuni43, sottratta, in nome
di una non imputabilità del soggetto pubblico.
Il processo di sovvertimento dei privilegia 44 della p.a.,
avviato nel 2002 e confermato dieci anni dopo, prefigura, in
realtà, un mutamento di prospettiva più ampio nel diritto
comunitario che, in qualche modo, influenzando gli Stati UE
e, quindi, l’Italia, pone in difficoltà il nostro ordinamento ed
i suoi interpreti nel lavoro di contemperamento di tali norme
che esaltano il favor per il creditore rispetto a quelle civilisti‑
comunitaria di organismo di diritto pubblico,in Riv. Corte conti, 2001, p. 292;
Greco, Ente pubblico, impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, in
Riv. it. dir. pubb. com., 2000, p. 839; Sandulli, La giurisdizione sugli atti
dell’organismo di diritto pubblico, in Giorn. dir. amm., 2000, p. 1195. Nella
giurisprudenza comunitaria si segnalano due sentenze storiche, la “sentenza
Mannesmann” della Corte giust., 15 gennaio 1998, C‑44/96 e la “sentenza
Taitotalo”, 22 maggio 2003, C‑18/01, in http://eur‑lex.europa.eu.
41 Cfr. Trebastoni, Identificazione degli enti pubblici e relativa disciplina, in www.
giustizia‑amministrativa.it.
42 Pur dovendosi evidenziare che “l’ordinamento impone ai concessionari di
opere pubbliche obblighi di diverso ambito, quanto all'affidamento a terzi di
lavori, servizi e forniture, a seconda che il concessionario sia amministrazione
aggiudicatrice (nel cui ambito rientra anche la categoria dell'organismo di di‑
ritto pubblico, sia ai sensi del vigente art. 3, co. 25 e 26, d. lgs. n. 163 del 2006,
sia ai sensi della previgente disciplina) o non lo sia. Infatti il concessionario, che
sia amministrazione aggiudicatrice/organismo di diritto pubblico, è tenuto al
rispetto delle procedure di evidenza pubblica per qualsivoglia appalto, invece
il concessionario che non sia amministrazione aggiudicatrice è tenuto al rispet‑
to delle procedure di evidenza pubblica solo per l'affidamento di appalti di la‑
vori nei limiti della quota (40% o 30%) in cui è tenuto ad esternalizzare lavori,
con affidamento a terzi”, così Cons. Stato, sez. VI, 30 giugno 2011, n. 3892.
43 Venturelli, Specialità della costituzione in mora nelle obbligazioni pecuniarie
della p.a., in Obbl. e contr., 2009, p. 891 ss., nota a Cass., 15 gennaio 2009,
n. 806; Memmo, I ritardi di pagamento della p.a. tra normativa speciale e
giurisdizione esclusiva, in Contr. e impr., 2004, 1, p. 118 ss.; Di Geronimo, La
disciplina delle obbligazioni pecuniarie dello Stato fra normativa contabile
pubblica e comuni regole di diritto civile, cit., p. 1226 ss.; Reggio D’Aci, La
mora della Pubblica Amministrazione, in Studi per il Centocinquantenario del
Consiglio di Stato, II, Roma, 1981, p. 1209 ss. Ricostruzione che ha talvolta
trovato conferma anche in sede giurisdizionale, cfr. Cass., 3 dicembre 2009,
n. 25402, in Giust. civ. mass., 2009, p. 1663; Id., 3 ottobre 2005, n. 19320,
ivi, 2005, p. 921; Id., 7 novembre 1981, n. 5893, in Mass. giur. it., 1981; Id.,
26 marzo 1964, n. 686, in Giur. it., 1965, I, 1, c. 638.
44 Si v. amplius, Maiello, La mora debendi della Pubblica Amministrazione e
la disciplina degli interessi da ritardo nell’adempimento delle obbligazioni
pubbliche, in Il diritto privato della Pubblica Amministrazione, a cura di
P. Stanzione – Saturno, Padova, 2006, p. 930.
civile
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D i r itto
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p r o c e du r a
che improntate al favor debitoris. È lecito dunque domandar‑
si: muta semplicemente la prospettiva in direzione di un rie‑
quilibrio delle posizioni del rapporto obbligatorio o è in atto
una vera metamorfosi kafkiana dello stesso in cui privilegia‑
to è il creditore? E, in quest’ultima ipotesi, la trasformazione
può spingersi fino a far riaffermare la necessità di una doppia
disciplina, di un doppio codice (civile e del commercio) di
ottocentesca memoria, per il tramite del cd. terzo contratto,
figlio della prospettiva comunitaria, amante dell’operatore
economico (homo aeconomicus) e non dell’uomo, dell’indivi‑
duo? Forse questo rappresenta il passaggio più sovversivo
della complessiva disciplina in esame, imponendo un diverso
riassetto delle modalità operative della p.a. nei rapporti con
imprese e professionisti, vale a dire quando agisce iure priva‑
torum all’interno di rapporti negoziali col privato. Sono indi‑
rettamente richiesti comportamenti virtuosi di tutto l’appa‑
rato pubblicistico perché l’applicazione della normativa sui
ritardi di pagamento non conduca al default degli enti pub‑
blici, centrali e locali, a causa di un evidente e non program‑
mato aggravio delle uscite. E ciò è tanto più vero, se si consi‑
dera l’automatismo del sistema di decorrenza degli effetti
della mora. Novità questa, come si vedrà tra breve, ultronea
e dal forte impatto, che ha contribuito a scardinare l’assetto
di deroghe che da sempre circondano i pubblici poteri consa‑
crandoli in una posizione di supremazia, arroccata in questo
caso dietro la necessità di un’intimazione formale di paga‑
mento da parte del privato 45. Pare opportuno segnalare come,
per alcuna dottrina46, attraverso quest’opera di assimilazione
pubblico‑privato, si stia assistendo ad un processo di conver‑
genza dei sistemi giuridici dell’Europa continentale con quel‑
li di common law, più attenti al dato effettuale e, dunque, più
aderenti agli attuali mutamenti giuridico‑economici47.
Sotto altro aspetto, il d.lgs. n. 231 del 2002, nel delimitare
il proprio ambito oggettivo di operatività, prevede, ancora
oggi, all’art. 1 (non essendo stata tale norma oggetto di revi‑
sione), un’applicazione generalizzata delle disposizioni in esso
contenute “ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispet‑
tivo in una transazione commerciale”, offrendo poi, all’art. 2,
lett. a), una definizione, peraltro atecnica, particolarmente
dilatata di “transazioni commerciali”, ricomprendendovi qual‑
siasi tipo di contratto, comunque denominato, tra imprese
ovvero tra imprese e pp.aa., che avesse ad oggetto, anche solo
in misura prevalente, la consegna di merci o la prestazione di
servizi dietro corrispettivo. Dunque, sotto il profilo oggettivo,
il d.lgs. n. 231 del 2002, per effetto del combinato disposto
degli artt. 1; 2, co. 1, lett. a); e 2, co. 2, regola a tutt’oggi le
45 Il d.lgs. n. 231 del 2002 è stato tra i primi atti normativi a mettere in discus‑
sione l’idea che la p.a. fosse destinataria di una disciplina derogatoria (più che
speciale, giacché costituita da un fascio di privilegi inerenti singoli aspetti dei
rapporti) derivante dall’operatività delle regole di contabilità pubblica. In
proposito, cfr. Memmo, I ritardi di pagamento della p.a. tra normativa specia‑
le e giurisdizione esclusiva, cit., p.107 ss.
46 Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili compa‑
ratistici, cit., p. 16 ss.; Giannini, Il diritto amministrativo, Milano, 1970, I,
p. 519.
47 Interessante al riguardo è constatare la contestualità della prima proposta di
direttiva del 1998, pubblicata in GUCE n. C/168 del 03 giugno 1998,e l’appro‑
vazione nel Regno Unito del Late Payment of Commercial Debt (Interest) Act
del 1998, occorsa appena pochi giorni più tardi. La riflessione, in una dimen‑
sione comparatistica, è di Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni
commerciali. Profili comparatistici, cit., p. 16 ss., il quale osserva come i due
testi abbiano risentito della reciproca influenza.
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F O R E N S E
obbligazioni pecuniarie originate da un qualsivoglia contratto
commerciale, con esclusione soltanto dei “debiti oggetto di
procedure concorsuali a carico del debitore”, delle “richieste di
interessi inferiori a 5 euro” e dei “pagamenti effettuati a titolo
di risarcimento del danno, ivi compresi i pagamenti effettuati
a tale titolo da un assicuratore”, per espressa previsione del
legislatore. Il provvedimento normativo, in altri termini, si
applica a tutti i pagamenti relativi alle transazioni commercia‑
li, salvo ovviamente i contratti dei consumatori.
Non è possibile, in questa sede, procedere ad una ricogni‑
zione, anche sub specie di mera elencazione, dei contratti tipi‑
ci ed atipici rientranti o meno nel raggio di azione del provve‑
dimento in esame. Ci si limita ad evidenziare, tuttavia, con
riferimento specifico ai contratti stipulati dalle pp.aa., che
certamente erano soggetti alla disciplina del d.lgs. n. 231 del
2002, già nella prima versione, i contratti relativi ai servizi ed
alle forniture; mentre in sede di prima applicazione, si ritene‑
va, non senza esitazioni ‑peraltro non fugate dall’intervento
riformatore del 2012‑, che lo stesso non trovasse applicazione
con riguardo ai lavori pubblici. Tale conclusione, autorevol‑
mente avallata dall’allora Autorità per la Vigilanza sui lavori
pubblici, con apposita determinazione adottata proprio in
tema di applicabilità della direttiva 2000/35/CE agli appalti
di lavori delle pp.aa.48, affondava il proprio substrato in argo‑
menti eminentemente testuali e letterali. Nondimeno suscitava
‑come già anticipato‑ talune perplessità, stante il conseguente
effetto discriminatorio prodotto, per violazione della par
condicio creditorum tra i creditori delle pp.aa. a seconda
dell’oggetto del contratto con le stesse concluso49. Il creditore
appaltatore di lavori pubblici veniva a trovarsi, dunque, in una
posizione oggettivamente deteriore, specie con riguardo al
saggio degli interessi moratori ed alla decorrenza degli stessi,
48 Ci si riferisce alla determinazione n. 5 del 27 marzo 2002 dell’attuale Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, sul “Fenom‑
eno dei ritardati pagamenti negli appalti di lavori pubblici”, pubblicata in G.U.
n. 95 del 23 aprile 2002, reperibile su www.autoritalavoripubblici.it. Cfr.
Memmo, I ritardi di pagamento della p.a. tra normativa speciale e giurisdizione
esclusiva, cit., p. 119 ss., la quale riferisce del dibattito dottrinale sollevatosi in
merito, specie a seguito della presa di posizione della citata Autorità di vigi‑
lanza, circa l’impossibilità di un’applicazione estensiva od analogica della
direttiva 2000/35/CE alla materia dei lavori pubblici, stante la vigenza di ap‑
posita disciplina speciale, rappresentata dal d.m. lavori pubblici n. 145 del 19
aprile 2000, recante “Nuovo capitolato generale di appalto dei lavori pubblici”,
pubblicato in G.U. n. 131 del 07 giugno 2000. Contra Pandolfini, La nuova
normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 21 ss.;
E. Russo, La nuova disciplina dei ritardati pagamenti nelle transazioni com‑
merciali, cit., p. 459 ss. In proposito, si veda anche la determinazione n. 4 del
7 luglio 2010 dell’AVCP, relativa alla “Disciplina dei pagamenti nei contratti
pubblici di forniture e servizi”, pubblicata in G.U., Serie Generale, n. 174 del
28 luglio 2010 e anch’essa disponibile sul sito dell’AVCP www.autoritalavori‑
pubblici.it, emanata per fare il punto sulle segnalazioni pervenute proprio in
ordine all’applicazione della normativa sui ritardati pagamenti ai contratti
pubblici di forniture e servizi. In giurisprudenza si segnala l’ord. Trib. Asti, 16
agosto 2011, disponibile sul sito internet www.ilcaso.it, secondo cui “l’ambito
di applicazione del d.lgs. 231/2002 è limitato alle transazioni commerciali da
intendersi ai sensi dell’art. 1 lett. a) del d.lgs. 231/2002, come i contratti […]
che comportano in via esclusiva o prevalente la consegna di merci o la prestazi‑
one di servizi contro il pagamento di un prezzo”, con la conseguenza che da
tale ambito fuoriescono i contratti che hanno ad oggetto la prestazione di
un’opera (ipotesi per la quale, peraltro, l’ordinamento ha approntato disciplina
ad hoc “contenuta nella l. n. 109/1994, recepita nel d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163
e nel d.m. 145/2000 (art. 29 e 30), ora in gran parte confluite nel d.P.R.
207/2010, recante il nuovo Regolamento di Attuazione del codice dei Con‑
tratti Pubblici».
49 Per maggiori approfondimenti su questi aspetti si veda Conti, Il d. lgs.
n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle tran‑
sazioni commerciali, cit., pp. 101‑107.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
rispetto a quella del creditore fornitore di beni o di servizi,
senza che questa discriminazione avesse una giustificazione
razionale, perlomeno immediatamente percepibile50.
In realtà, continuano a permanere, anche dopo l’emana‑
zione del d.lgs. n. 192 del 2012, significativi dubbi circa
l’ambito di applicazione oggettivo del d.lgs. n. 231 del 2002,
poiché, sebbene il considerando n. 11 della direttiva 2011/7/
UE faccia riferimento alla necessità di applicare la stessa anche
alla progettazione ed all’esecuzione di opere ed edifici pubbli‑
ci, nonché ai lavori di ingegneria civile, esso è redatto in ter‑
mini tali ‑mediante l’utilizzo del condizionale “dovrebbero”‑
da far ritenere sussistente un margine di discrezionalità in
parte qua in sede di recepimento da parte dei singoli Stati. Al
riguardo, si rileva che nulla è mutato dal punto di vista so‑
stanziale quanto all’individuazione dei presupposti di appli‑
cazione del decreto in esame (cfr. art 2, co. 1, lett.a), d.lgs.
n. 231 del 2002); di talché si condivide l’opinione di chi ritie‑
ne auspicabile un intervento chiarificatore da parte del legi‑
slatore, che provveda all’inequivoca definizione della latitu‑
dine operativa del decreto de quo51. Sul punto deve richiamar‑
si, tuttavia, l’orientamento interpretativo espresso dal Mini‑
stero dello sviluppo economico con la circolare prot. n. 1293
del 23 gennaio 2013, che, proprio valorizzando la portata
precettiva del citato considerando n. 11 della direttiva 2011/7/
UE ed argomentando che nell’accezione comunitaria i lavori
rientrano in senso lato nel concetto di servizi, perviene alla
conclusione dell’applicabilità delle norme del novellato d.lgs.
n. 231 del 2002 anche agli appalti di lavori. Da ciò discende,
secondo la richiamata circolare ministeriale, che nel contrasto
fra le previsioni del d.lgs. n. 231 del 2002 e quelle dettate dal
codice degli appalti (d. lgs. n. 163 del 2006) e dal relativo
Regolamento d’Attuazione (DPR n. 207 del 2010) in materia
di lavori pubblici, debba essere assicurata, tendenzialmente,
la prevalenza delle disposizioni generali in tema di ritardati
pagamenti di matrice sovranazionale (ossia quelle poste dal
d.lgs. n. 231 del 2002) su quelle regolamentazioni nazionali
di settore con essa eventualmente confliggenti, fatta salva
l’ipotesi che queste ultime prevedano, in riferimento ai termi‑
ni di pagamento ed alla misura degli interessi moratori, un
trattamento di maggior favore per il creditore. Ciò anche alla
luce di quanto statuito dal novellato art. 11, co. 2, d.lgs. n. 231
del 2002, che fa espressamente “salve le vigenti disposizioni
del codice civile e delle leggi speciali che contengono una di‑
sciplina più favorevole per il creditore”52.
50 Cfr. Atelli, Contratti della Pubblica Amministrazione e normativa in materia
di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (d.lgs. 231/2002): brevi
note su tre aspetti sensibili nella prospettiva amministrativo‑contabile, cit., ove
si afferma che in base al principio della prevalenza economica, fatto proprio da
Cons. Stato, sez. VI, n. 3847/2002 sulla scorta del dato legislativo, siano appli‑
cabili ai contratti di appalto di natura mista o che includano lavori accessori,
in cui il rilievo economico dei lavori superi il 50%, le norme della cd. legge
Merloni (l. n. 109 del 1994 e ss.mm.), legge quadro in materia di lavori pub‑
blici. Tuttavia l’a. segnala come il d.lgs. n. 231 del 2002 non sia sic et simplici‑
ter applicabile in queste ipotesi, poiché il parametro della prevalenza economi‑
ca dei lavori va contemperato con l’altro della esclusività o quanto meno pre‑
valenza della consegna di merci o prestazione di servizi quale oggetto del con‑
tratto commerciale.
51 Così Gnes, op. cit., p. 121.
52 La previsione che fissa il tasso di interesse legale, stabilito dal d.lgs. n. 231 del
2002 e ss.mm., è norma imperativa avuto riguardo alle transazioni commer‑
ciali in cui è parte la p.a., attesa l’impossibilità di modificare tale saggio in
senso peggiorativo per il creditore, con automatica sostituzione dei tassi infe‑
2 0 1 3
17
4. Gli interessi moratori ed il risarcimento del danno.
Il principale strumento, di dissuasione prima ancora che
di repressione, attraverso cui il d.lgs. n. 231 del 2002 ha cer‑
cato, e cerca, di sostanziare la propria volontà di contrasto al
ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali, è la
previsione di interessi moratori, il cui tasso è fissato ex lege,
salvo diverso accordo fra le parti, in misura sensibilmente più
alta rispetto a quella prevista dall’art. 1284 c.c.
Gli interessi moratori, inoltre, decorrono automatica‑
mente, senza necessità di costituzione in mora, alla scadenza
dei termini normativamente o contrattualmente previsti, con
finalità evidentemente sanzionatorie e, per certi versi, deter‑
renti, volendo persuadere ad astenersi dal tenere comporta‑
menti dilatori. Altrettanto afflittiva, tanto da sembrar tra‑
valicare la tipica funzione compensativa della mora deben‑
di 53, è la misura degli interessi moratori prevista già dalla
prima direttiva comunitaria 2000/35/CE e recepita dal d.lgs.
n. 231 del 2002, sì da far parlare, sin da subito, taluna dot‑
trina, soprattutto tedesca 54, di una presumibile migrazione
nel nostro ordinamento dei punitive damages angloamerica‑
ni. Pur nelle innovazioni di misura introdotte dal d.lgs.
n. 192 del 2012, la determinazione concreta del tasso d’in‑
teresse risulta, ex art. 5, co. 1, d.lgs. n. 231 del 2002, dalla
combinazione di elementi fissi e variabili55. In effetti, le di‑
riori eventualmente previsti dalle discipline di settore previgenti, ivi incluso
quello ex art. 144, d.P.R. n. 207 del 2010 relativo agli appalti di lavori pubbli‑
ci. Sul tema, cfr. Pandolfini, Le modifiche alla disciplina sui ritardi di paga‑
mento nelle transazioni commerciali. Commento al d.lgs. 9 novembre 2012,
n. 192, cit., p. 387.
53 Visintini, Inadempimento e mora del debitore, in Aa.Vv., Diritto civile, III,
1, Il rapporto obbligatorio, diretto da Lipari e Rescigno e coordinato da Zop‑
2
pini, Milano, 2009, p. 645 ss.; Id., Inadempimento e mora del debitore , in
Comm. c. c., diretto Schlesinger, Milano, 2006, passim; Cian, voce Pagamento,
in Dig. disc. priv. sez. civ., XIII, Torino, 1995, p. 234 ss.; G. Romano, Interes‑
si del debitore e adempimento, cit., p. 188 ss.; Mengoni, La direttiva 2000/35/
CE in tema di mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, cit., p. 74 ss.
54 Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili compa‑
ratistici, cit., p. 25 ss. Sul tema in generale delle pene private, si v. amplius Be‑
natti, Correggere e punire dalla law of torts all’inadempimento del contratto,
Milano, 2008, passim; Baratella, Le pene private, Milano, 2006, p. 2011 ss.;
Patti, voce Pena privata, in Dig. disc. priv. sez. civ., XIII, Torino, 2006, p. 351;
D’Acri, I danni punitivi. Dal caso Philip Morris alle sentenze italiane: i risar‑
cimenti concessi dai tribunali contro le aziende ed i soggetti che adottano
comportamenti illeciti, Roma, 2005, p. 47 ss.; Pardolesi, Rimedi all’inadem‑
pimento contrattuale: Un ruolo per il disgorgement?, in Riv. dir. civ., 2003, I,
p. 717; Urso, I punitive damages fra regole, standards e principi: una inedita
vocazione pubblica di un antico strumento privatistico?, in Dir. pubb. comp. eu.,
2001, p. 2011 e ss.; Ponzanelli, I punitive damages nell’esperienza nordame‑
ricana, in Riv. dir. civ., 1983, I, p. 436; Id, I punitive damages, il caso Texano
e il diritto italiano, ivi, 1983, I, p. 435. Id., Responsabilità da prodotto da fumo:
il “grande freddo” dei danni punitivi, in Riv. dir. civ., 2000, IV, p. 450; M.S.
Romano, Danni punitivi ed eccesso di deterrenza: gli incerti argini costituzio‑
nali, in Foro it., 1990, IV, c. 174; Zeno Zencovich, Il problema della pena
privata nell’ordinamento italiano: un approccio comparatistico ai “punitive
damages” di “common law”, in Giur. it.,1985, IV, c. 12.
55 La parte variabile si determina assumendo come riferimento il tasso pari a
quello del principale strumento di finanziamento della Banca centrale europea,
applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale effettua‑
ta il primo giorno del semestre di riferimento; mentre la parte fissa consiste
nell’applicazione, rispetto al tasso base, di una maggiorazione (pari a sette
punti percentuali nella prima versione del d.lgs. n. 231 del 2002 applicabile ai
contratti stipulati entro il 31 dicembre 2012, poi aumentata ad otto punti
percentuali per i contratti sorti successivamente). Il decreto in esame prevede
inoltre che il saggio di interesse legale sopra individuato, al netto della maggio‑
razione dei punti percentuali, venga comunicato dal Ministero dell’economia e
delle finanze e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale nel quinto giorno lavorativo
di ciascun semestre. Al riguardo cfr. Pandolfini, Il nuovo tasso di interesse
legale per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Giur. it., 2003,
1.2, c. 2414 ss. Si ritiene opportuno precisare, peraltro, onde evitare l’ingene‑
rarsi di fastidiose confusioni, che in ogni caso l’applicazione degli interessi
civile
Gazzetta
18
D i r itto
e
p r o c e du r a
rettive europee che si sono succedute in materia non celano
la volontà persecutoria con finalità disincentivanti della ri‑
cordata previsione. Atteso che, se il debitore (imprenditore
o P.A.), attraverso un semplice calcolo aritmetico, scopre
essere più conveniente temporeggiare nell’esecuzione della
propria prestazione, trattenere e quindi sfruttare la liquidità
così a disposizione reinvestendola in altra attività più reddi‑
tizia e tale da consentirgli di coprire anche i costi degli inte‑
ressi moratori intanto maturati sul suo debito, riuscendo a
ricavarne anche un utile, opterà giocoforza per questa solu‑
zione. Difatti, l’alternativa sarebbe perdere un po’ meno in
termini di interessi da corrispondere ma enormemente di più
in termini di perdita di chances, rinunciando all’opportuni‑
tà dei guadagni derivanti dall’impiego dell’intera somma
dovuta (e non ancora corrisposta) in altra operazione più
remunerativa.
Una tale concezione degli interessi moratori è certamen‑
te estranea al nostro bagaglio culturale, lontana dalla fina‑
lità compensativa ad essi attribuita dal codice civile italia‑
no, pur tuttavia è esattamente questa manovra che il legi‑
slatore, calandosi nelle logiche del mercato, ha voluto
scongiurare e disincentivare mercé la previsione di tassi
elevati 56. Nondimeno, la previsione di un ruolo deterrente,
che si affiancherebbe a quello remunerativo della misura
del saggio di interesse, rispetto a comportamenti contra
legem, non può spingere fino ad assimilare la soluzione di
cui all’art. 5, d.lgs. n. 231 del 2002 a quella sorta di stru‑
mento di giustizia sociale rappresentato dalla condanna al
pagamento di danni esemplari dei sistemi di common law57;
il cui valore punitivo emerge con ancor maggiore chiarezza
moratori era, ed è, subordinata, ex art. 3, d.lgs. n. 231 del 2002, alla mancata
dimostrazione da parte del debitore che il ritardo nel pagamento del prezzo sia
stato determinato dall'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui
non imputabile. Al riguardo, cfr. Pandolfini, I ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali dopo il D.Lgs. 9 novembre 2012, cit., p. 49 ss., per il
quale la norma richiamata farebbe riferimento ad una impossibilità di tipo
oggettivo e non soggettivo, da intendersi dunque riferita all’intera categoria
debitoria e non al singolo debitore.
56 Né può negarsi che il mondo stia andando nella direzione di una dimensione
più fattuale del diritto, più aderente alla realtà dei traffici globali. D’altro
canto, come ci spiega la macroeconomia neoclassica, proprio questo calcolo di
convenienza guida lo spirito imprenditoriale sì da orientarlo, tra più investi‑
menti possibili, verso quegli affari che si mostrano più appetibili, presentando
un valore di efficienza marginale del capitale più alto rispetto al livello del
tasso d’interesse corrente (in parole semplici, da cui si attendono rendimenti
futuri più elevati dei costi sostenuti per l’investimento iniziale). Per contro, sa‑
ranno indotti a rinunciare a quei progetti di investimento che, proprio in ragione
di un elevato tasso di interesse, prospettano un’attività infruttuosa se non ad‑
dirittura in perdita (dal momento che i costi supererebbero i profitti realiz‑
zabili). Un diverso impiego del danaro, rispetto al puntuale adempimento della
propria obbligazione, sarà dunque la scelta che tutti i debitori‑investitori sara‑
nno portati a fare se il rendimento della nuova operazione risulterà superiore
al costo da sopportare per il tardivo adempimento. Ecco perché il legislatore
comunitario prima, e nazionale poi, hanno inteso aumentare tale costo, preve‑
dendo un tasso degli interessi moratori particolarmente alto per non rendere
allettante la descritta opzione. Cfr. D’acunto, Lezioni di Macroeconomia,
Torino, 2010, p. 27 ss.
57 Ad alzare un muro al tentativo insistente di sdoganare in Italia i punitive da‑
mages ci ha pensato la Suprema Corte di Cassazione, ricordando come la re‑
sponsabilità civile, da noi, non rappresenta una misura afflittiva, ma è diretta
esclusivamente al ristoro del danno arrecato, con ripristino dello status quo
ante, e pertanto non può superare il valore di questo, se non passando per la
violazione dell’ordine pubblico. Cfr. Cass., 19 gennaio 2007, n. 1183, in Corr.
giur., 2007, p. 498, con nota di Fava, Punitive Damages e ordine pubblico: la
Cassazione blocca lo sbarco; in Danno e resp., 2007, p. 1125 ss. con nota di
Pardolesi, Danni punitivi all’indice?; in Nuova giur. civ. comm., 2007, I,
p. 981, con nota di Oliari, I danni punitivi bussano alla porta: la Cassazione
non apre.
c i v il e
Gazzetta
F O R E N S E
e dirompenza, allorché la condotta da censurare sarebbe
andata incontro, seguendo la via tradizionale, ad una san‑
zione irrisoria 58.
In ordine alla decorrenza degli interessi moratori, si
evidenzia come l’art. 4, d.lgs. n. 231 del 2002, nella formu‑
lazione originaria, prevedesse ‑e prevede ancora, è bene ri‑
cordare, per i contratti stipulati fino al 31 dicembre 2012‑ la
possibilità per le parti contrattuali di stabilire liberamente
(con i limiti, tuttavia, posti dall’art. 7, co. 1, d.lgs. n. 231
del 2002, di cui si dirà in appresso) un termine per l’adem‑
pimento, disponendo poi che decorso tale termine, maturas‑
sero automaticamente ‑senza, lo si ribadisce, necessità di
costituzione in mora‑ gli interessi moratori nella misura di
legge 59. In via residuale, qualora le parti non avessero prov‑
veduto ad una autonoma determinazione del termine per
l’adempimento, l’art. 4, co. 2, d.lgs. n. 231 del 2002 indivi‑
duava tre distinti momenti iniziali per la decorrenza (sempre
automatica) del termine legale di trenta giorni, tra loro al‑
ternativi, a seconda di quello più favorevole al debitore (e,
quindi, più in là nel tempo) tra la data di prestazione del
servizio o la consegna del bene, l’epoca di ricevimento della
fattura o di analogo documento e, infine, se previsti e suc‑
cessivi ai primi due, il tempo dell’accettazione o della veri‑
fica di conformità, sempre che ciascuno di questi momenti
fosse databile con certezza. Sebbene il d.lgs. n. 192 del 2012
abbia provveduto alla sostanziale riscrittura dell’art. 4, il
co. 2 qui in rilievo, che disciplina il dies a quo del termine
di trenta giorni, a partire dal quale decorrono gli interessi
moratori (fatto salvo il disposto dell’art. 3), sopravvive in‑
variato, con qualche precisazione di merito (come l’irrile‑
vanza delle richieste di integrazione o modifica formali
della fattura, ai fini della decorrenza del termine di 30 gior‑
ni per gli interessi di mora).
Elemento di assoluta novità, che deriva dalla disciplina
comunitaria qui in rilievo, rispetto all’impostazione che con‑
notava l’ordinamento interno prima di tali interventi60, come
già anticipato, è l’inutilità di costituire formalmente in mora
la p.a., da sempre sottoposta ad un regime derogatorio quan‑
to al luogo dell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie
(pur trattandosi di obbligazioni portabili per definizione),
rispetto alle regole dettate dall’art. 1182 c.c., che ne prescrive
il pagamento al domicilio del creditore. Dalle richiamate co‑
ordinate di pensiero, prassi giurisprudenziale consolidata
aveva tratto la conclusione che la responsabilità da ritardo
della p.a. sorgesse solo in seguito all’attivazione, mediante
intimazione scritta, del meccanismo ex art. 1219, co.1, c.c.,
58 Cfr. Patti, voce Pena privata, cit., p. 351.
59 La richiamata previsione presentava caratteri di innovatività, non già con
riferimento ai contratti tra parti private, per i quali da tempo trovava applica‑
zione una statuizione sostanzialmente identica, quella di cui all’art. 1219, co.
2, n. 3, c.c., bensì per i contratti con la p.a., relativamente ai quali occorreva,
in precedenza, un atto scritto di costituzione in mora. Come è stato opportu‑
namente osservato, l’applicazione di tale previsione alle transazioni commer‑
ciali in cui è parte la p.a., configurando la responsabilità dell’amministrazione
allo scadere del termine di adempimento delle proprie obbligazioni pecuniarie,
risolve il problema della imputabilità del ritardo contabile. Cfr. Pandolfini, I
ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali dopo il D.Lgs. 9 novembre
2012, cit., p. 54; Id., La disciplina degli interessi pecuniari, Padova, 2004,
passim; Memmo, op. cit., p. 118.
60 Cfr. Cass., 21 febbraio 2001, n. 2478, in Giust. civ. mass., 2001, p. 283; in
Mass. giur. it., 2001; Id., 15 febbraio 2000, n. 1692, ivi, 2000; Id., sez. un., 28
ottobre 1995, n. 11312, ivi, 1995.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
chiedendosi, proprio per la natura peculiare del soggetto de‑
bitore, che il creditore si adoperasse per l’adempimento, ap‑
punto domandandolo al debitore61.
Senza indugiare sul punto ‑anche perché la brevità delle
presenti riflessioni non lo consentirebbe‑ risulta evidente che
la citata previsione, quasi come una sorta di contrappeso ri‑
spetto all’atteggiamento fortemente repressivo del fenomeno
dell’ingiustificato ritardo nei pagamenti, finisca con l’addos‑
sare un onere di diligenza al creditore, posto che questi dovrà
preoccuparsi di assicurare, ad esempio, l’inoltro della fattura
o della richiesta equivalente di pagamento, con modalità atte
a comprovarne in modo certo la data di ricezione da parte del
debitore, poiché è solo da tale momento che inizia a decorre‑
re il termine per l’applicazione degli interessi moratori (ana‑
logo discorso, mutatis mutandis, potrebbe svilupparsi per la
consegna delle merci o per la prestazione dei servizi).
Nella versione valida per i contratti stipulati prima del
2013, restava, in ogni caso, salvo il diritto del creditore a ri‑
cevere il risarcimento ‑che si configura, dunque, come aggiun‑
tivo‑ del maggior danno eventualmente subito, ai sensi e per
gli effetti dell’art. 1224, co. 2, c.c. nonché, conformemente ai
principi generali, il rimborso delle spese sostenute per il recu‑
pero del proprio credito, secondo il preciso dettato normativo
dell’art. 6, co. 1, d.lgs. n. 231 del 2002. In realtà, rispetto
alla formulazione del provvedimento comunitario di riferi‑
mento, il d.lgs. n. 231 del 2002 appariva più favorevole al
debitore. Infatti, il provvedimento nazionale faceva rientrare
la sopportazione dei costi di recupero sostenuti dal creditore
nell’area di imputabilità del ritardo al debitore, sicché con la
prova contraria questi poteva liberarsene; laddove, al contra‑
rio, dalla lettura dell’art. 3, co. 1, lett. d), direttiva 2000/35/
CE, risulta chiaramente che il rimborso delle spese affrontate
per recuperare il proprio credito, dovessero essere, in ogni
caso, a carico del debitore ritardatario, indipendentemente
dalla sua condotta. Ciò è tanto vero che, in sede di recepimen‑
to della direttiva 2011/7/UE, si è pensato di apportare un
emendamento anche alla norma in questione, sancendo il
diritto del creditore ad ottenere in ogni caso i costi sopporta‑
ti per il recupero, benché da essi esorbiti la parte più consi‑
stente delle spese, cioè quelle di assistenza per il recupero del
credito, che al contrario ritornano sotto il mantello dell’im‑
putabilità, sicché saranno accollate al debitore solo se respon‑
sabile del ritardo62.
Evitando di ripercorrere in questa sede le tappe della tor‑
mentata esistenza del danno non patrimoniale nel sistema
civilistico interno, vale la pena rammentare come l’art. 2059
61 La previsione della possibilità per il debitore di sottrarsi alla corresponsione
degli interessi moratori attraverso la prova dell’assenza di propria colpa nel
ritardo, ha riproposto il tradizionale dibattito circa la natura oggettiva o sog‑
gettiva della responsabilità, per il quale si rinvia, ex plurimis, a Mazzarese,
voce Mora del debitore, cit., p. 443 ss.; Natoli – Bigliazzi Geri, Mora acci‑
piendi e mora debendi, cit., p. 245.
62 Appare oltremodo utile mettere a confronto le rispettive formulazioni. Mentre,
infatti, l’art.6, co. 1, d.lgs. n. 231 del 2002, nell’originaria formulazione, rubri‑
cata “Risarcimento dei costi di recupero”, sancisce il diritto del creditore “al
risarcimento dei costi sostenuti…” “…ove il debitore non dimostri che il ritar‑
do non sia a lui imputabile.”; il dettato dell’art. 3, co. 1, lett. e), direttiva
2000/35/CE, aveva tutt’altro tenore, volendo salvaguardare solo il diritto al
maggior danno attraverso l’incidentale “a meno che il debitore non sia respon‑
sabile del ritardo”, fermo restando il diritto al risarcimento di tutti i costi di
recupero sostenuti.
2 0 1 3
19
c.c., che del suo lungo peregrinare ne rappresenta il faro, sia
significativamente collocato, da un punto di vista sistematico,
nell’ambito del fatto illecito; ed anzi, sia norma di chiusura
del IX del libro IV del Codice civile, rubricato “Dei fatti ille‑
citi”. ’altro canto, del suo incedere sicuro nell’ambito delle
violazioni contrattuali c’è altrettanta certezza, ovviamente nel
solco tracciato dall’interpretazione giurisdizionale e sempre
entro i limiti posti dall’art. 2059 c.c.63. Ma si è ben lontani dal
modello anglosassone ‑cui pure sotto quest’aspetto sembra
voler sospingere il diritto comunitario64‑ che accorda integra‑
le ristoro all’inadempimento contrattuale, anche sul versante
del danno non patrimoniale 65. Né l’apertura delle Sezioni
Unite giunge a tanto, allorché aggancia la riparazione del
danno non patrimoniale alla lesione di un diritto costituzio‑
nalmente garantito66, direttamente o per il tramite della clau‑
sola d’apertura di cui all’art. 2 Cost.
Unico dato evidente, se ci si allontana dall’hortus conclu‑
sus casa propria, è che le imprese ed i liberi professionisti che
oggi si trovano ad operare in uno spazio, reale o virtuale che
sia, ben più ampio del perimetro dello Stivale, intanto vedono
assicurata realmente la concorrenza, potendo così essere
competitivi sul mercato, se vengono rimossi tutti gli ostacoli,
anche normativi, che impediscono alle imprese di operare
alle stesse condizioni, imponendo oneri ulteriori solo ad alcu‑
ne. L’imprenditore o professionista italiano, che operi in Italia
ed abbia intenzione di continuare a mantenere ivi la propria
attività, non può subire oltre alle incognite legate al rischio
d’impresa, anche il fardello di una non totale riparazione del
danno rispetto ai colleghi che invece hanno sede ed attività
altrove. Senza considerare poi l’ulteriore discriminazione
connessa ai tempi della giustizia per ottenere ristoro. Tutto
ciò crea problemi di liquidità alle imprese europee, che po‑
63 Sul danno non patrimoniale e sul suo riconoscimento in ambito contrattuale,
ex multis, si v. Patti, Le Sezioni Unite e la parabola del danno esistenziale, in
Corr. giur., 2009, p. 415 ss.; Poletti, La dualità del sistema risarcitorio e
l’unicità della categoria dei danni non patrimoniali, in Resp. civ. prev., 2009,
p. 76 ss.; Ponzanelli, Riparazione integrale del danno senza il danno esisten‑
ziale, in Aa.Vv., Danno non patrimoniale, Milano, 2009, p. 331 ss.; Savorani,
Il danno non patrimoniale da inadempimento, in Trattato resp. contr., diretto
da Visintini, III, Padova, 2009, p. 261 ss.; Tomarchio, Il danno non patrimo‑
niale da inadempimento, Napoli, 2009, p. 113; Scognamiglio, Il sistema del
danno non patrimoniale dopo le decisioni delle Sezioni Unite, in Resp. civ. prev.,
2009, p. 270 ss.; Ziviz, Il danno non patrimoniale: istruzioni per l’uso, in
Resp. civ. prev., 2009, p. 94 ss.; Tescione, Il danno non patrimoniale da con‑
tratto, Napoli, 2008, passim.
64 Per vero anche il diritto internazionale. Basti pensare all’art. 7.4.2 dei Principi
per i contratti commerciali internazionali dell’Unidroit, per il cui approfondi‑
mento cfr. Marrella, La nuova lex mercatoria. Princípi Unidroit ed usi dei
contratti del commercio internazionale, in Tratt. dir. comm. e dir. pubb. econ.,
diretto da Galgano, XXX, Padova, 2003, passim; Alpa, Prime note di raffron‑
to tra i princípi dell’Unidroit e il sistema contrattuale italiano, in Contr. e impr.
Eur., 1996, p. 327.
65 Anche ordinamenti dell’Europa continentale, e dunque di tradizione civil law,
lo ammettono, essendo previsto ad esempio anche in Francia.
66 Cfr. Cass., sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975, in
Corr. giur., 2009, p. 48 ss., con commento di Franzoni, Il danno non patri‑
moniale del diritto vivente; in Giur. it., 2009, cc. 61‑72, con commento di
Cassano, Danno non patrimoniale ed esistenziale: primissime note critiche a
Cassazione civile, Sezioni unite, 11 novembre 2008, n. 26972, ivi, pp. 259‑261,
con commento di Tomarchio, L’unitarietà del danno non patrimoniale nella
prospettiva delle Sezioni Unite, ivi, pp. 318‑325; in Foro it., 2009, I, p. 120 ss.
con commento di Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e
la complessità dei danni non patrimoniali e di Palmieri, La rifondazione del
danno non patrimoniale, all’insegna della tipicità dell’interesse leso (con qualche
attenuazione) e dell’unitarietà, e di Pardolesi‑ Simone, Danno esistenziale (e
sistema fragile): “die hard”, e di Ponzanelli, Sezioni unite: il “nuovo statuto”
del danno non patrimoniale.
civile
Gazzetta
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D i r itto
e
p r o c e du r a
tranno assistere ad una discrepanza considerevole nel quan‑
tumdella liquidazione del danno, sempre ammesso che venga
loro riconosciuto l’andel risarcimento, a seconda che siano
soggette al diritto italiano o tedesco o, piuttosto, a quello
anglosassone o francese, con conseguente e grave nocumento
anche per l’immagine del Paese che, in un circolo vizioso, fi‑
nisce così per perdere d’attrazione per gli investitori.
5. I limiti posti all’autonomia negoziale nelle transazioni com‑
merciali.
In relazione a quanto sopra esposto, giova evidenziare
come il d.lgs. n. 231 del 2002, nella formulazione iniziale,
prevedesse, come già accennato, ai sensi del combinato dispo‑
sto degli artt. 5, co. 1, e 7, co. 1, la possibilità per le parti
contraenti di derogare alla disciplina legale, sia per quel che
concerne la misura degli interessi moratori, sia per quel che
riguarda il termine per l’adempimento. Risulta del tutto evi‑
dente che tale possibilità fosse soggetta, e non poteva essere
diversamente, a penetranti limiti esterni, posto che altrimen‑
ti sarebbe venuta meno la stessa ratio sottesa all’emanazione
del decreto legislativo in commento. Difatti, qualora si fosse
accolto un modello che pur prevedendo limiti di legge avesse
consentito alle parti di derogarvi ad libitum, si sarebbe inevi‑
tabilmente assistito al perpetuarsi di relazioni contrattuali
connotate da oggettivo squilibrio, giacché condizionate, oltre
la misura fisiologicamente accettabile, dai reciproci rapporti
di forza67.
Per i contratti commerciali stipulati a far data dal genna‑
io 2013 sopravvive, nella nuova formulazione, la possibilità
di stabilire, convenzionalmente, termini di pagamento diver‑
si e più lunghi rispetto a quelli normativamente previsti,
operandosi tuttavia una differenziazione fra i contratti stipu‑
lati fra soggetti privati e quelli di cui è parte una.a. Nel primo
caso, infatti, trova applicazione il co. 3 del citato art. 4, d.lgs.
n. 231 del 2002, a tenore del quale le parti sono libere di ac‑
cordarsi per tempi di adempimento superiori ai trenta giorni
legalmente statuiti e, finanche, con le dovute cautele, superio‑
ri a sessanta giorni; possibilità, quest’ultima, del tutto esclusa
nel caso di contratti conclusi con la.a., dalla cui disponibilità
è sottratta una così ampia sfera di autonomia negoziale. Di‑
fatti, ai sensi del successivo co. 4, la facoltà di stabilire, per
iscritto ed in modo espresso, un termine di pagamento supe‑
riore ai trenta giorni è condizionata alla sussistenza di pre‑
supposti giustificativi individuati nella natura e nell’oggetto
del contratto o nelle circostanze esistenti al momento della
sua conclusione, fermo restando, in ogni caso, il limite dei
sessanta giorni, termine che non può essere oltrepassato 68.
Peraltro, l’art. 4, co. 5, d.lgs. n. 231 del 2002, disciplina due
ipotesi in cui i termini di cui al co. 2 sono raddoppiati e, dun‑
que, risultano fissati ex lege in sessanta giorni. Appare, orbe‑
ne, evidente, il trattamento deteriore riservato, sul punto,
alle pp.aa., che costituisce una chiara reazione a comporta‑
67 Sui limiti all’autonomia negoziale, si rinvia a F. Bocchini, Limitazioni conven‑
zionali del potere di disposizione, Napoli, 1977, passim.
68 Peraltro il co. 5 dell’art. 4, d.lgs. n. 231 del 2002, disciplina due ipotesi relative
alle pp.aa. in cui i termini previsti al co. 2 sono raddoppiati, e dunque risultano
fissati ex lege in sessanta giorni. Si precisa, inoltre, che parrebbe potersi appli‑
care anche ai contratti stipulati dalle pp.aa. la disposizione di cui al successivo
co. 6.
c i v il e
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menti non coerenti rispetto alla lettera ed allo spirito del d.
lgs. n. 231 del 2002, che si erano tradotti in una sorta di
abuso di posizione dominante da parte dei pubblici poteri69.
L’atteggiamento limitativo verso le pp.aa.70 trova ulteriore
corollario nell’impossibilità per le stesse di concordare inte‑
ressi moratori in misura differente rispetto a quella normati‑
vamente determinata che, peraltro – lo si rileva per inciso – è
stata anche incrementata mediante la maggiorazione, ex
art. 2, co. 1, lett. e), d.lgs. n. 231 del 2002 (come novellato
dal d.lgs. n. 192 del 2012) da sette ad otto punti percentuali71.
Nondimeno, l’incremento di un punto percentuale della par‑
te fissa del tasso di interesse se, per un verso, dà conto della
funzione deterrente che si è voluto attribuire alla previsione
dell’irrogazione degli interessi moratori di cui al d.lgs. n. 231
del 2002, per altro verso, però, è sintomatico della volontà di
non esacerbare la condizione già critica delle pp.aa. con one‑
ri finanziari eccessivi. Il legislatore ha, difatti, optato per il
rialzo minore che potesse apportare in sede di recepimento
della direttiva 2011/7/UE72.
Nella prospettiva considerata, particolarmente significa‑
69 Sul punto, cfr. Colangelo, L’abuso di dipendenza economica, Torino, 2004,
passim; Natoli, L’abuso di dipendenza economica, Napoli, 2004, passim;
Maffeis, Abuso di dipendenza economica e grave iniquità dell’accordo sui
termini di pagamento, cit., p. 623 ss. Giova evidenziare, inoltre, come la nuova
formulazione dell’art. 4 presenti riflessi significativi su quegli orientamenti,
anche della magistratura contabile, cfr. Corte conti, sez. riun. controllo, 12
aprile 2010, n. 9, che addirittura, nell’esercizio della funzione consultiva, arri‑
vavano a suggerire alle pp.aa., con riferimento alle procedure di evidenza
pubblica da aggiudicarsi mediante il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, ex art. 83, d.lgs. n. 163 del 2006, di attribuire, stante la natura
meramente esemplificativa dei parametri individuati nella richiamata disposi‑
zione, un maggior punteggio all’aspirante aggiudicatario che “offrisse” termini
di pagamento più dilatati e tassi d’interesse più bassi rispetto a quelli previsti
dal d.lgs. n. 231 del 2002. In tal modo, infatti, “le suddette condizioni non
sarebbero imposte unilateralmente ma negoziate con l’impresa aggiudicataria”,
e dunque non sarebbero censurabili, riuscendo le amministrazioni committen‑
ti, “attraverso tali accorgimenti”, ad evitare i termini di pagamento particolar‑
mente brevi previsti per legge. In relazione a quel che precede non può non ri‑
levarsi la differente posizione assunta dal massimo rango della giustizia ammi‑
nistrativa che, con sent. 10 febbraio 2010, n. 469, resa dalla Sez. IV, sottoline‑
ando la natura imperativa delle disposizioni del d.lgs. n. 231 del 2002, ha rite‑
nuto con essa inconciliabile la prescrizione, all’interno di un bando di gara, di
clausole in contrasto con tali previsioni. Sulla ricordata pronuncia, che persegue
il chiaro intento di addivenire ad un riequilibrio delle posizioni dei soggetti
stipulanti nell’ambito dei contratti pubblici, si veda Lombardi, Nulle le clau‑
sole della lex specialis derogatorie del D.Lgs. 231/2002 – Il commento, in Urb.
appalti, 6, 2010. In senso parzialmente difforme si veda TAR Piemonte, Torino,
sez. I, sent. n. 2346 del 5 maggio 2010, con nota di Baldanza, Legittima, se
equa, la negoziazione su termini di pagamento e interessi, in Dir. e prat. amm.,
2010, 7‑8, p. 58.
70 Come rileva Viriglio, La direttiva europea contro i ritardi nei pagamenti:
un’attuazione al minimo, in www.centroeinaudi.it, “In tal modo si rafforza
l’idea di un’imperatività delle norme sui pagamenti per le p.a. (già ricono‑
sciuta dalla giurisprudenza: Cons. Stato, sez. V, 1 aprile 2010, n. 1885), si
esclude definitivamente la deroga consensuale (pure ammessa da quella
stessa giurisprudenza, che vietava unicamente la deroga «unilaterale e auto‑
ritativa» da parte della p.a.), infine si limita – forse escludendola – la possi‑
bilità “intermedia” di prevedere nei bandi di gara l’eventuale contrattazione
e i relativi criteri (anch’essa riconosciuta dal giudice amministrativo, ma non
si sa quanto praticata: Cons. Stato, sez. V, 21 marzo 2011, n. 1728)”.
71 Relativamente agli interessi moratori quale strumento per il risarcimento del
danno cfr. Inzitari, voce Interessi, in Dig. disc. priv. sez. civ., IX, Torino, 1995,
p. 569; Grondona, Introduzione: dalla direttiva n. 2000/35/Ce al d.lgs. 9
ottobre 2002, n. 231, cit., p. 55, per il quale il tasso contemplato dalla direttiva
avrebbe una evidente funzione “compulsiva‑sanzionatoria”; Conti, Il d. lgs.
n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle tran‑
sazioni commerciali, cit., p. 211, ad opinione del quale la funzione del tasso di
interessi non è esclusivamente ripristinatoria ma anche punitiva.
72 Cfr. Pandolfini, Le modifiche alla disciplina sui ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali. Commento al d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, cit.,
p. 386.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
tiva appare la riscrittura dell’art. 7, d.lgs. n. 231 del 2002,
previsione apparsa, sin da subito, di peculiare rilievo. Difatti
la norma sanziona con la nullità l’accordo sulla data del pa‑
gamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento qualo‑
ra, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla na‑
tura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla con‑
dizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i mede‑
simi, nonché ad ogni altra circostanza, esso risulti gravemen‑
te iniquo in danno del creditore73. Nella prima stesura ‑valida
ancora per i contratti antecedenti il 2013‑ ai sensi dell’art. 7,
co. 3, della disciplina in esame, il giudice, una volta accertata
la grave iniquità dell’accordo, aveva la facoltà, in alternativa
alla sostituzione della clausola nulla con le previsioni legali
fissate dal decreto in questione, di “ricondurre ad equità il
contenuto dell’accordo”, tenendo in considerazione, tra l’altro,
l’interesse creditorio e la prassi commerciale74. Risulta del
tutto evidente come ci si trovi di fronte ad una previsione
normativa di derivazione comunitaria che, in nome della
salvaguardia di interessi di rilievo sopranazionale (ossia il
buon funzionamento del mercato interno), consente al giudi‑
ce ordinario di operare un significativo controllo sull’esplica‑
zione dell’autonomia negoziale delle parti, attingendo ai cri‑
teri di equità e di proporzionalità, che può tradursi finanche
in una dichiarazione di invalidità della clausola pattizia, re‑
lativamente ai contratti conclusi entro il 201275.
Il legislatore, con ogni evidenza, accedeva ad una nozione
di grave iniquità di tale ampiezza da sfociare quasi nell’inde‑
terminatezza, di talché risultava necessario circoscrivere la
concreta portata applicativa, mediante il riferimento ad ele‑
menti testuali, onde evitare di rimettere l’accertamento
dell’iniquità o meno della clausola derogatoria alla valutazio‑
ne, più che discrezionale, addirittura arbitraria (stante l’asso‑
luta libertà del suo operare e l’assenza di qualsivoglia vincolo),
73 Sulla opportunità del rimedio della nullità e sul confronto dottrinale intorno
alla natura assoluta o relativa della nullità di cui al d.lgs. n. 231 del 2002, v.
amplius Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione del contratto,
Padova, 2004, passim; Grasso, La disciplina dell’invalidità nei principi di di‑
ritto europeo dei contratti, Napoli, 2005, p. 239; P. Stanzione, Manuale di
diritto privato, Torino, 2006, p. 273 ss.; Pandolfini, La nullità degli accordi
“gravemente iniqui” nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2003, 5, p. 501
ss. Con specifico riguardo alle previsioni della disciplina in esame, propende
per la nullità assoluta E. Minervini, La nullità per grave iniquità dell’accordo
sulla data del pagamento o sulla conseguenza del ritardato pagamento, in
Studi in onore di C.M. Bianca, Milano, 2006, p. 198 e Pandolfini, La nuova
normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 57 ss.;
contra La Spina, La nullità relativa degli accordi in tema di ritardi di paga‑
mento nelle transazioni commerciali, in Rass. dir. civ., 2003, 1‑2, p. 117 ss. Si
v. anche Zaccaria, La direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi
di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 270; Conti, La direttiva
2000/35 sui ritardati pagamenti e la legge comunitaria 2001 di delega al gov‑
erno per la sua attuazione, cit., p. 811; Moliterni, op. cit., p. 58; Fauceglia,
Direttiva 2000/35/CE in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali, cit., p. 312; Gentile, Rimosso finalmente un divieto
anacronistico: procedimento monitorio anche fuori dai confini, in Guida dir.,
2002, 43, p. 28.
74 Sul concetto di equità cfr. P. Perlingieri, Equità ed ordinamento giuridico, in
Rass. dir. civ., 2004, p. 1149 ss.; G. Panzarini, Giudizi ed arbitrati d’equità:
l’emersione nel diritto e nell’economia di consolidati elementi di concreta per‑
cezione e di specifica utilizzazione dell’equità, in Contratto e impr., 2007, 3,
p. 798 ss.; Di Gregorio, La valutazione equitativa del danno, in I grandi
orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, diretta da Galgano,
Padova, 1999, p. 6; Bucci, Il principio d’equità nella storia del diritto, Napoli,
2000, p. 45 ss.; Rescigno, Giudizio “necessario” di equità e “principi regola‑
tori della materia”, in Riv. dir. comm., 1989, I, p. 5.
75 Sul punto si rinvia, ex plurimis, a Pandolfini, La nullità degli accordi “gra‑
vemente iniqui” nelle transazioni commerciali, cit., p. 502 ss.
2 0 1 3
21
del giudice76. In particolare, si è rilevato77 come il legislatore
abbia voluto relativizzare la nozione di iniquità attraverso il
ricorso all’aggettivo “gravemente” ‑con ciò lasciando inten‑
dere che situazioni di iniquità “non grave”, in quanto consi‑
derate normali nella pratica degli affari, sono tollerate, sì da
essere sanzionate solo ove raggiungano un livello ritenuto
eccessivo‑ e specificato altresì che l’iniquità deve risultare “in
danno del creditore”. La punizione dell’iniquità è posta a
protezione del soggetto debole, che nella specie è paradossal‑
mente il creditore. Da tale ultimo rilievo può desumersi che
oggetto di sanzione è soltanto l’iniquità che si traduce in una
compromissione concreta degli interessi creditori. Si è sotto‑
lineato, inoltre, come l’accertamento dell’iniquità debba esse‑
re effettuato sulla base di alcune circostanze di fatto, espres‑
samente indicate nel corpo dell’art. 7, d.lgs. n. 231 del 2002,
costituite dalla “corretta prassi commerciale”, dalla “natura
della merce o dei servizi oggetto del contratto”, dalla “condi‑
zione dei contraenti” e dai “rapporti commerciali” tra gli
stessi. Il legislatore del 2002 individuava in talune fattispecie,
testualmente previste, una presunzione di iniquità, di segno
relativo (con ammissione, dunque, della prova contraria),
costituite dagli accordi che, senza essere giustificati da ragio‑
ni apprezzabili, abbiano “come obiettivo principale quello di
procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del credito‑
re” ovvero mediante i quali “l’appaltatore o il subfornitore
principale imponga ai propri fornitori o subfornitori termini
di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto ai ter‑
mini di pagamento ad esso concessi”78. Appare del tutto evi‑
dente, peraltro, che nonostante gli sforzi compiuti dalla dot‑
trina, il concetto di grave iniquità non era preventivamente
determinabile (sulla base del dato testuale del 2002, valido
per i contratti stipulati entro il 2012), con la conseguenza che
l’accertamento della stessa risultava, in ultima analisi, rimes‑
so al lavoro ermeneutico dell’interprete, che avrebbe dovuto
76 A differenza di quanto previsto dalla disciplina generale di cui all’art. 1419,
co. 2, c.c., infatti, la norma de qua non prevede un meccanismo automatico di
sostituzione della clausola nulla con quella legale, ma rimette al giudice una
valutazione di equità che potrà dunque avere anche altri esiti. Sul concetto di
grave iniquità, ex multis, cfr. Pandolfini, ult. op. cit., p. 64; Benedetti,
L’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore, in I ritardi di paga‑
mento nelle transazioni commerciali, profili sostanziali e processuali, a cura di
Benedetti, cit., p. 134; E. Minervini, La nullità per grave iniquità dell’accordo
sulla data del pagamento o sulla conseguenza del ritardato pagamento, cit.,
p.186; P. Perlingieri – Femia, Nozioni introduttive e principi fondamentali
del diritto civile, Napoli, 2004, p. 30 ss.; Salvi, “Accordo gravemente iniquo”
e “riconduzione ad equità” nell’art. 7, d.lgs. n. 231 del 2002, in Contr. e impr.,
2006, 1, p. 169; Volpe, voce Contratto giusto, in Dig. disc. priv. sez. civ., Agg.,
Torino, 2007, p. 412. Un’ipotesi testuale di nullità per grave iniquità della
clausola che prevede una dilazione di pagamento o un tasso di interessi mora‑
tori particolarmente esiguo è prevista in materia di subfornitura, allorché l’as‑
senza di una giustificazione razionale della clausola, lascia intendere l’ultroneo
ed iniquo scopo di procacciare liquidità al debitore. In tema di subfornitura,
cfr. Berti – Grazzini, La disciplina della subfornitura nelle attività produttive.
Commento alla legge 18 giugno 1998 n. 192 come modificata dalla legge 5
marzo 2001, n. 57 e dal decreto legislativo 9 ottobre 2002 n. 231, Milano,
2005, passim.
77 Cfr. Pandolfini, I ritardi sui pagamenti nelle transazioni commerciali (D.lgs.
n. 231/2002), in www.assistenza‑legale‑imprese.it.
78 Sulla subfornitura, cfr. Doria, Note in tema di subfornitura, in Giur. it., 2007,
c. 2899; Berti – Grazzini, La disciplina della subfornitura nelle attività pro‑
duttive. Commento alla legge 18 giugno 1998 n. 192 come modificata dalla
legge 5 marzo 2001, n. 57 e dal decreto legislativo 9 ottobre 2002 n. 231, cit.,
passim; Suppa, voce Subfornitura (contratto di), in Enc. giur., XXX, Roma,
2001, p. 1; Leccese, voce Subfornitura, in Dig. disc. priv. sez. comm., Agg.,
Torino, 2000, p. 744; E. Minervini, Le regole di trasparenza nel contratto di
subfornitura, in Giur. comm., 2000, I, p. 216.
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D i r itto
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p r o c e du r a
valutare, nella concretezza della fattispecie esaminata e muo‑
vendo dal preliminare rilievo della differente forza negoziale
delle parti e delle specifiche condizioni di mercato, se fossero
ricorsi o meno i presupposti per la declaratoria di nullità
della clausola derogatoria.
Dalla mera lettura della novellata formulazione dell’art. 7,
d.lgs. n. 231 del 2002, risulta evidente il tentativo del legisla‑
tore di precisare con maggiore dettaglio le condizioni che
determinano la grave iniquità delle clausole derogatorie ri‑
spetto alle condizioni normativamente previste, ad ulteriore
conferma della tendenza ordinamentale a limitare l’abuso
della libertà contrattuale in danno del contraente debole (qui
individuabile nel creditore). Lo sforzo si sostanzia nella tipiz‑
zazione di una fattispecie ‑quella prevista dal co. 3‑ che inte‑
gra una presunzione assoluta, iuris et de iure, di nullità di
quelle clausole che escludano, ab imis, l’applicazione degli
interessi di mora, e nell’affermazione, ex co. 5, della nullità
della pattuizione, inserita in contratti di cui sia parte la.a.,
che predetermini la data di ricevimento della fattura da parte
del debitore avente natura latamente pubblicistica. Si prevede,
inoltre, ai sensi del co. 4, una presunzione relativa (che am‑
mette, dunque, la prova contraria) con riguardo all’esclusione
del risarcimento per i costi di recupero del credito non tem‑
pestivamente saldato, ai sensi dell’art. 6, d.lgs. n. 231 del
2002, anch’esso oggetto di revisione79. Non sarà sfuggito che,
con la novella legislativa, è stata eliminata la possibilità, pre‑
cedentemente riconosciuta al giudice di ricondurre ad equità
il contenuto dell’accordo stipulato inter partes, statuendosi,
infatti, l’obbligatorietà dell’applicazione del combinato dispo‑
sto degli artt. 1339 e 1419, co. 2, c.c., in ipotesi di avvenuto
accertamento dell’iniquità della clausola, con configurazione,
dunque, dell’evenienza di nullità parziale o relativa che non
mette in discussione la restante parte del contratto.
Su tale innovazione si esprime una valutazione sostanzial‑
mente positiva, poiché essa appare coerente rispetto alla fina‑
lità sottesa allo ius superveniens, che si risolve nella volontà
di limitare nella misura massima possibile ‑e tendenzialmen‑
te di escludere per le pp.aa. – le deviazioni rispetto all’assetto
ed al componimento degli interessi (inevitabilmente e fisiolo‑
gicamente contrapposti) individuati direttamente dal legisla‑
tore e non più demandati al giudice. Nella prospettiva consi‑
derata, pertanto, sembra comprensibile ed accettabile anche
la scelta di ridurre la discrezionalità del giudice in subiecta
materia obbligandolo, per contro, alla mera applicazione
della disciplina normativa.
6. Gli ostacoli all’operatività delle previsioni normative
Alla luce di quanto precedentemente esposto risulta evi‑
dente che, con l’emanazione del d.lgs. n. 231 del 2002, si è
avviato un percorso finalizzato ad operare una progressiva ed
79 Per completezza d’esposizione si segnala che anche l’art. 6 risulta profonda‑
mente modificato poiché al co. 1 è stato eliminato il riferimento alla possibilità
per il debitore di sottrarsi all’obbligo risarcitorio dei costi sostenuti per il recu‑
pero del credito mediante la dimostrazione della non imputabilità del ritardo
nel pagamento. Dunque il ritardo nel pagamento è oggettivamente imputato al
debitore, come già si era anticipato e in coerenza con il dettato comunitario. Il
co. 2, inoltre, è stato sostanzialmente riscritto mediante il riconoscimento al
creditore di un importo forfetario di € 40,00, senza necessità di costituzione in
mora, fatta salva la prova del maggior danno che può ricomprendere i costi
sostenuti per l’assistenza nel recupero del credito.
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integrale parificazione fra soggetti privati e.a., per quel che
concerne il rispetto dei termini di pagamento nelle transazio‑
ni commerciali e, dunque, con specifico riferimento alle ob‑
bligazioni pecuniarie della P.A. derivanti da un contratto da
essa liberamente stipulato80. Anzi, si ribadisce che il recente
intervento correttivo dell’impianto originario del decreto de
quo ha finito col prevedere per le pp.aa., in relazione a taluni
aspetti, un trattamento disomogeneo e deteriore rispetto a
quello riservato alle parti private. Un primo significativo
passo verso l’obiettivo sopra esplicitato è consistito nell’aver
sostanzialmente esteso alle pp.aa., la disciplina dettata dall’ar‑
ticolo 1219, co. 2 e 3, c.c., con conseguente definitivo supera‑
mento dell’orientamento giurisprudenziale81 che riteneva tali
disposizioni non applicabili ai rapporti obbligatori in cui il
debitore avesse natura pubblicistica. Attraverso l’eliminazione
della costituzione in mora quale condicio sine qua non per la
decorrenza di interessi moratori a carico della p.a. inadem‑
piente agli obblighi di pagamento, dunque, l’ordinamento ha
tentato di realizzare un riequilibrio dei rapporti di forza fra
ente pubblico e privato contraente, mediante la costruzione
di un modello di relazioni imperniato sul principio della ten‑
denziale pari rilevanza dei contrapposti interessi. Ciò appare
coerente, d’altro canto, con la considerazione di ordine gene‑
rale che, allorquando una p.a. addiviene alla stipula di un
contratto non esercita, per definizione, poteri autoritativi, ma
si pone ontologicamente su di un piano di parità, sebbene
temperato, con l’altro contraente, agendo essa, in altri termi‑
ni, iure privatorum. E che l’affermazione di tale principio, e
del conseguente rafforzamento della posizione dell’imprendi‑
tore che si trovi nella condizione di controparte contrattuale
di una p.a., costituisca uno degli obiettivi primari sottesi
all’emanazione del d.lgs. n. 231 del 2002 risulta, icasticamen‑
te, confermato dalla tecnica legislativa utilizzata e dallo
“stesso uso reiterato dell’avverbio automaticamente”, che
“denota la precisa volontà di non condizionare il decorso
degli interessi all’attivazione delle macchinose procedure
amministrative”82.
Ciò nonostante, non può non rilevarsi come l’ordinamen‑
to giuridico, al di là di orientamenti giurisprudenziali tesi a
limitare l’applicabilità di alcune disposizioni codicistiche ai
rapporti contrattuali che vedono come parte un ente pubbli‑
80 Il discorso diventa alquanto più complesso, infatti, e per evidenti ragioni di
opportunità non è possibile in questa sede operare i necessari approfondi‑
menti, allorquando l’obbligazione pecuniaria della p.a. derivi direttamente
dalla legge o da un provvedimento amministrativo da essa adottato (a titolo
esemplificativo: l’atto di concessione di un contributo) ovvero, infine, nell’ipo‑
tesi che vi siano atti giuridici esterni all’Ente che determinino un’obbligazione
di pagamento. Tale ultima ipotesi tipicamente ricorre negli Enti Locali qualora
sia pronunciata contro l’ amministrazione una sentenza esecutiva, anche prov‑
visoriamente, di condanna al pagamento di una somma di denaro, con conse‑
guente obbligo di attivazione, ex art. 194, d.lgs. n. 267 del 2000, della proce‑
dura di riconoscimento del debito fuori bilancio.
81 La Suprema Corte ha reiteratamente affermato, infatti, che “per i debiti pecu‑
niari della p.a., in deroga al principio di cui all'art. 1182, comma terzo, c.c., i
pagamenti si effettuano presso gli uffici di tesoreria dell'amministrazione debi‑
trice, giacché la natura querable dell'obbligazione rimane ferma”; da ciò deriva
“che il ritardo nel pagamento non determina automaticamente gli effetti della
costituzione in mora ex re ai sensi dell'art. 1219, comma secondo, c.c. in man‑
canza della richiesta fatta per iscritto ai sensi dell’art. 1219, comma primo” (cfr.
Cass., 25 luglio 2001, n. 10135; ma anche Id., 17 luglio 2007, n. 6554; Id., 03
ottobre 2005, n. 19320; Id., 28 marzo 1997, n. 2804).
82 Così Trebastoni, Pagamenti delle pubbliche amministrazioni e rispetto dei
termini, in www.diritto.it.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
co83, detti previsioni ‑animate da finalità di autoprotezione‑
volte a delineare una posizione di privilegio per le pp.aa., al‑
lorquando le stesse si trovino a recitare il ruolo di creditore e,
soprattutto, quello di debitore84. Sopravvive una posizione di
favor per la p.a., malgrado gli sforzi del legislatore comunita‑
rio!
Senza pretesa di esaustività, con riferimento a tale ultimo
profilo, appare doveroso il richiamo alla disciplina dettata
dall’art. 159, d.lgs. n. 267 del 2000 (c.d. TUEL), per le esecu‑
zioni nei confronti degli enti territoriali. La menzionata pre‑
visione dispone, infatti, che non sono ammesse procedure di
esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli
enti locali presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri, e che
gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano
vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa. Ai
sensi del combinato disposto dei co. 2 e 3 della norma in
esame, inoltre, non sono soggette ad esecuzione forzata, a
pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio dal giudice, le som‑
me di competenza degli enti locali caratterizzate da specifici
vincoli di destinazione, vale a dire al pagamento delle retri‑
buzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri pre‑
videnziali per i tre mesi successivi; al pagamento delle rate di
mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in
corso; all’espletamento dei servizi locali indispensabili. La
concreta operatività dei predetti limiti alle procedure esecuti‑
ve è normativamente subordinata ad una deliberazione ad hoc
(c.d. delibera di impignorabilità), di competenza dell’organo
esecutivo, da adottarsi con cadenza semestrale, con successi‑
va notifica al tesoriere, affinché provveda alla quantificazione
ex ante degli importi delle somme, in concreto, destinate alle
predette finalità, con conseguente applicazione del co. 4
dell’art. 159 TUEL, che statuisce che “Le procedure esecutive
eventualmente intraprese in violazione del co. 2 non determi‑
nano vincoli sulle somme né limitazioni all’attività del teso‑
riere” 85.
Sempre con riferimento specifico agli enti locali, viene poi
in rilievo un’ulteriore previsione del TUEL, ossia l’art. 248,
che disciplina le conseguenze della deliberazione di dissesto.
83 Ci si riferisce, in particolare, agli artt. 1181 e 1194 c.c. In particolare, Treba‑
stoni, Pagamenti delle pubbliche amministrazioni, cit., “ritiene inapplicabile
alle pubbliche amministrazioni l’art. 1181 c.c., cosicché il creditore privato non
può rifiutare un adempimento parziale di una di esse, il che può avvenire
quando in bilancio non sia stanziata una somma sufficiente a pagare l’intero
debito. Come debitore, infatti, si afferma ancora che “il principio espresso
dall'art. 1194, c.c., secondo il quale i pagamenti parziali si imputano prima agli
interessi e poi al capitale, è di dubbia applicazione nei confronti della p.a., at‑
tesa la particolarità del suo procedimento contabile, e, comunque, si applica
solo per i pagamenti spontanei e non per quelli coattivi, come quelli imposti da
un giudicato”.
84 Sul tema si veda Gnes, I privilegi dello Stato debitore, Milano, 2012, p. 239
ss.
85 Si rammenta, peraltro, che la Corte cost., 4‑18 giugno 2003, n. 211, (in G.U.
n. 25 del 25 giugno 2003) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 159,
co. 2, 3 e 4, “nella parte in cui non prevede che la impignorabilità delle somme
destinate ai fini indicati alle lettere a), b) e c) del comma 2 non operi qualora,
dopo la adozione da parte dell'organo esecutivo della deliberazione semestrale
di preventiva quantificazione degli importi delle somme destinate alle suddette
finalità e la notificazione di essa al soggetto tesoriere dell'ente locale, siano
emessi mandati a titoli diversi da quelli vincolati, senza seguire l'ordine crono‑
logico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta
fattura, delle deliberazioni di impegno da parte dell'ente stesso”. Si veda, al
riguardo, G. Stanzione, Il patrimonio degli enti locali reso più vulnerabile
dopo la recente sentenza della Corte Costituzionale n. 211/2003, in www.cla‑
aicampania.it
2 0 1 3
23
Dalla data della dichiarazione di dissesto, infatti, e sino
all’approvazione del rendiconto di cui all’art. 256 TUEL, non
possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei
confronti dell’ente per i debiti che rientrino nella competenza
dell’organo straordinario di liquidazione86. Inoltre, le proce‑
dure esecutive pendenti alla data della dichiarazione di dis‑
sesto, per le quali siano scaduti i termini per l’opposizione
giudiziale, ovvero nell’ipotesi in cui la stessa, sebbene propo‑
sta, sia stata rigettata, sono dichiarate estinte d’ufficio dal
giudice, con inserimento nella massa passiva dell’importo
dovuto a titolo di capitale, accessori e spese. I pignoramenti
eventualmente eseguiti dopo la deliberazione dello stato di
dissesto sono improduttivi di effetti e non vincolano l’ente ed
il tesoriere e, infine, ai sensi del co. 4 dell’articolo in esame,
dalla data della deliberazione di dissesto e sino all’approva‑
zione del rendiconto di cui all’art. 256 TUEL, i debiti insolu‑
ti a tale data e le somme dovute per anticipazioni di cassa già
erogate non producono più interessi, né sono soggetti a riva‑
lutazione monetaria, con conseguente configurazione di
un’ipotesi di inesigibilità temporanea di tali elementi acces‑
sori del credito87.
In termini più generali, da ultimo, pare opportuno ricor‑
dare come l’ordinamento frapponga degli ostacoli, mediante
la previsione di un trattamento differenziato ed oggettivamen‑
te più favorevole per le pp.aa., anche alla possibilità di recu‑
perare coattivamente le somme dovute dagli enti pubblici e
non tempestivamente erogate. È tuttora vigente, infatti,
l’art. 14, d.l. n. 669 del 1996, convertito con modificazioni
con l. n. 30 del 1997, rubricato “Esecuzione forzata nei con‑
fronti delle pubbliche amministrazioni”. Il co. 1 della menzio‑
nata disposizione statuisce che “Le amministrazioni dello
Stato e gli enti pubblici non economici completano le proce‑
dure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei
lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo
di pagamento di somme di danaro entro il termine di cento‑
venti giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di
tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione
forzata né alla notifica di atto di precetto”. Non v’è chi non
veda, dunque, come la previsione del decorso del richiamato
termine dilatorio costituisca una peculiare garanzia posta a
tutela della p.a. che, peraltro, sebbene ponga delle regole
oggettivamente derogatorie rispetto a quelle previste per la
generalità dei consociati, ha più volte superato il controllo di
legittimità costituzionale operato dalla Consulta88. A ciò si
86 Il divieto di un’azione esecutiva individuale nei confronti dell’ente locale che
abbia deliberato lo stato di dissesto deve essere esteso a tutte le azioni aventi un
medesimo contenuto, tra le quali, indubbiamente, anche il giudizio di ottempe‑
ranza qualora esso sia rivolto alla mera esecuzione di una sentenza del giudice
ordinario di condanna al pagamento di una somma di denaro. Ciò in conside‑
razione che la procedura di liquidazione dei debiti degli enti locali dissestati è
essenzialmente dominata dal principio della par condicio dei creditori, sicché
la tutela della concorsualità comporta l'inibitoria anche del ricorso di ottempe‑
ranza in quanto misura coattiva di soddisfacimento individuale del creditore.
In tal senso Cons. Stato, sez. IV, 19 gennaio 2012, n. 226.
87 La giurisprudenza amministrativa ha, infatti, chiarito che la previsione in
commento, secondo cui i debiti insoluti alla data di dichiarazione del dissesto
finanziario dell’ente locale non producono né interessi né rivalutazione mone‑
taria, ha carattere meramente sospensivo e non preclude all'interessato – una
volta esaurita la gestione straordinaria con la cessazione della fase di disse‑
sto – di proseguire nella di corresponsione delle poste stesse nei confronti
dell'ente risanato (così Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2009, n. 3261).
88 Si vedano Corte cost., 23 aprile 1998, n. 142; Id., ord., 16 dicembre 1998,
civile
Gazzetta
24
D i r itto
e
p r o c e du r a
aggiunga l’ulteriore considerazione che il termine dilatorio
previsto in favore della p.a. è, in realtà, più lungo, per effetto
di quanto previsto dall’art. 480, co. 1, c.p.c.89, e del tempo
occorrente per la notificazione del precetto 90.
Senza voler nemmeno considerare in questa sede la pro‑
blematica della compatibilità fra la stringente disciplina det‑
tata dalla normativa di derivazione comunitaria oggetto di
queste brevi notazioni ed i limiti, sempre più pervasivi, alla
capacità di spesa (in particolare degli enti locali) imposti dal
c.d. patto di stabilità interno91, si consideri, inoltre, quanto
riportato in prosieguo.
Ai sensi e per gli effetti di quanto previsto dall’art. 48 bis,
DPR n. 602 del 1972 92 , nella formulazione introdotta
dall’art. 2, co. 9, d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con
modificazioni, nella l. 24 novembre 2006, n. 286, le pp.aa.,
prima di effettuare un qualsiasi pagamento di importo supe‑
riore ad euro 10.000,00, devono verificare, presso il conces‑
sionario dei servizi di riscossione competente per territorio,
se il beneficiario sia “inadempiente all’obbligo di versamento
derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento
per un ammontare complessivo pari almeno a detto importo”
e, in caso affermativo, non procedere al pagamento e segna‑
lare “la circostanza all’agente della riscossione competente
per territorio ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione
delle somme iscritte a ruolo”. Per tutti i contratti pubblici,
siano essi di lavori, forniture o servizi, ed a prescindere
dall’importo più o meno rilevante degli stessi, le pp.aa. devo‑
no verificare, preventivamente rispetto al pagamento del
corrispettivo, ovvero di parte di esso, che la controparte ver‑
si in una condizione di regolarità per quel che concerne gli
adempimenti INPS, INAIL e Cassa Edile per i lavori, deter‑
minati sulla scorta della rispettiva normativa di riferimento.
In buona sostanza, la p.a., prima di assolvere la propria ob‑
bligazione pecuniaria, dovrà acquisire il DURC (ossia il Do‑
cumento Unico di Regolarità Contributiva) che, con specifico
riferimento ai rapporti contrattuali intrattenuti con un sog‑
getto pubblico, ha fatto la sua prima apparizione nell’ordina‑
mento giuridico con l’articolo 2 della l. n. 266 del 2002 di
conversione, con modificazioni, del decreto l. n. 210 del 2002.
n. 463; Id., 23 ottobre 2006, n. 343. Della questione si è occupata, inoltre, la
Corte giust., 11 settembre 2008, resa in C‑265/07.
89 Che così recita: “Il precetto consiste nell'intimazione di adempiere l'obbligo
risultante dal titolo esecutivo entro un termine non minore di dieci giorni, salva
l'autorizzazione di cui all'articolo 482, con l'avvertimento che, in mancanza, si
procederà a esecuzione forzata”; da ciò discende che l’esecuzione non può
concretamente avviarsi prima del decorso di 130 giorni dalla notifica del titolo
esecutivo.
90 La giurisprudenza ha precisato, peraltro, che “la sopravvenuta inefficacia del
precetto per mancato inizio dell'esecuzione nel termine di novanta giorni dalla
sua notificazione comporta che le spese del precetto ormai perento restano a
carico dell'intimante, essendo applicabile, anche in questa ipotesi, il princi‑
pio – stabilito dall'ultimo comma dell'art. 310 c.p.c. e richiamato, per il caso
di estinzione del processo esecutivo, dall'art. 632 u.c. del codice di rito – che le
spese del processo estinto stanno a carico delle parti che le hanno anticipate.
Né la spesa sopportata per intimare il precetto divenuto inefficace può essere
assimilata a un costo sostenuto per il recupero delle somme non corrisposte
alla scadenza, ripetibile dal debitore ai sensi dell’art. 6, d.lgs. 231 del 2002
(così Cass., sez. III, 09 maggio 2007, n. 10572).
91 Che pure rappresenta, in ultima analisi, un precipitato della partecipazione
dell’Italia all’entità sopranazionale del tutto sui generis che è l’Unione Europea.
Per ulteriori spunti di riflessione sul tema si rinvia a Gnes, La nuova disciplina,
cit., p. 121 ss.
92 Le relative modalità di attuazione sono state individuate con d.m. 18 gennaio
2008, n. 40, del Ministero dell’economia e delle finanze.
c i v il e
Gazzetta
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Per quanto qui d’interesse, vengono in rilievo, in particolare,
gli artt. 4, 5 e 6, dPR n. 207 del 2010 ‑che individua le norme
d’attuazione del d.lgs. n. 163 del 2006 (c.d. Codice degli Ap‑
palti)‑ prevedenti l’intervento sostitutivo della stazione appal‑
tante in ipotesi di inadempienza contributiva e retributiva
dell’esecutore e del subappaltatore.
Con ogni evidenza non è possibile, in questo contesto,
procedere ad un dettagliato esame delle rilevanti problematiche
applicative dell’istituto del DURC, limitandoci ad evidenziare
come esso abbia determinato conseguenze per certi versi para‑
dossali93, specie in una prima fase, e, tuttavia, per completezza
d’esposizione, pare opportuno segnalare che sulla G.U. n. 165
del 16 luglio 2013 è stato pubblicato il decreto del 13 marzo
2013 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, emanato in
attuazione di quanto disposto dall’art. 13, co. 5, d.l. n. 52 del
2012 (convertito, con modificazioni, nella l. n. 94 del 2012).
Il richiamato decreto ministeriale ha statuito, infatti, che il
DURC può essere rilasciato anche in presenza di pendenze
verso gli enti pubblici di previdenza, nell’ipotesi in cui il sog‑
getto richiedente sia, al contempo, titolare di un credito certo,
liquido ed esigibile, debitamente certificato, nei confronti
delle pp.aa., ed a condizione che detto credito sia di importo
almeno corrispondente agli oneri contributivi accertati a cari‑
co e non ancora versati, del medesimo soggetto richiedente 94.
Al riguardo, da ultimo, l’art. 31, d.l. n. 69 del 2013, cd. Decre‑
to del Fare, (conv. con l. n. 98 del 2013)95, ha apportato talune
modifiche alla disciplina in materia di DURC nei contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture di cui al d.lgs. n. 163 del
2006 e al d.P.R. n. 207 del 2010, al fine di rendere più celere
lo svolgimento dei rapporti contrattuali tra i privati e la P.A.
Tra le altre novità, ha infatti esteso la possibilità sopra de‑
scritta a tutte le tipologie di DURC, mediante l’espunzione del
riferimento alla concessione di “benefici normativi e contribu‑
tivi” dalla previsione di cui all’art. 13, co. 5, d.l. n. 52 del 2012
(convertito, con modificazioni, nella l. n. 94 del 2012).
Occorre, infine, rammentare che, ai sensi di quanto pre‑
visto dall’art. 26, d.lgs. n. 33 del 2013, di attuazione della
legge cd. anticorruzione n. 190 del 2012, recante “riordino
della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, tras‑
parenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni”, che ha determinato l’abrogazione del pre‑
vigente articolo 18 del decreto legge n. 83 del 2012 (conver‑
tito, con modificazioni, nella legge n. 134 del 2012), le pp.aa.
pubblicano, sul proprio sito internet, gli atti di concessione
93 Si pensi alla posizione dell’operatore economico che, a causa dei patologici
ritardi da parte della p.a. nell’assolvimento delle proprie obbligazioni pecunia‑
rie, non era in grado di fare fronte agli obblighi retributivi e contributivi e che
per l’effetto si trovava, e si trovava, esposto ad una molteplicità di conseguenze
negative (che vanno dalla possibile revoca dell’appalto, all’impossibilità di sti‑
pulare nuovi contratti d’appalto, all’impossibilità di ottenere, in misura piena,
il pagamento dei SAL e delle liquidazioni finali); non v’è chi non veda come la
descritta situazione abbia determinato, per numerose aziende che intratteneva‑
no rapporti con soggetti pubblici, l’attivazione di una sorta di circolo vizioso
che, in numerosi casi, ne ha provocato il fallimento.
94 Per ulteriori approfondimenti sui contenuti del decreto e per un primissimo
commento si rinvia a Sacrestano, Crediti verso la PA cedibili in assenza di
debiti previdenziali, in IlSole24Ore,17 luglio 2013, p. 16.
95Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con circolare n. 36 del 06 set‑
tembre 2013, reperibile sul sito istituzionale www.lavoro.gov.it, ha fornito i
primi chiarimenti interpretativi della disciplina definita in sede di conversione
del cd. Decreto del Fare dalla l. n. 98 del 2013, relativi in particolare alle fasi
in cui il DURC deve essere acquisito e alla sua validità temporale.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
delle sovvenzioni, dei contributi, sussidi ed ausili finanziari
alle imprese, e, comunque, dei vantaggi economici di qua‑
lunque genere a persone ed enti pubblici e privati, per im‑
porti superiori a mille euro. La predetta pubblicazione costi‑
tuisce condizione legale di efficacia dei provvedimenti in
discorso e la sua eventuale omissione od incompletezza è ril‑
evata d’ufficio dagli organi dirigenziali, sotto la propria re‑
sponsabilità amministrativa, patrimoniale e contabile per
l’indebita concessione od attribuzione del beneficio econom‑
ico. In altri e più semplici termini, dunque, il lodevole intento
del legislatore di inverare nella misura massima possibile il
principio di trasparenza dell’azione amministrativa, che ha un
diretto fondamento nelle previsioni costituzionali, mediante
la progressiva attuazione dell’obiettivo costituito dalla tras‑
formazione della.a. in una casa di vetro, con conseguente
attivazione di forme di controllo democratico diffuse
sull’operato dei soggetti pubblici e sul concreto utilizzo delle
risorse ad essi affidate, si traduce ‑a causa dell’inadeguatezza
(anche tecnologica) che in linea tendenziale caratterizza gli
apparati organizzativi delle pp.aa. (e, in particolare, degli
enti locali)‑ in un ulteriore ostacolo al sollecito adempimento
delle obbligazioni da parte del debitore pubblico.
Alla luce delle considerazioni esposte e delle palesi con‑
traddizioni che caratterizzano l’ordinamento giuridico interno
(da ascrivere a spinte e controspinte di provenienza eteroge‑
nea) e che mettono a dura prova l’intima razionalità ed uni‑
tarietà che pure, per definizione, dovrebbero connotarlo,
pare possibile nutrire delle perplessità circa le effettive chances
di successo del novellato d.lgs. n. 231 del 2002, con partico‑
lare riferimento ai contratti stipulati dalle pp.aa., posto che
le stesse, anche per ragioni culturali legate alla forma mentis
dei propri dipendenti, oltre che per le motivazioni oggettive
sopra esplicitate, avranno serie difficoltà a garantire il rispet‑
to dei termini di pagamento per esse previste; d’altro canto, il
soggetto creditore sarà inevitabilmente tentato di accettare
soluzioni, anche di natura transattiva, al ribasso rispetto agli
standard legislativi, pur di evitare il defatigante, e per certi
versi angosciante, calvario giudiziario, che è chiamato ad
affrontare chi intenda, nel nostro Paese, recuperare un proprio
credito (specie nei confronti delle pp.aa. che, come sopra rife‑
rito, permangono in una posizione di singolare primazia nei
confronti degli altri debitori).
Se, dunque, con il d.lgs. n. 192 del 2012 si sono significa‑
tivamente attenuate, per non dire del tutto azzerate, le possi‑
bilità per le pp.aa. di prevedere convenzionalmente termini di
pagamento superiori ai limiti normativamente predefiniti (si
rammenti, 30 o 60 giorni a seconda delle varie fattispecie),
con evidente volontà del decisore politico ‑a tacere di ogni
altra considerazione‑ di indurre gli enti pubblici ad accelerare
quanto più possibile l’adempimento delle proprie obbligazio‑
ni pecuniarie, non può non rilevarsi, per contro, come si
rinvengano nell’ordinamento norme, anche di recente adozio‑
ne, che nel perseguimento di finalità ed obiettivi differenti,
rendono la procedura di pagamento alquanto contorta e mac‑
chinosa, con conseguente compromissione dell’effettivo ri‑
spetto dei termini imposti per legge96. Con la conseguenza che,
96 Per ulteriori spunti di riflessione si rinvia a Atelli, Contratti della pubblica
amministrazione e normativa in materia di ritardi di pagamento nelle transazi‑
2 0 1 3
25
decorsi i termini di pagamento stabiliti dal novellato d.lgs.
n. 231 del 2002, dovranno essere riconosciuti al soggetto
creditore gli interessi moratori nella misura di legge, con
l’evidente implicazione oggettiva di un indebito incremento
dell’esborso di risorse finanziarie pubbliche e possibile confi‑
gurazione di una fattispecie di danno erariale. Appare alquan‑
to agevole prevedere che le Procure Regionali della Corte dei
Conti presto concentreranno la propria attenzione su tali
profili al fine di accertare, nella concretezza delle situazioni
considerate, la sussistenza, nella condotta dei funzionari del‑
le pp.aa., degli elementi psicologici minimi richiesti dall’ordi‑
namento per la responsabilità amministrativa.
In altri termini, al di là delle proclamazioni astratte ope‑
rate dal legislatore, la tutela concreta dei diritti del creditore
delle pp.aa., nella prassi applicativa, incontra tanti e tali osta‑
coli da ingenerare il significativo rischio di un mancato rag‑
giungimento degli obiettivi sottesi alle disposizioni normative
in commento, con evidente compromissione del principio
della concorrenza, id est delle pari opportunità per gli opera‑
tori del mercato aperto.
La conseguenza necessitata delle affermazioni che prece‑
dono è che, con ogni evidenza, pur riconoscendo la meritorie‑
tà dei segnali incoraggianti lanciati, nella prospettiva consi‑
derata, dal d.lgs. n. 231 del 2002 e ss.mm.ii., l’ordinamento
giuridico italiano sia ancora ben lungi, anche a causa di una
certa schizofrenia ma, anche, ipertrofia legislativa, dall’aver
raggiunto un effettivo equilibrio fra le esigenze contrapposte
delle pp.aa. e dei loro funzionari e quelle degli imprenditori
‑nell’accezione che qui viene in rilievo‑ che forniscono ad esse
beni e servizi. Del resto, le difficoltà concrete nel raccordare
la disciplina di derivazione comunitaria qui esaminata con
tutte le altre regole di operatività cui soggiacciono le pp.aa.,
ivi incluse quelle di origine comunitaria ‑come ad esempio il
ricordato Patto di Stabilità interno di cui da tempo si sottoli‑
nea l’eccessiva rigidità‑ sono tante e tali da aver fatto avverti‑
re la necessità ordinamentale di adottare ulteriori provvedi‑
menti nell’ambito considerato (il riferimento, come è ovvio, è
al già richiamato d.l. 08 aprile 2013, n. 35, ed alla relativa
legge di conversione97). Il legislatore, consapevole degli osta‑
coli frapposti all’effettivo perseguimento degli ambiziosi
obiettivi europei in materia di pagamenti dei debiti delle pp.
aa., ha inteso delineare con l’atto normativo in questione, cd.
“sblocca debiti”, una disciplina organica, basata su una plu‑
ralità di strumenti tra loro coordinati, che consenta di supe‑
rare definitivamente le problematiche connesse al mancato
pagamento dei debiti soggettivamente pubblici scaduti al 31
dicembre 2012, provvedendo, altresì, a dettare una disciplina
quanto più possibile autoapplicativa. Ci si è resi, in qualche
modo, conto, infatti, della sterilità di quelle prescrizioni nor‑
mative, pur meritorie nelle intenzioni, volte ad una accelera‑
zione dei pagamenti della p.a. per favorire la ripresa del
mercato, che non si preoccupavano, tuttavia, di individuare
le risorse da cui attingere, né di segnalare criteri e procedure
per accelerare tali pagamenti ed agevolare l’immissione di li‑
oni commerciali (d.lgs. n. 231/2002): brevi note su tre aspetti ‘sensibili’ nella
prospettiva della responsabilità amministrativo‑contabile, in www.amcortecon‑
ti.it.
97 L. 6 giugno 2013, n. 64 (pubblicata in G.U. n. 132 del 7 giugno 2013), in www.
funzionepubblica.gov.it/.
civile
Gazzetta
26
D i r itto
e
p r o c e du r a
quidità nel sistema economico. Il decreto legge de quo ‑peral‑
tro incorso anch’esso in numerosi ostacoli di tipo applicativo98‑
introduce, per l’appunto, due distinte procedure relativamen‑
te ai debiti delle amministrazioni centrali, dirette per un
verso al soddisfacimento e, per altro, alla ricognizione e cer‑
tificazione di quei debiti non soddisfatti per incapienza delle
risorse stanziate. E, tra l’altro, rimuove almeno in parte pro‑
prio uno degli impedimenti avvertiti come maggiormente
ostici, vale a dire il Patto di Stabilità interno, di cui è stato
attenuato il rigore sanzionatorio per gli enti locali virtuosi99.
Nondimeno, il legislatore italiano deve avere, ancora una
volta, utilizzato un linguaggio poco chiaro od offerto soluzio‑
ni, come in precedenza accennato, di non semplice applica‑
zione, se a distanza di appena quattro mesi dalla sua entrata
in vigore, il d.l. n. 35 del 2013 ha necessitato di una circolare
ricognitiva a firma del Ministro per la.a. e per la Semplifica‑
zione. Si tratta della circolare n. 4 del 09 agosto 2013, con cui
il Ministro, nel ripercorrere gli adempimenti posti dal decreto
in questione a carico delle amministrazioni centrali, ricorda
come il quadro si completi con le disposizioni sui tempi mas‑
simi di pagamento recentemente introdotte dal d.lgs. n. 192
del 2012. Ciò è tanto più vero, se si considera che il Ministro
conclude raccomandando alle amministrazioni centrali debi‑
trici di porre in essere tempestivamente tutte le attività neces‑
sarie e funzionali al corretto espletamento delle procedure
introdotte dal d.l. n. 35 del 2013 e dalla successiva legge di
conversione, rammentando, inoltre, la gravità delle sanzioni
derivanti dal mancato o tardivo adempimento delle stesse,
sotto il profilo della responsabilità erariale, dirigenziale e/o
disciplinare100.
98 Cfr. Barbero, Ritardi p.a., il danno e la beffa, in ItaliaOggi, 17 settembre 2013,
p. 22.
99 Anche su questo punto ci sarebbe da riflettere, atteso che la virtuosità è, para‑
dossalmente, riscontrata nell’aver disatteso proprio i vincoli comunitari. Difat‑
ti, sono considerati virtuosi quegli enti locali che, sforando nel 2012 il Patto di
Stabilità, hanno pagato i loro debiti. Per costoro, le penalizzazioni saranno li‑
mitate all’importo “non imputabile ai predetti pagamenti”.
100 Per ragioni di completezza, va segnalato che il Ministero dell’economia e delle
finanze ha avviato il monitoraggio dell’avanzamento dell’intera procedura at‑
tivata per una rapida attuazione del d.lgs. n. 35 del 2013, al fine di garantire
sia una corretta allocazione delle risorse finanziarie che il rispetto degli im‑
pegni degli enti debitori a impiegare queste risorse per saldare rapidamente i
debiti scaduti. Nello svolgimento di tale compito di monitoraggio, con comu‑
nicato stampa n. 146 del 04 settembre 2013, ha dato conto del trend positivo
dei pagamenti effettuati ai creditori, avendo registrato un incremento di € 2,2
miliardi rispetto al precedente aggiornamento del 6 agosto. In termini assoluti,
“al 4 settembre risulta che siano stati messi a disposizione degli enti pubblici
debitori 17,9 miliardi di euro (il 90% dei 20 miliardi stanziati dal D.L. 35/2013),
e che questi abbiano provveduto a pagare ai propri creditori debiti scaduti per
un importo pari a 7,2 miliardi (36% dell’importo stanziato)”.
c i v il e
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●
La mediazione familiare:
un istituto da decifrare
e incentivare
● Antonio Bova
Dottore di ricerca
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27
Sommario: 1. Introduzione – 2. Le origini della mediazione
familiare – 3. La mediazione familiare nelle “maglie”
dell’art. 155 sexies c.c. – 4. Tipologie di mediazione familia‑
re – 5. Il mediatore familiare: uno “statuto” da definire – 6.
Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
Le vicende della giustizia1 sono spesso artificiosamente
accantonate, ma non definitivamente seppellite: inevitabil‑
mente continuano ad agitarsi e si ripropongono con analoga
emotività e forza propulsiva nelle varie fasi storiche.
Così anche il problema dell’enorme carico di lavoro dei
nostri Tribunali e la conseguente “irragionevole durata dei
processi”, soprattutto civili, non possono essere riposti
nell’oblio e ancor meno possono essere risolti con soluzioni che
non tengano conto della struttura socio‑economica e del pe‑
riodo storico in cui maturano e si sviluppano.
La giustizia, infatti, incarna un’esperienza umana che si
svolge in più forme e modalità e deve quindi necessariamente
fare i conti con le dimensioni culturali, storiche, politiche ed
economiche della società.
Se diamo anche solo un rapido sguardo all’Italia di oggi,
ci accorgiamo che il tema della giustizia, quale fattore prima‑
rio che rende una società accettabile, vivibile, sana, è da tanti
anni un problema di fondo sostanzialmente irrisolto. Anzi,
nella visuale della storia delle istituzioni, è il punto nodale
attorno a cui ruotano le scelte della politica e le reazioni di chi
è governato, e su cui si sono accesi grandi dibattiti di natura
politica, culturale, sociale.
Dalla stessa dipende in larga misura anche la stabilità del
sistema politico. È evidente, infatti, l’incidenza della difficile
situazione della giustizia nel rapporto tra le garanzie offerte
dallo Stato e la possibilità di uno sviluppo più ampio e più
sicuro degli individui e della collettività.
La lentezza della nostra macchina giudiziaria non può
essere disconosciuta o calata nell’oblio. La possibilità di otte‑
nere giustizia in tempi accettabili corrisponde ancora, nell’im‑
maginario e nelle esperienze concrete dei cittadini, ad una
.
“tragica utopia”
Da qui la necessità di concentrarsi con metodo nella defi‑
nizione di strumenti idonei capaci di garantire, fermo il ruolo
primario della magistratura, una giustizia efficiente.
Appare ormai indifferibile una definizione chiara e coe‑
rente dei problemi all’interno di un quadro di certezze e di
garanzie per il cittadino.
Si tratta di un aspetto di fondamentale importanza, ancor
più rilevante quando la lentezza della giustizia vada ad impat‑
tare sui delicati e complessi rapporti familiari. I rimedi sug‑
geriti sono diversi ma è evidente che la loro efficacia, soprat‑
tutto nel delicato ambito dei rapporti familiari e dei relativi
aspetti processuali, presuppone un attento coordinamento.
Tra questi vi sono sicuramente: l’aumento dei finanziamenti,
1Per un approfondimento cfr.
F.A. Genovese, La mediazione come strumento deflativo del contenzioso civile,
in Corr. trib., 2011, 10, p. 739; M. Gerardo, A. Mutarelli, Sulle cause della
irragionevole durata del processo civile e possibili misure di reductio a ragione‑
volezza, in www.judicium.it.
civile
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D i r itto
e
p r o c e du r a
il completamento dell’organico dei magistrati, la riorganiz‑
zazione dei circondari, un’attenta riforma della professione
forense, importanti interventi riformatori del processo, ma
soprattutto un impegno vero e concreto nell’incentivare
l’istituto della mediazione familiare 2 , quale strumento essen‑
ziale nella soluzione delle crisi relazionali della famiglia.
2. Le origini della mediazione familiare
“La difficoltà non sta nel credere nelle nuove idee, ma nel
fuggire dalle vecchie”: questa celebre frase di John Maynard
Keynes palesa il senso immediato delle difficoltà e degli osta‑
coli, che si pongono lungo il “cammino” della mediazione
familiare. Da qui l’importanza di un’indagine anche storica
della genesi di tale fenomeno culturale.
La mediazione familiare, come ricostruito da attenta
dottrina3, nasce negli anni Settanta negli Stati Uniti sulla
base di una riflessione, condotta in ambito legale, sull’inade‑
guatezza dei consueti strumenti contenziosi a gestire i conflit‑
ti interpersonali tipici della crisi coniugale4. Dagli Stati Uniti,
la sperimentazione delle nuove tecniche di mediazione fami‑
liare si diffonde rapidamente in tutto il mondo occidentale.
Approda in Europa negli anni Ottanta, quando anche in
Italia nascono le prime esperienze. È però soprattutto negli
2Sul punto in generale E. Allegri, P. Defilippi, Mediazione familiare, Armando,
2004; A. Ansaldo, La mediazione familiare nel divorzio, in Nuova giur. civ.,
2008, 7‑8, p. 209 ss.; R. Ardone, M. Lucardi, La mediazione familiare. Svi‑
luppi, prospettive, applicazioni, Kappa, 2005; E. Barone, Figli condivisi. La
psicologia dello sviluppo nella mediazione familiare, Edizioni Univ. Romane,
2007; A. Batà, A. Spirito, Mediazione familiare nel procedimento di sepa‑
razione, in Famiglia e diritto, 2010, 11, p. 1056; S. Biscione, Affido condiviso.
Patti di famiglia e nuove norme in tema di separazione e divorzio. Come cam‑
bia il diritto di famiglia dopo le leggi 54/2006 e 55/2006, Napoli, 2006; M.N.
Bugetti, Mediazione familiare e affidamento condiviso:disciplina, prassi e
dubbi interpretativi, in Famiglia e diritto, 2011, 4, p. 391; G. Capilli, P. La‑
selva, Mediazione familiare e progetti di riforma, in Famiglia e diritto, 2006,
1, p. 85; C. CesAna, L. Porri, M. Sala, Gli accordi di mediazione familiare,
in Fam. pers. Succ., 2008, 7, p. 628; M. Dainesi, La mediazione familiare, in
Famiglia e diritto, 1997, 1, p. 89; M. Dogliotti, La mediazione familiare:un
dibattito ancora aperto, in Famiglia e diritto, 1996, 1, p. 76; F. R. Fantetti, La
mediazione familiare quale facoltà del giudice, in Famiglia e diritto, 2011, 1,
p. 31; F.R. Fantetti, La mediazione familiare nei procedimenti di separazione
e divorzio, in Fam. pers. Succ., 2008, 4, p. 297; J.M. Haynes, I. Buzzi, Intro‑
duzione alla mediazione familiare. Principi fondamentali e sua applicazione,
Milano, 1996; G. Impagnatiello, La mediazione familiare nel tempo della
mediazione finalizzata alla conciliazione civile e commerciale, in Famiglia e
diritto, 2011, 5, p. 525; L. Laurent‑Boyer (a cura di), La mediazione familiare,
Liguori, Napoli, 2000; F. Longo, Diritti del minore, mediazione familiare e
affidamento condiviso, in Famiglia e diritto, 2003, 1, p. 87; L. Parkinson, Sep‑
arazione, divorzio e mediazione familiare, Trento, 1995; I. Pupolizio, La
mediazione familiare in Italia, Linea Professionale, 2007; P. Rescigno, Inter‑
essi e conflitti nella famiglia: l’istituto della ‹‹mediazione familiare››, in Giur. it.,
1995, 3, p.; G. Spadaro, La mediazione familiare nel rito della separazione e
del divorzio, in Famiglia e diritto, 2008, 2, p. 209; F. Tommaseo, Mediazione
familiare e processo civile, in Famiglia e diritto, 2012, 8,9, p. 831; C.Troisi,
La mediazione familiare nell’applicazione della recente legge sull’affidamento
condiviso, in Famiglia e diritto, 2008, 3, p. 264.
3Sul punto cfr. Dainesi, op. cit., pp. 89 ss. In tali termini Spadaro, op. cit.,
pp. 209 ss.
4In particolare, si osservò che, soprattutto in presenza di figli, i rapporti tra i
coniugi separati o addirittura divorziati non si interrompono definitivamente,
ma sono inevitabilmente destinati a proseguire. In questa prospettiva, qualun‑
que assetto dei rapporti familiari che non sia accettato in maniera spontanea e
responsabile da ciascuna parte, ma sia imposto autoritariamente dal giudice,
corre il rischio di essere tutt'altro che risolutivo e di costituire solo la base di
nuove incomprensioni e di reciproche tensioni. Ne conseguì una sempre mag‑
giore attenzione verso quegli strumenti in grado di consentire ai coniugi in
crisi di riappropriarsi della capacità di gestire in modo autonomo e responsa‑
bile il conflitto, sì da giungere a una regola del rapporto negoziata e condivi‑
sa.
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anni Novanta che la mediazione cresce come fenomeno cul‑
turale e acquisisce sia in Europa, sia in Italia, una precisa fi‑
sionomia. Infatti, nel 1992 viene siglata a Parigi la Charte eu‑
ropéenne de formation des médiateurs familiauxdans les si‑
tuation de divorce et separation e in Italia fioriscono un po’
dappertutto associazioni fra mediatori familiari. Il primo ri‑
conoscimento ufficiale a livello europeo si ha nel 1996, quan‑
do a Strasburgo viene siglata la Convenzione europea sull’eser‑
cizio dei diritti del fanciullo, il cui art. 13 (rubricato “Media‑
zione e altri metodi di soluzione dei conflitti”) impegna
espressamente le parti a incoraggiare “il ricorso alla media‑
zione e a qualunque altro metodo di soluzione dei conflitti
atto a concludere un accordo, nei casi in cui le Parti lo riter‑
ranno opportuno”. Si tratta di un primo, timido invito ai
Paesi aderenti alla Convenzione a favorire pratiche di media‑
zione familiare nei conflitti coinvolgenti i minori, ma che
tuttavia focalizza la finalità della mediazione nella “soluzione
dei conflitti”, contribuendo a collocare a pieno titolo la me‑
diazione tra le ADR. La mediazione, tuttavia, non entra an‑
cora formalmente nell’ordinamento giuridico italiano, poiché
la Convenzione sarà ratificata solo dalla l. 20 marzo 2003,
n. 77. Bisogna attendere quattro anni per un nuovo riferimen‑
to normativo alla mediazione familiare. La l. 5 aprile 2001,
,
n. 154 nell’introdurre “Misure contro la violenza nelle rela‑
zioni familiari”, prevede nell’art. 342‑ter c.c. che il giudice,
adìto per l’emanazione di un ordine di protezione (anche nei
giudizi di separazione e divorzio, ai sensi dell’art. 8 della
stessa l. 154/2001), possa “altresì” disporre l’intervento dei
servizi sociali o di un centro di mediazione familiare. Si giun‑
ge così alla l. n. 54 del 2006, che, nel dettare la più ampia
riforma del diritto di famiglia dopo quella del 19755, ha non
solo introdotto un istituto assai noto, l’affidamento condiviso,
ma anche creato un nuovo spazio per la mediazione famil‑
iare”.
Sebbene, quindi, i riferimenti alla mediazione familiare
siano oggi rari, la sua previsione in diversi disegni di legge e
l’inidoneità degli strumenti imperativi della giurisdizione
nella risoluzione dei conflitti familiari (incapaci di rimuovere
le ragioni profonde che li hanno causati), fanno sperare, come
evidenziato in dottrina6, in una sua più ampia applicazione.
Nella cornice normativa descritta, particolare rilevanza
assume la citata l. n. 54 del 2006. Il nuovo art. 155‑sexies c.c.,
sotto la rubrica “Poteri del giudice e ascolto del minore” pre‑
vede nel comma 2 che “qualora ne ravvisi l’opportunità, il
giudice, sentite le parti e acquisito il loro consenso, può rinvia‑
re l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 155 c.c. per
consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una
mediazione per raggiungere un accordo, con particolare rife‑
rimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”.
Pur avendo il merito di avere per la prima volta posto in
relazione diretta mediazione familiare e processo civile, la
norma solleva non poche e non lievi perplessità, di seguito
specificamente analizzate7.
Con ogni probabilità, tali perplessità si spiegano col fatto
che è latente nell’art. 155‑sexies c.c. una certa qual confusio‑
5 Letteralmente Impagnatiello, op. cit., p. 525.
6 Così, Tommaseo, op cit., pp. 839 ss.
7 Tommaseo, op cit., pp. 839 ss.
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ne tra mediazione familiare e conciliazione 8. La conciliazione,
infatti, rappresenta un istituto ben noto al diritto processua‑
le civile, ma molto distante dalla mediazione familiare, con la
quale non può e non deve essere confuso, essenzialmente per
una ragione: nella conciliazione il terzo è, di regola, un’auto‑
rità che si trova in posizione di superiorità rispetto alle parti,
proponendo una o più soluzioni che le parti stesse possono al
massimo discutere, ma che alla fine possono solo accettare o
rifiutare.
Nella mediazione familiare, invece, il terzo mediatore
dialoga con i contendenti in posizione di parità ed esaurisce
il suo compito nell’aiutare le parti a riappropriarsi della capa‑
cità di dialogare e di dirimere da soli il conflitto (self‑empo‑
werment). Anzi, al di là delle variabili legate alle diverse im‑
postazioni teoriche, la specificità del fenomeno mediativo è
proprio nella riappropriazione da parte dei coniugi della ca‑
pacità di essere protagonisti della soluzione del conflitto; ri‑
appropriazione che il mediatore può guidare, ma non può mai
imporre né coartare.
Sembra, peraltro, che il legislatore, più che favorire la
mediazione quale nuova e più evoluta forma di gestione del
conflitto, abbia voluto incrementare i poteri del giudice, fa‑
cendo ruotare la mediazione intorno a lui, come in un “siste‑
ma eliocentrico” reso palese dalla stessa rubrica dell’art. 155‑se‑
xies c.c.
D’altra parte, la Corte costituzionale, nella più volte cita‑
ta sentenza 131/2010, ha osservato che l’art. 155‑sexies ha
solo accennato all’attività di mediazione familiare, senza
definirne contenuti, limiti e ambito oggettivo e, soprattutto,
senza prevedere alcuno specifico profilo professionale dei
soggetti chiamati a svolgerla, lacune rispetto alle quali, si
tenterà di formulare delle proposte, in attesa di un auspicabi‑
le intervento chiarificatore del legislatore.
Lacune, sia pure rilevanti, che non possono tuttavia ridur‑
re la portata di un dato: la mediazione familiare, quale feno‑
meno culturale, esprime certamente un percorso storico e
un’evoluzione giuridica del nostro Paese, il quale, purtroppo,
ha attraversato epoche e stagioni culturali in cui gli interessi
ed i rapporti privati, almeno tendenzialmente, venivano affi‑
dati alla regolamentazione dello Stato, nella quale l’interesse
pubblico era così dominante da operare il trasferimento del
diritto matrimoniale e familiare dalla tradizionale apparte‑
nenza al diritto privato alla sfera del diritto pubblico.
Una “dolorosa esperienza”, rispetto alla quale l’istituto
della mediazione familiare si configura come il tentativo rea‑
le di restituire il diritto di famiglia al diritto privato, rivitaliz‑
zando l’autonomia dei singoli nel costante rispetto dei prin‑
cipi fondamentali dell’eguaglianza dei coniugi, della libertà
dei singoli e del rispetto della personalità dei figli, principi
rivestiti di dignità costituzionale e che rappresentano il limite
all’esercizio della libertà dei privati.
Gli sporadici riferimentialla mediazione familiareeviden‑
8 Dal tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro privato e pubblico in
funzione di prevenzione della lite (art. 410 c.p.c.; art. 65 d.Lgs.165/2001), a
quello preventivo extraprocessuale affidato al giudice di pace (art. 322 c.p.c.),
fino ai molteplici tentativi facoltativi di conciliazione endoprocessuali affidati
al giudice (artt. 185, 350 e 420 c.p.c.) o a un suo ausiliario (art. 198 c.p.c.). La
conciliazione è tuttavia un istituto.
2 0 1 3
29
ziati trovano spazio, quindi, nelle sole norme regolano la se‑
parazione giudizialee i delicati procedimenti repressivi degli
.
abusi familiari
Pertanto, ad oggi, la mediazione familiare “cristallizzata”
nel diritto è soltanto di tipo endoprocessuale, come attenta‑
mente sottolineato in dottrina.
Del resto non vi è chi non veda come i risultati della me‑
diazione abbiano quasi sempre uno sbocco processuale,
dando corpo, nel caso di esito positivo, agli accordi da fare
oggetto di omologazione nella separazione consensuale o da
far valere con la domanda congiunta di divorzio. Ancora,
tali accordi possono essere dedotti anche nel corso della se‑
parazione giudiziale. Quindi, una mera mediazione disposta
dal giudice sia pure con il consenso delle parti, in pendenza
d’un giudizio di crisi coniugale, che si risolve in uno strumen‑
to di gestione giudiziale di crisi coniugali già approdate nelle
aule di giustizia.
3. La mediazione familiare nelle “maglie” dell’art. 155 sexies c.c
Quanto ai presupposti applicativi 9, il giudice può rimet‑
tere le parti dinnanzi ai mediatori quando: ne ravvisa
l’opportunità; le parti sono state sentite; le parti hanno pr‑
estato il loro consenso.
Il primo presupposto, è rappresentato dalla discreziona‑
lità valutativa – insindacabile – del giudice che, previa valu‑
tazione sommaria, reputa “opportuna” la mediazione. Op‑
portunità che non è il frutto di un’analisi delle possibili sorti
della mediazione, ma dell’osservazione attenta del grado di
conflittualità tra le parti. L’opportunità va quindi riferita al
tentativo e alla sua incidenza positiva, e non all’accordo e
alla sua possibilità di riuscita.
Quanto al secondo presupposto, esso ha una duplice va‑
lenza. Solo mediante l’ascolto diretto delle parti il giudice può
realmente operare quel giudizio di opportunità nei termini
prospettati. Inoltre solo in questo modo la rimessione agli
esperti è avvertita dalle parti stesse come frutto di una scelta
in funzione della “famiglia” e non dei singoli coniugi.
L’ultimo presupposto, ossia il consenso delle parti, invece,
giustifica e rende produttivo il rinvio10. Può inviare alla me‑
diazione anche il g.i.
Da qui una serie di condivisibili rilievi critici sollevati
dalla dottrina: “La legge subordina l’avvio della mediazione
a una valutazione di opportunità affidata al giudice, una
valutazione che può essere compiuta sia dal presidente nella
fase prodromica dei giudizi di separazione e di divorzio sia
dal giudice istruttore senza incontrare preclusioni in ogni
fase del processo di primo grado, ma anche per la prima vol‑
ta dal giudice d’appello. Una valutazione d’opportunità che
non può prescindere da una valutazione sulla concreta utilità
del tentativo, per evitare che l’iniziativa del giudice si risolva
in un inutile aggravio dei costi e dei tempi del procedimento
se non anche in un aumento del tasso di conflittualità tra le
parti del confronto giudiziale. Il giudice può disporre la me‑
diazione solo quando le parti vi consentano, ma questo non
significa che le parti abbiano il potere di influire sullo svolgi‑
mento del processo chiedendo, d’accordo, l’accesso alla me‑
9In tali termini Spadaro, op. cit., p. 209.
10Sul punto cfr. anche Tommaseo, op. cit., pp. 831 ss.
civile
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D i r itto
e
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diazione. Insomma il consenso è necessario, ma non sufficien‑
te in mancanza di una valutazione positiva da parte del giu‑
dice. Ne deriva, come ha statuito anche la giurisprudenza di
legittimità, che il giudice può respingere la richiesta congiun‑
ta dei coniugi di accedere alla mediazione quando il processo
subirebbe una inopportuna stasi: il che avverrebbe, ad esem‑
pio, quando vi sia urgenza a provvedere nell’interesse del
minore. È opportuno ribadire quanto osservato da attenta
dottrina: ‹‹il far dipendere l’accesso alla mediazione familiare
dal consenso delle parti è una scelta già compiuta anche da
importanti documenti internazionali. Così la Raccomanda‑
zione del Consiglio d’Europa, risalente al 1998, ribadisce che,
in linea di principio, la mediazione non dovrebbe mai essere
obbligatoria, ma conviene notare che subordinare l’intervento
dei mediatori al consenso delle parti è una scelta giustificata
da ragioni di opportunità e non anche da un’inderogabile
necessità. Resta fermo, come ovvio, che i coniugi sono liberi
d’intraprendere per conto proprio un percorso mediativo
stragiudiziale salvo poi, se intendono coltivare il processo
pendente, far valere in tale àmbito gli eventuali accordi o
farli recepire in sede di revisione della sentenza di separazione
o di divorzio››.
Quanto all’ambito di applicazione deve ritenersi che il
giudice abbia la possibilità d’invitare le parti ad accedere alla
mediazione quando si tratta di decidere sull’affidamento dei
figli minori non soltanto nei procedimenti di separazione
giudiziale, ma anche nei procedimenti nei quali trovano ap‑
plicazione le norme in materia di separazione e questo non
solo per l’esigenza di applicare quanto dispone l’art. 4, com‑
ma 2, l. n. 54/2006 , ma anche per effetto di un’interpretazio‑
ne “costituzionalmente orientata delle norme di legge”.
L’art. 4 citato stabilisce che le nuove disposizioni introdotte
dalla medesima legge in materia di separazione giudiziale «si
applicano anche in caso di scioglimento o di nullità del ma‑
trimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori
non coniugati». È evidente pertanto il riferimento anche ai
giudizi di divorzio. Superabile, inoltre, alla luce di un’inter‑
pretazione sistematica, l’apparente ostacolo legato al manca‑
to riferimento nell’art. 4 alla separazione consensuale. In
entrambe le forme della separazione personale dei coniugi,
infatti, gli obiettivi dell’intervento giudiziale sono sicuramen‑
te gli stessi, almeno per quanto riguarda la tutela del superio‑
re interesse dei minori: lo dice testualmente l’art. 155 c.c. Da
qui la possibilità per il giudice, anche nel quadro della sepa‑
razione consensuale, di invitare le parti a rivedere le proprie
determinazioni. Se c’è spazio per il tentativo di conciliazione
positivamente previsto, perché dovrebbero esserci ostacoli ad
un invito delle parti ad avvalersi degli strumenti di mediazio‑
ne? Si pensi soprattutto ai casi nei quali il giudice ritenga che
non vi siano i presupposti per omologare gli accordi intercor‑
si fra i coniugi. Il tutto nonostante l’art. 158, comma 2, c.c.,
il quale si limita a prevedere che, in tal caso, i coniugi siano
riconvocati affinché modifichino i loro accordi seguendo le
indicazioni formulate dal giudice nell’interesse dei figli.
Impensabile, alla luce di una interpretazione capace di
giungere al “cuore” della norma senza soffermarsi solo sul
suo “abito”, sarebbe ritenere che il giudice non possa anche
invitare i coniugi ad avvalersi di esperti mediatori, al fine di
indurli a regolare i propri rapporti in modo da garantire al
minore il diritto riconosciutogli dall’art. 155 c.c., ossia di
c i v il e
Gazzetta
F O R E N S E
mantenere con i propri genitori un rapporto equilibrato e
continuativo11.
4. Tipologie di mediazione familiare
I rilievi espressi in ordine ai presupposti applicativi sono
altresì il sintomo dell’assenza di una disciplina, capace di re‑
golare in modo sistematico la mediazione familiare e la figu‑
ra del mediatore familiare.
Già si è accennato al fatto che in astratto vi sono differen‑
ti modelli di mediazione familiare, i quali si rifanno ad altret‑
tante scuole di pensiero.
Si accennerà12 a due principali modelli: quello strutturato
11 Così l’attenta analisi di Tommaseo, op. cit., pp. 831 ss.
12 “Le variegate esperienze in tema di divorzio e di separazione hanno portato
alla diffusione in materia di mediazione familiare di vari tipi di modelli
quali:
‑ il modello "strutturato", ideato da Jim Coogler [fondatore della Family Me‑
diation Association, a metà anni '70 negli USA, e poi riformulato da La Grebe
(1989)], considerato anche il pioniere della mediazione familiare nella sepa‑
razione e nel divorzio; questi, partendo da alcuni importanti presupposti – i)
dalla considerazione per cui separazione e divorzio devono considerarsi una
evoluzione "naturale" della vita matrimoniale essendo comuni ad un nu‑
mero sempre più elevato di persone, ii) dal fatto che le persone che affron‑
tano un'esperienza di separazione e divorzio non sono negoziatori esperti,
iii) che anche in situazioni di forte sofferenza e tempesta emotiva le persone
sono in grado di prendere decisioni razionali, iv) che individui e famiglie
possono trarre vantaggio da soluzioni concordate piuttosto che da compro‑
messi raggiunti dopo un procedimento contenzioso – propone di definire
tutte le aree di possibile disaccordo (affidamento dei figli, diritto di visita,
assegno di mantenimento) stabilendo in modo specifico il percorso da com‑
piere. In tal modo si cerca di attuare una mediazione "globale" in quanto
estesa a tutte le questioni derivanti dalla dissoluzione della famiglia. In questo
modello è condizione basilare però la neutralità del mediatore, come anche
la parità dei clienti; sono le parti a proporre le opzioni e le soluzioni e non il
professionista. Il modello di mediazione strutturata prevede quattro fasi: i)
la definizione del problema: ogni questione oggetto di disaccordo deve essere
esplicitata e definita; ii) raccolta delle informazioni: il mediatore aiuta le
parti a raccogliere ed estrinsecare tutte le informazioni relative ad uno speci‑
fico problema, inclusi sentimenti e preoccupazioni; iii) formulazione delle
opzioni: le parti dovranno esplicitare varie opzioni, di cui verranno esaminate
le varie conseguenze; iv) i coniugi dovranno scegliere la soluzione che sem‑
brerà la migliore possibile. Il mediatore, al termine di tale percorso, dovrà,
quindi, predisporre un memorandum dell'accordo raggiunto, il quale ha
carattere puramente informale, indicandone le motivazioni, e che rappre‑
senterà poi la base dell'accordo di separazione steso dal legale (preferibil‑
mente unico per entrambe le parti).
‑ Il modello di mediazione familiare di tipo "terapeutico", ideato nel 1978
da Irving (psicoterapeuta) e Benjamin (sociologo), focalizza l'attenzione
sulla soluzione degli aspetti emotivo‑affettivi connessi alla vicenda separa‑
tiva; lavorando, inoltre, sulla preventiva ristrutturazione dei processi relazi‑
onali e sulla crisi del gruppo familiare.
‑ Il modello "negoziale" di John Haynes (psicologo – 1978), più diffuso
negli Stati Uniti ed introdotto nei servizi sociali, utilizza le tecniche della
negoziazione ragionata dove il mediatore ha il compito di restituire la capac‑
ità di contrattazione alle persone: si parla di processo di self‑empowerment
che crea autocontrollo rispetto alla gestione di tutti gli aspetti connessi alla
vicenda separativa. Il mediatore utilizza il problem solving per aiutare le
parti ad individuare i loro veri interessi su cui basare la contrattazione, e il
brainstorming per sviluppare la creatività e creare un clima di accettazione.
‑ Il modello basato sui bisogni evolutivi (Canevelli‑Lucardi) si caratterizza
per la ricerca di un equilibrio tra aspetti pragmatici ed emotivi‑relazionali:
superamento dell'evento critico e ridefinizione personale. Compresenza di
obiettivi pragmatici (ricerca di accordi legati alla dimensione genitoriale o
altri aspetti della separazione) e di obiettivi relazionali relativi all'evoluzione
del rapporto tra gli ex partner. Vi è, quindi, una parzialità degli obiettivi
rispetto alla gestione della separazione (mediazione parziale), con esclusione,
per esempio, degli aspetti patrimoniali.
‑ Il modello "interdisciplinare" di mediazione familiare in cui collaborano
insieme il clinico ed il giurista, cooperando al superamento delle differenti
motivazioni di conflitto presentate dalla coppia (co‑mediazione).
‑ Il modello di mediazione "puro", sostenuto dalla studiosa francese Mi‑
chéle Guillaume‑Hoftung (presidente del Centre National de mediation),
pone al centro della mediazione non le negoziazioni, ma la funzione maieu‑
tica del mediatore che deve portare le parti a scoprire la verità, gli errori, la
soluzione che portano dentro di sé.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
e quello definito di tipo terapeutico. Secondo il modello strut‑
turato l’ottica con cui si deve guardare alla separazione e al
divorzio deve essere sostanzialmente positiva: essi costituis‑
cono un fenomeno sociale da collocare nel contesto della
“normalità” della evoluzione della vita familiare, e sono con‑
cepiti come una fase o stadio del ciclo di vita di un numero
sempre più rilevante di persone. È del resto un dato di comune
esperienza il rilievo che le concezioni sociali e culturali della
separazione e del divorzio hanno subìto una costante evoluz‑
ione nel tempo.
Questo modello attua una mediazione definita di tipo
“globale”, ossia estesa a tutte le questioni derivanti dalla dis‑
soluzione della famiglia e si differenzia da altri modelli che
praticano una mediazione definita di tipo “parziale”,
nell’ambito della quale si opera per ridurre l’antagonismo tra
le parti esclusivamente in merito all’affidamento dei figli e
alla disciplina del diritto di visita del genitore non affida‑
tario.
Il mediatore, al fine di favorire l’instaurarsi di quel clima
di fiducia reciproca che caratterizza l’intero processo di me‑
diazione familiare, chiarisce ai coniugi, fin dal primo incon‑
tro, di non rappresentare nessuno dei due dal punto di vista
legale, né di poter offrire loro una consulenza legale, alla quale
peraltro essi possono liberamente accedere in qualsiasi mo‑
mento.
Nel clima di fiducia che si è instaurato, ognuno dei coni‑
ugi si assume l’impegno, sia di palesare apertamente e comple‑
tamente tutte le entrate e le uscite economiche familiari e
personali, sia di mantenere confidenziali i contenuti delle
discussioni avvenute nell’ambito del processo di mediazione
familiare.
Quando il processo di mediazione familiare – la cui du‑
rata è legata alle peculiarità del caso concreto – ha raggiunto
lo scopo di aiutare i coniugi a negoziare le disposizioni da
essi liberamente raggiunte e scelte, il mediatore predispone
un memorandum dell’accordo, di carattere informale, conte‑
nente tutti i dettagli dell’intesa ed esplicitante le motivazioni
al riguardo. L’accordo verrà poi sottoposto alla verifica di un
legale, che si occuperà di dare una veste giuridica e di avviare
l’iter giudiziario.
Il modello di mediazione familiare di tipo terapeutico è
adottato, invece, dagli specialisti con formazione clinica, e
punta sulla preventiva ristrutturazione dei processi relaziona‑
li e sulla crisi del gruppo familiare. Alle persone che non
hanno ancora elaborato adeguatamente la separazione ed il
divorzio, a motivo della presenza di forti sentimenti di falli‑
mento e disistima di sé, questo modello offre prima di tutto un
sostegno individualizzato che consente loro di attuare un
cambiamento del modello di comportamento. Il negoziato
vero e proprio viene così preceduto, come osservato da attenta
dottrina, da una valutazione dello stato psicologico dei coniu‑
gi e da una fase di pre‑mediazione, nella quale si analizzano
gli influssi negativi interni ed esterni al sistema coniugale e
familiare, per ridurli al minimo e, se possibile, neutralizzarli.
‑ Il modello "pragmatico", proposto dall'inglese Lisa Parkinson, che intende
la mediazione come una prassi operativa per rendere praticabili negoziazi‑
oni tra le parti, in cui le comunicazioni sono di bilanciamento tra quelle
tecnico‑giuridiche e quelle di sostegno emotivo e consiglio”. In tali termini
Capilli, Laselva, op. cit., pp. 85 ss.
2 0 1 3
31
Il conseguimento di questo primo obiettivo consente alla
coppia di intraprendere con fiducia il negoziato vero e proprio,
durante lo svolgimento del quale l’accento verrà comunque
sempre posto sui risvolti emotivi, piuttosto che sul contenuto
dell’accordo vero e proprio, come invece nel modello strut‑
turato. È inoltre previsto un periodo cosiddetto di “fol‑
low‑up” , della durata di circa sei mesi, durante il quale i
coniugi valutano la praticabilità e la reale rispondenza ai
propri bisogni dell’accordo raggiunto.
Nella mediazione terapeutica inoltre, a differenza del
modello strutturato, non vengono redatti accordi scritti, né
al momento di intraprendere la mediazione, né al termine di
essa.
Dall’analisi dei principali modelli in astratto realizzabili
emerge un dato comune a tutti: la richiesta che, durante il
lavoro di mediazione familiare, sia sospeso il tempo giuridico,
ovvero sia sospeso il procedimento giudiziario, ove già in‑
trapreso, così da consentire ai coniugi di partecipare alla
mediazione nella consapevolezza di provare non solo ad azzer‑
are il passato, ma soprattutto a visualizzare spiragli per il
tempo futuro.
Altra classificazione distingue tra mediazione familiare
obbligatoria e facoltativa.
A riguardo non si può tralasciare di rilevare che in alcune
esperienze straniere il ricorso alla mediazione familiare viene
imposto obbligatoriamente ai coniugi in presenza di figli,
soprattutto minori (così avviene ad es. nello stato della Cali‑
fornia ed in Australia)13.
Sul punto, un’indagine comparatistica dimostra un dato,
a nostro avviso, di grande rilevanza: la soluzione adottata nei
vari Paesi è notevolmente influenzata dal tipo di strumenti di
risoluzione dei conflitti e, soprattutto, dal tipo di processo
negli stessi presente, tant’è che vi sono alcuni ordinamenti in
cui la mediazione è utilizzata come strumento atto a favorire
il dialogo tra i coniugi, per cui si caratterizza per la necessaria
volontarietà delle parti (Francia), ed altri ordinamenti in cui,
invece, risulta strettamente collegata al procedimento di se‑
parazione o divorzio, diventando obbligatoria ed assumendo
quasi il carattere di condizione di procedibilità (Stati Uniti).
In Inghilterra, poi, a seguito dell’istituzionalizzazione della
mediazione familiare con il Chindren Law Act 1989, il Family
Law Act del 1996 e l’Access to Justice Act del 1999, è stata
incoraggiato il ricorso alla mediazione in via anticipata ri‑
spetto ai procedimenti giudiziari (si pensi anche alla previsio‑
ne dell’obbligo per ogni avvocato di informare i suoi clienti
dell’esistenza e della fruibilità della mediazione diventando
.
così a far parte integrante del procedimento di divorzio)
La mediazione può, quindi, essere in astratto:
‑ volontaria o facoltativa (per scelta delle parti o per invi‑
to del giudice);
‑ o obbligatoria (imposta dalla legge)
Parte della dottrina parla, invece, di tre tipi di mediazio‑
ne: mediazione spontanea o mediazione per scelta delle parti;
mediazione per decisione del giudice (dove per “decisione”
non si intende un obbligo, ma un invito non vincolante); e
mediazione per previsione di legge.
Nella scelta di modelli di gestione e conduzione della
13 Così testualmente Dainesi, op. cit., p. 89.
civile
Gazzetta
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D i r itto
e
p r o c e du r a
mediazione familiare analizzati, fermi i pochi riferimenti
normativi ad oggi esistenti, in Italia il dibattito è ancora
aperto.
Sul piano del metodo, preferibile appare, a nostro avviso,
alla luce di una serie di condivisibili argomentazioni eviden‑
ziate da attenta dottrina, un modello di co‑mediazione inter‑
disciplinare di tipo globale.
Già molto diffusa all’estero (Francia, Inghilterra, ecc.), è
un modello che si applica alla mediazione di tipo globale, che
pertanto tratta sia le questioni educativa e relazionali, sia la
parte economica‑patrimoniale oltre agli aspetti emotivo‑af‑
fettivi e simbolici.
La coppia che si avvale della co‑mediazione familiare,
troverà i seguenti vantaggi: a) possibilità di usufruire di com‑
petenze professionali diverse, specifiche e differenziate; b)
opportunità di ricevere più informazioni in modo oggettivo e
non di parte; c) possibilità di considerare le interconnessioni
tra i diversi aspetti della separazione nel medesimo contesto;
d) possibilità di beneficiare di più tecniche e strategie di
intervento;e) contemporaneità di due stili di conduzione: le‑
gale (più direttivo, pragmatico, sintetico), e psicologico (più
facilitativo, di ascolto e accogliente);f) assenza di rischio di
negoziare fuori dalla cornice normativa (assenza di schiera‑
mento); g) maggior completezza del memorandum d’intesa;
h) maggior opportunità di rendere più disteso un clima di
forte tensione; i) nuove modalità di comunicazione osservan‑
do il modo in cui i due mediatori si consultano (atteggiamen‑
to orientato al confronto, all’alternanza, al rispetto).
Requisiti idonei ad offrire alla coppia un servizio comple‑
to e di qualità, che permette di vedere integrati ed accolti,
nell’ambito del medesimo processo di mediazione, i differen‑
ti bisogni di tipo emotivo/relazionale, economico‑patrimonia‑
le ed educativo14.
Altri argomenti giocano, a nostro avviso, a sostegno della
tesi della volontarietà o facoltatività della mediazione e cor‑
rispondono a quelli già prospettati in altra sede per la media‑
zione civile e commerciale. Ininfluente, a nostro avviso, sul
punto la sentenza della Corte Costituzionale n. 272 del 6 di‑
cembre 2012, con la quale è stata dichiarata la illegittimità
costituzionale dell’art. 5, comma 1 del Dlgs. n. 28 del 2010
(Disciplina della mediazione per la risoluzione delle contro‑
versie civili e commerciali) nonché, in via consequenziale, dei
periodi e dei comma delle altre disposizioni del decreto, che
esplicitamente richiamano o presuppongono quanto disposto
dal suddetto comma 1.
La decisione ha sancito la illegittimità costituzionale, per
contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost., del carattere di obbliga‑
torietà della mediazione (per le materie elencate) nonché
della funzione di condizione di procedibilità del preventivo
esperimento della procedura (di mediazione) per la definizio‑
ne giudiziale delle relative controversie, rilevando un vizio
formale consistente nell’eccesso di delega, in relazione a quan‑
to disposto nell’art. 60 (Delega al Governo in materia di
mediazione e di conciliazione nelle controversie civili e com‑
merciali) della l. n. 69 del 2009 (Disposizioni per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività nonché in
14 Così letteralmente Capilli, Laselva, Mediazione familiare e progetti di riforma,
in Famiglia e diritto, 2006, 1, p. 85.
c i v il e
Gazzetta
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materia di processo civile). Tale sentenza giunge all’esito di
un unico giudizio che riunisce, in considerazione della identi‑
cità delle questioni prospettate e della stretta connessione
delle stesse, i giudizi relativi a ben sette questioni di legittimi‑
tà, sollevate nell’arco temporale di nove mesi (aprile 2011/
gennaio 2012) ed insistenti tutte sul profilo della obbligato‑
rietà della procedura di mediazione e sui criteri di selezione
degli organismi demandati allo svolgimento della stessa.
La Corte Costituzionale giunge a qualificare la normativa
dell’Unione come una disciplina neutrale , che non si pone in
contrasto con eventuali modalità di mediazione obbligatoria,
ma al contempo non indica né suggerisce tali modalità, rimet‑
tendo agli Stati membri la scelta che, in ogni caso, non deve
costituire una limitazione del diritto di accesso alla giustizia
da parte dei singoli: “dai richiamati atti dell’Unione europea
non si desume alcuna esplicita o implicita opzione a favore
del carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione. Fer‑
mo il favor dimostrato verso detto istituto, in quanto ritenu‑
to idoneo a fornire una risoluzione extragiudiziale convenien‑
te e rapida nelle controversie in materia civile e commerciale,
il diritto dell’Unione disciplina le modalità con le quali il
procedimento può essere strutturato (“può essere avviato
dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizio‑
nale o prescritto dal diritto di uno Stato membro”, ai sensi
della lettera a, della direttiva 2008/52/CE del 21 maggio
2008) ma non impone e nemmeno consiglia l’adozione del
modello obbligatorio, limitandosi a stabilire che resta impre‑
giudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla
mediazione obbligatorio (art. 5 comma 2 della direttiva cita‑
ta)”.
Dal testo della sentenza emerge chiaramente come le cen‑
sure di illegittimità costituzionale insistano sul profilo del
vizio formale (l’eccesso di delega), senza addentrarsi in valu‑
tazioni sull’istituto o sull’articolazione data dal d.lgs. n. 28
del 2010: ne deriva che un nuovo intervento legislativo ben
potrebbe proporre una nuova modalità di mediazione obbli‑
gatoria nei confronti della quale la normativa comunitaria,
interpretata come “neutrale”, non potrebbe porsi come fonte,
ma di certo neanche come ostacolo.
Il problema vero della obbligatorietà è, a nostro avviso,
rappresentato dai costi della mediazione e dal fatto che gli
stessi finiscano per pesare sul comune cittadino, costituendo
un ulteriore aggravio per lo stesso e inducendolo a desistere
dalla legittima ricerca di tutela dei propri diritti. Un vulnus
evidente se confrontato con la ratio dell’istituto. Allo stesso
modo bisogna prendere atto delle perplessità cristallizzate nel
seguenti domande: in quanti, oggi, nell’attuale contesto so‑
ciale ed economico, usufruirebbero volontariamente della
mediazione, sia essa civile o familiare? Come convincere i
cittadini in tempi rapidi, alla luce dei tanti problemi che af‑
fliggono il sistema giudiziario, a sposare i valori della “cultu‑
ra della mediazione”, sopportando nel contempo i relativi
costi? La società italiana è pronta ed in grado di scegliere da
sola, per maturità e condizioni economiche, la strada della
mediazione familiare o civile?
Il facoltatività e la obbligatorietà della mediazione non
devono essere intese, come purtroppo è stato fatto, come
simboli rappresentativi di fazioni in contrapposizione, am‑
mantati in veli giuridici che nascondono meri interessi di
parte. Solo squarciando questo “velo” è possibile, infatti,
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immaginare di costruire un sistema di mediazione capace di
fotografare le reali esigenze dei cittadini e gli enormi problemi
che gravano sul nostro sistema giudiziario, individuando un
modello capace di cristallizzare, mediante un mix di obbliga‑
torietà non generalizzata ed incentivi economici per la media‑
zione facoltativa, un “giusto bilanciamento di tali interessi”.
Quali incentivi vi sono oggi per la mediazione familia‑
re?
I costi della mediazione familiare sono prevalentemente
posti a carico delle parti secondo le regole ordinarie che di‑
sciplinano la liquidazione dei compensi agli ausiliari.
Diverso sarebbe se la mediazione fosse sempre offerta da
un servizio pubblico affidato ad appositi “sportelli di media‑
zione” aperti presso enti pubblici territoriali o anche all’inter‑
no dei palazzi di giustizia grazie a protocolli elaborati d’inte‑
sa fra gli ordini professionali, gli enti locali e i capi degli uf‑
fici giudiziari.
Tale soluzione non solo coinvolgerebbe i principali prota‑
gonisti della vicenda processuale creando le condizioni per
una maggiore condivisione dei valori della mediazione, ma
permetterebbe a tutte le parti, al di là degli steccati sociali,
perché “libere dal bisogno”, di scegliere consapevolmente la
strada della mediazione. Un incentivo da cristallizzare neces‑
sariamente in una disciplina che regoli finalmente, in modo
sistematico e chiaro, e non mediante sporadici riferimenti, la
mediazione familiare, chiarendone contenuti, forme e scopi.
2 0 1 3
33
5. Il mediatore familiare: uno “statuto” da definire
L’assenza di una disciplina sistematica della mediazione
familiare si riflette negativamente anche nella possibilità
concreta di ricostruire in modo unitario la figura del media‑
tore familiare. 15
È dibattuta , sin dall’entrata in vigore della riforma, la
natura giuridica dei “mediatori”, tradizionalmente intesi e
considerati, dagli operatori del settore, alla stregua di profes‑
sionisti aventi una funzione compositiva della lite (e non va‑
lutativa).
Le associazioni di settore, al riguardo, hanno sollecitato
gli operatori giuridici verso una interpretazione che li quali‑
fichi in termini di nuova figura processuale, extraprocessuale,
recisa dalla veste tipica del consulente tecnico ovvero dell’au‑
siliario al fine di garantire la loro naturale fisiologia, caratte‑
rizzata da complementarietà ed autonomia del percorso di
mediazione.
Le ragioni addotte a sostegno della tesi – da parte delle
associazioni citate – non sono certo censurabili e muovono
dal presupposto che vada garantita una corretta funzione
nell’ambito della mediazione.
Ciò nonostante, il giudice giammai potrebbe allontanarsi
in via di interpretazione dal dato normativo fino a “rompere”
la tenuta della disposizione essendo, questi, soggetto alla
legge a garanzia del principio di legalità.
Ciò vuol dire che l’interpretazione da adottare non può
prescindere dall’art. 155‑sexies c.c. che, come è stato pur
autorevolmente affermato, non è stato talmente “audace” da
recepire – in toto – l’istituto della mediazione quale nuovo ed
autonomo sistema di A.D.R.
Orbene la disposizione succitata prevede che “qualora ne
ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il
loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di
cui all’art. 155 c.c. per consentire che i coniugi, avvalendosi
di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accor‑
do, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse mo‑
rale e materiale dei figli”. Il dato normativo è chiaro.
In primo luogo il codice parla di esperti e non di media‑
tori così avendo voluto ricondurre la figura a quelle già esi‑
stenti senza creazione ex novo di una nuova professionalità
(ovviamente ai fini processuali e limitatamente al processo).
Ed infatti la mediazione non emerge come “soggetto” (i me‑
diatori tentano una composizione) ma come oggetto (gli
esperti tentano una mediazione).
Inoltre, la mediazione è configurata come strumento per
raggiungere un accordo che non può non essere che quello di
separazione o divorzio ovvero di ripresa della convivenza, che
rappresenta (pur alla presenza della mediazione) un negozio
di diritto familiare. La dottrina, peraltro, ha rilevato tutte le
difficoltà interpretative del nuovo istituto non disdegnando
l’orientamento che qualifica i “mediatori” (gli esperti) come
ausiliari del Giudice.
E, infatti, dal dato normativo – invero alquanto scar‑
no – emerge che la figura deputata a “mediare” tra i coniugi
è dotata di particolari competenze professionali ed assume,
di fatto, la qualità di ausiliario del giudice. Diversi i referenti
ermeneutici di siffatta conclusione.
1) La disposizione ex art. 155‑sexies c.c. è rubricata “poteri
del giudice ed ascolto del minore”: la scelta discrezionale
di far ricorso alla mediazione va inscritta, pertanto, nel
novero dei “nuovi poteri” del giudicante e un simile inqua‑
dramento sistematico richiama immediatamente la facol‑
tà (rectius: potere) di ricorrere all’assistenza di organi
d’ausilio. Si tratta, cioè, di uno di quei “casi previsti dalla
legge” in cui “il giudice … si può fare assistere da esperti
in una determinata arte o professione e, in generale, da
persona idonea al compimento di atti che non è in grado
di compiere da sé solo” (art. 68 c.p.c., rubricato, per l’ap‑
punto, “altri ausiliari”).
2)Il dato letterale depone nel senso di uno stretto rapporto
tra esperti e giudice, potendosi reputare che i primi agi‑
scano come una vera e propria longa manus del giudi‑
cante: ed, infatti, la disposizione adotta il verbo “avva‑
lendosi”.
Ed, invero, siffatta interpretazione consente l’applicabilità
dell’art. 52 delle disposizioni di attuazione del c.p.c., ai fini
della giusta copertura finanziaria dell’eventuale mediazione
svolta, se non altrimenti stabilito (il compenso agli ausiliari
di cui all’art. 68 del codice è liquidato con decreto dal giudice
che li ha nominati o dal capo dell’ufficio giudiziario al quale
appartiene il cancelliere o l’ufficiale giudiziario che li ha chia‑
mati, tenuto conto dell’attività svolta).
Peraltro, le paure esternate da chi critica16 siffatto orien‑
tamento non sono condivisibili.
Si eccepisce, cioè, che così facendo, il destinatario dell’at‑
tività dell’ausiliario sarebbe il giudice e non le parti; si teme,
anche, una lesione del principio di autonomia del mediatore.
15 Così Spadaro, op. cit., p. 209.
16In particolare le principali associazioni di mediatori familiari.
civile
Gazzetta
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Quanto al primo profilo, in verità, si trascura di conside‑
rare che i coniugi sono i beneficiari dell’attività, al di là di
colui dinnanzi al quale si debba rispondere per la stessa;
quando al secondo profilo, si trascurano le concrete modalità
operative di mediazione che – al di là del nomen juris ‑ sono
quelle scelte dagli esperti in piena autonomia.
La legge prescrive che la mediazione familiare deve essere
affidata a “esperti” e quindi a professionisti individuati dal
giudice a norma dell’art. 68 c.p.c. e che, con tale designazio‑
ne, divengono tecnicamente degli “ausiliari” la cui funzione
è di compiere quelle attività che il giudice “non è in grado di
compiere da sé solo” .
In questo contesto normativo, il giudice non può deman‑
dare alle parti di scegliersi liberamente il mediatore ma è lui
stesso che lo designa con una decisione che la prassi consente
sia sostanzialmente influenzata dalle proposte provenienti
delle parti per l’assorbente ragione che l’efficacia dell’attività
del mediatore potrebbe essere compromessa dalla mancanza
di un rapporto fiduciario con le parti in conflitto e dalla sua
dipendenza dal giudice. Conviene peraltro notare che la fun‑
zione indubbiamente atipica di questo ausiliario ne attenua
sensibilmente la dipendenza dal giudice: infatti l’attività del
mediatore non è strumentale alla formazione del convinci‑
mento del giudice poiché egli ha soltanto il còmpito, da svol‑
gere in modo neutrale e in autonomia rispetto al giudicante,
di influire sulla volontà dei coniugi per indurli a ripristinare
un livello di comunicazione che consenta di dare all’assetto
dei loro rapporti endofamiliari un fondamento negoziale.
Infatti il mediatore, quale ausiliare designato a norma
dell’art. 68, ha soltanto l’obbligo di riferire al giudice l’esau‑
rimento del proprio compito e di informarlo se la mediazione
è riuscita o no. Per il rimanente, è pacifico che debba osserva‑
re scrupolosamente un dovere di riservatezza che gli impedisce
di portare a conoscenza del giudice quanto è avvenuto nel
corso della mediazione per evitare che il giudice possa desu‑
mere dal comportamento delle parti davanti al mediatore
argomenti di prova a norma dell’art. 116 c.p.c.
Non vi è traccia nella legge dell’esistenza di questo dovere
di riservatezza, ma si tratta di un dovere coerente con la na‑
tura delle funzioni attribuite al mediatore: ne è riprova, la
specifica disciplina del dovere di riservatezza che grava sul
mediatore delle controversie civili e commerciali dov’è espres‑
samente specificato che «le dichiarazioni e le informazioni
acquisite nel corso del procedimento di mediazione non pos‑
sono essere dal giudice salvo il consenso della parte interes‑
sata» (art. 10 DLgs. n. 28 del 2010).
6. Considerazioni conclusive.
In attesa di un intervento del legislatore che cristallizzi gli
orientamenti espressi dalla dottrina e dalla giurisprudenza,
dobbiamo necessariamente attenerci alla scarna disciplina
riferibile alla mediazione familiare pervenendo alle seguenti
conclusioni.
a)Non esiste alcuna disposizione di legge che in modo
espresso incoraggi né tanto meno imponga la mediazione
familiare preventiva. Pertanto la sola forma di mediazione
familiare degna di considerazione positiva risulta quella
endoprocessuale, anch’essa peraltro affidata alla buona
volontà dei Presidenti di Tribunale e dei giudici istruttori.
In entrambi i casi (mediazione stragiudiziale ed endopro‑
c i v il e
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cessuale), ferma la mera natura volontaria della mediazio‑
ne, regna purtroppo la prassi, laddove le esigenze prospet‑
tate richiederebbero un’univoca soluzione normativa.
Preferibile, come già evidenziato, sarebbe l’adozione del
modello di mediazione interdisciplinare sia nel quadro
della mediazione stragiudiziale sia in quello della media‑
zione endoprocessuale di cui all’art. 155 sexies c.c., appli‑
cabile a nostro avviso, come già ampiamente sottolineato:
a tutte le problematiche inerenti i conflitti tra coniugi;
nella separazione giudiziale, ma anche nel giudizio di di‑
vorzio e laddove non vi sono figli.
Non significa forzare il testo normativo, come corretta‑
mente osservato in dottrina, ritenere che il giudice ben
possa utilizzare gli strumenti della mediazione per con‑
sentire alle parti di avvalersi, anche sul terreno del con‑
fronto giudiziale, di tutte le funzioni che la mediazione
familiare è chiamata ad assolvere in sede stragiudiziale
senza limitarla esclusivamente a risolvere le controversie
in materia di affidamento”. Si tratta quindi di tentare la
via della mediazione non tanto per raggiungere il difficile
obiettivo della riconciliazione dei coniugi ma soprattutto
per favorire il transito a forme consensuali di gestione
della crisi coniugale anche allo scopo d’addivenire alla
separazione consensuale o a un divorzio su domanda
congiunta.
In questo modo, la mediazione può investire tutti i fattori
che concorrono a creare il conflitto della coppia e quindi
non soltanto le questioni riguardanti l’affidamento dei
figli ma anche quelle riguardanti i rapporti economici: a
questo proposito, è significativo notare come il testo del
progettato art. 706 bis, attualmente all’esame del Senato,
preveda espressamente che «gli aspetti economici della
separazione possono far parte degli accordi raggiunti fra
i coniugi concordati in un centro pubblico o privato di
mediazione familiare».
La mediazione familiare ha lo scopo d’attuare forme
consensuali di gestione di tutti gli aspetti della crisi coniu‑
gale ed è opportuno ricordare come la legge faccia espres‑
so, per quanto occasionale, riferimento al transito dalla
separazione giudiziale a quella consensuale: si tratta d’un
transito che certamente può essere incoraggiato dal presi‑
dente del tribunale nella fase prodromica ma anche, e con
maggior efficacia, favorito dagli accordi raggiunti dai
coniugi all’esito di una mediazione positivamente conclu‑
sasi”.
b) La professione di mediatore familiare è ancora in un
limbo, a differenza di quanto avviene per i mediatori ci‑
vili e commerciali grazie a quanto dispone la disciplina
del DLgs. n. 28 del 2010, come modificata dal D.L. 21
giugno 2013, n. 69convertito con L. 9 agosto 2013,
n. 98.
La professionalità degli esperti mediatori familiari non
trova ancora una specifica disciplina legislativa e, in par‑
ticolare, trattandosi di “professioni” occorre attendere
l’esercizio della potestà legislativa concorrente dello Stato
e delle Regioni. Come vuole l’art. 117 Cost. le Regioni non
possono legiferare in via esclusiva su tale materia, e a ra‑
gione la Corte costituzionale ha recentemente dichiarato
l’illegittimità di una legge della Regione Lazio che dettava
una rigorosa disciplina dell’esercizio della professione di
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mediatore familiare con il prevedere anche l’istituzione di
un apposito albo.
Una decisione questa fondata su ragioni tecniche difficil‑
mente contestabili ma, come giustamente è stato notato in
dottrina, una decisione che ha contribuito a mantenere nel
limbo della marginalità una figura professionale a cui la leg‑
ge attribuisce, sia pure in modo parsimonioso, funzioni assai
delicate: una figura opaca e maldefinita quella del mediatore
familiare e questa situazione di precaria incertezza è tanto più
evidente se la si confronta con quella del mediatore civile e
commerciale.
Ad oggi, sul piano della formazione17, un ruolo impor‑
tante è svolto di fatto dalle sole principali associazioni di
mediatori familiari. Non mancano, tuttavia, iniziative simili
anche presso Università ed enti di ricerca. Il tutto è lasciato
però alla discrezionalità di tali soggetti, che tentano di tras‑
mettere ai mediatori familiari tutte quelle nozioni di psicolo‑
gia, sociologia e diritto necessarie nelle mediazioni familiari
che saranno chiamati a guidare. Discrezionalità, i cui risvolti
negativi sono già stati ampiamente analizzati, che non con‑
tribuiscono di certo alla diffusione, nell’opinione pubblica, di
quel senso di fiducia nei mediatori necessario per affrontare
con serietà e collaborazione un percorso di mediazione.
Lo stesso dicasi per i doveri imparzialità, riservatezza e
terzietà, affidati, almeno nel quadro della mediazione preven‑
tiva‑stragiudiaziale a meri codici deontologici adottati dalle
principali associazioni di mediatori familiari18.
Diverso discorso nell’ambito della mediazione familiare
endoprocessuale, laddove la qualifica, sostenuta dalla dottri‑
na e dalla giurisprudenza prevalente, dei mediatori quali au‑
siliari del giudice, sia pure atipici, impone loro una serie di
doveri. “Infatti il mediatore, quale ausiliare designato a norma
dell’art. 68, ha l’obbligo di riferire al giudice l’esaurimento del
proprio compito e di informarlo se la mediazione è riuscita o
no. Per il rimanente, è pacifico che debba osservare scrupolo‑
17Sul punto Impagnatiello, op. cit., pp 525 s.s. osserva quanto segue: ‹‹Come
si è visto, l'art. art. 1 del Dlgs. n. 28 del 2010 definisce non solo la mediazione,
ma anche la figura del mediatore. Il successivo d.m. n. 180 del 2011, nel dare
attuazione al decreto legislativo, ha previsto i requisiti dei quali il mediatore
deve essere in possesso ai fini dell'accreditamento presso il Ministero della
Giustizia. In particolare, l'art. 4, comma 3, del d.m. stabilisce che il mediatore
deve possedere, oltre ai consueti requisiti di onorabilità (non avere riportato
condanne definitive per delitti non colposi o a pena detentiva non sospesa, non
essere incorso nell'interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici etc.): a)
un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale
ovvero, in alternativa, l'iscrizione a un ordine o collegio professionale; b) una
specifica formazione e uno specifico aggiornamento almeno biennale. Orbene,
non si può fare a meno di constatare che i percorsi formativi testé descritti sono
diversi e, si licet, meno rigorosi rispetto a quelli che le associazioni di settore
reputano necessari per l'acquisizione della qualifica di mediatore familiare. Per
esempio, l'art. 12 del Regolamento interno dell'A.I.Me.F. stabilisce, fra l'altro,
che i corsi devono avere una durata non inferiore a dodici mesi e un numero di
ore complessivo non inferiore a duecentoventi; il numero delle ore sulla medi‑
azione familiare, fra teoria ed esercitazioni, non deve essere inferiore a cen‑
toventi e il numero delle ore di stage a quaranta; il direttore didattico del corso
deve essere un mediatore familiare A.I.Me.F. o appartenente ad altre associazi‑
oni di mediatori familiari riconosciute; l'esame finale, al quale possono accedere
solo gli iscritti al corso accreditato e con almeno l'80% della frequenza effet‑
tiva delle lezioni e degli stages, deve svolgersi alla presenza di un osservatore
A.I.Me.F. ed essere articolato in una tesi e in un esame scritto e pratico con
attribuze di un giudizio complessivo››.
18Tutte le principali associazioni tra mediatori, come l'A.I.Me.F., la S.I.Me.F. o
l'A.I.M.S., si sono dotati di codici deontologici al cui rispetto è riconnessa grande
importanza.
2 0 1 3
35
samente un dovere di riservatezza che gli impedisce di porta‑
re a conoscenza del giudice quanto è avvenuto nel corso della
mediazione per evitare che il giudice possa desumere dal
comportamento delle parti davanti al mediatore argomenti di
prova a norma dell’art. 116 c.p.c.
Non vi è traccia nella legge dell’esistenza di questo dovere
di riservatezza, ma si tratta di un dovere coerente con la na‑
tura delle funzioni attribuite al mediatore: ne è riprova, la
specifica disciplina del dovere di riservatezza che grava sul
mediatore delle controversie civili e commerciali (. 10, d.lgs.
n. 28/2010)”. Naturalmente i “metodi e le modalità di inter‑
vento dei centri ovviamente dovranno rimanere del tutto au‑
tonomi, ed incondizionati, espressione della professionalità
dei singoli operatori e di tutta l’equipe. È indubbio, che, se‑
condo i casi, un intervento propositivo (e non solo limitato a
rimediare il contrasto tra le parti) potrebbe rivelarsi assai
utile.
Si è detto della disputa tra privato e pubblico anche nella
mediazione familiare. Tuttavia, ai centri e alle istituzioni
private, convenzionate o meno, cui si devono i primi interven‑
ti di mediazione familiare nel nostro paese, potrebbero, in
prospettiva, affiancarsi non i servizi dell’ente locale, ma spe‑
ciali uffici nell’ambito dei servizi, di elevata professionalità,
con personale stabile e non itinerante, con strutture agili e
non burocratizzate, e con compiti limitati agli interventi so‑
praindicati. Del resto la l. 29 luglio 1975, n. 405 sui consul‑
tori familiari aveva come scopo precipuo proprio “l’assistenza
psicologica e sociale per i problemi della coppia e della fami‑
glia, anche in ordine alle problematiche minorili. Stante la
delicatezza delle funzioni da assolvere, è proprio sull’elevata
professionalità, nel settore privato come di quello pubblico,
che si dovrebbe insistere: equipe socio‑sanitaria composta da
medici, psicologi, assistenti sociali, integrata, in taluni casi,
da un esperto di diritto o da un commercialista. È interesse
di tutti (e in ciò il consenso dovrebbe essere unanime) che i
coniugi riprendano un colloquio, ricostituiscano un rapporto,
soprattutto quando vi siano figli minori e che comunque
giungano all’udienza presidenziale privi di quell’animosità che
troppo spesso caratterizza il processo o comunque possano
superare e comporre le fasi di più acuta conflittualità in corso
di causa. Tale auspicio è la più evidente riprova della profon‑
da utilità dell’intervento del mediatore familiare19”.
c) In mancanza di specifici indici interpretativi di segno
contrario, dobbiamo ritenere irrilevante, ai fini della valuta‑
zione del grado di vincolatività ed efficacia degli accordi tra
coniugi, il fatto che gli stessi siano stipulati al termine di un
percorso di mediazione, in presenza del mediatore, piuttosto
che a seguito di una più usuale negoziazione tra le parti e i
loro avvocati, od ancora per mero accordo dei coniugi, privi
di assistenza ed ausilio di sorta.
Ne consegue che l’espressione «accordi di mediazione»
non potrà che intendersi, nel caso di specie, come «accordi di
separazione», posto che il richiamo alla mediazione costitui‑
sce un mero riferimento spazio‑temporale che non influisce
sul grado di efficacia degli accordi: efficacia che, evidente‑
mente, deriva dalla natura negoziale degli accordi, e non di‑
pende dal luogo e dalle modalità di stipulazione degli stessi.
19 Così Dogliotti, op. cit., p. 76.
civile
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36
D i r itto
e
p r o c e du r a
Accordo, secondo i casi, di separazione consensuale, di divor‑
zio congiunto, di modifica consensuale delle condizioni di
separazione o di divorzio, ma anche accordo fra conviventi,
accordo di separazione di fatto, e magari anche accordo pre‑
matrimoniale.
A tal fine, al di là delle diverse modalità di conduzione e
dei temi trattati, è importante, come sottolineato da attenta
dottrina “che venga compresa la differenza tra un accordo
temporaneo (che fa parte del processo di negoziazione e che
permette la verifica della fattibilità della scelta e della soddi‑
sfazione dei bisogni), il progetto d’intesa (che rappresenta la
volontà condivisa dalla coppia durante il processo di media‑
zione) e i veri e propri accordi di separazione consensuale. Le
parti sono incoraggiate a discutere con i loro avvocati le so‑
luzioni riportate nel progetto d’intesa: esso riporta gli accordi
raggiunti in mediazione, sui quali può essere necessaria una
consulenza legale prima di stipulare gli accordi che saranno
oggetto del ricorso di separazione consensuale e, successiva‑
mente, verranno sottoscritti nel verbale di separazione sotto‑
posto all’omologazione del Tribunale competente.
Si consideri, peraltro, che anche una mediazione dalla
quale scaturisca solo un accordo parziale, o addirittura dalla
quale non emerga alcun accordo, non è affatto una mediazio‑
ne fallita, in quanto il tempo dedicato al processo di media‑
zione costituisce un vero e proprio «investimento» in termini
relazionali.
Abbiamo già visto che uno dei principali obiettivi del
percorso di mediazione familiare è, oltre alla ricerca di solu‑
zioni condivise, quello di tentare di ritrovare una modalità
relazionale e comunicativa costruttiva. Anche nel caso in cui
non si raggiunga l’accordo, il mediatore e la coppia possono
rilevare un nuovo stile di comunicazione verbale e non ver‑
bale, anche nel litigare
Gli accordi assunti ad esito del percorso di mediazione non
sono frutto di un compromesso, ovvero di una transazione,
che vede entrambi rinunciare a parte delle proprie pretese, ma
il risultato di un cambiamento relazionale dei due protagoni‑
sti, che può avvenire solo grazie ai tempi, agli strumenti e
alle tecniche della mediazione familiare.
Se prescindiamo dai problemi di prova (attesa anche la
probabile incapacità a testimoniare del mediatore), anche i
patti stipulati verbalmente saranno in linea di principio mu‑
niti della medesima efficacia, posto che gli accordi di separa‑
zione non si devono ritenere soggetti ad alcun obbligo di
forma.
Piuttosto, conviene ricordare che gli accordi di separazio‑
ne raggiunti ad esito del percorso di mediazione, alla stregua
di quelli stipulati in altro contesto, hanno un’efficacia comun‑
que limitata ai rapporti fra le parti, e non li vincolano più di
un accordo di separazione di fatto: infatti, a norma de‑
gli artt. 158 c.c. e 711 c.p.c., gli accordi di separazione pos‑
sono produrre gli effetti tipici della separazione legale solo a
seguito dell’omologazione20.
20Più specificamente, si considerino le seguenti ipotesi:
a) l'accordo di separazione non viene trasfuso in alcun ricorso di separazione
consensuale;
b) l'accordo di separazione viene trasfuso in un ricorso di separazione consensuale
ma – prima dell'udienza – uno dei coniugi revoca il consenso prestato, o co‑
munque non si presenta all'udienza, oppure, all'udienza stessa, si rifiuta di
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Dall’analisi compiuta emergono le “luci” e con esse le
“ombre” della mediazione familiare, ad oggi “agganciata” ad
una normativa chiaramente scarna e bisognosa, a nostro av‑
viso, di una interpretazione capace di “sciogliere”, in attesa
di un più ampio intervento del legislatore, i diversi “nodi” di
carattere sostanziale e procedurale.
Sebbene l’esigenza che ne è alla base appaia ormai intuiti‑
vamente condivisa dalla generalità dei cittadini, lo stesso
significato dell’espressione “mediazione familiare” appare
avvolta in una “nebbiosa” incertezza.
Le cause appaiono riconducibili alla eterogeneità degli
orientamenti della dottrina e della giurisprudenza emersi in
ordine ad aspetti chiave della mediazione familiare: l’oggetto;
le sue peculiarità rispetto ad altri tipi di intervento; la profes‑
sionalità richiesta al mediatore; i percorsi formativi necessari;
il rapporto con il processo; la possibile qualifica come ausil‑
iario del giudice; la garanzia di tutela della riservatezza.
Problemi “tecnici” risolvibili con un intervento del legis‑
latore, capace di incidere con coerenza, regolando in modo
uniforme: la mediazione, sia essa stragiudiziale o endoproces‑
suale; la figura del mediatore familiare, prevedendo requisiti
di professionalità, terzietà e imparzialità; le modalità di ac‑
cesso; le categorie di professionisti ammessi.
Sui versanti del procedimento, dei doveri del mediatore
familiare, nonché della formazione e delle modalità di ac‑
cesso, di grande aiuto, quale modello, potrebbe risultare la
disciplina dettata per i mediatori civili e commerciali, natu‑
ralmente con i necessari accorgimenti legati alle peculiarità
della mediazione familiare. Quanto all’individuazione delle
categorie ammesse, invece, preferibile sarebbe prevedere
l’accesso non solo per psicologi, ma anche per professionisti
di diversa estrazione culturale, a cominciare dai cultori delle
discipline giuridiche ed economiche, in modo da rispondere
a pieno alle complesse esigenze sottese ad un modello di me‑
diazione familiare interdisciplinare, l’unico, a nostro avviso,
capace di dare risposte articolate e complete, sia nel quadro
delle mediazioni stragiudiziali sia in quelle endoprocessuali,
alle diverse problematiche celate nella eterogeneità delle cause
dei conflitti familiari.
Tale intervento è evidentemente ineludibile, ma risulta nel
contempo insufficiente nella misura in cui la novella non
costituisca espressione di una nuova forma mentis, ma solo l’
“espediente tecnico” per risolvere problemi pratici.
L’affermazione piena della mediazione familiare passa neces‑
sariamente anche attraverso riforme strutturali del nostro
sistema processuale, costruite alla luce di una “nuova idea di
giurisdizione”, nella cui cornice ridisegnare i ruoli e i profili
di magistrati e avvocati.
In passato 21 piuttosto che incoraggiare una separazione
senza conflitti, il legislatore guardava con profonda diffi‑
sottoscrivere il verbale di separazione;
c) l'accordo di separazione viene trasfuso in un ricorso di separazione consensuale
e all'udienza i coniugi sottoscrivono il verbale di separazione ma – prima
dell'omologazione – uno dei coniugi revoca il consenso prestato;
d) l'accordo di separazione, trasfuso nel ricorso di separazione consensuale, non
viene omologato perché il Tribunale rifiuta di provvedervi (cfr. art. 158, co.,
c.c.).
21Sul punto cfr. Impagnatiello, op. cit., 525 ss. “In primo luogo, esiste un
problema culturale, che scaturisce dal fatto che il nostro processo civile è in‑
trinsecamente contenzioso”.
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37
civile
denza alla separazione tout court; e la funzione del tentativo
di conciliazione era esclusivamente quella di scongiurare la
rottura della convivenza tra i coniugi. Se proprio ci si doveva
separare, meglio era – secondo la logica del tempo – una
separazione giudiziale (allora soltanto per colpa) dove sarebbe
stato precisamente individuato il responsabile del fallimento
matrimoniale.
Oggi il tentativo di ricostituire un rapporto tra i coniugi
non dovrebbe tendere unicamente ad una ripresa della convi‑
venza, ma piuttosto a pervenire ad una separazione concor‑
data, capace di garantire tempi più brevi, costi economici
meno elevati, con l’ulteriore e significativo vantaggio di una
tenuta del rapporto personale dei coniugi, diversamente strut‑
turato, specie a vantaggio dei figli minori.
Insomma, oggi è possibile credere, prevedendo incentivi
concreti, nella mediazione familiare: la vera difficoltà sta nel
“fuggire” dalle “vecchie idee” e dagli interessi ad essa sotte‑
si.
Vale quanto detto all’inizio. La mediazione familiare va
incentivata, non solo e non tanto in ragione di deflazione
giudiziaria, quanto in funzione di una ristrutturazione con‑
divisa delle relazioni personali all’interno della famiglia 22
22
Cfr. F. Bocchini, Diritto di famiglia. Le grandi questioni, Torino, 2013,
pp. 33‑34.
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D i r itto
●
e
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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. CIV. II
sentenza 09 maggio 2013, n.10989
Pres. Piccialli; Est. Matera
Trascrizione e conflitto
tra l’acquirente
“a domino”
e l’acquirente
“a non domino”
Nota a Corte di Cassazione, sezione civile II,
09 maggio 2013, n.10989
● Daria Valletta
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
Trascrizione – effetti
Nell’ipotesi di conflitto tra un acquisto “a domino” e un
acquisto “a non domino” dello stesso bene, non opera l’isti‑
tuto della trascrizione, la cui funzione legale – esclusa ogni
efficacia sanante i vizi da cui fosse eventualmente affetto
l’atto negoziale trascritto – è solo quella di risolvere il con‑
flitto tra soggetti che abbiano acquistato lo stesso diritto,
con distinti atti, dal medesimo titolare.
(Omissis)
Motivi della decisione
1) Preliminarmente deve dichiararsi l’inammissibilità del
controricorso, notificato alla ricorrente ben oltre il matura‑
re del termine perentorio previsto dall’art. 370 c.p.c..
Siffatta inammissibilità comporta che non può tenersi
conto del controricorso, ma non incide sulla validità ed ef‑
ficacia della procura speciale alle liti rilasciata dalla resisten‑
te al difensore, il quale, pertanto, ha legittimamente parte‑
cipato alla discussione orale in udienza.
2) Con il primo motivo, articolato in due censure (“A” e
“B”), la ricorrente denuncia l’omessa ed insufficiente moti‑
vazione, nonché la violazione dell’art. 1362 c.c., e segg..
Deduce che la Corte di Appello, ai fini della descrizione
dell’immobile e dell’oggetto della compravendita B*** – L***
del 14‑3‑1986 per notaio Lebano, ha tenuto conto solo delle
piantine allegate a tale atto e colorate in “rosa”, omettendo
di valutare gli atti negoziali di provenienza precedenti a tale
vendita, e in particolare l’atto di compravendita del 24‑10‑1985
per notaio Grimaldi, con il quale il C*** aveva trasferito al
B*** la proprietà dell’immobile di via (OMISSIS) (indicato
come porzione A, costituito da un “pianerottolo comune,
locale (OMISSIS)”), nonché il contenuto della procura a
vendere del 16‑9‑1985 conferita dalla Finartgest al C*** (nel
quale si parla di “appartamento sito al piano quinto… por‑
zione per variazione dell’unità immobiliare contraddistinta
in catasto alla partita 29593… mapp. 233, sub da 43 a 54
compresi”.). Sostiene che le indicazioni catastali e le coeren‑
ze contenute nei predetti atti depongono in senso favorevole
alla tesi dell’attrice. Rileva, inoltre, che il giudice del gravame
non ha tenuto conto del tenore letterale della procura, nella
quale si parla di “appartamento” in riferimento allo stabile
di via (OMISSIS) e di “intero sottotetto” per lo stabile di
(OMISSIS) corpo “B” e “C”; dal che si desume chiaramente
che l’oggetto della procura non poteva consistere nell’intero
sottotetto, che diversamente sarebbe stato indicato in tal
modo.
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta l’omessa e
insufficiente motivazione, non avendo la Corte di Appello
dato adeguato conto delle ragioni per le quali si è discostata
dalle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, dalle quali
risulta che l’acquisto della convenuta è avvenuto “a non do‑
mino”, tranne che per la porzione “A” indicata nella procura,
non essendo il dante causa B.L. proprietario degli immobili a
lei venduti, ma al massimo della sola porzione “A”, che il
C.T.U. ha chiarito essere di estensione di mq. 10‑15 circa.
Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazio‑
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ne dell’art. 1723 c.c., in relazione alla ritenuta irrilevanza
della revoca, intervenuta il 17‑9‑1985, della procura rila‑
sciata il 16‑9‑1985 dalla Finartgest al C***, in forza della
quale quest’ultimo ha venduto al B*** i beni successiva‑
mente alienati da quest’ultimo alla L*** in data 14‑3‑1986.
Deduce che la Corte di Appello, nel ritenere che, trattan‑
dosi di procura “irrevocabile” ai sensi dell’art. 1723 c.c.,
la successiva revoca non poteva avere alcun effetto, non ha
considerato che tale norma disciplina esclusivamente l’ipo‑
tesi di “mandato irrevocabile”, senza estendersi alla pro‑
cura, che costituisce un atto unilaterale sempre revocabile.
Nella specie, pertanto, la revoca della procura ha determi‑
nato l’estinzione del potere di rappresentanza ex art. 1396
c.c.; con la conseguenza che il contratto concluso dal C***,
rappresentante senza poteri, deve considerarsi privo di
validità.
Con il quarto motivo, infine, la ricorrente lamenta la
violazione degli artt. 2643 e 2644 c.c.. Sostiene che la
Corte di Appello ha errato nel risolvere la causa facendo
riferimento al principio della priorità della trascrizione dei
diversi atti di acquisto. Il giudice di merito, al contrario,
avrebbe dovuto verificare, attraverso l’analisi degli atti di
provenienza della convenuta, quale dei due acquisti fosse
stato “a non domino”. Nell’ipotesi di conflitto tra acquisto
a domino ed acquisto a non domino del medesimo bene,
infatti, non opera l’istituto della trascrizione, che è una
forma di pubblicità legale intesa soltanto a risolvere il
conflitto tra soggetti che abbiano acquistato lo stesso di‑
ritto, con distinti atti, dal medesimo proprietario, senza
alcuna efficacia sanante dei vizi di cui sia affetto l’atto
negoziale.
3) I primi due motivi appaiono meritevoli di accogli‑
mento, alla luce del giudicato formatosi in altro procedi‑
mento, conclusosi con sentenza della Corte di Appello di
Milano n. 2207/2007, confermata dalla Corte di Cassazio‑
ne con sentenza 19044/2010, nel quale erano parti proces‑
suali la stessa S***C***V***D***C*** e B*** L***, dante
causa di L***M***B***.
Giova rammentare che, nel giudizio di cassazione, l’esi‑
stenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudica‑
to interno, rilevabile di ufficio anche quando il giudicato si
sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza
impugnata; e, nel caso in cui consegua ad una sentenza
della Corte di Cassazione, la cognizione di quest’ultima
può avvenire pure mediante quell’attività di istituto (rela‑
zioni, massime ufficiali) che costituisce corredo della ricer‑
ca del collegio giudicante, in tal senso deponendo il dupli‑
ce dovere incombente sulla Corte di prevenire il contrasto
tra giudicati, in coerenza con il divieto del “ne bis in idem”,
e di conoscere i propri precedenti, nell’adempimento del
dovere istituzionale derivante dall’esercizio della funzione
nomofilattica di cui all’art. 65 dell’ordinamento giudiziario
(Cass. 30‑12‑2011 n. 30780; Cass. Sez. Un. 17‑12‑2007
n. 26482).
Nella specie, di conseguenza, nessuna preclusione all’in‑
dagine sull’esistenza del giudicato può derivare dal fatto
che la relativa questione sia stata prospettata dalla ricor‑
rente nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.,
e che il giudicato si sia formato in un momento successivo
2 0 1 3
39
alla pronuncia della sentenza di appello impugnata nel
presente giudizio.
Tanto premesso, si osserva che, come emerge dalla let‑
tura della menzionata sentenza della Corte di Cassazione
n. 19044/2010, anche nel predetto procedimento si contro‑
verteva in ordine alla interpretazione ed alla portata della
procura rilasciata dalla Finastgest al C*** il 16‑9‑1985 e
del conseguente atto di compravendita stipulato tra quest’ul‑
timo (in rappresentanza della Finastgest) e B***L*** in
data 24‑10‑1985; atto a seguito del quale il B*** ha vendu‑
to gli immobili acquistati alla L. per quanto interessa nel
presente giudizio e ad altri soggetti per quanto ha costitui‑
to oggetto dell’altro giudizio.
Orbene, nel citato procedimento è stato accertato che sia
la procura irrevocabile in data 16‑9‑1985 rilasciata dalla Fi‑
nartgest s.r.l. al C***, sia l’atto di compravendita del
24‑10‑1985, intercorso tra il C***, quale procuratore della
Finartgest s.r.l., e il B***, avevano ad oggetto non già l’intero
piano sottotetto dell’immobile sito in (OMISSIS), ma solo una
limitata porzione di esso (corrispondente, secondo le indica‑
zioni del C.T.U., a circa 10‑11 mq.) e, precisamente, quella che
nei predetti atti era stata indicata con la lettera A; porzione
che costituiva una conseguenza della variazione dell’unità
immobiliare contraddistinta in catasto alla partita 25593,
foglio 380, mappale 233, sub. 43‑44‑45‑46‑47‑48‑4950‑51‑52‑53‑54, e che nell’atto di compravendita del 24‑10‑1985
veniva descritta con la indicazione delle seguenti coerenze:
“pianerottolo comune, locale interno (OMISSIS)”.
È pacifico, in giurisprudenza, che gli aventi causa nei cui
confronti, a norma dell’art. 2909 c.c., fa stato l’accertamen‑
to contenuto nella sentenza passata in giudicato, sono quei
soggetti che, dopo la formazione del giudicato, sono suben‑
trati nella titolarità delle correlative situazioni giuridiche,
attive e passive, dedotte in giudizio e sulle quali incide il
comando giurisdizionale passato in giudicato (Cass.
16‑ 4 ‑2012 n. 5972; Cass. 22‑5‑1979 n. 2959; Cass.
24‑2‑1981 n. 1131; Cass. 23‑10‑1985 n. 5194).
Nella specie, al contrario, l’odierna resistente ha acqui‑
stato a titolo derivativo dal B*** l’immobile per cui si con‑
troverte in un momento anteriore alla formazione dell’invo‑
cato giudicato.
Come è stato più volte affermato dalla giurisprudenza,
tuttavia, il giudicato, oltre ad avere, ai sensi del citato
art. 2909 c.c., una sua efficacia diretta nei confronti delle
parti, degli eredi ed aventi causa, è dotato anche di una
efficacia riflessa, nel senso che la sentenza, come afferma‑
zione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche
nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo in cui
è stata emessa, allorquando questi siano titolari di un dirit‑
to dipendente dalla situazione definita in quel processo o
comunque di un diritto subordinato a tale situazione (tra le
tante v. Cass. 11‑3‑2005 n. 5381; 24‑1‑ 1995 n. 792; Cass.
14 ‑7‑1988 n. 4605; Cass. 21‑3‑1990 n. 2344; Cass.
10‑10‑1991 n. 10654). In particolare, l’operatività di tale
efficacia riflessa è stata riconosciuta nel caso dell’acquiren‑
te di un diritto di proprietà esclusiva su di un bene, rispetto
al giudicato formatosi tra il suo dante causa e coloro che
hanno rivendicato il diritto di comproprietà sul medesimo
bene, indipendentemente dalla trascrizione della domanda
di rivendica anteriormente a quella dell’atto di acquisto
civile
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intervenuto tra il terzo e il convenuto nel giudizio di revin‑
dica (art. 2653 c.c., n. 1) essendo inoperanti i relativi prin‑
cipi (Cass. 12‑11‑1997 n. 11153).
Alla luce degli enunciati principi, ai fini della decisione
della presente controversia si deve tener conto dell’efficacia
riflessa dell’invocato giudicato nei confronti della odierna
resistente, il cui titolo di acquisto dell’immobile proveniva
proprio da B. L., il quale, secondo quanto accertato nel
precedente giudizio, non poteva disporre della proprietà
dell’intero sottotetto, ma solo della porzione contraddistin‑
ta dalla lett. A), da lui acquistata con atto del 24‑10‑1985.
L’accertamento della legittimità dell’atto di compravendita
intercorso tra il B*** e la L., infatti, presuppone la neces‑
saria verifica della sussistenza, nell’alienante, della titolari‑
tà dei beni venduti.
L’accoglimento dei motivi in esame comporta l’assorbi‑
mento del quarto, essendo la questione dell’operatività del
criterio della trascrizione strettamente connessa a quella
dell’accertamento della provenienza del bene acquistato
dalla convenuta dal legittimo proprietario. Come è noto,
infatti, nell’ipotesi di conflitto tra un acquisto “a domino”
ed un acquisto “a non domino” dello stesso bene, non ope‑
ra l’istituto della trascrizione, la cui funzione legale – esclu‑
sa ogni efficacia sanante i vizi da cui fosse eventualmente
affetto l’atto negoziale trascritto – è solo quella di risolvere
il conflitto tra soggetti che abbiano acquistato lo stesso
diritto, con distinti atti, dal medesimo titolare (cfr. Cass.
27‑3‑2007 n. 7523).
4) Il terzo motivo deve essere disatteso.
La Corte di Appello, nel rigettare il motivo di gravame
non cui si sosteneva che la procura rilasciata dalla Finart‑
gest al C*** in data 16‑9‑1985 era stata revocata, non si è
limitata ad affermare che, trattandosi di procura irrevoca‑
bile, la successiva revoca non poteva avere alcun effetto, ma
ha altresì osservato, richiamando il disposto dell’art. 1398
c.c., che il contratto concluso dal falsus procurator doveva
comunque ritenersi pienamente valido nei confronti del
terzo contraente in buona fede.
Con il motivo in esame la ricorrente ha censurato solo
la prima argomentazione, mentre nulla ha detto in ordine
all’altra, di per sé idonea a sorreggere la decisione.
Ciò posto, va rammentato che, secondo il costante orien‑
tamento di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione,
qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità
di ragioni, tra loro distinte ed autonome e singolarmente
idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, l’omessa
impugnazione di tutte le rationes decidendi rende inammis‑
sibili, per difetto di interesse, le censure relative alle singo‑
le ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in
quanto queste ultime, quand’anche fondate, non potrebbero
comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle
altre non impugnate, all’annullamento della decisione stes‑
sa (v. per tutte Cass. S.U. 8‑8‑ 2005 n. 16602).
5) La sentenza impugnata va cassata in relazione ai
motivi accolti, con rinvio ad altra Sezione della Corte di
Appello di Milano, la quale provvederà anche sulle spese
del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
(Omissis)
c i v il e
Gazzetta
F O R E N S E
La fattispecie in esame
La decisione in commento, che pure non si segnala per
particolare diffusività nello sviluppo delle argomentazioni
giuridiche poste a suo fondamento, appare interessante
nella misura in cui offre spunto per l’esame e l’approfondi‑
mento del tema della doppia alienazione immobiliare in
relazione all’istituto della trascrizione, implicando la trat‑
tazione di questioni di grande rilievo pratico e di non sem‑
plicissimo accesso.
Nel caso sottoposto all’esame della Suprema Corte un
soggetto, acquirente dell’intero piano sottotetto di un im‑
mobile, aveva convenuto in giudizio un altro soggetto il
quale, a sua volta, con atto anteriormente trascritto, si era
reso acquirente di una porzione del medesimo bene. In
particolare, l’attrice in primo grado aveva chiesto al giudice
adito di dichiarare la nullità e l’inefficacia dell’atto anterior‑
mente trascritto – opposto dalla convenuta – in quanto
colui che figurava quale venditore in tale atto non aveva mai
acquistato la proprietà del bene: e difatti, si assumeva,
l’alienante aveva, a sua volta, acquistato l’immobile da un
soggetto che non era munito di procura a vendere.
All’esito dei giudizi di primo e di secondo grado l’attrice/
appellante era risultata soccombente, di talché aveva pro‑
posto ricorso per Cassazione articolando diverse censure
avverso la sentenza d’appello.
La Suprema Corte nel decidere il gravame ha osservato
che la questione relativa all’estensione della procura a ven‑
dere era stata già esaminata dalla Corte in altro giudizio,
all’esito del quale era stato accertato che la procura a ven‑
dere l’immobile (a fondamento dell’acquisto della resistente
nel procedimento di Cassazione in esame) non aveva ad
oggetto l’intero piano sottotetto, ma solo una limitatissima
parte dello stesso (pari a poche decine di metri quadrati).
Benché la resistente avesse acquistato il bene prima di tale
pronuncia (sicché restava preclusa la possibilità di ritenere
che il giudicato esplicasse efficacia diretta nei suoi confron‑
ti), la Corte ha ritenuto che fosse comunque possibile rite‑
nere operante l’efficacia riflessa della decisione richiamata
rispetto al caso sottoposto al suo esame: la Cassazione si è
riferita all’orientamento, più volte già espresso in preceden‑
ti arresti, a mente del quale la sentenza, contenendo “un’af‑
fermazione oggettiva di verità” è idonea a produrre conse‑
guenze giuridiche anche nei confronti dei soggetti rimasti
estranei al giudizio ma titolari di situazioni dipendenti da
quella definita nel processo, ovvero di diritti subordinati a
tale situazione1.
Partendo da queste premesse, la Corte ha stabilito che
il difetto della procura a vendere aveva impedito il legittimo
1
La Corte richiama sul punto alcune decisioni, tra le quali si riporta, in quanto
di particolare interesse rispetto alla fattispecie in esame: “Il giudicato, pur non
potendo pregiudicare i terzi titolari di un diritto incompatibile con quello ac‑
certato dalla sentenza, se rimasti estranei al relativo giudizio, come affermazione
imperativa di verità esplica però effetti riflessi anche nei confronti di coloro che,
pur estranei al processo, sono titolari di un diritto dipendente da quello in esso
accertato, come nel caso dell'acquirente di un diritto di proprietà esclusiva su
di un bene, rispetto al giudicato formatosi tra il suo dante causa e coloro che
hanno rivendicato il diritto di comproprietà sul medesimo bene, indipendent‑
emente dalla trascrizione della domanda di rivendica anteriormente a quella
dell'atto di acquisto intervenuto tra il terzo e il convenuto nel giudizio di re‑
vindica (art. 2653, n. 1, cod. civ.), essendo inoperanti i relativi principi” Cass.,
sez. II, 11 dicembre 1997, n.11153.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
trasferimento della proprietà dell’immobile al dante causa
della resistente (convenuta nel primo grado del giudizio in
esame), cosicché quest’ultima non aveva acquistato dall’ef‑
fettivo titolare del bene. La Corte ha poi concluso afferman‑
do che, avendo la resistente acquistato a non domino,
l’avvenuta trascrizione del titolo, ancorché posta in essere
anteriormente alla trascrizione del titolo di acquisto della
ricorrente, non poteva valere a consolidare l’acquisto effet‑
tuato dalla resistente, attesa la funzione dell’istituto della
trascrizione, che non è quella di sanare i vizi di un titolo
invalido, ma solo di precostituire una forma di pubblicità
idonea a consentire la soluzione del conflitto tra più sogget‑
ti che abbiano acquistato dal medesimo dante causa.
La doppia alienazione e la funzione della trascrizione nell’ordi‑
namento
Come osservato in premessa, la decisione in commento
richiama il tema della funzione dell’istituto della trascrizio‑
ne nel nostro ordinamento e impone di distinguere tra le
ipotesi nelle quali la trascrizione consente di risolvere il
conflitto tra titoli vantati da diversi soggetti in ordine al
medesimo bene e quelle in cui il contrasto deve trovare so‑
luzione sulla base di diversi principi.
Allo scopo di comprendere gli esatti termini della que‑
stione in esame, si impone una breve ricostruzione del
quadro normativo di riferimento.
Appare opportuno, in primo luogo, ricordare che la
trascrizione è un sistema di pubblicità degli atti elencati
dagli artt. 2643 c.c.e ss 2 . che, assolvendo a diverse funzioni
(principalmente, appunto, quella di fornire uno strumento
di risoluzione del conflitto tra più acquirenti dallo stesso
dante causa) ha, normalmente, un’efficacia meramente di‑
chiarativa e non anche costitutiva: si intende dire con ciò
che l’atto trascrivibile è in sé perfetto ed efficace, e la sua
trascrizione corrisponde all’assolvimento di un onere che
consente alla parte di non vedere vanificato il proprio ac‑
quisto a causa della prioritaria trascrizione di altro titolo
ad iniziativa del secondo avente causa dal medesimo auto‑
re.
È proprio la natura dichiarativa della trascrizione che
svela, per così dire, la complessità esegetica del tema in
esame, e cioè quello della doppia alienazione immobiliare,
ponendo agli interpreti l’arduo compito di conciliare il
principio consensualistico posto dall’art. 1376 c.c. con il
disposto dell’art. 2644 c.c.
Come noto, infatti, in virtù del principio del consenso
traslativo posto dalla prima delle due disposizioni citate, la
proprietà si trasferisce in virtù del solo consenso delle par‑
2
Si rammenta che in epoca relativamente recente il catalogo degli atti soggetti
a trascrizione è stato ampliato dalla nuova previsione del comma 2 bis
dell’art. 2643 c.c., inserito dall'art. 5 D.L. 13 maggio 2011, n. 70 come mod‑
ificato dall'allegato alla legge di conversione, L.12 luglio 2011, n.106 (G.U.
12.07.2011, n.160), con decorrenza dal 13 luglio 2011, che prevede la trascriz‑
ione de: “i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti ed‑
ificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali,
ovvero da strumenti di pianificazione territoriale”. La norma ha acceso un vi‑
vace dibattito dottrinale, tuttora aperto, volto a risolvere le diverse questioni
che la disposizione pone, quali l’individuazione dei tipi e della natura giuridica
dei diritti edificatori, la determinazione dell’oggetto della trascrizione e
l’identificazione dei riflessi di tale adempimento sull’azione discrezionale della
PA.
2 0 1 3
41
ti legittimamente manifestato3. In materia di trasferimento
di diritti reali è dunque sufficiente il semplice accordo delle
parti per produrre l’effetto voluto: facendo applicazione di
tale principio alla fattispecie della doppia alienazione im‑
mobiliare, ne discende, a rigore, che con la prima alienazio‑
ne il dante causa si spoglia del diritto alienato, con la con‑
seguenza che, ove ponesse in essere un secondo atto di
trasferimento, l’avente causa di tale seconda negoziazione
si troverebbe ad avere acquistato da chi non era più in gra‑
do di disporre del diritto ceduto (si dovrebbe dunque fare
applicazione del brocardo “nemo plus iuris ad alium tran‑
sferre potest quam ipse habet”): si realizzerebbe quindi un
acquisto a non domino.
Non a caso si è finora usato il condizionale. Vi è infatti,
come noto, che il legislatore ha dettato con la previsione
dell’art. 2644 c.c. una disposizione che si pone (almeno
apparentemente) in disarmonia con il quadro appena deli‑
neato, rimandando dunque all’interprete il delicato compito
di ricondurre a sistema la norma: l’art. 2644 c.c. fa infatti
salvo l’acquisto del secondo acquirente il quale abbia tra‑
scritto il proprio titolo anteriormente alla trascrizione del
titolo del primo acquirente 4. Ora, se la ratio a fondamento
della disposizione in esame appare chiara, e si ricollega in‑
dubbiamente all’esigenza di assicurare certezza nei traffici
giuridici, cionondimeno resta da spiegare la vicenda trasla‑
tiva appena descritta e la sua “devianza” rispetto al principio
di cui all’art. 1376 c.c. Le sfumature della questione si ar‑
ricchiscono ove si consideri che, come evidenziato poc’anzi,
la trascrizione che è istituto al quale si ricollega normalmen‑
te un’efficacia meramente dichiarativa, sembrerebbe in
questo caso esplicare un’efficacia costitutiva (consentendo
il consolidamento dell’acquisto del secondo avente causa)
ovvero sanante dell’invalidità del secondo acquisto.
La dottrina e la giurisprudenza si sono lungamente im‑
pegnate nell’elaborazione di diverse teorie volte a ricondur‑
re a sistema l’anomalia posta dall’art. 2644 c.c.: in epoca
più risalente si è ricondotto alla trascrizione un effetto
conservativo, tale da consentire il consolidamento di un
acquisto per sua natura instabile (sul modello della conva‑
lida dell’atto annullabile)5; per la teoria della condicio iuris,
invece, la trascrizione del secondo acquisto opererebbe come
condizione risolutiva del primo acquisto, il quale verrebbe
quindi a essere caducato 6; vi è poi da segnalare la posizione
di chi ha fatto riferimento ad una fattispecie acquisitiva
“complessa” destinata a perfezionarsi solo con la trascrizio‑
ne7.
Senza voler in questa sede approfondire le diverse tesi
che si sono andate affermando nel tempo – non essendo
3
4
5
6
7
Art. 1376 c.c.: “Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della
proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un di‑
ritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si
trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente
manifestato”.
Art. 2644, comma I, c.c.:“Gli atti enunciati nell'articolo precedente non hanno
effetto riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli
immobili in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione
degli atti medesimi”.
Coviello, Della trascrizione immobiliare, Napoli, 1897, p.288 e ss.
Gazzoni, La trascrizione immobiliare, Milano, 1998, p.475 e ss.
Niccolò, La trascrizione, Milano, 1973, p.119.
civile
Gazzetta
42
D i r itto
e
p r o c e du r a
questo l’obiettivo che con la presente nota ci si propone ‑, e
limitandosi a osservare che probabilmente la soluzione più
soddisfacente è quella (in un certo senso più ovvia) che si
riferisce ad una fictio iuris che consente di ritenere acqui‑
rente a domino chi avrebbe a rigore acquistato a non domi‑
no, appare interessante osservare che conseguenze di non
trascurabile peso discendono dalla configurazione dell’ac‑
quisto del secondo avente causa primo trascrivente quale
acquisto a titolo originario o a titolo derivativo (ci si riferi‑
sce, ad esempio, all’esclusione nella prima ipotesi dell’azio‑
ne revocatoria: la ripetuta affermazione giurisprudenziale
dell’ammissibilità di tale azione a tutela del credito risarci‑
torio che nasce in capo al primo acquirente a seguito della
trascrizione del titolo del secondo avente causa, porta a ri‑
tenere oramai acquisita l’idea della derivatività dell’acquisto
del secondo compratore, peraltro coerente con il principio
di continuità delle trascrizioni; sull’utilizzabilità di tale
strumento di tutela ad iniziativa del primo acquirente si
veda più diffusamente infra).
Il principio affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
9 maggio 2013 n.10989
In tal modo delineati i principi che disegnano il quadro
normativo nel quale si inserisce la pronuncia in commento,
può passarsi alla disamina di quest’ultima. Il caso all’esame
della Corte è già stato sinteticamente riportato: allo scopo
di stabilire se l’acquisto del primo trascrivente dovesse es‑
sere ritenuto prevalente, la Corte ha richiamato, in primo
luogo, la teoria dell’efficacia riflessa del giudicato, già da
lungo tempo presente nelle decisioni della Suprema Corte,
in virtù della quale, oltre ad un’efficacia diretta, prevista
dall’art. 2909 c.c. 8 e operante nei confronti delle parti, dei
rispettivi eredi e degli aventi causa, la pronuncia divenuta
definitiva esplica altresì degli effetti indiretti, idonei a “tra‑
valicare” i confini soggettivi indicati, così da incidere anche
sulla controversia nata tra soggetti rimasti estranei al primo
giudizio, allorché la situazione della quale si controverta nel
giudizio tra detti terzi dipenda, ovvero sia subordinata alla
situazione oggetto di giudicato9. Poiché una precedente
8
Art. 2909 c.c.: “L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato
fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”.
9 Tra i numerosi arresti che hanno riguardato il tema dell’efficacia riflessa del
giudicato, se ne riportano alcuni tra i più recenti: “Il giudicato, oltre ad avere
una sua efficacia diretta nei confronti delle parti, loro eredi e aventi causa, è
dotato anche di un'efficacia riflessa, nel senso che la sentenza, come afferma‑
zione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche nei confronti di
soggetti rimasti estranei al processo in cui è stata emessa, allorquando questi
siano titolari di un diritto dipendente dalla situazione definita in quel proces‑
so o comunque di un diritto subordinato a tale situazione, con la conseguenza
reciproca che l'efficacia del giudicato non si estende a quanti siano titolari di
un diritto autonomo rispetto al rapporto giuridico definito con la prima sen‑
tenza. (Nella specie la S.C., in un giudizio di opposizione all'esecuzione pro‑
posto dal datore di lavoro avverso il precetto notificatogli dal lavoratore, ha
escluso l'efficacia riflessa della sentenza passata, in giudicato, con la quale era
stata accolta analoga opposizione all'esecuzione, proposta dal datore di lavo‑
ro e per identici motivi avverso un precetto notificatogli in forza del medesimo
titolo esecutivo, ma da altro lavoratore)”. Cass., sez. L., 19 marzo 2013,
n. 6788; ed ancora: “La sentenza passata in giudicato, anche quando non
possa avere l'effetto vincolante di cui all'art. 2909 cod. civ., può avere comun‑
que l'efficacia riflessa di prova o di elemento di prova documentale in ordine
alla situazione giuridica che abbia formato oggetto dell'accertamento giudi‑
ziale e tale efficacia indiretta può essere invocata da chiunque vi abbia interes‑
se, spettando al giudice di merito esaminare la sentenza prodotta a tale scopo
e valutarne liberamente il contenuto, anche in relazione agli altri elementi di
c i v il e
Gazzetta
F O R E N S E
decisione della Corte aveva statuito che il soggetto dal qua‑
le il dante causa della resistente aveva apparentemente ac‑
quistato la proprietà del sottotetto non era in realtà munito
di idonea procura a vendere, la Cassazione ha affermato che
l’acquisto della resistente era da qualificarsi acquisto a non
domino: di conseguenza, il conflitto tra i titoli sui quali le
parti del giudizio fondavano il proprio acquisto non poteva
trovare soluzione richiamando l’istituto della trascrizione,
in quanto l’art. 2644 c.c. può trovare attuazione solo allor‑
ché venga in rilievo il conflitto tra più aventi causa con di‑
stinti titoli dallo stesso autore.
Ora, a ben vedere, quanto affermato dalla Corte conse‑
gue logicamente alla corretta applicazione dei principi in
precedenza richiamati in materia di doppia alienazione e
trascrizione: pure, appare interessante approfondire il dic‑
tum della Corte in quanto nella prassi non è infrequente (si
sarebbe tentati di dire che è, anzi, frequente) riscontrare
casi in cui la priorità della trascrizione del titolo viene in‑
vocata in giudizio quale “panacea” idonea, di per sé consi‑
derata, ad assicurare la prevalenza del trascrittore rispetto
a tutti gli altri soggetti che vantino titoli non trascritti o
trascritti solo posteriormente, e ciò a prescindere dalla
considerazione della validità e dell’efficacia del titolo invo‑
cato e dalla provenienza dei titoli da un comune autore.
La corretta comprensione del tema trattato passa, in
primo luogo, per la considerazione della generale inidonei‑
tà della trascrizione a esplicare un effetto sanante di un
atto che sia affetto da un vizio invalidante10; in secondo
luogo, occorre pure rimarcare che la trascrizione è istituto
destinato alla risoluzione dei soli conflitti tra soggetti ac‑
quirenti da un comune autore11.
giudizio rinvenibili negli atti di causa” Cass., sez. III, 20 febbraio 2013,
n. 4241; ed ancora, in tema di efficacia riflessa del giudicato formatosi nei
confronti dell’assicurato nell’ambito del giudizio che vede come parte l’assi‑
curatore: “Il principio secondo cui – proposta contro l'assicurato danneggian‑
te l'azione di cui all'art. 2054 cod. civ. separatamente da quella diretta, espe‑
rita successivamente nei confronti del suo assicuratore ai sensi dell'art. 18
della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (applicabile "ratione temporis") – il
giudicato maturato all'esito del primo giudizio, del quale l'assicuratore non
era parte, può spiegare nei suoi confronti efficacia riflessa (rendendo non più
controverso quel rapporto giuridico rispetto al quale l'assicuratore medesimo
si trovi in una situazione di giuridica dipendenza), presuppone la condanna
del danneggiante assicurato al risarcimento del danno, e non semplicemente
l'affermazione della responsabilità del predetto quanto al fatto illecito, giacché
solo in questo caso è dato ravvisare, tra le obbligazioni risarcitorie dei due
soggetti, quel collegamento di pregiudizialità‑dipendenza in senso giuridico
che legittima l'efficacia riflessa del giudicato” Cass., sez. III, 20 febbraio 2013,
n. 4241.
10 Un caso specifico, nel quale si parla di “pubblicità sanante” è previsto
dall’art. 2652 n.6: la norma stabilisce che se la trascrizione della domanda
volta ad ottenere la declaratoria di nullità ovvero l’annullamento di un atto
soggetto a trascrizione, è trascritta dopo cinque anni dalla trascrizione dell’atto
impugnato, l’eventuale accoglimento della domanda non pregiudica i diritti
acquistati a qualunque titolo dai terzi in buona fede in base ad atto trascritto o
iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda; si tratta di una norma a
carattere eccezionale che ha l’unico scopo di regolamentare i conflitti tra i terzi,
rimanendo quindi esclusa la possibilità che inter partes il contratto invalido
possa risultare sanato in virtù della sola trascrizione.
11 Si veda: “La norma dell'art. 2644 cod. civ.,che disciplina gli effetti della
trascrizione degli atti indicati nell'art. 2643 dello stesso codice, riguarda
tutte le ipotesi di una pluralità di alienazioni immobiliari eseguite dal mede‑
simo dante causa, e, quindi, si riferisce sia all'ipotesi del duplice trasferimen‑
to del diritto di proprietà, in tempi successivi, a distinti acquirenti, sia a
quella della cessione, in tempi successivi, in favore di distinti soggetti, della
proprietà e della costituzione di un diritto reale limitato, come l'usufrutto o
la servitù. Quanto più in particolare, all'ipotesi di un contratto di compra‑
vendita del diritto di proprietà di un immobile, nel quale sia inserita una
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
Abbiamo in premessa osservato che nel caso classico di
doppia alienazione di un bene da parte dello stesso soggetto,
benché l’acquisto del secondo avente causa primo trascriven‑
te dovrebbe a rigore considerarsi acquisto a non domino in
quanto effettuato nei confronti di un soggetto che si era già
spogliato della titolarità del bene alienato, pure, per una
fictio iuris implicata dall’art. 2644 c.c., esso prevale, in
virtù dell’anteriorità della trascrizione del titolo. Diversa‑
mente a dirsi allorché, come nel caso esaminato dalla Supre‑
ma Corte nella sentenza in considerazione, il conflitto esiste
tra acquisti che non sono stati effettuati dal medesimo au‑
tore: in tal caso occorrerà risalire sino al comune autore e
farsi riferimento alla priorità della trascrizione degli acqui‑
sti originatisi via via da questi, avuto però riguardo alla
necessità che i titoli trascritti siano di per sé validi. Nel caso
all’esame della Corte le parti avevano acquistato da sogget‑
ti diversi: mentre l’acquisto della ricorrente era stato effet‑
tuato da un soggetto legittimato a disporre dal bene – per
averne questi regolarmente acquistato la proprietà con atto
anteriore ‑, l’acquisto della resistente proveniva da un sog‑
getto che non aveva mai acquistato la titolarità del diritto
di proprietà sull’immobile, in quanto il rispettivo dante
causa non aveva la legittimazione a disporne. Dunque, nel
conflitto tra un acquisto a domino e un acquisto a non do‑
mino, non poteva che affermarsi (come la Corte corretta‑
mente afferma) la prevalenza del primo acquisto, rimanendo
irrilevante la circostanza della priorità della trascrizione di
un titolo rispetto all’altro12 .
I mezzi di tutela del primo acquirente pregiudicato
Per completezza espositiva, appare opportuno affronta‑
re il tema degli strumenti di tutela del soggetto che, avendo
acquistato per primo, si sia visto “sottrarre” l’acquisto in
ragione della trascrizione anteriore di un titolo formatosi
successivamente al suo acquisto. Sebbene questo tema non
sia stato esaminato dalla Suprema Corte nella sentenza in
commento, non avendo il caso concreto affrontato offerto‑
ne lo spunto, la questione appare di notevole interesse es‑
sendo stata al centro di un vivace dibattito dottrinale e
clausola costitutiva del diritto di servitù a vantaggio di tale bene e a carico
di altro immobile dell'alienante, la servitù potrà essere opposta ai successivi
acquirenti dallo stesso dante causa, del fondo servente, soltanto se costoro
siano stati messi in condizione di conoscere che l'immobile era gravato dal
diritto reale. E questa situazione si verifica sia nell'ipotesi in cui, nell'atto di
acquisto del diritto di proprietà, la servitù venga menzionata specificamente,
sia nella diversa ipotesi in cui, pur mancando tale menzione, risulti priorita‑
riamente trascritta la clausola costitutiva della servitù sul bene” Cass., sez.
II, 16 luglio 1997, n. 6485.
12 Il medesimo principio era già stato affermato dalla Suprema Corte nella
precedente pronuncia di cui di seguito si riporta la massima: “Nell'ipotesi di
conflitto fra acquisto a domino ed acquisto a non domino del medesimo bene
non opera l'istituto della trascrizione, che è una forma di pubblicità legale
intesa soltanto a risolvere il conflitto fra soggetti che abbiano acquistato lo
stesso diritto, con distinti atti, dal medesimo proprietario, senza alcuna ef‑
ficacia sanante dei vizi di cui sia affetto l'atto negoziale, sicché l'avvenuta
trascrizione di un atto è inidonea ad attribuire la validità di cui esso sia
naturalmente privo. (Nella specie, è stato ritenuto che l'avvenuta trascrizione
dell'acquisto a non domino di un imbarcazione non spiegava alcuna influ‑
enza sulla validità del titolo di acquisto a domino, che invece non era stato
trascritto)” Cass., sez. II, del 3 febbraio 2005, n. 2162; ancora, si veda anche:
“L'attore che agisce in rivendicazione assumendo essergli inopponibile il ti‑
tolo di acquisto (derivativo) del convenuto, in quanto trascritto posterior‑
mente al proprio, ha l'onere di dimostrare la provenienza di entrambi i ti‑
toli dal medesimo dante causa” Cass., sez.II, 18 marzo 1999, n. 2485.
2 0 1 3
43
fatta oggetto di numerosi arresti giurisprudenziali. Il tema
è, come ovvio, strettamente intrecciato a quello della natu‑
ra della responsabilità dei soggetti coinvolti nella vicenda
traslativa: il venditore e il secondo acquirente primo trascri‑
vente.
Quanto alla posizione del venditore che proceda ad
alienare due volte il medesimo bene a due distinti soggetti,
il quale ha, evidentemente, piena consapevolezza di stare
mettendo a rischio con il proprio comportamento l’acquisto
del primo avente causa, si è a lungo discusso circa la natura
contrattuale o extracontrattuale della relativa responsabi‑
lità. È chiaro che l’adesione all’una ovvero all’altra impo‑
stazione implica conseguenze di non poco momento sotto
diversi profili, e cioè quello dell’individuazione del termine
di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, quello
dell’operatività della presunzione di colpa e quello relativo
alla quantificazione del danno risarcibile. In un passato per
vero non molto recente era prevalsa in giurisprudenza l’idea
della natura aquiliana della responsabilità del venditore13,
con le correlate conseguenze in punto di prescrizione e altro,
secondo quanto si è appena osservato. Tale orientamento,
tacciato di ridurre entro limiti troppo angusti l’ambito del‑
la tutela offerta al compratore, è stato in prosieguo supera‑
to e si è andata affermando in giurisprudenza la tesi della
natura contrattuale della responsabilità del venditore, fon‑
data sulla violazione dell’obbligazione assunta nei confron‑
ti del compratore di trasferirgli i poteri di disposizione del
diritto venduto, nonché di astenersi da ogni comportamen‑
to diretto a frustare il pattuito trasferimento14.
Più articolato è stato, e in parte è a tuttora (in partico‑
lare in dottrina), il dibattito relativo alla posizione del se‑
condo acquirente primo trascrivente: la problematicità
collegata alla ricostruzione della natura della responsabi‑
13 In proposito: “La responsabilità del venditore verso l'acquirente, per aver
successivamente alienato a terzi la medesima cosa, in forza di atto prevalente
per priorità della trascrizione (art 2644 cod civ), non ha natura contrattuale,
né, in particolare, é inquadrabile nell’ambito della garanzia per evizione, la
quale postula che il terzo faccia valere diritti preesistenti alla vendita, ma
configura una responsabilità per illecito extracontrattuale. pertanto, il di‑
ritto del compratore al risarcimento del danno, per effetto di detta respons‑
abilità, e soggetto alla prescrizione quinquennale prevista dall'art 2947
primo comma cod civ.” Cass., sez. II, 29 ottobre 1977, n. 4669.
14 Si segnalano pronunce in tal senso sin a partire dagli anni ’80: “La respon‑
sabilità in cui incorre il venditore per avere alienato ad un secondo acquiren‑
te, che trascriva per primo l'immobile in precedenza alienato ad altro com‑
pratore, ha natura contrattuale, in quanto fondata sulla violazione dell'ob‑
bligazione assunta con il contratto nei confronti del compratore di trasferir‑
gli i poteri di disposizione del diritto venduto nonché di astenersi da ogni
comportamento diretto a frustrare il pattuito trasferimento e così di non
frapporre impedimenti all'acquisto della proprietà del bene da parte del
compratore, in applicazione del principio della esecuzione del contratto se‑
condo buona fede, con la conseguenza che l'azione per far valere detta re‑
sponsabilità è soggetta alla prescrizione decennale. Per converso, ha natura
extracontrattuale la responsabilità del secondo acquirente, il quale, pur co‑
noscendo l'avvenuta vendita del medesimo bene attuata dal proprio alienan‑
te, nonché la mancata trascrizione del primo contratto da parte del prece‑
dente compratore, abbia trascritto il proprio titolo di acquisto. Tuttavia, la
domanda di risarcimento del danno che sia proposta dal primo compratore
nei soli confronti del venditore comporta l'interruzione della prescrizione
con riguardo al diritto al risarcimento anche nei confronti del secondo com‑
pratore stante la responsabilità solidale degli stessi per avere concorso nella
produzione del danno. (v 76/82, mass n 417767; (v 759/82, mass n 418581;
(v 518/65, mass n 310943; (conf 6006/84, mass n 437673; (conf 76/82, mass
n 417767; (contra 4669/77, mass n 388270; (contra 1983/76, mass n
380800; (contra 526/76, mass n 379190).” Cass., sez. II, 15 giugno 1988
n. 4090.
civile
Gazzetta
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D i r itto
e
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lità di tale soggetto veniva fatta discendere dall’estraneità
di quest’ultimo alla contrattazione tra l’alienante e il primo
acquirente, la cui posizione era stata lesa dalla seconda
negoziazione. Ritenere il secondo acquirente responsabile
nei confronti del primo, avrebbe, secondo un’opinione,
implicato una lesione del principio della vincolatività del
contratto tra le sole parti posto dall’art. 1372 c.c. Da qui
la necessità di ricostruire la responsabilità del secondo
acquirente, secondo l’orientamento che è di fatto prevalso,
in termini di responsabilità aquiliana15, discendente dalla
compartecipazione consapevole all’inadempimento dell’alie‑
nante. Si trova infatti ripetutamente affermato in giurispru‑
denza il principio del concorso, nella fattispecie in esame,
della responsabilità contrattuale del venditore e della re‑
sponsabilità extracontrattuale del secondo acquirente: la
tutela giudiziaria del primo acquirente nei confronti del
secondo avente causa riposa sulla prova dell’esistenza tra i
protagonisti della seconda negoziazione di una dolosa
preordinazione rivolta al fine di frodare le ragioni del pri‑
mo acquirente, o, quantomeno, della consapevolezza in
capo al secondo acquirente di cooperare nell’inadempimen‑
to del primo alienante16 (sembrerebbe dunque richiedersi,
sul piano dell’elemento psicologico, qualcosa in più della
mera consapevolezza dell’esistenza di una precedente ne‑
goziazione).
Ciò posto, e venendo alla disamina degli strumenti di
tutela esperibili dal primo acquirente, nessun dubbio sussi‑
stendo circa la possibilità di agire per ottenere il risarcimen‑
to del danno da inadempimento contrattuale nei confronti
15 La prima pronuncia della Suprema Corte in tal senso, che non affronta
ancora compiutamente il tema dell’elemento psicologico che deve assistere
la condotta del secondo alienante è la sentenza della sezione III n. 76 del
8 gennaio 1982: “L'acquirente di un immobile, il quale, pur conoscendo
l'avvenuta vendita dello stesso bene effettuata dal proprio alienante,
nonché la mancata trascrizione del relativo contratto da parte del com‑
pratore, determini, mediante la trascrizione del suo titolo, la inopponibil‑
ità a sé del pregresso trasferimento, risponde dei danni subiti dal primo
acquirente, a norma dell'art. 2043 cod. civ., in quanto pone in essere, in
violazione delle norme di correttezza, una condotta di cosciente cooper‑
azione nell'inadempimento dello alienante verso tale primo acquirente,
implicante la definitiva perdita dei diritti allo stesso derivanti dal prece‑
dente contratto. (contra 1983/76, mass n 380800; (contra 942/60; (con‑
tra 1293/52)”.
16 In termini: “La responsabilità contrattuale può concorrere con quella extra‑
contrattuale allorquando il fatto dannoso sia imputabile all'azione o all'omis‑
sione di più persone tutte obbligate al risarcimento del danno correlato al
loro comportamento, sicché in ipotesi di vendita a terzi di un immobile in
violazione dell'obbligo contrattualmente assunto dal venditore nei confron‑
ti del precedente acquirente, si determina la responsabilità contrattuale
dell'alienante, mentre la responsabilità del successivo acquirente rimasto
estraneo al primo rapporto contrattuale, può configurarsi soltanto sul piano
extracontrattuale quando trovi fondamento non in una mera consapevolez‑
za della precedente vendita, ma in una dolosa preordinazione volta a froda‑
re il precedente acquirente o almeno nella compartecipazione all'inadempi‑
mento dell'alienante in virtù dell'apporto dato nel violare gli obblighi assun‑
ti nei confronti del primo acquirente al quale incombe l'onere della relativa
prova” Cass., sez. II, 25 maggio 2001, n. 7127; “La responsabilità contrat‑
tuale può concorrere con quella extracontrattuale allorquando il fatto dan‑
noso sia imputabile all'azione o all'omissione di più persone tutte obbligate
al risarcimento del danno correlato al loro comportamento, sicché in ipote‑
si di vendita a terzi di un immobile in violazione dell'obbligo contrattual‑
mente assunto dal venditore nei confronti del precedente acquirente, la re‑
sponsabilità contrattuale dell'alienante può concorrere con quella extracon‑
trattuale del successivo acquirente quanto il danneggiato provi o la dolosa
preordinazione volta a frodarlo o comunque la compartecipazione all'ina‑
dempimento dell'alienante in virtù dell'apporto dato nella violazione degli
obblighi assunti nei confronti del primo acquirente” Cass., sez. III, 10 otto‑
bre 2008, n. 25016.
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dell’alienante e per ottenere il risarcimento del danno extra‑
contrattuale dal secondo acquirente, deve osservarsi che la
giurisprudenza ammette anche l’esercizio dell’azione revo‑
catoria ordinaria ex art. 2901 c.c.: e difatti, il primo acqui‑
rente, allo scopo di non vedere pregiudicate le proprie ragio‑
ni risarcitorie in ragione dell’“uscita” dell’immobile oggetto
di doppia negoziazione dal patrimonio dell’alienante, può
chiedere che l’alienazione sia dichiarata inefficace nei suoi
confronti17 (in sostanza, rimane comunque esclusa la possi‑
bilità per il primo acquirente di rientrare nella titolarità del
bene: del resto, è stato in proposito condivisibilmente osser‑
vato che si è in presenza di un soggetto che, non provveden‑
do alla trascrizione del proprio acquisto – trascrizione che
come si è in precedenza osservato è un onere ‑, ha comunque
violato il principio di autoresponsabilità, di talché il risar‑
cimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. appare una so‑
luzione incompatibile con il sistema18).
Il rimedio di cui all’art. 2901 c.c. suppone tuttavia,
come noto, la ricorrenza di determinati presupposti sul
piano soggettivo: in particolare, la norma richiede che il
creditore, ove si tratti di atto a titolo oneroso, fornisca la
prova del fatto che il terzo forse consapevole del pregiudizio
arrecato nel porlo in essere, e, allorché il credito che si in‑
tende tutelare tramite l’esperimento dell’azione sia sorto
posteriormente alla negoziazione della quale si vuole otte‑
nere la declaratoria di inefficacia, che si sia in presenza di
una dolosa preordinazione fraudolenta. Ora, a ben vedere,
nel caso di doppia alienazione immobiliare poiché il credito
risarcitorio sorge allorché la seconda negoziazione viene
trascritta, e dunque posteriormente alla negoziazione che si
vuole revocare, compete al primo acquirente fornire la non
semplice prova del dolo specifico (non essendo quindi in
questo caso sufficiente la mera consapevolezza in capo al
secondo acquirente di stare cooperando all’inadempimento
dell’alienante).
Da ultimo, si vuole segnalare che l’orientamento giuri‑
sprudenziale in punto di revocatoria ordinaria in caso di
doppia alienazione immobiliare, è stato successivamente
esteso anche alla diversa ipotesi della doppia donazione
immobiliare19, nonché al caso della violazione da parte del
17 “Nell'ipotesi in cui un immobile venga alienato in tempi successivi a due
diversi soggetti dei quali solo il secondo trascriva il proprio acquisto renden‑
dolo così opponibile al primo, quest'ultimo ha diritto al risarcimento del
danno e, per conservare la garanzia relativa al proprio credito, può esercitare
l'azione revocatoria della seconda alienazione; tuttavia, poiché la seconda
alienazione è anteriore al credito da tutelare (che nasce solo con la trascriz‑
ione), ai fini dell'accoglimento della revocatoria non è sufficiente la mera
consapevolezza della precedente vendita da parte del secondo acquirente, ma
è necessaria la prova della partecipazione di quest'ultimo alla dolosa preor‑
dinazione dell'alienante, consistente nella specifica intenzione di pregiudicare
la garanzia del futuro credito” Cass., sez. II, 2 febbraio 2000, n. 1131.
18 Caringella, Studi di diritto civile, Milano, 2005.
19 Si fa riferimento alla sentenza della Suprema Corte, sez. II, 25 ottobre 2004
n. 20721, con la quale, nel confermare la decisione adottata in sede di ap‑
pello, la Corte ha affermato: “I giudici di secondo grado ritenevano che dalle
prove acquisite risultava che effettivamente le appellate avevano agito al fine
di pregiudicare i diritti della precedente donataria, per cui le conseguenze
giuridiche dovevano essere quelle indicate dalla sentenza di questa S.C. in
data 8 gennaio 1982 n. 76 (poi confermata dalla giurisprudenza successiva),
secondo la quale l'acquirente di un immobile, il quale, pur conoscendo
l'avvenuta vendita dello stesso bene effettuata dal proprio alienante, nonché
la mancanza di trascrizione del relativo contratto da parte del compratore,
determini, mediante la trascrizione del suo titolo, la inopponibilità a sé del
pregresso trasferimento, risponde dei danni subiti dal primo acquirente, a
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norma dell'art. 2043 c.c., in quanto pone in essere, in violazione delle norme
di correttezza, una condotta di cosciente cooperazione nell'inadempimento
dell'alienante verso tale primo acquirente, implicando la perdita definitiva
perdita dei diritti allo stesso derivanti dal precedente contratto. La Corte di
appello di Brescia precisava che tale affermazione, formulata con riferi‑
mento all'ipotesi di due vendite successive, era valida anche nel caso di due
donazioni successive, quando, come nella specie, la callida condotta del suc‑
cessivo donatario impedisce il perfezionarsi in capo al primo beneficiario
degli effetti della donazione stipulata in suo favore, determinando così la
definitiva perdita, per lo stesso, dei diritti derivanti dal primo contratto”.
20 In proposito: “Il promissario acquirente di un bene immobile può proporre
l'azione revocatoria nei confronti del promittente venditore, ove quest'ulti‑
mo, prima della stipula del contratto definitivo, si spogli della proprietà
dell'immobile promesso in vendita, con atto trascritto anteriormente alla
trascrizione della domanda giudiziale di esecuzione in forma specifica dell'ob‑
bligo di contrarre. In tal caso, tuttavia, l'azione revocatoria non può avere
per effetto di far acquistare all'attore la proprietà dell'immobile, come una
sorta di risarcimento in forma specifica, ma solo la più limitata finalità di
garantirgli il risarcimento del danno patito in conseguenza dell'inadempi‑
mento del promittente venditore” Cass., sez. II, febbraio 2011, n. 2426,
nonché Cass., sez. III, del 10 ottobre 2008, n.25016; e ancora: “In tema di
azione revocatoria ordinaria (art. 2901 cod. civ.), proposta dal promitten‑
te‑acquirente in riferimento al contratto di compravendita con il quale il
promittente‑venditore ha alienato il bene oggetto del preliminare ad un di‑
verso soggetto e sul presupposto che detto contratto sia pregiudizievole
della garanzia per il credito da risarcimento del danno per inadempimento
del preliminare, la prova che l'acquirente dell'immobile era a conoscenza
dell'avvenuta stipula del precedente contratto preliminare, da sola, non
permette di ritenere dimostrata la sussistenza del "consilium fraudis"”. Cass.,
sez. III, 22 marzo 2007, n. 6962.
civile
promittente venditore degli obblighi scaturenti dal contrat‑
to preliminare mediante alienazione ad un terzo del mede‑
simo bene già promesso in vendita 20.
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D i r itto
●
Rassegna
di legittimità
●
A cura di Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
e
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Assicurazione – Assicurazione obbligatoria r.c.a. – Assicurato tra‑
sportato – Danno alla persona – risarcimento a carico del proprio
assicuratore – Spettanza
Alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia
(sentenza 1o dicembre 2011, Churchill Insurance/Wilkinson),
si afferma che, sulla base del principio solidaristico “vulnera‑
tus ante omnia reficiendus”, il proprietario trasportato ha
diritto, nei confronti del suo assicuratore r.c.a., al risarcimen‑
to del danno alla persona causato dalla circolazione non ille‑
gale del mezzo, essendo irrilevante ogni vicenda normativa
interna e nullo ogni patto che condizioni la copertura del
trasportato all’identità del conducente (“clausola di guida
esclusiva”).
Cass. civ., sez. III, 30 agosto 2013, n. 19963
Pres. Berruti, Est. Petti
Contratto in generale – Risoluzione del contratto per inadempi‑
mento – Domanda proposta nel giudizio iniziato per l’adempimen‑
to – Estensione al risarcimento del danno – (In)Ammissibilità
La Seconda Sezione Civile ha rimesso al Primo Presiden‑
te, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ricorso
concernente la questione, oggetto di contrasto, se la parte che
chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel
giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento
possa domandare anche il risarcimento del danno, ai sensi
dell’art. 1453, primo comma, cod. civ., o se ne sia impedita
dal divieto di “mutatio libelli”.
Cass. civ., sez. II, ord. interlocutoria 09 agosto 2013,
n. 19148
Pres. Est. Mazzacane
Diritto alla riservatezza – Accesso a siti pornografici sul luogo di
lavoro – Dati personali sensibili – Inclusione
Costituiscono dati personali sensibili, ai sensi dell’art. 4
del d.lgs. n. 196 del 2003, in quanto idonei a rivelare la vita
sessuale dell’interessato, quelli relativi alla navigazione in
internet con accesso a siti pornografici (nella specie, oggetto
di contestazione in sede disciplinare ad un dipendente da
parte del datore di lavoro).
Cass. civ., sez. I, sentenza 1 agosto 2013, n. 18443
Pres. Salmè, Est. Didone
Equa riparazione – Domanda di mediazione – Effetto interruttivo
del termine di prescrizione ex Legge Pinto – Sussistenza
Alle controversie relative alla domanda di equa riparazio‑
ne, in quanto vertenti su diritti patrimoniali e disponibili ai
sensi dell’art. 2, primo comma, del d.lgs. n. 28 del 2010, può
applicarsi la disciplina della mediazione. L’istanza di media‑
zione nei sei mesi di proponibilità della domanda impedisce
per una sola volta la decadenza dal diritto di agire e, se il
tentativo di conciliazione fallisce, consente che la domanda
sia proposta entro il medesimo termine di decadenza, decor‑
rente dal deposito del verbale negativo di conciliazione presso
la segreteria dell’organismo.
Cass. civ., sez. Un., 22 luglio 2013, n. 17781
Pres. Trifone, Est. Forte
Giudizio di cassazione – Ricorso – Vizio di omessa pronuncia – In‑
dicazione di un motivo erroneo ex art. 360, comma 1,
c.p.c. – Inammissibilità del ricorso – Limiti
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Il ricorso per cassazione va dichiarato inammissibile,
allorché il ricorrente, nel lamentare l’omessa pronuncia in
ordine ad una delle domande od eccezioni formulate, non
solo menzioni un motivo non pertinente ed ometta di men‑
zionare quello di cui all’art. 360, primo comma, n. 4 cod.
proc. civ., in relazione all’art. 112 cod. proc. civ., ma sosten‑
ga altresì che la motivazione sia stata omessa o sia insuffi‑
ciente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge;
mentre il ricorso resta ammissibile, qualora comunque il
motivo, pur senza richiamare il n. 4, faccia inequivocabil‑
mente riferimento alla nullità della decisione derivante
dall’omissione.
Cass. civ., sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17931
Pres. Miani Canevari, Est. L. Piccialli
Procedimento prefallimentare – Cancellazione dal registro delle
imprese del creditore istante – Conseguenze – Preclusione dell’av‑
vio del procedimento – Fondamento.
Deve essere precluso l’avvio del procedimento prefalli‑
mentare dalla carenza ab origine dello stesso soggetto istan‑
te, allorché la società creditrice si sia già estinta in conseguen‑
za della sua cancellazione dal registro delle imprese, ai sensi
dell’art. 4 del d.lgs. n. 6 del 2003, situazione rilevabile in via
officiosa anche in sede di reclamo, in quanto attinente alla
sussistenza dell’indispensabile iniziativa di parte per la di‑
chiarazione di fallimento.
Cass. civ., sez. I, 04 luglio 2013, n. 16751
Pres. Rordorf, Est. Di Virgilio
Risarcibilità del danno parentale – Attinenza all’ordine pubblico
internazionale – Fondamento – Conseguenze.
Il principio di risarcibilità del danno morale da uccisione
del congiunto, attenendo alla tutela dei diritti fondamentali
della persona, appartiene all’ordine pubblico internazionale,
sicché non può trovare applicazione nell’ordinamento italia‑
no la norma straniera – quale l’art. 1327 c.c. austriaco – che
tale risarcibilità escluda.
Cass. civ., sez. III, sentenza 22 agosto 2013, n. 19405
Pres. Berruti, Est. Vincenti
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47
Società – Aumento di capitale – Conferimento – Simulazio‑
ne – Configurabilità – Esclusione
La Prima Sezione Civile della Corte di cassazione ha
cassato la sentenza impugnata in applicazione dei seguenti
principi di diritto: a) il conferimento in una società capitali‑
stica già costituita è un atto con il quale il socio o il terzo, sul
presupposto di una deliberazione di aumento del capitale
sociale, approvata dall’organo competente della società, re‑
alizza la sua volontà di partecipare o, se già socio, di aumen‑
tare il valore della sua partecipazione alla medesima società
e trova nel collegamento essenziale con quella deliberazione
la sua causa negoziale, sicché le condizioni di validità del
conferimento sotto il profilo della sussistenza della volontà
non possono essere esaminate indipendentemente da quelle
della deliberazione medesima; b) in tema di aumento di ca‑
pitale deliberato dall’assemblea di una società capitalistica,
non è configurabile la simulazione del conferimento in forza
di un accordo simulatorio concluso tra il conferente e l’am‑
ministratore della società, che, anche qualora sia delegato al
compimento delle operazioni necessarie all’esecuzione della
deliberazione, non avendo poteri legali di rappresentanza
della società medesima negli atti di gestione attinenti all’or‑
ganizzazione della società, non è legittimato a rappresentar‑
la nella stipulazione di accordi diretti a simulare i conferi‑
menti.
Cass. civ., sez. I, 17 luglio 2013, n. 17467
Pres. Rordorf, Est. Ceccherini
Tributi – Statuto del contribuente – Avviso di accertamento – Ter‑
mine dilatorio – Inosservanza – Conseguenze
L’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per
l’eman azione dell’avviso di accertamento, previsto
dall’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212,
decorrente dal rilascio al contribuente della copia del proces‑
so verbale di chiusura delle operazioni, comporta l’illegitti‑
mità dell’atto impositivo emesso ante tempus, salvo che ri‑
corrano specifiche ragioni di urgenza.
Cass. civ., sez. Un., 29 luglio 2013, n.18184
Pres. Luccioli, Est. Virgilio
civile
Gazzetta
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D i r itto
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Rassegna di merito
●
A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa
Avvocati
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Delibera di revoca e nomina del nuovo amministratore – Iscrizione
nel Registro delle Imprese – Illegittimità del diniego – Contenuti
e limiti del controllo formale
Il Conservatore è tenuto all’iscrizione della deliberazione
di revoca e nomina di amministratore ai sensi degli artt. 2463,
2329 e 2330 c.c. previo esercizio del solo controllo di regola‑
rità formale. Il controllo di regolarità sostanziale è demanda‑
to alla valutazione degli arbitri e/o dell’autorità giudiziaria,
laddove le parti non compongano altrimenti la lite. Per rego‑
larità formale si deve intendere il controllo sui soli requisiti
formali dell’atto (competenza dell’ufficio, provenienza e cer‑
tezza giuridica della sottoscrizione, riconducibilità dell’atto
iscrivendo al tipo legale, legittimazione alla presentazione
dell’istanza di iscrizione, etc.), salvo che l’illiceità dell’atto
comprometta la riconducibilità al “tipo” giuridico di atto
iscrivibile.
Trib. Napoli, sentenza 27 giugno 2013
Giud. U. Macrì
Finanziamento pubblico a sostegno dell’occupazione – Esecuzione
del contratto di concessione – Natura del contratto di concessio‑
ne – Dimissioni volontarie del terzo beneficiario – Inadempimen‑
to parziale incolpevole.
a) I contratti di concessione […] prevedono, altresì, in
capo al soggetto attuatore – finanziato una ulteriore obbliga‑
zione quella del mantenimento dei livelli occupazionali degli
allievi formati ed assunti. Oggetto del finanziamento è un
fare: l’attuatore – finanziato è obbligato, per attuare il fine, a
costituire un rapporto di lavoro […].
b) Lo schema contrattuale utilizzato può essere ricondot‑
to allo schema del contratto a favore del terzo ex art. 1411
c.c. dove lo stipulante (Ente pubblico) ha affidato al promit‑
tente (società privata) la realizzazione di un corso di forma‑
zione professionale a favore di soggetti disoccupai, obbligan‑
do nel contempo il soggetto attuatore a stipulare con i sogget‑
ti formati un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Ne
consegue che lo stipulante, dal momento che gli allievi (terzi
beneficiari) hanno approfittato dell’attività formativa realiz‑
zata dal promittente, non può revocare (rectius recedere) il
contratto stipulato in quanto ex art. 1411, II comma, secon‑
da parte, c.c., la stipulazione […] può essere revocata o mo‑
dificata dallo stipulante, finché il terzo non abbia dichiarato,
anche in confronto del promittente, di volerne profittare.
c) Se il terzo – lavoratore non volesse essere assunto o se
assunto rassegnasse volontariamente le proprie dimissioni,
non potrà certo ritenersi che l’attuatore – finanziatore sia
inadempiente. Se il fatto del terzo potesse assurgere a causa
di risoluzione colpevole del contratto, lo stesso, diverrebbe,
non un contratto sinallagmatico, ma un contratto aleatorio
estremamente rischioso.
Trib. Napoli, sez. X, sentenza 22 maggio 2013
Giud. C. d’Ambrosio
Impugnazione del licenziamento illegittimo – Competenza terri‑
toriale – Prestazione lavorativa del dipendente presso la propria
abitazione – Configurabilità della “dipendenza aziendale” – Pre‑
minenza dell’elemento soggettivo
a) Il concetto di dipendenza aziendale, cui fa riferimento
l’art. 413 c.p.c., alla quale è addetto il lavoratore deve essere
interpretato in senso estensivo come articolazione della or‑
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luglio • A G O S T O
ganizzazione aziendale (dipendenza) nella quale il dipenden‑
te lavora (addetto), che può anche coincidere con la sua
abitazione se dotata di strumenti di supporto dell’attività
lavorativa. Tuttavia l’interpretazione estensiva non può
spingersi sino ad identificare la dipendenza con un luogo in
ragione del fatto che al lavoratore siano stati assegnati un’au‑
tovettura aziendale, un cellulare, ed un fax. Tali beni pre‑
scindono dal collegamento con un dato luogo, mentre il fax,
da solo, è dotazione veramente troppo esigua, per identifi‑
care nella abitazione del lavoratore una dipendenza azien‑
dale.
b) Il punto essenziale e discriminante è costituito dalla
circostanza che sia stato l’imprenditore a procedere alla de‑
stinazione aziendale, nel senso che egli, per sua consapevole
scelta abbia indirizzato un pur modesto complesso di beni di
sua o di altrui proprietà all’esercizio dell’attività imprendito‑
riale, ivi collocando il lavoratore per lo svolgimento dell’at‑
tività concordata. Per definizione, infatti, la caratterizzazio‑
ne di “bene aziendale” è estensibile solo a quei beni che siano
stati individuati come tali dall’imprenditore.
Trib. Napoli, Sez. II Lav., ordinanza 04 luglio 2013
Giud. U. Lauro
Opposizione ad esecuzione – Scissione parziale – Responsabilità
solidale sussidiaria della società beneficiaria – Mancata opposi‑
zione del creditore ex art. 2503 c.c. – Effetti – Inopponibilità del
titolo esecutivo al debitore solidale
a) In caso di scissione parziale degli elementi del passivo,
la cui destinazione non è desumibile dal progetto, rispondo‑
no in solido la società scissa e le società beneficiarie. La re‑
sponsabilità solidale è limitata al valore effettivo del patri‑
monio netto attribuito a ciascuna società beneficiaria; le
altre società, diverse dalla scissa, rispondono comunque solo
in via sussidiaria, ove la società preventivamente escussa non
abbia adempiuto.
b) L’opposizione di cui all’art. 2503 c.c. non comporta,
normalmente, profili di invalidità (annullamento‑nullità)
dell’atto impugnato (perché non vengono dedotte ragioni di un
suo contrasto con norme di legge o di statuto), quanto profili
di mera inefficacia dell’atto stesso, sul presupposto che esso
possa pregiudicare le garanzie di soddisfacimento del creditore
medesimo: per questa ragione le applicabili disposizioni di
legge (artt. 2303, comma 1, e 2445, u.c., c.c.) prevedono che
l’opposizione del creditore possa rilevare non alla stregua del‑
la validità dell’atto impugnato, bensì solo sotto il profilo della
2 0 1 3
49
sua attuabilità. Pertanto in caso di mancata proposizione del
creditore ci si trova di fronte ad una scissione parziale dell’ori‑
ginaria debitrice di segno definitivo ed efficace.
c) L’art. 1306, primo comma, c.c. stabilisce che la senten‑
za pronunciata tra il creditore e uno dei debitori in solido, o
tra il debitore e uno dei creditori in solido, non ha effetto
contro gli altri debitori o contro gli altri creditori, costituendo
in realtà una applicazione del principio generale stabilito
dall’art. 2909 c.c. secondo cui il giudicato ha effetto solo tra
le parti, i loro eredi e aventi causa, con la conseguenza che i
condebitori che non hanno partecipato al giudizio avrebbero
di fronte al giudicato veste di terzi, sia nei confronti del credi‑
tore sia nei confronti del coobbligato che agisca in regresso.
Trib. Napoli, sez. dist. Portici, ordinanza 12 giugno 2013
Giud. E. Quaranta
Società cooperativa – Licenziamento collettivo – Inconvertibilità
in licenziamento individuale – Inosservanza procedura ammini‑
strativa ex art. 4 legge n. 223/1991 – Inapplicabilità dell’art. 18
legge 300/1970
a) Dopo l’entrata in vigore della legge n. 223 del 1991, il
licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo che
si distingue dal licenziamento individuale per giustificato
motivo oggettivo, essendo specificatamente caratterizzato in
base alle dimensioni occupazionali dell’impresa, al numero
dei licenziamenti, all’arco temporale entro cui gli stessi sono
effettuati, ed essendo inderogabilmente collegato al control‑
lo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione impren‑
ditoriale di ridimensionamento dell’azienda. Ne deriva che,
qualora il datore di lavoro il quale occupi più di 15 dipen‑
denti intenda effettuare, in conseguenza di una riduzione o
trasformazione dell’attività di lavoro, almeno 5 licenziamen‑
ti nell’arco di 120 giorni, (il predetto) è tenuto all’osservanza
delle procedure previste dalla legge stessa, mentre resta irri‑
levante che il numero dei licenziamenti attuati a conclusione
delle procedure medesime sia eventualmente inferiore, così
com’è inammissibile la “conversione” del licenziamento
collettivo in licenziamento individuale.
b) L’omissione della procedura amministrativa comporta
l’inefficacia del recesso collettivo intimato. A tale inefficacia,
non consegue, tuttavia, l’applicazione dell’articolo 18 della
legge n. 300 del 1970, nel caso in cui il lavoratore contestual‑
mente al licenziamento perda anche la qualità di socio.
Trib. Napoli, Sez. II Lav., ordinanza 04 luglio 2013
Giud. U. Lauro
civile
Gazzetta
50
D i r itto
e
p r o c e du r a
In evidenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III CIVILE,
sentenza 22 marzo 2013, n. 7273
Pres. Finocchiaro, Rel. Vivaldi
Contratto di assicurazione e clausola “claims made” – Atipicità ex
art. 1322 c.c. – Carattere vessatorio o meno della clausola “claims
made” ex art. 1341 c.c. – Validità ed efficacia della stessa – Deroga
all’art. 1917 c.c. I comma – Clausole “claims made” e “loss occur‑
rence”: rischio assicurato (oggetto del contratto) – Clausola
“claims made” “pura” e “mista”.
La clausola cosiddetta “a richiesta fatta” (“Claims ma‑
de”) inserita in un contratto di assicurazione della responsa‑
bilità civile (in virtù della quale l’assicuratore si obbliga a
tenere indenne l’assicurato dalle conseguenze dannose dei
fatti illeciti da lui commessi anche prima della stipula, se per
essi gli sia pervenuta una richiesta di risarcimento da parte
del terzo danneggiato durante il tempo per il quale è stata
stipulata l’assicurazione) è valida ed efficace, mentre spetta
al giudice stabilire, caso per caso, con valutazione di merito,
se quella clausola abbia n atura vessatoria ai sensi
dell’art. 1341 cod. civ. Il contratto di assicurazione della
responsabilità civile con clausola “claims made” non rientra
nella fattispecie tipica prevista dall’art. 1917 c.c. ma costi‑
tuisce un contratto atipico, generalmente lecito ex art. 1322
c.c. (1)
Cass. civ., sez. III, 22 marzo 2013, n. 7273.
(Omissis)
Svolgimento del processo
S.M.C. convenne, davanti al tribunale di Crotone, l’avv.
R.F. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per
Gazzetta
F O R E N S E
responsabilità professionale, con riferimento ad una procedu‑
ra esecutiva immobiliare dichiarata estinta a causa dell’inter‑
venuta prescrizione del diritto di credito vantato dall’attrice
nei confronti degli eredi di F.F..
Il convenuto, costituitosi, contestò il fondamento della
domanda ed estese il contraddittorio nei confronti della Ita‑
liana Assicurazioni spa al fine di essere garantito in forza di
polizza per la responsabilità civile professionale.
Quest’ultima, costituitasi, eccepì l’inoperatività della ga‑
ranzia assicurativa.
Il tribunale, con sentenza del 18.5.2005, condannò il con‑
venuto al risarcimento dei danni, e la Italiana Assicurazioni
spa a tenere indenne lo stesso per gli importi cui era stato
condannato.
Proposero appelli, principale S.M.C. ed incidentale la
Compagnia di assicurazioni.
Si costituì, ma tardivamente, anche il R. che contestò la
propria responsabilità.
La Corte d’Appello, con sentenza del 24.1.2011, in parzia‑
le riforma della sentenza impugnata, condannò l’appellato
alla corresponsione di maggiori somme in favore della S. e
rigettò la domanda di manleva nei confronti della Italiana
Assicurazioni spa.
L’avv. R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a
cinque motivi.
Resistono con controricorsi la S. e la società Italiana As‑
sicurazioni spa.
Il R. e l’Italiana Assicurazioni spa hanno anche presentato
memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art. 1917 c.c. e omessa motivazione
Nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto (Avvocato)
(1) La sentenza in commento si inserisce nel dibattito giurisprudenziale e dottrina‑
le che si protrae da lungo tempo circa la valutazione delle clausole c.d. “Claims
made” (“a richiesta fatta”) – molto diffuse nei contratti di matrice america‑
na – le quali, inserendosi nell’ambito dei contratti di assicurazione della respon‑
sabilità civile, hanno gradualmente preso il posto delle precedenti, tradizionali
clausole c.d. “Loss occurrence” (“insorgenza del danno”), fondate sul disposto
dell’art. 1917 primo comma c.c.
In primo luogo bisogna rilevare che la differenza sostanziale fra le clausole fa‑
centi parte del sistema del “Losses occurring” e quello del “Claims made” ri‑
guarda il rischio assicurato, ossia l’oggetto del contratto di assicurazione della
responsabilità civile, in quanto, le clausole afferenti al primo sistema, basando‑
si sul disposto dell’art. 1917 primo comma c.c., prevedono che l’assicuratore
sia obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi, in conseguenza del
fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione, deve pagare ad un terzo, in
dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto, mentre, in virtù delle
clausole “claims made”, l’assicuratore si obbliga a tenere indenne l’assicurato
dalle conseguenze dannose dei fatti illeciti da lui commessi anche prima della
stipula del contratto di assicurazione, se per essi gli sia pervenuta una richiesta
di risarcimento da parte del terzo danneggiato durante il tempo per il quale è
stata stipulata l’assicurazione. A tal proposito la giurisprudenza si è dibattuta
circa la atipicità o meno ex art. 1322 c.c. dei contratti di assicurazione conte‑
nenti la clausola “claims made” – vista l’evidente deroga che gli stessi pongono
in essere rispetto all’art. 1917 primo comma c.c. – giungendo nel tempo a dif‑
ferenti valutazioni. Infatti, un primo orientamento giurisprudenziale ha ritenu‑
to che la clausola in questione fosse oltre che valida anche tipica, in quanto
oggetto del trasferimento del rischio resta sempre e comunque la condotta non
dolosa dell’assicurato, pur rimborsabile solo se la richiesta di risarcimento
pervenga per la prima volta durante la vigenza della polizza (ex plurimis: Tri‑
bunale di Milano, 18.03.2010 n. 3527), mentre un secondo, maggioritario
orientamento, cui aderisce anche la sentenza da noi esaminata, ritiene che la
clausola “claims made” non rientra nella fattispecie tipica prevista dall’art. 1917
c.c., ma costituisce un contratto atipico, generalmente lecito ex art. 1322 c.c.,
giacché, del suddetto art. 1917 c.c., l’art. 1932 c.c. prevede l’inderogabilità – se
non in senso più favorevole all’assicurato – del terzo e del quarto comma, ma
c i v il e
non anche del primo (principio affermato da: Cass. Civ. Sez. III, 15.03.2005,
n. 5624). Con la clausola “claims made”, pertanto, assicuratore e assicurato
pervengono a una definizione convenzionale della nozione di sinistro rilevante
ai fini dell’art. 1917 primo comma c.c., che coincide con la richiesta di risarci‑
mento del danno avanzata dal terzo e non più quindi – come previsto dal tra‑
dizionale sistema del “losses occurring” – col comportamento del danneggian‑
te‑assicurato generativo della responsabilità (in tal senso. App. Roma Sez. III,
22.03.2011 – Tribunale di Novara, 13.06.2011).
La sentenza esaminata si pone poi dinanzi alla questione riguardante la vessa‑
torietà o meno della clausola “claims made”, in merito alla quale, anche in tal
caso, la giurisprudenza si è evoluta. È necessario a tal proposito evidenziare
preliminarmente che vi è una differenza tra clausola “claims made” “pura” e
“mista”, in quanto, la clausola claims made “pura” consiste nell’assunzione
da parte dell’assicuratore dell’obbligo di tenere indenne l’assicurato dalle ri‑
chieste di risarcimento presentate per la prima volta all’assicurato durante il
contratto, prescindendo dal periodo in cui si è verificato il fatto da cui trae
origine la richiesta di risarcimento del danneggiato, mentre la clausola claims
made “mista”, prevede che l’assicuratore è tenuto a manlevare i sinistri denun‑
ciati dall’assicurato durante il periodo di efficacia della polizza, sebbene pos‑
sano essersi verificati anteriormente alla sua stipulazione, ma comunque, non
oltre un certo periodo di tempo espressamente indicato nello stesso contratto
di assicurazione per la responsabilità civile professionale. Proprio quest’ultima
fattispecie, in base alla quale la copertura assicurativa viene estesa a ritroso nel
tempo, anche per i sinistri verificatisi prima della stipulazione della polizza, con
riferimento però ad un determinato periodo temporale di accadimento del
fatto, viene considerata da gran parte della giurisprudenza una clausola vessa‑
toria ai sensi dell’art. 1341 c.c., in quanto la stessa determina una limitazione
per l’assicuratore dell’area di responsabilità del rischio assicurato, senza una
adeguata contropartita per l’assicurato; la stessa sarà valida ed efficace solo
ove specificamente approvata per iscritto (ex plurimis: Tribunale di Bari,
12.07.2012 – Tribunale di Milano, 18.03.2010 n. 3527 – Cass. Civ. Sez. III,
15.03.2005 n. 5624). La sentenza in commento, aderendo al suddetto, mag‑
gioritario orientamento giurisprudenziale, statuisce inoltre che spetta al giudi‑
ce di merito accertare, caso per caso, se la clausola “a richiesta fatta”, riducen‑
do l’ambito oggettivo della responsabilità dell’assicuratore, fissato dall’art. 1917
c.c., configuri o meno una clausola vessatoria ai sensi dell’art. 1314 c.c.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
sull’appello incidentale proposto dalla Italiana Assicura‑
zioni spa nella parte in cui è stata contestata la responsa‑
bilità professionale del convenuto (art. 360 c.p.c., com‑
ma 1, nn. 3 e 5).
Il motivo non è fondato.
In materia di procedimento civile, si ha garanzia propria
quando la domanda principale e quella di garanzia hanno lo
stesso titolo, o quando si verifica una connessione obiettiva
tra i titoli delle due domande, o quando sia unico il fatto ge‑
neratore della responsabilità prospettata con l’azione princi‑
pale e con quella di regresso.
Si ha, invece, garanzia impropria quando il convenuto
tende a riversare sul terzo le conseguenze del proprio inadem‑
pimento o, comunque, della lite in cui è coinvolto, in base ad
un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principa‑
le (Cass. 29.7.2009 n. 17688; Cass. ord. 24.1.2007 n. 1515;
Cass. 30.9.2005 n. 19208).
Ora, nel caso in esame, è evidente che il titolo delle do‑
mande proposte sia diverso.
La prima, quella di risarcimento dei danni proposta dalla
S. nei confronti del R., attiene alla responsabilità professio‑
nale del legale, mentre quella in base alla quale quest’ultimo
ha convenuto in giudizio la sua compagnia di assicurazione è
fondata sul contratto di assicurazione.
Peraltro, a questa conclusione, che comporterebbe l’infon‑
datezza del motivo, se ne deve anteporre un’altra di per sè
logicamente pregiudiziale.
L’Italiana Assicurazioni, infatti, – che ha proposto appel‑
lo incidentale in ordine alla contestata operatività della ga‑
ranzia assicurativa, – non ha contestato l’accertamento della
responsabilità effettuata dal primo giudice chiedendo, nella
conclusioni rassegnate nel giudizio di appello, “confermare
parzialmente la sentenza del Tribunale di Crotone nella parte
in cui afferma la responsabilità dell’Avv. R. e lo condanna al
risarcimento dei danni a favore di S.M.”.
Ora, l’appello incidentale sul punto della responsabilità
proposto dal R., è stato dichiarato inammissibile, perché
tardivo, dalla Corte di merito; ed una tale statuizione non è
stata oggetto di impugnazione da parte dell’attuale ricorren‑
te.
Ne deriva che si è formato il giudicato sul rapporto prin‑
cipale e sulla responsabilità, riconosciuta, del professionista;
ragion per cui è ininfluente – pur avendo visto ricorrere
un’ipotesi di garanzia impropria ù discutere della natura
della garanzia.
Con il secondo motivo si denuncia omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione rivolta alla decisione di primo
grado in merito al criterio di valutazione del danno risarcibi‑
le (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge e in‑
sufficiente e contraddittoria motivazione nella valutazione del
danno risarcibile (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).
I due motivi, per l’evidente connessione delle censure con
gli stessi proposte, sono esaminati congiuntamente.
Essi non sono fondati.
L’inadempimento dell’odierno ricorrente – come ricono‑
sciuto correttamente dalla sentenza impugnata – riguarda,
non solo l’estinzione della procedura esecutiva promossa, ma
anche la perdita del diritto riconosciuto dalla sentenza – per
la sua prescrizione – e quindi l’actio iudicati.
2 0 1 3
51
Con accurata motivazione, la Corte di merito ha sottoli‑
neato che “il diritto della S., accertato con una sentenza
passata in giudicato, qualora non fosse stato soddisfatto com‑
pletamente nell’esecuzione dichiarata estinta, avrebbe comun‑
que continuato ad esistere per il residuo. Infatti, l’eventuale
esecuzione non completamente satisfattiva costituisce, a sua
volta, un’ipotesi di estinzione parziale del diritto stesso, che,
per la parte restante, continua così ad esistere fino al paga‑
mento integrale, qualora non si estingua per altre cause. Nel
caso di specie, la condotta del professionista ha determinato
la totale estinzione del diritto della S.; ed il danno che ne
deriva come conseguenza immediata e diretta corrisponde ad
una somma pari all’entità del credito estinto.
Ciò che si è estinto è il diritto riconosciuto dalla sentenza
e la conseguente actio judicati”.
E, su tale base, ha provveduto alla liquidazione.
Trattasi di motivazione ineccepibile.
Non sussiste alcun vizio motivazionale.
Piuttosto, con la censura proposta, il ricorrente auspica
una diversa – e non consentita – valutazione e liquidazione del
danno in questa sede.
Con il quarto motivo si denuncia violazione di legge ed
errata determinazione degli interessi e della rivalutazione
monetaria in contrasto con il costante orientamento della
Suprema Corte (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, art. 361 bis
c.p.c. (rectius art. 360 bis c.p.c.)).
Il motivo non è fondato.
A seguito dell’intervenuta prescrizione del diritto, produt‑
tivo in tale momento, di un danno risarcibile, il credito di
valuta della S. nei confronti dei F. si è estinto ed, al suo posto,
è intervenuto il diritto al risarcimento del danno nei confron‑
ti dell’avv. R.; debito questo di valore (v. anche Cass. 3.8.2010
n. 18028; Cass. 3.3.2009 n. 5054); Cass. 10.3.2006
n. 5234).
Corretta, quindi, la liquidazione di interessi e rivalutazio‑
ne della somma, come effettuata dalla Corte di merito. Con
il quinto motivo si denuncia violazione di legge ed insufficien‑
te e contraddittoria motivazione nella parte in cui è stato
escluso l’obbligo di manleva della Compagnia Italiana di
Assicurazioni spa (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).
Il ricorrente sottolinea che la polizza assicurativa dell’Ita‑
liana Assicurazioni prevedeva un regime di operatività c.d.
claims made, in forza della quale ha rilevanza la data della
richiesta risarcitoria indipendentemente dalla data dell’errore
o della negligenza.
Il motivo non è fondato.
Sono principii affermati dalla giurisprudenza della Corte
di cassazione in tema di contratto di assicurazione della re‑
sponsabilità civile con clausola cosiddetto a richiesta fatta
(claims made) – puntualmente riportati nella sentenza impu‑
gnata – i seguenti.
Tale contratto non rientra nella fattispecie tipica prevista
dall’art. 1917 c.c., ma costituisce un contratto atipico, gene‑
ralmente lecito ex art. 1322 c.c., poiché, del suindicato
art. 1917, l’art. 1932 c.c. prevede l’inderogabilità – se non in
senso più favorevole all’assicurato – del terzo e del quarto
comma, ma non anche del primo, in base al quale l’assicura‑
tore assume l’obbligo di tenere indenne l’assicurato di quanto
questi deve pagare ad un terzo in conseguenza di tutti i fatti
(o sinistri) accaduti durante il tempo dell’assicurazione, di cui
civile
Gazzetta
52
D i r itto
e
p r o c e du r a
il medesimo deve rispondere civilmente, per i quali la connes‑
sa richiesta di risarcimento del danno, da parte del danneg‑
giato, sia fatta in un momento anche successivo al tempo di
efficacia del contratto, e non solo nel periodo di efficacia
cronologica del medesimo. Ciò che si desume da un’interpre‑
tazione sistematica che tenga conto anche del tenore degli
artt. 1917, 1913 e 1914 c.c., i quali individuano l’insorgenza
della responsabilità civile nel fatto accaduto.
Nè, al riguardo, assume rilievo l’art. 2952 c.c., relativo
alla richiesta di risarcimento fatta dal danneggiato all’assicu‑
rato o alla circostanza che sia stata promossa l’azione, trat‑
tandosi di norma con differente oggetto e diversa ratio, volta
solamente a stabilire la decorrenza del termine di prescrizione
dei diritti dell’assicurato nei confronti dell’assicuratore.
Infine, spetta al giudice di merito accertare, caso per caso,
se la clausola “a richiesta fatta”, riducendo l’ambito oggettivo
della responsabilità dell’assicuratore, fissato dall’art. 1917
c.c., configuri una clausola vessatoria ai sensi dell’art. 1341
c.c. (così Cass. 15.3.2005 n. 5624).
Questi principii, però, relativi al regime di operatività
della clausola c.d. claims made inserita nella polizza assicura‑
tiva, non rilevano, nel caso in esame, per le seguenti ragioni.
Tale clausola contrattuale (art. 4 delle condizioni genera‑
li di polizza) – come ha correttamente rilevato la Corte di
merito – attiene ad un profilo diverso da quello per il quale è
stata eccepita l’inoperatività della polizza e relativo, quest’ul‑
timo, alle clausole contenute negli artt. 3 e 11 che pongono a
carico dell’assicurato l’obbligo di rendere dichiarazioni com‑
plete e veritiere sulle circostanze relative alla rappresentazio‑
ne del rischio al momento della sottoscrizione della polizza
assicurativa.
Queste clausole (artt. 3 e 11) sono state ritenute, dal giu‑
dice del merito, compatibili con quella c.d. a richiesta fatta
(pag. 17 della sentenza), ma l’inoperatività della garanzia è
stata affermata per la violazione proprio di dette clausole, e
non sulla base di una non corretta valutazione di quella claims
made.
Ciò che conduce a ritenere ininfluenti le censure, sotto
questo profilo, avanzate dal ricorrente.
Peraltro, la Corte di merito ha chiaramente affermato le
ragioni per le quali, nello specifico, ha ritenuto l’inoperatività
Gazzetta
c i v il e
F O R E N S E
della polizza assicurativa e ne ha dato ampia e precisa moti‑
vazione.
Ha, infatti, affermato al riguardo che la polizza assicura‑
tiva stipulata dall’avv. R….. decorreva dal 1 giugno 1995
mentre i fatti e le circostanze che hanno cagionato un danno
all’appellante si collocano temporaneamente alla data nella
quale è stato stipulato il contratto. La procedura esecutiva
promossa dalla S. era già stata dichiarata estinta il 27 settem‑
bre 1992 e risulta in atti che la S. aveva richiesto più volte
all’assicurato avv. R. informazioni su tale procedura….; risul‑
ta, in particolare, che, nella nota 28.2.1994, la S. scriveva.
Spero che nel frattempo il credito di cui sopra non sia caduto
in prescrizione”.
Concludendo “Ciò prova che lo stipulante Avv. R. quando
sottoscrisse la polizza con l’Italiana Assicurazioni e, cioè in
data 1.6.1995, era ben conscio che i danni per cui oggi si di‑
scute si erano già verificati e che, con notevole probabilità,
sarebbe stato chiamato a risponderne”.
Si tratta di accurata motivazione, totalmente condivisibile.
Non senza evidenziare, ulteriormente, che in tema di
contratto di assicurazione, la reticenza dell’assicurato è causa
di annullamento negoziale quando si verifichino cumulativa‑
mente tre condizioni: a) che la dichiarazione sia inesatta o
reticente; b) che la dichiarazione sia stata resa con dolo o
colpa grave; c) che la reticenza sia stata determinante nella
formazione del consenso dell’assicuratore.
Ed il giudizio sulla rilevanza delle dichiarazioni inesatte
o sulla reticenza del contraente, implicando un apprezzamen‑
to di fatto, è riservato al giudice di merito, ed è censurabile in
sede di legittimità soltanto se non sia sorretto da una motiva‑
zione logica, coerente e completa (v. anche Cass. 30.11.2011
n. 25582);motivazione, invece, per le ragioni già dette, cor‑
retta e puntuale.
Conclusivamente, il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come in
dispositivo in favore di ciascuna delle resistenti, sono poste a
carico del ricorrente.
PQM
(Omissis)
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
In evidenza
TRIBUNALE DI NAPOLI, SEZIONE X CIVILE,
sentenza 13 maggio 2013, n. 6114
Danno da “nascita indesiderata” – “Wrongful birth” e “wrongful
life” – Mancata corretta diagnosi ecografica – Risarcimento del
danno in capo al padre ed ai fratelli/sorelle del bambino nato
malformato – Liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimo‑
niali in base a “criterio equitativo”– Onere della prova – Diritto
all’informazione ed all’autodeterminazione – Profili comparati‑
stici e “biodiritto”
La nascita indesiderata di un bambino malformato, con‑
seguente ad imperizia del medico per mancata corretta dia‑
gnosi ecografica, incide sul diritto alla autodeterminazione
della donna, ovvero sul diritto della gestante di esercitare
pratiche interruttive della gravidanza nei termini legislativa‑
mente previsti nonché sul diritto all’informazione dei geni‑
tori. Il verificarsi dell’evento suddetto, in quanto determi‑
nante una radicale trasformazione delle prospettive di vita
dei genitori, determina la risarcibilità di un danno che va ben
oltre quello alla salute in senso stretto della gestante. (1)
Tribunale di Napoli, sez. X, sentenza 13 maggio 2013,
n. 6114.
(Omissis)
Motivi della decisione
In primis va esaminata l’eccezione di difetto di legittima‑
53
zione della convenuta R. s.p.a., in quanto il sinistro de quo
deve ritenersi non coperto dalla garanzia prestata dalla me‑
desima compagnia di assicurazione, ai sensi dell’art. 2 dell’ap‑
pendice di variazione (omissis) alla richiamata polizza
n. (omissis)
Ed invero, la prima richiesta di risarcimento danni veniva
inoltrata dagli attori nei confronti della A. e del P.O. S.G.B.
di Napoli soltanto in data (omissis) e, quindi, ben oltre i 24
mesi dalla scadenza della vigenza della garanzia assicurativa
prestata dalla S.p.a. R.
Ne discende ipso iure l’inoperatività, nel caso di specie,
della garanzia assicurativa della R. s.p.a., che postula impre‑
scindibilmente il rigetto della domanda di manleva formulata
dall’A. nei confronti della stessa.
Nel merito, la domanda è fondata e va, pertanto, accolta.
Ed infatti, il consulente tecnico d’ufficio ha riconosciuto
la mancata rilevazione della patologia malformativa a carico
dei ventricoli cerebrali a seguito dell’indagine ecografia effet‑
tuata dall’attrice in data (omissis)
Il Prof. A. osserva: “…sono elevate le possibilità di diagno‑
sticare alcune delle malformazioni che fanno parte del firma‑
mento dell’oloprosencefalia, in particolare l’unicità dei ventri‑
coli cerebrali, la conseguente valutazione dell’agenesia del
corpo calloso, l’assenza della scissura interemisferica anterio‑
re. Ove si fossero ricercate queste anomalie sarebbero state
visibili già alla 21o settimana di gravidanza. L’ecografia mor‑
fologica classica, effettuata sulla gravidanza a basso rischio,
avrebbe permesso, in quell’epoca di gravidanza, di sospettare
queste anomalie. L’implementazione conseguente, con diffe‑
Nota redazionale a cura di Fabrizia Sabbatini (Dottoressa in Giurisprudenza)
(1) La Sig.ra M. T., coniugata con il Sig. G. D.O., dava alla luce la piccola G. D.O.,
la quale, all’atto della nascita, risultava affetta da una gravissima forma di
microcefalia misconosciuta durante tutta la gestazione e successivamente
diagnosticata come “oloprosencefalia semibolare”. Alla ventunesima settima‑
na di gestazione la Sig.ra M.T. era stata sottoposta, presso il P.O. S.G.B., ad
indagine ecografica, a seguito della quale, a detta degli specialisti della strut‑
tura ospedaliera, non emergevano anomalie nel decorso della gravidanza.
L’omessa rilevazione della patologia malformativa a carico del feto ed il difetto
di una diagnosi ecografica corretta avevano pertanto precluso alla Sig.ra M.T.
di poter esercitare il diritto di aderire all’Interruzione Volontaria di Gravidanza
(I.V.G.) nei tempi previsti ex articolo 6 lett. b) della Legge n. 194/1978.
Tale sentenza si inserisce nell’ampio dibattito esistente in materia fra gli ope‑
ratori – nazionali ed internazionali – del diritto, in quanto le problematiche
inerenti alla materia del risarcimento del danno da “nascita indesiderata” non
si arrestano al limite del puro tecnicismo giuridico ma si insinuano nell’ambi‑
to dell’etica, della morale, e con queste si fondono, sino ad arrivare a potersi
inquadrare in quella nuova branca del diritto stesso che è il “biodiritto”.
Numerose pertanto le domande che in questi anni si sono poste dottrina e
giurisprudenza, nel tentativo di dirimere questioni che toccano simultaneamen‑
te le più alte sfere del diritto civile e le più alte sfere della morale umana.
Quando scatta il risarcimento del danno da “wrongful birth” e quando quel‑
lo da “wrongful life”? Quali i soggetti che il nostro ordinamento ritiene in tal
senso meritevoli di tutela? Quali tipi di danni possono essere accertati e rico‑
nosciuti mediante tale azione risarcitoria? Alla stregua di quale criterio devono
essere liquidati? Quali i diritti che vengono lesi? E su quali soggetti grava
l’onere probatorio?
Altrettanto numerose le risposte della giurisprudenza più recente ed in parti‑
colare della sentenza che ci si accinge a commentare.
In primis è possibile rilevare che tale sentenza, ritenendo la domanda attorea
meritevole di accoglimento, riconosce il pieno diritto degli istanti al risarci‑
mento del danno da “nascita indesiderata” (c.d. wrongful birth), e pertanto,
non solo alla madre del neonato nato malformato, ma anche al padre dello
stesso, aderendo così al più recente orientamento giurisprudenziale che ha
esteso anche a quest’ultimo tale tutela risarcitoria, al contrario di quanto av‑
venuto in passato, allorquando il padre risultava meritevole di un risarcimen‑
to del danno in maniera meramente “indiretta”, “riflessa”, a causa delle sof‑
ferenze patite dalla madre. In tal senso si è infatti ultimamente espressa la
Suprema Corte affermando che: “La responsabilità sanitaria per omessa dia‑
2 0 1 3
gnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa,
oltre che nei confronti della madre nella qualità di parte contrattuale (di un
rapporto da contatto sociale qualificato), anche al padre e ai fratelli e alle
sorelle del neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal
rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la presta‑
zione è dovuta” (Cass. Civ. Sez. III, 02.10.2012, n. 16754); ed anche che “Fra
l’ente ospedaliero e la gestante presso il quale questa si reca per svolgere ac‑
certamenti clinici concernenti la salute del feto s’instaura, in virtù del contatto
sociale, un rapporto contrattuale che ha effetti protettivi sia verso la persona
della madre che verso il padre del nascituro: pertanto, se dall’errore diagnosti‑
co commesso dal personale della struttura sanitaria deriva eziologicamente
l’impossibilità per la madre di praticare un aborto terapeutico, entrambi i
genitori potranno contrattualmente agire contro l’ospedale stesso per la refu‑
sione del danno da nascita indesiderata di un bambino malformato” (Cass.
Civ. Sez. III, 30.11.2011, n. 25559); ed ancora che “In tema di responsabilità
del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente na‑
scita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza
immediata e diretta dell’inadempimento del ginecologo all’obbligazione di
natura contrattuale gravante su di lui spetta non solo alla madre, ma anche al
padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si
incentrano sul fatto della procreazione…” (Cass. Civ. Sez. III, 04.01.2010,
n. 13). Quest’ultima sentenza è difatti richiamata da quella del Tribunale di
Napoli che qui si esamina e che ne abbraccia totalmente le motivazioni.
È inoltre interessante rilevare come la S.C. abbia, sempre con recenti pronun‑
ce, esteso la platea dei soggetti meritevoli di tale tutela risarcitoria, oltre che ai
genitori del nascituro, anche ai fratelli ed alle sorelle dello stesso, in ragione
della futura, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, a causa del
maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché
della diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori
stessi. In tal senso, ex plurimis: Cass. Civ. Sez. III, 02.10.2012, n. 16754.
La sentenza in esame, inoltre, condannando parte convenuta al risarcimento
di tutti i danni patiti dagli istanti, liquida gli stessi secondo un “criterio equi‑
tativo puro”, aderendo anche in tal senso al più recente e diffuso orientamen‑
to della Suprema Corte e discostandosi così dai criteri tabellari (Tabelle del
Tribunale di Milano) generalmente utilizzati ai fini della liquidazione di un
risarcimento del danno non patrimoniale in materia di “responsabilità medica”
in senso ampio.
Quanto invece ai tipi di danni risarcibili è ormai pacifico che possano essere
liquidati in tali casi tutti i danni patrimoniali – consistenti nei costi di manteni‑
mento del figlio non voluto e non solo del “differenziale” tra la spesa necessaria
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renti approcci ecografici, utilizzando diverse sezioni dell’ence‑
falo ed anche un approccio trans vaginale, avrebbero permes‑
so di effettuare la diagnosi di malformazioni multiple”.
Sulla base di quanto dedotto dal consulente tecnico d’uf‑
ficio, è evidente che alla 21o settimana di gestazione la dia‑
gnosi poteva essere correttamente effettuata, tramite indagine
ecografia o transvaginale.
La Sig.ra T. avrebbe potuto esercitare il diritto di sceglie‑
re se effettuare una I.V.G. nei tempi previsti dalla legge.
Con specifico riferimento all’indagine ecografica effettua‑
ta dall’attrice in data (omissis) presso l’Ospedale S.G.B., va
considerata la mancata rilevazione dei parametri, legata al
diametro fronto‑occipitale della testa fetale e la conseguente
mancata rilevazione della patologia malformativa a carico dei
ventricoli cerebrali.
Il consulente rileva che alla 21o settimana di gestazione la
diagnosi poteva essere correttamente effettuata, ed in base ad
essa, le gravissime patologie di cui è affetta la piccola G.
puntualmente rilevate.
A quella data di gestazione (21 settimana) sussistevano
integralmente le condizioni giuridiche, affinché T.M., ove
tempestivamente edotta delle malformazioni fetali, avrebbe
davvero esercitato il diritto d’interrompere la gravidanza.
La convenuta non ha fatto fronte all’onere probatorio
sulla stessa gravante relativo ad elementi (nel caso degli atto‑
ri in ogni caso insussistenti) ambientali, culturali o di storia
personale, idonei a corroborare l’ipotesi contraria all’interru‑
zione volontaria di gravidanza.
Il dott. M. ha espresso nell’elaborato peritale le proprie
considerazioni medico‑legali relative agli attori, T.M. e
D.O.G. In entrambi i soggetti ha rilevato una sindrome di
adattamento di grado moderato con note ansioso‑depressive,
dichiarando: “Sono da configurare, per la presenza del quadro
psichico testè considerato, postumi di carattere permanente,
incidenti sull’integrità psicofisica (c.d. danno biologico), da
valutare nella misura percentuale del 3% – 4% (tre – quattro
per cento)”.
Alla luce di quanto precede, gli attori hanno pieno diritto
al risarcimento dei danni patrimoniali per lucro cessante e di
tutti i danni non patrimoniali, ivi compreso il danno biologi‑
co, esistenziale e morale soggettivo, a causa della mancata
corretta diagnosi ecografica ai danni della Sig.ra T.
Il medico, non rilevando la microcefalia da cui era affetto
il feto alla 21o settimana di gravidanza, determinava in capo
alla gestante una perdita di chance, impedendo alla stessa di
aderire alla I.V.G. nei tempi previsti dalla legge.
La giurisprudenza del Supremo collegio ha ormai chiarito
che: “La nascita indesiderata di un bambino malformato,
conseguente ad imperizia del medico per tardiva o omessa
esecuzione dei dovuti accertamenti clinici, incide sul diritto
alla autodeterminazione della donna, ovvero sul diritto della
gestante di esercitare pratiche interruttive della gravidanza
nei termini legislativamente previsti. Il verificarsi dell’evento
suddetto, in quanto determinante una radicale trasformazio‑
ne delle prospettive di vita dei genitori – innegabilmente
esposti a dover misurare la loro vita quotidiana e la loro esi‑
per il mantenimento di un figlio “sano” e la spesa per il mantenimento di un
figlio affetto da malformazione, così come statuito da precedenti orientamen‑
ti – e non patrimoniali (c.d. danno da “rovesciamento forzato dell’agenda”), ivi
comprese la lesione del diritto all’autodeterminazione, ovvero del diritto della
gestante di esercitare pratiche interruttive della gravidanza nei termini legislati‑
vamente previsti (ex plurimis: Cass. Civ. Sez. III, 04.01.2013, n. 13) e la lesione
del diritto dei genitori all’informazione, indipendentemente dall’eventuale
maturazione delle condizioni che abilitano la donna a chiedere l’interruzione
della gravidanza, onde potersi preparare psicologicamente e, se del caso, anche
materialmente, all’arrivo di un figlio menomato (ex plurimis: Cass. Civ. Sez. III,
22.03.2013, n. 7269). La recente sentenza della S.C. n. 7269/13 considera poi
quest’ultimo tipo di danno già insito in quello c.d. biologico, che è sempre ri‑
sarcibile, in tali casi, in tutte le sue forme, ivi compreso quello morale.
Interessanti particolarità rileviamo ancora con riguardo alla materia affronta‑
ta anche quanto alla ripartizione dell’onere probatorio, difatti, nella sentenza
che qui commentiamo, il G.U. statuisce che, una volta provato dall’attrice che
la stessa avrebbe aderito ad una IVG nei tempi previsti dalla legge, laddove
tempestivamente edotta delle malformazioni fetali, grava sulla parte convenu‑
ta l’onere di dimostrare il contrario, ipotesi che nel caso di specie non è verifi‑
cata. Con tale statuizione la nostra sentenza del Tribunale di Napoli abbraccia
l’orientamento più recente della S.C., il quale, ha subito una recente evoluzio‑
ne. Lo stesso, infatti, partendo dalla considerazione che risulta quale dato
imprescindibile, desunto dall’osservazione dei fenomeni sociali, che è bassissi‑
ma la frequenza di esito negativo dell’accertamento sul pericolo per la salute
della donna in casi di gravi malformazioni del feto e reciprocamente altissima
quella delle interruzioni terapeutiche della gravidanza che per tali ragioni
siano domandate, finisce per far scattare, a fronte della sola allegazione della
donna, che, se informata, si sarebbe avvalsa del diritto di interrompere una
gravidanza, una presunzione iuris tantum di sussistenza delle condizioni che
quella interruzione avrebbero legittimato ed il medico si troverà a tal punto a
dover affrontare una probatio quasi “diabolica”, dovendo provare che, per
una qualche ragione, la donna, benché informata delle malformazioni fetali,
non avrebbe potuto o voluto abortire. Per tali motivi la Corte è di recente
tornata sulla questione, con la nota sentenza del 02.10.2012, n. 16754, sta‑
tuendo che spetti comunque alla parte attrice di integrare il contenuto di
quella presunzione con elementi ulteriori, di qualsiasi genere, da sottoporre
all’esame del decidente per una valutazione finale circa la corrispondenza
della presunzione stessa all’asserto illustrato in citazione, ipotesi che si è effet‑
tivamente verificata nel caso che qui esaminiamo.
La sentenza in commento si discosta però – incomprensibilmente – dalla re‑
centissima apertura giurisprudenziale avvenuta in materia grazie alla nota
sentenza n. 16754 del 02.10.2012, Cass. Civ. Sez. III (v. M. Palagano, Il di‑
ritto del minore al risarcimento del danno da nascita con malformazione
congenita. Nota a Cassazione civile, III sez., sentenza 2 ottobre 2012 n. 16754,
in Gazzetta Forense, n. 3, 2013, pag. 35), la quale, anche sulla scorta della
giurisprudenza d’oltralpe – si ricorderà il famoso arrêt francese, noto come
“affaire Perruche” (Cour de Cassation, Assemblée plénière, du 17 novembre
2000, 99‑1370) – riconosce al neonato/soggetto di diritto/giuridicamente ca‑
pace (art. 1 c.c.) il diritto a chiedere il risarcimento del danno dal momento in
cui è nato, domanda risarcitoria che trova il suo fondamento negli artt. 2, 3,
29, 30 e 32 Cost. Il vulnus lamentato da parte del bambino malformato non
è la malformazione in sé considerata, bensì lo stato funzionale di infermità, la
condizione evolutiva della vita handicappata, vita che merita di essere vissuta
meno disagevolmente, attribuendo direttamente al soggetto portatore di tale
disagio il dovuto importo risarcitorio.
È pertanto il caso di notare, affacciandoci al di là dei confini italiani, che, non
a caso, il risarcimento del danno da “nascita indesiderata”, è molto conosciu‑
to nei paesi di Common Law – c.d. danno da “wrongful birth” (Wrongful
birth: a malpractice claim brought by the parents of a child born with a birth
defect against a physician or health‑care provider whose alleged negligence (as
in diagnosis) effectively deprived the parents of the opportunity to make an
informed decision whether to avoid or terminate the pregnancy; also : the birth
or injury at issue in such a claim (Based on Merriam‑Webster's Dictionary of
Law 2013))– e meno affrontato nei paesi di Civil Law, in quanto in contrasto
non solo con i principi morali, ma anche con il diritto alla vita. L’esperienza
in materia è infatti maturata soprattutto nel mondo anglosassone, con le cosid‑
dette “action in torts” (azione per illeciti civili), e con il tempo si è affermata
la risarcibilità non solo per la wrongful birth (nascita indesiderata) ma anche
per la wrongful life (vita indesiderata) (Wrongful Life: an event in which legal
action may be taken on behalf of a baby suffering from a hereditary or con‑
genital defect, e.g., Down syndrome, or other disease, e.g., rubella, who would
not have been born had the parents had the knowledge to opt for an abor‑
tion. (Based on Segen's Medical Dictionary 2012 Farlex, Inc.)). E che proprio
il danno da wrongful life è riconosciuto, a livello di diritto comparato, in
termini decisamente più ridotti rispetto a quello da wrongful birth. Può, in‑
vero, osservarsi come l'apertura progressivamente mostrata dalla giurispru‑
denza alle pretese risarcitorie per wrongful birth e wrongful life sia stata più
precoce in quegli ordinamenti in cui il ricorso alle pratiche contraccettive ed
abortive è ammesso con maggiore ampiezza. La giurisprudenza italiana ci
appare ancora abbastanza prudente.
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stenza concreta con le prevalenti esigenze del bambino – de‑
termina, per quanto innanzi, la risarcibilità di un danno che
va oltre quello alla salute in senso stretto della gestante. Trat‑
tasi invero, di un accadimento incidente sulla lesione di un
interesse (omissis) che impone al danneggiato di condurre
giorno per giorno una vita diversa e peggiore di quella che
altrimenti avrebbe condotto” (ex multiis, Cass. Civ. Sez. III
Sent., 04.01.2010, n. 13).
In ordine alla liquidazione dei danni, va evidenziato che
dall’evidenza disponibile risulta la sussistenza dei seguenti
danni, patrimoniali e non, conseguenti all’evento lesivo de
quo.
In ordine al danno esistenziale, alla luce della recentissima
sentenza a SS.UU. della Corte di Cassazione n. 26972
dell’11.11.2008, va evidenziato che si sono racchiuse in tale
denominazione tutte le altre lesioni di interessi non patrimo‑
niali costituzionalmente protetti (artt. 2, 3, 4, 13, etc.), diver‑
si dalla salute e dalla sofferenza morale soggettiva, ma meri‑
tevoli di adeguato ristoro.
In particolare, sussistendo nella specie un accertato grave
danno biologico subito dagli attori, tale danno diviene il
fatto noto obiettivo, inconfutabile ed incontrovertibile, da cui
partire anche per valutare, su base prognostica e presuntiva e
alla luce dell’id quod plerumque accidit, quanto all’esistenza
degli attori è stato pregiudicato, da un punto di vista c.d.
dinamico ed oggettivo.
In altri termini, la dimostrazione della lesione biologica
comporta la presunzione di sussistenza dello specifico pregiu‑
dizio esistenziale subito.
E la liquidazione monetaria di tali danni non va fatta in
quota percentuale di quanto liquidato a titolo di danno bio‑
logico, ma secondo un criterio equitativo puro, circostanziato
non solo alla sofferenza subita e alla sussistenza di un’ipotesi
di reato, ma anche alla gravità, tipo e durata dell’offesa,
all’entità, natura e sede della lesione, alla durata e intensità
delle cure riabilitative, all’età, sesso e sensibilità del danneg‑
giato, al comportamento processuale di controparte, ed a
tutte le altre circostanze del caso concreto in esame.
Alla luce di quanto precede, il tribunale, pertanto, ritiene
di accogliere la domanda e, per l’effetto, dichiara la responsa‑
bilità dell’A., in persona del legale rappresentante pro‑tempo‑
re, del P.O. S.G.B., in persona del legale rappresentante
pro‑tempore, e della U.A. S.P.A., in persona del legale rappre‑
sentante pro‑tempore e condanna gli stessi al risarcimento di
tutti i danni patiti dagli attori (danno biologico, ITT, ITP)
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quantificati in euro 300.000,00 oltre interessi e svalutazione
monetaria dal giorno della domanda all’effettivo soddisfo.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da
dispositivo
P.Q.M.
Il Tribunale di Napoli – X Sezione – definitivamente pro‑
nunziando sulla domanda proposta da M.T. e G.D.O., nella
qualità di genitori esercenti la patria potestà sulla minore
G.D.O., nei confronti dell’A., in persona del legale rappresen‑
tante pro‑tempore, del P.O. S.G.B., in persona del legale
rappresentante pro‑tempore, della U.A. S.P.A., in persona del
legale rappresentante pro‑tempore, e della R. S.P.A., in per‑
sona del legale rappresentante pro‑tempore, ogni contraria
istanza ed eccezione disattesa, così provvede:
– rigetta la domanda proposta dall’A., in persona del legale
rappresentante pro‑tempore, nei confronti della R. S.P.A.,
in persona del legale rappresentante pro‑tempore;
– dichiara la responsabilità dell’A., in persona del legale
rappresentante pro‑tempore, del P.O. S.G.B., in persona
del legale rappresentante pro‑tempore, della U.A. S.P.A.,
in persona del legale rappresentante pro‑tempore, nella
causazione dell’evento relativo a T.M. e D.O.G, nella
qualità di genitori di G.D.O.;
– condanna l’A, in persona del legale rappresentante
pro‑tempore, il P.O. S.G.B., in persona del legale rappre‑
sentante pro‑tempore, e la U.A. S.P.A., in persona del
legale rappresentante pro‑tempore, al risarcimento di
tutti i danni patiti dagli attori (danno biologico, ITT, ITP)
quantificati in euro 300.000,00 oltre interessi e svaluta‑
zione monetaria dal giorno della domanda all’effettivo
soddisfo;
– condanna l’A, in persona del legale rappresentante
pro‑tempore, al pagamento, in favore della R. S.P.A., in
persona del legale rappresentante pro‑tempore, delle spe‑
se processuali, che liquida in complessivi euro 3.000,00,
di cui euro 1.000,00 per spese ed il residuo per onorari,
oltre Iva e Cpa;
– condanna l’A, in persona del legale rappresentante
pro‑tempore, il P.O. S.G.B., in persona del legale rappre‑
sentante pro‑tempore, e la U.A. S.P.A., in persona del
legale rappresentante pro‑tempore, al pagamento, in fa‑
vore degli attori, delle spese processuali, che liquida in
complessivi euro 30.000,00, di cui euro 3.000,00, ivi
compresa la c.t.u., ed il residuo per onorari, oltre Iva e
Cpa.
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In evidenza
TRIBUNALE DI NOLA, SEZIONE II CIVILE,
sentenza 01 luglio 2013
Giud. R. De Luca
Estraneità al giudizio della C.C.I.A.A. – Ruolo della
C.C.I.A.A in tema di tenuta del registro dei protesti – Nesso
di strumentalità tra l’azione cautelare ed il futuro giudizio a
cognizione piena.
1. In tema ricorso ex art. 700 cpc deve ritenersi la ammis‑
sibilità dello stesso in ipotesi di illegittima levata di protesti
di assegno bancario, in quanto la speciale tutela di cui all’art,
4 della l. 77/1955 è applicabile solo per i protesti cambiari.
2. Alla C.C.I.A.A. è demandata solo la attività dovuta e
materiale di sospensione del procedimento o di cancellazione
del protesto conseguente all’ordine del Giudice, dovendosi
escludere la legittimazione passiva della C.C.I.A.A. nel giu‑
dizio ex art. 700 cpc.(1).
3. La mancata evocazione in giudizio del soggetto che
avrebbe dato inizio alla illegittima elevazione del processo fa
venir meno il nesso di strumentalità fra lazione cautelare
intentata ed il futuro giudizio a cognizione piena.(2)
Trib. Nola, sez. II, 01 luglio 2013, Giud. R. De Luca
(Omissis)
Con ricorso depositato il 13.05.2013 i ricorrenti M.M. di
G.S. & C. S.a.s. e G.A.S. hanno chiesto che venisse ordinato
alla CCIIAA di Napoli di precedere alla cancellazione del
proprio nomitativo dall’elenco dei protesti sul presupposto di
aver rilasciato assegna bancario tratto sulla Banca *** n. ***
dell’importo di € 2.044,90, sul quale in data 13.12.2012 era
stato lavato un protesto per difetto di provvista, e di aver
pagato in data 28.01.2013 l’importo facciale del titolo, oltre
spese di protesto, interessi legali e spese di insoluto, ai sensi
dell’art. 8 della legge 386/1990.
Parte ricorrente ha notificato il ricorso introduttivo, uni‑
tamente al decreto di fissazione udienza, in esclusiva alla
Nota redazionale a cura di Ermanno Restucci (Avvocato)
(1)Il Tribunale ha ritenuto ammissibile la possibilità del ricorso alla tutela di cui
all’art. 700 cpc in ipotesi di presunto illegittimo protesto di assegno bancario,
non essendo applicabile la normativa che prevede il ricorso in via amministra‑
tiva al Presidente del C.C.I.A.A., dettata solo per i protesti cambiari e prevista
dall’art. 4 della L. n. 77/1955 e successive modificazioni e integrazioni.
La legge 19 agosto 2000, n. 235 ha sostituito gli artt. 3 e 4 della legge 77/55,
di modo che l’art. 4 nel testo attuale prevede la facoltà per il debitore, il
quale abbia provveduto al pagamento della cambiale o del vaglia cambiario
protestati entro dodici mesi dalla levata del protesto, di ottenere la cancella‑
zione del proprio nome dal registro informatico di cui all’art. 3‑bis, D.L. 18
settembre 1995, n. 382, ovvero, se abbia provveduto al pagamento oltre il
termine indicato, di ottenere la relativa annotazione sul registro informatico,
in entrambi i casi, mediante apposita istanza al Presidente della C.C.I.A.A.
competente per territorio (art.4, co.1).
Analoga istanza può essere presentata da chiunque dimostri di aver subito la
levata di un protesto in maniera illegittima od erronea, nonché dai pubblici uf‑
ficiali incaricati della levata del protesto dalle aziende di credito, qualora si sia
illegittimamente o per errore proceduto alla levata (art. 4, co. 2). Il Presidente
della C.C.I.A.A. provvede sull’istanza non oltre il termine di venti giorni dalla
proposizione della stessa e, sulla base dell’accertamento della regolarità del pa‑
gamento o della sussistenza della illegittimità o dell’errore, accoglie l’istanza e
dispone la cancellazione del protesto dal registro informatico attraverso il quale
si provvede alla pubblicazione ufficiale dei protesti cambiari; in caso contrario,
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Camera di Commercio di Napoli, e in veste di sue procuratrice
speciale, si è costituita nel corso della odierna udienza la R.C.
srl.
In via preliminare deve essere rilevato che è ammissibile il
ricorso in via d’urgenza al fine di ottenere la cancellazione dal
registro dei protesti in ipotesi di illegittima levata di protesto
di assegno bancario, nonché che tale tutela è invocabile anche
in via preventiva, mediante richiesta di inibitoria della pub‑
blicazione di un protesto illegittimo di un assegno bancario,
in quanto l’art. 4 l.n. 77/1955, come modificato dall’art. 2 l.
235/2000 – il quale disciplina una procedura speciale di can‑
cellazione del protesto mediante istanza inviata al Presidente
della Camera di Commercio, Industria ed Artiginato con
eventuale ricorso, in caso di diniego, al Giudice di Pace – non
è applicabile in materia di assegni bancari, essendo dettato
esclusivamente per i protesti cambiari (cfr. Trib. Genova, sent.
del 22.07.2002 e Trib. Roma sent. del 06.12.2005 in Rep. Foro
it. 05 voci provvedimenti di urgenza nn. 83 ed 82).
Deve ritenersi, pertanto, ammissibile la tutela cautelare
azionata, sul presupposto che l’illegittima elvazione e pub‑
blicazione del protesto possa essere potenzialmente lesiva
all’esercizio dell’attività, anche commerciale, dei ricorrenti,
stante l’impossibilità di emettere ulteriori titoli di credito fino
alla data di cancellazione del nominativo dall’elenco dei pro‑
testi e date le restrizioni nell’accesso al credito che la perdura‑
nte annotazione del nominativo della società ricorrente nel
registro dei protesti comporta.
Va, quindi, osservato quanto alla legittimazione passiva
del soggetto evocato in giudizio, che il procedimento cautelare
ex art. 700 cpc azionato – con il quale è stato richiesto che
venga ordinata la cancellazione del protesto stesso dall’apposito
albo custodito presso la Camera di Commercio – verte esclu‑
sivamente tra il creditore ed il debitore del credito cartolare o
tra questo e chi ha dato luogo all’ingiusta negoziazione del
titolo, per cui tale processo non riguarda, come parte, la Cam‑
era di Commercio, alla quale è demandata solo l’attività do‑
vuta e materiale di sospensione del procedimento o di cancel‑
lazione del protesto, conseguente all’ordine del Giudice.
Il procedimento cautelare, pertanto, si modella in maniera
respinge l’istanza (art. 4, co. 3). Solo in caso di reiezione dell’istanza o di man‑
cata decisione sulla stessa, è espressamente prevista la possibilità per l’interessa‑
to di fare ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria, e la competenza è attribuita
al Giudice di Pace del luogo di residenza del debitore protestato (art. 4, co. 4).
Le novità più salienti della nuova disciplina sono costituite da un lato
dall’estensione al debitore protestato della facoltà di ricorrere avverso il pro‑
testo illegittimo o erroneo; dall’altro, dalla eliminazione del procedimento
camerale di competenza del Presidente del Tribunale, sostituito da un proce‑
dimento amministrativo davanti al Presidente della Camera di Commercio,
con facoltà di adire il Giudice ordinario nell’evenienza di rigetto o mancata
pronuncia nel termine di venti giorni. Sul punto la giurisprudenza di merito
ha avuto modo di chiarire che: “la reiezione dell’istanza di cancellazione al
Presidente della Camera di Commercio, ovvero la mancata decisione della
stessa di cui al comma 4 dell’art. 4 della legge 77/55 come modificato dall’art. 2
della legge 1.8.2000 a 235, costituiscono presupposto per ricorrere al giudice
per ottenere tutela cautelare…Rilevato che la fase amministrativa non può che
avere carattere prodromico e che la stessa ha finalità chiaramente deflative
dell’attività giurisdizionale e che l’art 4 assegna al Presidente della C. C.I.A.A.
un termine estremamente ridotto entro cui provvedere sull’istanza di cancel‑
lazione, deve pertanto ritenersi non irragionevole la precisa necessità di un
preventivo ricorso all’autorità amministrativa, atteso l’assoggettamento
dell’azione giudiziaria all’onere del preventivo esperimento del rimedio ammi‑
nistrativo” (Trib. di Napoli, XI sez. civ., dott. Scrima, ord. 21/7/2003).
Ed ancora (Tribunale di Napoli sez. III, ord. 8 aprile 2010 giungendo ad identiche
conclusioni ma sulla scorta di un diverso iter argomentativo): “parte della dot‑
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tale che il destinatario dell’ordine (Camera di Commercio) sia
soggetto diverso rispetto a quello (cui deve aggiungersi, ma
non sostituirsi come parte del procedimento) che dovrà essere
convenuto nel giudizio di merito quale soggetto nei confronti
è richiesta la tutela giurisdizionale di accertamento dell’illecito
e risarcitoria (cfr. Cass. civ., sent. n. 17415 del 30.08.2004).
Alcu provvedimento, quindi, può essere adottato nella
presente sede, dato che l’unico soggetto evocato non ha qual‑
ità di parte in senso sostanziale.
Va, inoltre, sottolineato che ogni misura cautelare è carat‑
terizzata dal requisito della strumentalità, il quale comporta
che la misura cautelare non sia mai fine a stessa ma che, anche
nei procedimenti cautelari ex art. 700 cpc, caratterizzati da
strumentalità attenuata, ovvero non necessariamente preor‑
dinati alla emanazione di un ulteriore provvedimento defini‑
tivo, comunque occorre che sia esattamente individuato il
diritto da tutelare affinché, in caso di futura instaurazione del
giudizio di merito, possa apprezzarsi la finalità anticipatoria
propria del procedimento cautelare, nonché possa stabilirsi se
l’introduzione del giudizio di merito sia stata, o meno, tem‑
pestiva.
Il provvedimento disciplinato dall’art. 700 cpc, quindi,
essendo rimedio d’urgenza di natura atipica cui si ricorrere
nelle ipotesi in cui l’ordinamento non preveda uno specifico
strumento cautelare, continua a svolgere, pur dopo la riforma
introdotta dalla legge 80/2005 – che prevede come meramente
facoltativa la futura instaurazione del giudizio di merito e
sancisce che l’estinzione del giudizio di merito non determini
l’inefficacia dei provvedimenti cautelari a carattere anticipa‑
torio – una funzione sussidiaria ed anticipatoria del giudizio
di merito, mirando ad assicurare a quel diritto adeguata tutela
per il periodo di tempo che intercorre fra la proposizione
della domanda e l’esito del giudizio a cognizione piena (cfr.
Trib. Va rese, ord. 19.07. 2010 ; Trib. Tori no, ord.
07.05.2007).
L’art. 669 octies, IV comma, cpc, del resto, prevede che
“”ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito” e, dunque,
anche la parte resistente, con la conseguenza che, per preser‑
vare il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa di
tale parte, si rende necessaria, sin dall’instaurazione del pro‑
cedimento d’urgenza, la precisa indicazione della domanda di
merito che sarà proposta. Diversamente, la parte resistente si
troverebbe ad incardinare una causa di merito nella quale è
convenuto in senso sostanziale (e attore in senso formale),
senza essere a conoscenza della domanda che portà essere
successivamente proposta nei suoi confronti.
Nel caso in esame parte ricorrente ha prospettato l’oggetto
del futuro giudizio a cognizione piena da attivare ma, non
aveno evocato in giudizio il soggetto il quale ha dato inizio
alla procedura di illegittima elevazione del protesto e che non
ha provveduto a richiedere la rettifica dei dati dopo il paga‑
mento effettuato ai sensi della legge 386/1990, difetta il
nesso di strumentalità fra l’azione cautelare intentata ed il
futro giudizio a cognizione piena, il cui destinatario passivo
dovrebbe essere un soggetto differente rispetto all’unico sog‑
getto evocato nel presente giudizio e destinatario della richi‑
esta cautelare.
Lo spiegato ricorso deve essere, per tali ragioni rigettato.
Ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, non potendo es‑
cludersi che, in caso di evocazione della banca trattaria, il
avrebbe potuto essere accolto – avendo parte ricorrente di‑
ritto alla rettifica dei dati inseriti nel registro dei protesti ai
sensi dell’art. 7 n.3, lettera a) del d.lgs. 196/2003, come evi‑
denziato nel ricorso cautelare, e potendo la domanda di ret‑
tifica dai dati ritenersi ricompresa un quella di cancellazione
del protesto –, per compensare le spese di procedura.
PQM
(Omissis)
trina e un settore della stessa giurisprudenza di merito (Trib. Udine 13 febbraio
2002; in termini, sia pure implicitamente Trib. Napoli; 13 febbraio 2001, in Giur.
Merito, 2001, I, 626) ritengono che non possa proporsi immediatamente dinan‑
zi al giudice ordinario, ai sensi dell’ad. 700 c.p.c., in sede cautelare, l’istanza di
cancellazione della pubblicazione di un protesto illegittimo, giacché la cancella‑
zione va preventivamente richiesta al Presidente (rectius: dirigente responsabile
dell’ufficio protesti) della Camera di commercio, organo investito in tema di
pubblicazione degli elenchi dei protesti di potestà amministrativa ad esso riser‑
vata e non più riconducibile a mera operazione materiale. Tali indirizzi lascereb‑
bero propendere per il carattere necessariamente prodromico della fase ammini‑
strativa e la circostanza che un provvedimento cautelare adottato prima della
presentazione dell’istanza al suddetto dirigente responsabile della Camera di
commercio non risulterebbe strumentale ad un giudizio di merito, assolutamen‑
te eventuale, bensì alla decisione adottata dall’organo amministrativo (Trib.
Vallo della Lucania, 17 maggio 2004; Tribunale Napoli 30/11/2012)”.
È noto che l’attività delle Camere di Commercio in materia di pubblicazione
degli elenchi dei protesti cambiari consiste in una mera operazione materiale che,
senza alcun potere discrezionale, ha come risultato la divulgazione di notizie e
che segue automaticamente la levata del protesto e che anche nelle ipotesi di
protesto illegittimo o erroneo deve escludersi che possa pretendersi direttamente
dall’ente di inibire la pubblicazione o di procedere alla cancellazione del protesto,
in mancanza di alcuna potestà decisionale in capo all’Ente qui comparente che si
limita a recepire l’ordine di pubblicazione da parte del pubblico ufficiale.
L’attività dell’Ente non ha natura discrezionale, atteso che la stessa si esplica
in atti materiali, nella specie registrazioni e divulgazioni secondo parametri
predeterminati dalla disciplina vigente e secondo le indicazioni dei pubblici
ufficiali abilitati alla levata del protesto. In sintesi (come rileva anche la più
recente Giurisprudenza: cfr Tribunale di Nola 02/07/2012), alla Camera di
Commercio è demandata solo l’attività, dovuta e materiale, di sospensione
del procedimento o di cancellazione del protesto, conseguente all’ordine del
Giudice.
Alla Camera di Commercio il pubblico ufficiale elevatore dei protesti trasmet‑
te ogni mese l’elenco dei soggetti protestati (ai sensi della legge 235/2000,
modi­ficativa della legge 77/1995) redatto su supporto cartaceo o informatico
contenente l’elenco dei protesti levati dal primo giorno al giorno quindici e dal
giorno 16 all’ultimo giorno di ciascun mese; elenco che né pubblicato dalla
Camera di Commercio, alla quale è preclusa ogni altra attività.
ll principio è pacifico anche secondo l’insegnamento della Suprema Corte (Cass.
30/08/2004 n. 17415), secondo il quale, in caso di accoglimento della doman‑
da cautelare la Camera di Commercio – che neppure acquista la qualità di
parte in senso tecnico – non può essere condannata alle spese, essendo estranea
allo svolgimento dei fatti che hanno determinato la levata del protesto.
(2)Il Tribunale di Nola, nella decisione in esame ed avente ad oggetto la richiesta
di ordine di cancellazione di (illegittimo) protesto, ha correttamente affermato
che nell’ambito di un procedimento ex art. 700 cpc vi è la necessità della
evocazione in giudizio di tutte le parti nei cui confronti dovrà essere instaurato
il giudizio di merito; in mancanza, infatti, si verificherebbe che il destinatario
passivo del giudizio sarebbe un soggetto diverso da quello evocato nell’ambito
del cautelare ai soli fini della attività materiale.
civile
Gazzetta
Diritto e procedura penale
Il sistematico impiego di minori nella pratica dell'accattonaggio:
la (ir)rilevanza penale del fattore culturale
61
Claudia Santoro
Sulla individuazione dell’organo dell’accusa nella fase della esecuzione
Nota a Cassazione penale, sez. I, sentenza 11 gennaio 2013, n. 6324
69
Fabiana Falato
La Corte Costituzionale e la Corte Edu sul ricongiungimento familiare del reo
79
Vittorio Sabato Ambrosio
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
82
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
88
90
penale
Rassegna di legittimità [
F O R E N S E
●
Il sistematico impiego
di minori nella pratica
dell'accattonaggio:
la (ir)rilevanza penale
del fattore culturale
● Claudia Santoro
Dottoranda in Sistema Penale Integrato e Processo
Università di Napoli “Federico II”
luglio • A G O S T O
2 0 1 3
61
SOMMARIO: Premessa – 1. Il caso e il percorso argomenta‑
tivo della Suprema Corte – 2. Riduzione o mantenimento in
schiavitù o servitù (art. 600 c.p.), maltrattamenti in famiglia
(art. 572 c.p.), impiego di minori nell’accattonaggio
(art. 600‑ocites): tre fattispecie a confronto – 3. Il fattore
culturale nel sistema penale italiano – 4. Rilievi conclusivi
Premessa
Il sistematico impiego di minori nell’accattonaggio è un
triste fenomeno che investe la nostra società già da molti anni.
Si tratta di una pratica largamente diffusa in diversi gruppi di
cittadini extracomunitari, soprattutto di etnia rom, stabilmen‑
te stanziati nel nostro Paese, per i quali la ’questua’ costituisce
un “sistema di vita”, frutto e retaggio di antiche e consolidate
tradizioni culturali.
In nome di una discutibile, ma ben radicata consuetudine,
gli adulti di queste popolazioni costringono figli, nipoti o altri
bambini del ’campo’ all’umiliante pratica dell’elemosina e,
conseguentemente, a vivere in un perenne stato di abbandono,
sofferenza e degrado, negando loro alcuni diritti che la nostra
Costituzione considera fondamentali ed inviolabili. Ci riferia‑
mo, in generale, al diritto alla dignità e all’autodeterminazio‑
ne, nello specifico, al diritto all’educazione e all’istruzione che
l’art. 30, comma 1 Cost. espressamente riconosce e garantisce
a tutti i fanciulli, senza alcuna limitazione in base allo status
di cittadino italiano, comunitario, straniero o apolide1.
In materia di sfruttamento minorile ai fini dell’accattonag‑
gio, la giurisprudenza ha seguito un percorso evolutivo ben
preciso: passando dalla contravvenzione di cui all’art. 671 c.p.2
(impiego di minori nell’accattonaggio), attraversando la fatti‑
specie dei maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p., è
approdata alla figura criminosa contemplata dall’art. 600
c.p. (riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù)3.
Proviamo, quindi, a delineare l’oggetto della nostra inda‑
gine.
In primo luogo, analizzeremo le fattispecie di cui agli
artt. 572, 600 e 600‑octies c.p. per coglierne le assonanze e i
tratti differenziali.
In secondo luogo, cercheremo di capire se il fattore cultura‑
le – invocato dalla difesa dell’imputato per ottenere la derubri‑
cazione del delitto di cui all’art. 600 c.p. in quello meno grave
previsto dall’art. 572 c.p. e considerato assolutamente irrilevan‑
te dalla giurisprudenza di legittimità – può esplicare una sua
valenza in ambito penale e se sì, entro quali limiti. In relazione
1Sul contenuto e le funzioni del diritto all’educazione v. IASEVOLI, Diritto
all’educazione e processo penale minorile, Napoli 2012.
2 Articolo abrogato dall’art. 3 comma 19 lett. d) l. 15 giugno 2009, n. 94. Il testo
originario dell’articolo era il seguente: «Chiunque si avvale per mendicare di una
persona minore degli anni quattordici, o, comunque, non imputabile, la quale
sia sottoposta alla sua autorità o affidata alla sua custodia o alla sua vigilanza,
o permette che tale persona mendichi, o che altri se ne avvalga per mendicare,
è punito con l’arresto da tre mesi a un anno.
Qualora il fatto sia commesso dal genitore o dal tutore, la condanna importa la
sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori o dall’ufficio di tutore». La
figura di reato è stata sostanzialmente riprodotta nel nuovo articolo 600‑octies:
«Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque si avvale per mendicare
di una persona minore degli anni quattordici, o comunque, non imputabile,
ovvero permette che tale persona, ove sottoposta alla sua autorità o affidata
alla sua custodia o vigilanza, mendichi, o che altri se ne avvalga per mendicare,
è punito con la reclusione fino a tre anni»
3 F. CARCANO, L’accattonaggio dei minori: tra delitto e contravvenzione, in
Cass. Pen. 2005, 4596
penale
Gazzetta
62
D i r itto
e
p r o c e du r a
a quest’ultimo punto, dunque, affronteremo brevemente la
delicata problematica dei c.d. reati culturalmente motivati, cioè
influenzati dal contesto sociale di appartenenza.
1. Il caso e il percorso argomentativo della Suprema Corte
Il punto di partenza è un caso4. La Corte di Assise di Cosen‑
za condannava Tizio alla pena di otto anni e sei mesi di reclu‑
sione per il reato di cui all’ art. 600 c.p. aggravato ai sensi del
comma 2 dell’art. 600‑sexies (capo a); e per il reato di cui
all’art. 572 aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 2 c.p.; entrambi
realizzati in concorso con la sua convivente ex art. 110 c.p. e
unificati sotto il vincolo della continuazione, perché con minac‑
cia ed uso materiale della violenza costringeva la figlia della
compagna a dedicarsi all’accattonaggio dalla mattina alla sera,
abusando della sua autorità e approfittando della condizione di
evidente inferiorità fisica e psichica della bambina che, all’epo‑
ca dei fatti, aveva appena dieci anni. All’imputato venivano
applicate le pene accessorie di cui agli artt. 600‑septies e art. 32,
comma 3 c.p. e concesse le attenuanti generiche.
La Corte di Assise d’Appello di Catanzaro riformava par‑
zialmente la sentenza del giudice di primo grado: da un lato,
riteneva il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572
c.p. assorbito nel delitto di riduzione o mantenimento in schia‑
vitù o servitù di cui all’art. 600 c.p. e, dall’altro, valutando le
circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla circostanza
aggravante di cui all’art. 600‑sexies, comma 2 c.p., riduceva
ulteriormente l’entità del trattamento sanzionatorio, ridetermi‑
nando la pena inflitta a Tizio in sei anni di reclusione.
Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputa‑
to eccependo l’erronea applicazione della legge penale, in quan‑
to i risultati cui è pervenuta l’istruttoria dibattimentale non
consentirebbero di ricondurre la condotta posta in essere da
Tizio al paradigma normativo descritto dall’art. 600 c.p., di cui
difetterebbero gli elementi costitutivi. Ciò in quanto la minore,
unica rilevante fonte d’accusa a carico dell’imputato, deve rite‑
nersi inattendibile, avendo più volte ritrattato le sue originarie
accuse.
La Suprema Corte giudica il ricorso inammissibile per vio‑
lazione del comma 3 dell’art. 606 c.p.p., in quanto basato su
elementi di fatto già presi in esame nel corso del giudizio di
merito, ma non manca di esporre alcune considerazioni in or‑
dine ai reati contestati.
La Corte di Cassazione ha reputato pienamente condivisi‑
bile il percorso logico‑giuridico seguito dalla Corte di Assise
d’Appello nel ricondurre la condotta di Tizio alla fattispecie di
cui all’art. 600 c.p., avendo i giudici di secondo grado «corret‑
tamente evidenziato come la bambina sia stata ridotta ad una
condizione del tutto assimilabile alla servitù e sottoposta a do‑
veri di obbedienza mediante l’impiego di maltrattamenti, l’abu‑
so di autorità e l’approfittamento di una situazione di inferiori‑
tà fisica e psichica». Infatti, la previsione dell’art. 600 c.p. (ridu‑
zione o mantenimento in schiavitù o servitù) spiega la Suprema
Corte, «configura un delitto a fattispecie plurima, integrato
alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona
poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario o dalla
condotta di colui che riduce o mantiene una persona in stato di
soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative
4 Cass. pen., sez. V, 15 giugno‑28 settembre 2012, n. 37638, inedita.
p e n al e
Gazzetta
F O R E N S E
o sessuali o all’accattonaggio, o, comunque, a prestazioni che
ne comportino lo sfruttamento». Si tratta di un reato di evento
a forma vincolata in cui l’evento, consistente nello stato di sog‑
gezione continuativa5 finalizzata a costringere la vittima a
svolgere determinate prestazioni, può essere ottenuto dall’agen‑
te alternativamente o congiuntamente, mediante violenza, mi‑
naccia, inganno, abuso di autorità, oppure attraverso l’appro‑
fittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica – co‑
me nel caso in esame – o di una situazione di necessità o ancora
mediante dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi
ha autorità sulla persona.
Secondo il Collegio non appare fondato il rilievo difensivo
in base al quale, in considerazione dell’appartenenza del ricor‑
rente ad una popolazione di etnia rom, per la quale la “questua”
rappresenta un modus vivendi, il comportamento del ricorren‑
te andrebbe ricondotto alla meno grave fattispecie di maltrat‑
tamenti in famiglia. Infatti, in relazione a questo delicato tema,
la giurisprudenza di legittimità da tempo ha escluso ogni rile‑
vanza scriminante alle tradizioni culturali favorevoli all’accat‑
tonaggio; la mozione culturale o di costume non esclude neanche
l’elemento psicologico del reato.
«In tema di riduzione e mantenimento in servitù posta in
essere dai genitori nei confronti dei figli e di altri bambini in
rapporto di parentela, ridotti in stato di soggezione continuati‑
va e costretti all’accattonaggio, non è invocabile da parte degli
autori di tali condotte la causa di giustificazione dell’esercizio
del diritto per richiamo alle consuetudini delle popolazioni
zingare di impiegare i bambini nell’accattonaggio, poiché la
consuetudine può avere efficacia scriminante solo in quanto sia
stata richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia
delle fonti di cui all’art. 8 delle preleggi6». Quindi, in ordine
alla prospettazione difensiva di qualificare la condotta dell’im‑
putato ai sensi dell’art. 572 c.p., la Corte si è espressa negativa‑
mente.
In verità, i rilievi della Cassazione non appaiono del tutto
calzanti, in quanto la difesa non ha invocato il fattore culturale
come esimente, bensì come elemento da valutare per l’applica‑
zione di una diversa e meno grave fattispecie: i maltrattamenti
in famiglia. Aliascome criterio da valutare per ottenere un’atte‑
nuazione della sanzione; la punibilità del comportamento rea‑
lizzato dal reo non è mai stata messa in discussione.
Secondo l’elaborazione giurisprudenziale «il reato di mal‑
trattamenti può ritenersi sussistente solo in caso di assenza di
una condizione di integrale asservimento ed utilizzazione esclu‑
siva del minore ai fini di sfruttamento economico» – circostan‑
za, invece, che la Corte ha ritenuto ricorresse nel caso in esa‑
me – e quando, ovviamente, «la condotta illecita sia continua‑
tiva e cagioni al minore sofferenze morali e materiali».
2. Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (art. 600 c.p.),
maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), impiego di minori
nell’accattonaggio (art. 600‑ocites): tre fattispecie a confronto
Già il codice Zanardelli conteneva un’apposita disposizio‑
ne sulla «mendicità infantile», che puniva l’impiego di «per‑
5 Così la Cassazione nella sentenza in commento, ma parte della dottrina ravvi‑
sa l’evento del reato nello sfruttamento del soggetto passivo. Per tutti: FIAN‑
DACA‑MUSCO, Diritto penale parte speciale, I delitti contro la persona, Bo‑
logna, 2009, p. 122.
6In senso conforme: Cass. pen., sez. III, n. 2841/2006.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
sona minore degli anni quattordici». Successivamente, il co‑
dice Rocco ha collocato la mendicità tra le contravvenzioni
poste a tutela del decoro e della tranquillità pubblica, mante‑
nendo una fattispecie ad hoc per l’impiego di minori nell’ac‑
cattonaggio (art. 671 c.p.). La norma, però, era volta alla
tutela in via prioritaria della morale e della tranquillità pub‑
blica e soltanto sullo sfondo si intravedeva la protezione degli
interessi dei minori7.
La possibilità di una sua lettura in chiave personalistica,
tuttavia, ha permesso alla disposizione di sopravvivere alla
fattispecie “base” disciplinata dall’art. 670 c.p.8, dichiarata
dapprima parzialmente incostituzionale in relazione alla c.d.
mendicità non invasiva prevista al primo comma9 e, poi, de‑
finitivamente abrogata dall’art. 18 l. n.205/1999, in materia
di depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema
penale e tributario. Ciò è comprovato anche dall’ordinanza
n. 408/1997 della Corte Costituzionale che, nel dichiarare
manifestamente infondata la questione di legittimità costitu‑
zionale dell’art. 671 c.p. in relazione agli artt. 3 e 27 Cost. per
la contrarietà della pena minima prevista ai criteri di ragio‑
nevolezza e proporzionalità10, ha riconosciuto a fondamento
di detta disposizione l’interesse costituzionale alla tutela dei
minori11.
La lettura personalistica si è nel tempo gradualmente ac‑
centuata12. La giurisprudenza, infatti, è più volte intervenuta
a rimediare all’inopportuna collocazione sistematica della
fattispecie attraverso la sostanziale disapplicazione della
stessa, ritenendo i delitti di maltrattamenti in famiglia e di
riduzione in schiavitù più adatti a regolare il fenomeno del
sistematico impiego di minori nell’accattonaggio, anche a
costo di notevoli forzature interpretative. A ben vedere, quel‑
lo che risulta dalle recenti pronunce della Cassazione in ma‑
teria, è il delinearsi di una sorta di percorso evolutivo che,
disapplicando l’art. 671 c.p. in favore del più grave delitto di
cui all’art. 572, è approdato, poi, alla figura criminosa previ‑
sta dall’art. 600 c.p. Un iter complesso che, però, non può
essere condivisibile.
L’art. 600 c.p. punisce con la reclusione da otto a venti
anni “chiunque esercita su una persona poteri corrisponden‑
ti al diritto di proprietà o chiunque riduce o mantiene una
persona in uno stato di soggezione continuativa, costringen‑
dola a prestazioni lavorative o sessuali o all’accattonaggio o
comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.
La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione
7 La giurisprudenza riteneva che la ratio dell’incriminazione andasse ravvisata
nell’esigenza di «impedire l’impiego dei minori in un’attività che li sottraesse
all’istruzione e all’educazione, avviandoli all’ozio ed esponendoli al pericolo di
cadere nel vizio e nella delinquenza». In tal senso Cass. Pen.,sez. I, n. 6379/1997
e Cass. pen., sez. I, n. 11376/1992.
8 La norma così disponeva: “Chiunque mendica in luogo pubblico o aperto al
pubblico è punito con l’arresto fino a tre mesi. La pena è dell’arresto da uno a
sei mesi se il fatto è commesso in modo ripugnante o vessatorio, ovvero simu‑
lando deformità o malattie, o adoperando altri mezzi fraudolenti per destare
l’altrui pietà”.
9 Corte Cost. 28/12/1995, n. 519.
10Secondo il giudice a quo l’irragionevolezza della disposizione emergeva dal
raffronto con l’ipotesi di reato di cui all’art. 726 c.p.
11In tal senso SCALIA, Le modifiche in materia di tutela penale dei minori, in
Dir. pen. proc., 2009, 1208.
12Infatti il legislatore ha avvertito il bisogno di abrogare la contravvenzione di
cui all’art. 671 c.p. e contestualmente introdurre l’art. 600‑ocites, con formu‑
lazione pressoché identica.
2 0 1 3
63
ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza,
minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di
una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situa‑
zione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di
somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla
persona” […].
La norma è stata così modificata dalla l. 11 agosto 2003,
n. 228, che ha riformato in maniera assai incisiva l’originaria
disciplina del codice in tema di delitti contro la personalità
individuale. Sono stati riscritti i reati di riduzione in schiavitù
(art. 600), di tratta e commercio di schiavi (art. 601), di alie‑
nazione e acquisto di schiavi (art. 602)13.
Le ragioni della riforma sono state molteplici: innanzitut‑
to, la presa di coscienza, anche a livello di opinione pubblica,
della dimensione assunta dal fenomeno della tratta di persone,
soprattutto a causa della presenza della criminalità organiz‑
zata transnazionale nella gestione del traffico degli esseri
umani più deboli, quali donne e bambini. In secondo luogo,
l’inefficacia degli strumenti normativi vigenti a contrastare e
cogliere i caratteri del fenomeno; in particolare, la vecchia
formulazione dell’art. 600 aveva suscitato numerose incertez‑
ze interpretative in ordine alla nozione di “condizione analo‑
ga alla schiavitù” e alla conseguente difficoltà di provare uno
stato di assoggettamento assimilabile alla schiavitù quando
alla persona residuasse un certo margine di autodetermina‑
zione.
Neanche la Legge Merlin – unico atto normativo in cui
era prevista la punizione di chi esercitava un’attività in asso‑
ciazioni o in organizzazioni nazionali o estere dedite al reclu‑
tamento di persone da destinare alla prostituzione o al suo
sfruttamento – appariva più adeguata alla gravità del reato.
In terzo luogo, il legislatore nazionale doveva recepire le
indicazioni contenute nel Protocollo delle Nazioni Unite sulla
prevenzione, lotta e repressione della tratta di persone, di cui
alla Conferenza di Palermo del 12 dicembre del 2000, che gli
imponevano di prevedere la condotta diretta all’organizzazio‑
ne e all’attuazione del traffico degli essere umani come figura
autonoma di reato.
Nel testo del nuovo art. 600 c.p. il legislatore descrive la
schiavitù come la condizione in cui viene a trovarsi una per‑
sona quando diventa oggetto di poteri corrispondenti al di‑
ritto di proprietà.
L’impiego della formula “poteri corrispondenti al diritto
di proprietà” ha risolto la controversia dottrinale, apertasi
sotto la vigenza del vecchio testo, che vedeva contrapposte
due tesi: l’una che considerava la schiavitù come condizione
di diritto, l’altra che vi ricomprendeva anche situazioni di
mero fatto. La locuzione attuale sembra non lasciare più
spazio a dubbi interpretativi, apparendo idonea a inglobare
sia le situazioni di fatto, sia quelle di diritto.
Accanto alla fattispecie di riduzione in schiavitù è stata
prevista anche la figura delittuosa della riduzione in servi‑
tù – una totale novità rispetto al passato – definita come la
condotta che, posta in essere con violenza, minaccia o abuso
di autorità, riduce la vittima del reato in una condizione di
13In argomento: PAESANO, Il reato di «riduzione in schiavitù» tra vecchia e
nuova disciplina, in Cass. Pen. 2005, 791; PECCIOLI, Commento alla legge
11 agosto 2003 n. 228, in Dir. pen. proc. 2004, 35.
penale
Gazzetta
64
D i r itto
e
p r o c e du r a
continuativa soggezione fisica o psicologica allo scopo di
indurla all’accattonaggio o a rendere prestazioni sessuali o
lavorative.
Tra i mezzi con i quali si realizza la condotta di riduzione
in servitù, è stato previsto anche l’abuso di autorità, allo sco‑
po di ricomprendere anche le ipotesi in cui vittime del reato
siano minori o incapaci, nei confronti dei quali, proprio in
considerazione della minorata condizione psicologica, può
non rendersi necessario l’uso della violenza o della minaccia.
Inoltre, l’art. 600 c.p. non punisce soltanto la condotta di
“riduzione”, ma anche quella di “mantenimento” in schiavitù
o servitù: esse si distinguono in funzione del momento in cui
avviene l’esercizio dei poteri corrispondenti: iniziale nel primo
caso, con passaggio diretto alla situazione di schiavitù; indi‑
retto e successivo nel secondo caso, in cui un individuo è già
stato sottoposto in schiavitù14.
Possono sollevarsi delle perplessità in ordine alla possibi‑
lità che la condizione di assoggettamento venga realizzata
attraverso la creazione di uno stato di soggezione psichica
(l’art. 600 prevede fra le condotte rilevanti quella di approfit‑
tamento di una situazione di inferiorità psichica), dato che
l’introduzione di una formula così indeterminata potrebbe
essere interpretata come il tentativo di reinserire nel codice
penale la norma incriminatrice del plagio15, dichiarata inco‑
stituzionale16 per violazione del principio di determinatezza
exart. 25, comma 2. Nei rapporti genitori‑figli – che pure
sono presi in considerazioni dalla disposizione – lo stato di
sudditanza psicologica dei secondi rispetto ai primi è una
condizione naturale, per cui lo stato di “schiavitù” o “servitù”
sarà sempre configurabile17.
La nuova fattispecie ha ampliato notevolmente il campo
di applicazione del reato. Il dettato normativo è vastissimo,
finendo per ricomprendere condotte assai diverse tra loro. Ad
esempio chi costringe il proprio figlio a mendicare è puni‑
to – almeno quanto al nomen juris – alla stesso modo di chi
ha acquisito, mediante cessione o rapimenti, la padronanza
su dei bambini, tenendoli in stato di soggezione e costringen‑
doli a rubare per portare a casa giornalmente e obbligatoria‑
mente la refurtiva18.
Probabilmente le menzionate incertezze in ordine all’ac‑
certamento dello stato di soggezione cui fa riferimento la
norma, oppure l’elevato trattamento sanzionatorio previsto
dall’art. 600 c.p., o la ratio della disposizione – sicuramente
non precipuamente volta al contrasto del fenomeno dell’ac‑
cattonaggio minorile – hanno per diverso tempo frenato i
14 Così FIANDACA‑MUSCO, Diritto penale parte speciale, cit., p. 120.
15Sul punto v. ALFANO, La nuova riformulazione dell’art. 600 c.p.: reintrodu‑
zione del reato di plagio?, in Giust. Pen., 2004, 673.
16 Corte Cost. n. 96/1981.
17 Appare calzante l’osservazione di MANZINI quando, in riferimento al bene
giuridico tutelato dall’art.600, nell’individuarlo nello status libertatis della
vittima, l’illustre Autore inserisce tra i possibili oggetti di tutela anche l’esigen‑
za di prevenire e reprimere la costituzione o il mantenimento di rapporti di
padronanza, per effetto dei quali un uomo, trovandosi sotto l’ illegittima pote‑
stàdi altri, sia privato delle capacità relative alla personalità individuale. Orbe‑
ne, nel caso in cui tra soggetto attivo e soggetto passivo intercorrano rapporti
familiari, come nell’ipotesi genitore‑figlio, a noi non sembra possa parlarsi di
potestà illegittima, bensì di una potestà legittima esercitata in modo discutibile.
V. MANZINI, Trattato di diritto penale, VIII, 662
18 Cass. pen., sez. V, n. 4852/1990; In senso conforme: Cass. pen. n. 35479/2010,
Cass. pen., n. 24269/2010, Cass. pen., n. 18072/2010; Cass. pen.,
n. 13734/2009.
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giudici dall’applicazione della fattispecie alle ipotesi di siste‑
matico impiego dei minori nella pratica della “questua” ad
opera di genitori e parenti, inducendoli a preferire la contigua
fattispecie dei maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572
c.p.
Il reato di cui all’art. 572 c.p. punisce con la reclusione da
uno a cinque anni “chiunque maltratta una persona della
famiglia, o un minore degli anni quattordici o una persona
sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di
educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’eser‑
cizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusio‑
ne da uno a cinque anni”.
“Maltrattare” è sinonimo di “mortificare”, di “far soffri‑
re”, ossia provocare nel soggetto passivo una continua situa‑
zione di sofferenza fisica o morale19, con effetti di prostrazio‑
ne e avvilimento. Si tratta di un reato abituale, richiedendosi
ai fini della sua configurazione, la reiterazione nel tempo di
una serie di comportamenti 20.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia – che astrattamen‑
te pure appare idoneo a regolare il fenomeno dell’impiego di
un minore nell’accattonaggio – è collocato, però, nel Titolo
IX dedicato ai delitti contro la famiglia – nello specifico
all’interno della Sezione intitolata ai delitti contro l’assistenza
familiare – offrendo, così, una tutela soltanto indiretta alla
personalità individuale del minore e alla sua dignità. Il bene
giuridico tutelato dalla disposizione, infatti, viene comune‑
mente individuato nell’interesse dello Stato a salvaguardare
la famiglia da comportamenti violenti o vessatori, anche se la
prevalente dottrina giustamente ritiene che oggetto di tutela
sia anche l’incolumità fisica o psichica dei soggetti indicati
nella norma 21, o ancora nell’interesse di un soggetto al rispet‑
to della sua personalità nello svolgimento di un rapporto
fondato su vincoli familiari o sull’autorità o su specifiche ra‑
gioni di affidamento che lo legano ad una persona in posizio‑
ne di preminenza 22.
Come già riferito, la rilettura del bene giuridico tutelato
dalla vecchia contravvenzione di cui all’art. 671 c.p., a van‑
taggio di una concezione personalistica volta a rendere pri‑
mario l’interesse del minore ad un corretto sviluppo della sua
personalità, ha portato la giurisprudenza ad allargare le ma‑
glie della fattispecie di maltrattamenti per ricomprendervi
anche le condotte di impiego dei minori nell’accattonaggio
che, invece, prima venivano pacificamente ricondotte nella
contravvenzione23.
La Cassazione ha ravvisato il reato di maltrattamenti in
famiglia nel comportamento del genitore che consenta o fa‑
vorisca attività del minore lesive della sua integrità fisica e
psichica 24, oppure nella condotta di chi, avuto in consegna il
minore allo scopo di accudirlo, educarlo e avviarlo all’istru‑
19 Così FIANDACA‑MUSCO, Diritto penale parte speciale, cit. p. 347. Per la
giurisprudenza: Cass. Pen., sez. VI, n. 8396/1996, in Cass. Pen. 1997, 1733;
Cass. Pen., sez. VI, n. 3570/1999; Cass. Pen., sez. VI, n. 3965/1994
20Per tutti: PISAPIA, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953, p. 524.
21 COLACCI, Maltrattamenti in famiglia o verso in fanciulli, Napoli, 1963.
22 COPPI, Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli, in Enc. dir., 1975, 223.
23Per tutte Cass. pen., 7 ottobre 1992, in Riv. Pen. 1993, 925.
24 Cass. pen., sez. V, n. 44516. Nella specie si trattava di una madre che impiega‑
va il proprio bambino di quattro anni per chiedere l’elemosina ai passanti ogni
giorno, nelle ore del mattino, costringendolo così a stare in piedi per oltre
quattro ore consecutive in periodo invernale.
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luglio • A G O S T O
zione, permette che viva in stato di abbandono in strada per
vendere piccoli oggetti e chiedere l’elemosina 25, specificando
che in ipotesi di tale genere non è possibile ravvisare il diver‑
so e più grave reato di riduzione in schiavitù perché manca un
totale asservimento del bambino alla autorità del genitore ed
una sua esclusiva utilizzazione a fini di sfruttamento econo‑
mico26.
La Corte in queste occasioni ha anche aggiunto che la
contravvenzione di cui all’art. 671 c.p. è – era‑ ravvisabile
solo nel caso di un isolato episodio di mendicità con utilizzo
di minori, mentre quando la condotta è continuativa e arreca
sofferenze al minore non potrà che ritenersi configurabile il
delitto di cui all’art. 572 c.p. Allorquando l’accattonaggio
risulti l’espressione di una più complessa condizione riservata
al minore e caratterizzata da mancanza di affettività familia‑
re, da sofferenze fisiche o psicologiche, da mortificazioni di
ogni genere, ad applicarsi è l’art. 572 c.p. 27
In realtà, questi orientamenti nascondono il pericolo,
sottolineato dalla dottrina 28 di dilatare a dismisura la nozione
di maltrattamenti; da ciò consegue anche l’esigenza di accer‑
tare in concreto la sofferenza morale e materiale tipica della
suddetta fattispecie. Quest’accertamento diventa a maggior
ragione indispensabile con riguardo a quei contesti socio‑cul‑
turali in cui la mendicità rappresenta una normale fonte di
sostentamento e potrebbe essere percepita dai minori tutt’al‑
tro che come una sofferenza o una sopraffazione.
Dall’analisi delle fattispecie di maltrattamenti in famiglia
e riduzione in schiavitù emerge un dato poco rassicurante:
entrambe fanno riferimento a stati psicologici – sofferenze
morali nella prima ipotesi di reato, soggezione psichica nella
seconda – difficilmente dimostrabili empiricamente e che,
quindi, mal si conciliano con l’oggettività e la determinatezza
proprie di una norma di legge. Come spesso accade quando
l’impatto offensivo delle condotte incriminate si traduce in
danni di natura psichica, i confini tra una fattispecie e l’altra
sono fluidi ed indefiniti29.
Probabilmente, proprio per evitare le incertezze legate al
25 Cass. pen., sez. VI, n. 3419/2007.
26 Cass. pen., sez. V, n. 44516/2008.
27 Cass. pen., sez. VI, n. 3419/2006.
28Per tutti: BERTOLINO, Il minore vittima di reato, Torino 2010, p. 62.
29Il principio di tassatività e determinatezza è una delle acquisizioni fondamen‑
tali della cultura dello stato di diritto:laprima caratteristica di un sistema pena‑
le codificato, infatti, deve essere data dal rispetto della legalità e, quindi, dalla
precisione delle sue disposizioni.
Il principio in esame contribuisce al raggiungimento di un duplice ordine di
scopi, strettamente connessi l’uno all’altro:certezzadelle norme e limitazione
dell’arbitrio giudiziale. Ciò implica, da un lato, il dovere della formulazione
chiara e precisa delle fattispecie all’atto della produzione della norma da parte
del legislatore; dall’altro, l’impegno a porre le condizioni perché siano evitate
eccessive oscillazioni interpretative da parte del giudice. Stando a quanto affer‑
mato dalla Corte Costituzionale nella notissima sentenza che ha dichiarato
incostituzionale il delitto di plagio, una fattispecie risulta determinata solo al‑
lorquando sia concettualmente precisa “sotto il profilo semantico della chia‑
rezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati”, comprenda la descrizione
dell’offesa, in termini di danno o di concreto pericolo, di un bene giuridico,
dotato di un verificabile substrato empirico, descriva una condotta esteriormen‑
te riconoscibile e suscettibile di accertamento giurisprudenziale. L’ipotesi di
reato descritta deve “essere verificabile nella sua effettuazione e nel suo risulta‑
to” (Cort. Cost., n.96 del 1981, in Giur cost. 1981, p. 806 ss.). Sul principio di
determinatezza v. S. MOCCIA, La ’promessa non mantenuta’, ruolo del prin‑
cipio di determinatezza/tassatività nel sistema penale italiano, Napoli, 2001,
p.11; PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova,
1979, p. 51 ss.; VASSALLI, Nullum crimen, nulla pena sine lege, in Dig. disc.
pen., VIII, Torino, 1994, p. 307 ss.
2 0 1 3
65
doveroso accertamento della sofferenza morale cagionata al
minore dal genitore che se ne serva per mendicare, il legisla‑
tore ha ritenuto opportuno introdurre l’art. 600‑octies che,
anche se quasi identico nella formulazione all’art. 671 c.p., è
stato costruito come reato di pericolo astratto e inserito nella
sezione dedicata ai delitti contro la libertà individuale, elevan‑
do il corretto e sano sviluppo della personalità del minore a
unico oggetto di tutela.
La ricollocazione sistematica della fattispecie con conse‑
guente modifica della cornice edittale esprime l’esigenza di
una tutela più incisiva dell’inviolabilità dell’infanzia. Tuttavia,
non può non osservarsi come il legislatore abbia scelto la
strada più semplice, rispetto alla alternativa, forse più effica‑
ce nel lungo periodo, di rafforzare gli apparati sociali di
protezione e di integrazione dei minori sfruttati dalle loro
famiglie30.
L’inserimento del reato di impiego dei minori nell’accatto‑
naggio tra i delitti contro la personalità individuale reca una
chiara scelta di valore che implica una nuova visione del mi‑
nore: non più oggetto di tutela ma soggetto di diritti. La
pratica dell’accattonaggio, infatti, rischia di sottrarlo ad una
serie di attività formative, quali l’istruzione scolastica, l’atti‑
vità ricreativa, l’esercizio di uno sport, attività tutte funzio‑
nali ad un armonioso sviluppo della sua personalità e tutte
incluse nel più ampio diritto all’educazione di cui il minore è
titolare.
Istruire ed educare i figli è un dovere inderogabile dei
genitori, ma in caso di incapacità di questi ultimi, è la legge a
provvedere che siano assolti i loro compiti (art. 30 Cost.). Qui
entra in gioco lo stato sociale: l’adempimento del dovere si
sposta dai genitori ai pubblici poteri alla collettività31.
In questa sede non si vuole, quindi, dubitare della rilevan‑
za penale di quei comportamenti che, anche se in nome di una
millenaria tradizione culturale, violano il diritto del minore
all’educazione. Anche la scelta del legislatore di criminalizza‑
re tout court l’impiego di minori nell’accattonaggio va in
questa direzione: è palesemente diretta ad escludere qualsivo‑
glia efficacia scriminante o scusante a pratiche riconosciute
come tradizionalmente appartenenti alle culture di talune
minoranze etniche come quella rom. La nostra intenzione è
piuttosto quella di sottolineare come l’art. 600‑octies c.p. ap‑
paia più idoneo ad arginare il fenomeno dell’impiego dei mi‑
nori nell’accattonaggio, senza la necessità di ricorrere alla più
grave figura criminosa della riduzione in schiavitù o servitù,
preposta alla repressione di fenomeni criminali ben più gravi
e di diverso disvalore. Sarebbe stato forse preferibile, onde
evitare la repressione di condotte sporadiche e isolate sicura‑
mente non lesive del bene giuridico di riferimento, che il legi‑
slatore avesse costruito il reato come reato abituale.
L’art. 600‑octies si apre con una clausola di riserva “salvo
che il fatto costituisca più grave reato” che non compariva
nell’art. 671 c.p. La clausola spiega i suoi effetti essenzialmen‑
te in relazione alle due fattispecie criminologicamente conti‑
gue: l’art. 600 e l’art. 572 c.p. Per quanto riguarda il delitto
30In questo senso SCOLETTA, Nuovo delitto di impiego di minori nell’accatto‑
naggio, in AA. VV., Sistema Penale e «sicurezza pubblica». Le riforme del 2009,
a cura di CORBETTA‑DELLA BELLA‑GATTA, Milano 2009, 123.
31IASEVOLI, Diritto all’educazione e processo penale minorile, cit. p. 41.
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di riduzione in schiavitù, ci limitiamo a precisare quanto già
evidenziato.
La norma menziona tra le condotte punibili anche la co‑
strizione all’accattonaggio. Tuttavia, la previsione trae fonda‑
mento dalla diffusa prassi criminale di “importare” persone
provenienti essenzialmente dall’est europeo (o comunque da
altre zone sottosviluppate del mondo), da ridurre in schiavitù
o servitù e da impiegare in prestazioni lavorative che ne com‑
portano, in qualunque modo, lo sfruttamento. Si tratta di
un’ipotesi di reato ben più grave rispetto a quella contempla‑
ta dall’art. 600‑octies, che sarà destinata a trovare applica‑
zione quando il soggetto sia costretto a mendicare mediante
violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità, o approfitta‑
mentodi una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una
situazione di necessità o mediante la promessa di somme di
denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona” e
sia ridotto in uno stato di soggezione continua, con tutte le
difficoltà connesse all’accertamento probatorio dello stato di
soggezione di cui si è detto.
A nostro avviso, la fattispecie di cui all’art. 600 c.p., per
i motivi che hanno ispirato la sua riformulazione, è adatta a
regolare un fenomeno criminale ben diverso da quello dell’uti‑
lizzo di un minore nella pratica dell’elemosina. Con la riforma
dei reati concernenti la tratta di persone, il legislatore ha in‑
teso punire comportamenti criminali di tutt’altro spessore.
Si aggiunga anche che in sede di accertamento giudiziale
del fatto di cui all’art. 600 c.p. non può non prendersi in
considerazione – come pure è stato sostenuto – la percezione
dello stato di soggezione da parte del soggetto passivo. Quel‑
li che per noi possono essere considerati orrendi maltratta‑
menti – lo stesso discorso è valido, ovviamente, anche in rife‑
rimento al reato di cui all’art. 572 c.p. – in altri contesti cul‑
turali possono essere avvertiti come naturali32.
Per queste ragioni dovrebbe trovare più facile applicazione
l’art. 600‑octies, la cui formulazione in termini di reato di
pericolo astratto consente da un lato di prescindere dall’ac‑
certamento in concreto della sofferenza psichica o fisica arre‑
cata al minore e del suo stato di soggezione, dall’altro potreb‑
be risultare più efficace sia in termini di prevenzione generale
che di prevenzione speciale.
3. Il fattore culturale nel sistema penale italiano
La giurisprudenza di legittimità da tempo ha escluso ogni
rilevanza scriminante alle tradizioni culturali favorevoli
all’accattonaggio, stabilendo che la mozione culturale o di
costume non esclude mai l’elemento psicologico del reato.
«In tema di riduzione e mantenimento in servitù posta
in essere dai genitori nei confronti dei figli e di altri bambi‑
ni in rapporto di parentela, ridotti in stato di soggezione
continuativa e costretti all’accattonaggio, non è invocabile
da parte degli autori di tali condotte la causa di giustifica‑
zione dell’esercizio del diritto per richiamo alle consuetudi‑
ni delle popolazioni zingare di impiegare i bambini nell’ac‑
cattonaggio, poiché la consuetudine può avere efficacia
32Sul punto: DELOGU, Commentario al diritto della famiglia, in Diritto penale:
Codice Penale: delitti contro il matrimonio, delitti contro la morale familiare,
delitti contro lo stato di famiglia, delitti contro l’assistenza familiare, a cura di
CIAN‑OPPO‑TRABUCCHI, vol. VII, 1995, p. 659.
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scriminante solo in quanto sia stata richiamata da una legge,
secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all’art. 8
delle preleggi».
Il diritto penale italiano è da sempre restio a giustificare,
o anche a valutare solo con una certa indulgenza, la commis‑
sione di fatti penalmente rilevanti quando siano il frutto di
un c.d. conflitto normativo, cioè quando risultano approvati,
accettati, oppure in tutto o in parte giustificati in base alle
norme culturali del gruppo minoritario cui l’autore del fatto
appartiene.
Nessuna norma sembra attualmente pensata per attenua‑
re le conseguenze penali applicabili all’autore dei reati c.d.
“culturali” o “culturalmente orientati”33.
La cronaca giudiziaria offre un catalogo assai vasto di
illeciti penali culturali: reati contro la libertà sessuale, contro
la famiglia, o reati contro la persona commessi effettuando
mutilazioni o deformazioni rituali di vario tipo. La Corte di
Cassazione, nella maggioranza dei casi, si è dimostrata refrat‑
taria a giustificare l’illecito commesso per motivi culturali,
ritenendo prevalente il principio di obbligatorietà e territoria‑
lità della legge penale italiana ex art. 3 c.p. Il codice Rocco «reca una fotografia della società italiana
quale società chiusa in se stessa e caratterizzata da una ma‑
trice culturale omogenea che non corrisponde più agli assetti
attuali34».
Sulla scorta, però, di ingenti flussi migratori che vedono
persone del Nord‑Africa o dei Balcani giungere nel nostro
Paese, questa tendenziale omogeneità culturale sta progressi‑
vamente svanendo. È doveroso perciò chiedersi se il nostro
sistema penale debba continuare ad essere completamente
insensibile alla “differenza culturale”.
La risposta penale ai reati culturalmente orientati varia a
seconda della politica che ciascun Paese coinvolto dal feno‑
meno dell’immigrazione sceglie di adottare per far fronte
alla diffusione progressiva nel proprio Stato di tradizioni
culturali diverse da quella della maggioranza. La scelta è
sostanzialmente limitata a due alternative: optare per una
politica multiculturalista (volta alla salvaguardia delle diffe‑
renze culturali) o assimilazionista (volta, all’opposto, all’uni‑
formazione delle culture minoritarie a quella maggioritaria).
Ambedue le opzioni presentano aspetti negativi e aspetti
positivi.
Alcuni studiosi hanno sottolineato che la valorizzazione
delle differenze insite in una politica di stampo multicultura‑
le, lungi dal favorire un interscambio tra i diversi soggetti
presenti in un determinato Paese, può agevolmente condurre
ad una reciproca chiusura tra le rispettive culture, con il ri‑
schio di provocare un fenomeno di “sfaldamento sociale”35. I
detrattori più fermi dell’approccio culturale paventano addi‑
rittura il sorgere di enclavi, di ghetti o di tribù in lotta fra
33Per una compiuta analisi sui reati “culturali”: BASILE, Premesse per uno studio
sui rapporti tra diritto penale e società multiculturale. Uno sguardo alla giuri‑
sprudenza europea sui c.d. reati culturalmente motivati, in Riv. it. dir. e proc.
pen. 2008, 149; dello stesso Autore, Società multiculturali, immigrazione e
reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminali), in
Riv. it. dir. e proc. pen. 2007, 1256.
34 A. GENTILE, Violenza sessuale in matrimonio retto da diritto straniero: il
prudente approccio della Cassazione ai c.d. “reati culturali”, in Riv. it. dir. e
proc. pen. 2009, 424
35 COLOMBO, Le società multiculturali, Roma, 2002, p. 68
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loro, in un generale contesto caratterizzato dall’intolleranza
verso il diverso.
L’accettazione incondizionata di un modello multicultu‑
ralista potrebbe addirittura rivelarsi un male per i soggetti
afferenti a ciascun gruppo minoritario che magari potrebbe‑
ro voler sfuggire alle loro origini culturali e integrarsi nella
società maggioritaria. Inoltre, la creazione di esimenti cultu‑
rali può avere ripercussioni sul piano della prevenzione gene‑
rale36.
La consapevolezza della possibilità di sfuggire ai rigori
della legge penale nazionale in ragione della propria apparte‑
nenza ad una minoranza culturale, finirebbe per pregiudicare
tanto la funzione deterrente di talune norme incriminatrici,
quanto la funzione di orientamento culturale che queste ulti‑
me esercitano sulla maggioranza. Il riconoscimento in sede
penale del fattore culturale tenderebbe a sacrificare, poi, in
nome di indefiniti diritti collettivi culturali beni giuridici in‑
dividuali meritevoli di tutela, come la vita, la salute, l’autode‑
terminazione sessuale, la libertà, la dignità ecc.
Ancora, il punire meno severamente o addirittura il rite‑
nere esenti da pena taluni reati se commessi sotto l’influsso
del fattore culturale implicherebbe irragionevoli disparità di
trattamento fra i consociati, in palese violazione del principio
di uguaglianza formale sancito dall’art. 3, comma 1 della
Costituzione37, in base al quale “tutti i cittadini sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di razza, lingua, di reli‑
gione”…
Ovviamente anche l’adozione di politiche di stampo assi‑
milazionista non è priva di aspetti negativi. Una politica
ispirata all’ideologia assimilazionista, incentrata sulla rigida
applicazione del principio di uguaglianza formale, rischia di
risolversi in una violazione del principio di uguaglianza so‑
stanziale e vanificare qualsiasi funzione della pena. Pensiamo
alla prevenzione generale positiva che potrebbe rischiare di
essere delegittimata qualora il suo effetto di consenso intorno
ai valori tutelati implichi la negazione di tradizioni e compor‑
tamenti diversi da quelli condivisi dalla maggioranza. In
sintesi, rispetto alle minoranze, la pena non svolgerebbe più
la sua funzione di orientamento culturale.
Sotto il profilo special‑preventivo, una politica insensibile
alle istanze pluraliste verrebbe a vanificare anche la funzione
rieducativa‑risocializzante della pena nei confronti di sogget‑
ti culturalmente diversi.
Qualora venissero sottoposti a sanzione penale fatti non
lesivi di beni giuridici fondamentali, ma soltanto secondari o
espressivi di un costume, in deroga al principio di extrema
ratio, la pena finirebbe col pretendere di modificare le abitu‑
dini culturali dell’autore, imponendogli di convertirsi a rego‑
le non indispensabili e non avvertite come proprie.
L’adozione di un modello incondizionatamente assimila‑
zionista finirebbe, dunque, per risolversi in una lesione del
principio di uguaglianza sostanziale, costituzionalmente
sancito all’art. 3, comma 2 della Costituzione.
Posto che tanto politiche criminali a carattere multicultu‑
36Sulle funzioni della pena: MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, fun‑
zione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992.
37 A. GENTILE, Violenza sessuale in matrimonio retto da diritto straniero: il
prudente approccio della Cassazione ai c.d. “reati culturali”, cit., p. 430
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rale quanto a carattere assimilazionistapresentano numerose
controindicazioni, ciò che varia da uno Stato all’altro è il
peso specifico attribuito a ciascuna delle conseguenze negati‑
ve appena citate. Peso che può mutare anche all’interno di ogni
Paese col susseguirsi di governi di diverso indirizzo politi‑
co‑ideologico o sull’onda di situazioni o fatti capaci di modi‑
ficare, al contempo, l’opinione dei cittadini e dei loro rappre‑
sentanti.
In Italia, in particolare, si adottano atteggiamenti caratte‑
rizzati da una scarsa coerenza: all’assenza di un progetto di
integrazione delle minoranze, fa da contraltare la pretesa di un
pieno ed incondizionato rispetto delle regole che devono essere
accettate da tutti i residenti dello Stato, in nome di un concet‑
to di uguaglianza che consente il mantenimento di particolari‑
smi culturali solo all’interno della sfera privata, a condizione,
ovviamente, che non ledano diritti fondamentali38.
Tuttavia, accanto a sentenze che mostrano una totale
chiusura nei confronti del fattore culturale, ve ne sono altre
in cui la Cassazione considera il fattore culturale come rile‑
vante ai fini della commisurazione della pena, oppure come
errore sul divieto dettato da ignoranza inevitabile. Tale giuri‑
sprudenza ondivaga mette in crisi, chiaramente, i principi di
uguaglianza e di certezza giuridica.
4. Rilievi conclusivi
Da qui la domanda: come deve reagire l’ordinamento
penale rispetto al fenomeno dei reati c.d. culturali, ai quali
sembra appartenere il delitto di impiego di minori nell’accat‑
tonaggio?
Le soluzioni astrattamente prospettabili sono due: intro‑
durre apposite figure di reato fondate sul fattore culturale
oppure riplasmare alcune categorie dommatiche.
In merito alla prima soluzione, va chiarito che tale inter‑
vento ha senso solo laddove abbia ad oggetto specifiche pra‑
tiche culturalmente motivate (si pensi alle mutilazioni genita‑
li oppure alle deformazioni corporee a carattere ornamentale),
non già generiche condotte di matrice culturale come abusi o
maltrattamenti.
La seconda soluzione appare più complessa. Le categorie
o gli istituti “manipolabili” possono essere l’antigiuridicità,
l’inesigibilità, o la colpevolezza.
Per quanto riguarda l’antigiuridicità, la soluzione sarebbe
quella di attribuire specifici effetti giuridici alle “situazioni
quasi scriminanti39” nelle quali rientrano ipotesi in cui gli
estremi delle cause di giustificazione sussistono in maniera
“incompleta”. Si pensi al marito musulmano che agisce con
estrema violenza nei confronti di un altro uomo che sollevi il
velo dal capo della moglie per difendere l’onore di costei. In
questo caso mancherebbe uno degli elementi oggettivi della
legittima difesa, cioè la proporzione tra offesa e difesa, ma
sarebbero al contrario presenti gli elementi soggettivi40, in
quanto il soggetto si sarebbe rappresentato la situazione scri‑
38 A. GENTILE, cit., 432
39Per tutti, SCHIAFFO, Le situazioni quasi scriminanti nella sistematica teleolo‑
gica del reato: contributo ad uno studio sulla definizione di struttura e limiti
della giustificazione, Napoli, 1998
40Sugli elementi soggettivi nelle cause di giustificazione, MOCCIA, Il diritto pe‑
nale tra essere e valore, funzione della pena e sistematica teleologica, cit., p. 193
ss.
penale
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minante e tale rappresentazione ha influito sul suo agire
esterno. Quindi, si potrebbe ipotizzare un trattamento san‑
zionatorio attenuato, in quanto il fatto sarebbe giustificato
soltanto parzialmente; il che, però, comporterebbe una totale
rinuncia al criterio della proporzione, che nel nostro ordina‑
mento è uno dei presupposti fondamentali per il riconosci‑
mento di una causa di giustificazione.
In ordine alla previsione di una clausola di inesigibilità41,
applicabile a tutti i reati culturalmente orientati, va rilevato
che essa condurrebbe all’attribuzione al giudice, in via esclu‑
siva, della facoltà di valutare il processo motivazionale dell’au‑
tore del reato, in palese violazione del principio di legalità
formale, in quanto si tratterebbe di una valutazione effettua‑
ta su criteri troppo discrezionali.
Probabilmente la soluzione più praticabile è quella di
utilizzare la categoria della colpevolezza; in alcuni casi può
essere tranquillamente invocata l’ignoranza inevitabile dell’il‑
liceità del fatto in chiave di esclusione della colpevolezza.
Un’alternativa sarebbe considerare il fattore culturale come
elemento da valutare in sede di commisurazione giudiziale
della pena. Questa opzione è aderente a quelle situazioni in
cui in nome di una discutibile tradizione culturale siano stati
lesi dei beni giuridici che la nostra Costituzione considera
fondamentali.
Nelle ipotesi di impiego di minori nell’accattonaggio il
fattore culturale è generalmente ritenuto irrilevante.
A nostro avviso, quando ad essere violato è un diritto
costituzionale, come quello all’educazione, è chiaro che il si‑
stema penale non può non intervenire. Tuttavia la risposta
sanzionatoria deve essere proporzionata rispetto alla respon‑
sabilità del soggetto in ordine al fatto. Il fattore culturale
potrebbe quindi fungere da elemento in grado di graduare la
responsabilità, ma non tale da escludere la punibilità.
Riteniamo che questa sia la soluzione più praticabile in
caso di violazione di diritti fondamentali motivata dall’ade‑
sione alla cultura minoritaria di appartenenza.
In relazione al caso di specie che ha offerto l’occasione per
le nostre riflessioni, c’è da chiedersi se la finalità rieducativa
della sanzione spiegherà la sua efficacia anche nei confronti
dell’imputato che, pur sottostando alle regole dell’ordinamen‑
to penale italiano, vede quelle che per la Cassazione sono
inaccettabili violenze fisiche o psicologiche finalizzate allo
sfruttamento economico, come pratiche normali e naturali.
41Sul principio di inesigibilità v. tra gli altri, FORNASARI,Il principio di inesigi‑
bilità nel diritto penale, Padova, 1990
p e n al e
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CASSAZIONE PENALE SEZIONE I, sentenza 11 gennaio
2013, n. 6324
Pres. Chieffi, Rel. La Posta, P.M. Cedrangolo; Ric. PG pres‑
so la Corte di Appello di Bari
Nota a Cassazione penale, sez. I
sentenza 11 gennaio 2013, n. 6324
● Fabiana Falato
Ricercatore di Procedura penale e Professore aggregato
di Cooperazione giudiziaria penale Università degli Studi
di Napoli “Federico II”
Pubblico ministero – Impugnazione dei provvedimenti del giudice
dell’esecuzione – procura Generale presso la Corte di Appello – Le‑
gittimazione ad impugnare decisioni emesse dal tribunale – Esclu‑
sione –
(Cod. proc. pen. artt. 672, 667 comma 4, 666; Reg; comma 1,
665 comma 1, 665 comma 2, 655 comma 2, 656 comma 1,
658, 659; ord. giud. artt. 73 comma 1, 78 comma 1)
La legittimazione ad impugnare i provvedimenti adottati
dal giudice dell’esecuzione spetta, in via esclusiva, per espres‑
sa designazione del legislatore, al pubblico ministero che ha
assunto il ruolo di parte nel procedimento, non potendosi
riconoscere al procuratore generale presso la Corte d’appello
un potere di surroga assimilabile a quello attribuitogli
dall’art. 570 c.p.p. nel giudizio di cognizione.
••• Nota a sentenza
SOMMARIO: 1. Premesse di metodo – 2. Ancora sulla natu‑
ra della fase esecutiva – 3. I parametri della legittimazione del
pubblico ministero nella fase della esecuzione della pe‑
na – 4. La soluzione prospettata
1. Premesse di metodo
La Corte di cassazione, ritenendo che il procuratore gene‑
rale della Corte di appello non ha titolo per impugnare i
provvedimenti emessi dal Tribunale in veste di giudice della
esecuzione e stabilendo la legittimazione alla impugnazione
esclusivamente in capo al pubblico ministero che ha avuto il
ruolo di parte nel procedimento esecutivo, pone una serie di
problemi di natura sistematica e, ancor prima, di teoria gene‑
rale del processo.
Specificamente, i primi riguardano la legittimazione del
pubblico ministero a proporre il ricorso per Cassazione avver‑
so i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione, in gene‑
rale, e nel caso particolare, dell’ordinanza applicativa dell’in‑
dulto, i quali, a loro volta, nel caso che ci occupa, presuppon‑
gono la individuazione del giudice funzionalmente competen‑
te a ricevere la istanza di concessione del beneficio dell’indulto;
i secondi impongono di chiarire se la competenza del pubblico
ministero nel procedimento di esecuzione segue percorsi spe‑
ciali, dunque, alternativi a quelli previsti dall’ordinamento.
La Corte ha dato una risposta fondata sul precedente
giurisprudenziale che basata sul sistema, che non può condi‑
vidersi; non perché non si riconosca la dimensione innovativa
di quella forma di creazione del diritto, quanto perché – come
in questo caso – sempre più spesso i giudici superano i limiti
che definiscono (devono definire) le relazioni tra legalità ed
ermeneutica.
Certo, non si negano la vocazione giurisprudenziale nostro
ordinamento né la funzione giurisprudenza che «quale luogo
di mediazione tra legge e diritto, contiene in sé il connotato
penale
Sulla individuazione
dell’organo
dell’accusa nella fase
della esecuzione
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D i r itto
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p r o c e du r a
creativo indispensabile nel raccordo tra comando astratto e
caso concreto»; né si ignora che «il momento giurisprudenzia‑
le rappresenta un fattore endemico nella dinamicità del dirit‑
to positivo, nel suo progredire storico, nel suo adeguarsi alla
situazione contingente»1, tuttavia, non si può condividere che
i prodotti della giurisprudenza finiscano per sostituire le
fonti legali nella interpretazione del dato sistematico, soprat‑
tutto quando queste ultime trovano collocazione nella Costi‑
tuzione ed il prodotto promana dalla Corte di cassazione.
È vero che sono previste eccezioni, ma esse riguardano le
pronunce additive della Corte costituzionale2. E poi, qui si
discute di legalità costituzionale che conferisce alla (sola)
Corte costituzionale la possibilità di creare anche al di fuori
delle regole (processuali) dello specifico settore, mentre «la
Cassazione può creare nell’ambito della legalità processuale
e, quindi, senza alterare principi e regole di sistema»3.
Perciò non può trovare ingresso nel sistema un diritto
giurisprudenziale opera della Corte di cassazione che crea– e
non solo orienta (65 ord. giud.; 610 comma 2; 618 comma 1
c.p.p.; 172 disp. att.) – la fonte ignorando l’esistenza di prin‑
cipi sistematici costituzionali ed ordinamentali; per questo,
quel diritto giammai può prescindere dal sistema, dovendo,
viceversa, essere ricavato da esso. Infatti, a renderlo legittimoè
soltanto la coerenza col sistema, soprattutto con quello che si
evince dai principi enunciati nel Preambolo penalistico della
Costituzione costituisce la sintesi ragionata e razionale della
filosofia costituzionale nella materia penale.
Ragionare diversamente, e cioè, affidare i dirittialla giuri‑
sprudenza costituisce attentato al principio di legalità costitu‑
zionale, in quanto significherebbe alterare l’assetto complessi‑
vo del sistema dei diritti procedurali dell’individuo4; e se la
giurisprudenza è quella della Corte di cassazione, allora ca‑
drebbe in crisi la stessa (sua) funzione di «nomofilachia»
(= νομοφύλαξ, composto da νόμος, legge, e φύλαξ, custode)5.
Dunque: se lo scopo della Cassazione «è uno scopo costi‑
tuzionale di coordinamento tra funzione legislativa e funzio‑
ne giudiziaria»6, l’eccessivo ampliamento del suo diritto finisce
per mortificare, s’è detto, il principio di legalità che in proce‑
dura penale non corrisponde soltanto al principio di riserva
di legge, rimandando ai principi di tutela delle posizioni sog‑
gettive protette nel processo.
In questo senso occorre ritrovare l’uniformità sistematica,
attuando senza indugio la legalità processuale, utilizzando,
cioè, tutte le potenzialità insite nel sistema, nel sostanziale
1 Le osservazioni sono di G. Riccio, La Procedura Penale. Tra storia e politica,
Napoli, 2010, pp. 87‑88.
2Tuttavia, la recente giurisprduenza della Corte costituzionale sembra rinoscere
rilievo al diritto vivente specialmente se cristallizzato a seguito di interventi delle
Sezioni Unite, al punto da reputare inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale sollevate da ordinanze che lo trascurano. Da ultima, Corte cost.,
12 ottobre 2012, n. 230, inedita.
3 Letteralmente, G. Riccio, La Procedura Penale, cit., pp. 87‑88.
4 Ancora G. Riccio, La Procedura Penale, cit., p. 96.
5 … vocabolo con cui nell'antica Grecia si designava il magistrato al quale, in
alcune città, era affidato il compito di custodire in un archivio il testo ufficiale
delle leggi, e quindi di assicurare la stabilità della legislazione.
6P. Calamandrei‑C. Furno, voce Cassazione civile, in Noviss. dig. it.,, II, To‑
rino, 1958, p. 1055.
Di recente, sul ruolo della Cassazione, da ultimi, tra gli altri, F. M. Iacoviello,
La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Milano, 2013, p. 1 ss.; E.
Lupo, Il ruolo della cassazione: tradizioni e mutamenti, in Arch. pen., 2012,
n. 1, p. 1 ss.
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rispetto dello stesso ed in un rinnovato positivismo, che non
significa mero ossequio dei codici, quanto un auspicabile
punto di confluenza metodologico.
Questa è l’unica via praticabile per ovviare al rischio del‑
le degenerazioni del diritto giurisprudenziale.
E poi, non bisogna trascurare che una giurisprudenza, sia
pure consolidata, non cristallizza la norma in quella interpre‑
tazione, limitandosi ad esprimere un momento di relativa
stabilità di dati ermeneutici, non certo irreversibile, proprio
perché la vivenza norma è vicenda per definizione aperta.
Nella pronuncia in esame il rischio di caduta del sistema
è reale: la Corte, dichiarando inammissibile il ricorso presen‑
tato dal procuratore generale presso la Corte di appello per
difetto di legittimazione, nega l’applicabilità nella fase della
esecuzione della disposizione generale dell’art. 570 c.p.p.,
alla quale non riconosce (in quella fase) il ruolo di norma
attributiva di potere, nonostante dal combinato disposto degli
artt. 570 comma 1; 568 comma 3 (comma 4) c.p.p. non si
evinca alcuna preclusione.
Così facendo, confutando l’esistenza della fonte legislativa,
la stessa Corte risolve il problema della legittimazione ad
impugnare i provvedimenti del giudice della esecuzione at‑
traverso il rinvio al precedente giurisprudenziale in questo
caso diventa fonte giurisprudenziale del diritto si sostituisce
alla fonte legislativa del diritto.
Le ricadute sono di facile intelligibilità: il tema coinvolge
non tanto la legittimità del diritto vivente, quanto, soprat‑
tutto, il prevalere di scelte ermeneutiche sul tecnicismo giu‑
ridico, nonché la specificità dei contenuti della legalità proces‑
suale (= legalità del procedere come primato della legge nel
momento del procedere7). Lo è anche il rischio che si corre: la
perdita di identità delle connotazioni legali di quel segmento
di sistema.
Nel caso che ci occupa, riportandosi ad un orientamento
costante sul punto8, la cassazione, premettendo che «l’auto‑
nomia funzionale conferita dall’ordinamento processuale ai
singoli rappresentati del pubblico ministero rispetto a tutte
quelle attività per le quali non è diversamente stabilito indu‑
ce a ritenere che, anche in tema di impugnazione, non è
consentita, se non nei casi espressamente previsti dalla legge,
la sostituzione dell’organo di grado superiore a quello presso
il giudice che ha deliberato il provvedimento e che è natural‑
mente legittimato a contestarlo», e che nel concetto di parte
utilizzato nell’art. 570 comma 1 non può comprendersi la
procura generale rimasta estranea al procedimento di esecu‑
zione9, conclude affermando che «nel caso di specie il procu‑
7N. Galantini, Considerazioni sul principio di legalità, in Cass. pen., 1999, 6,
p. 1989: «nell’art. 101 secondo comma della Costituzione la soggezione del
giudice soltanto alla legge sta a significare non solo l’indipendenza interna o
funzionale nell’ambito dell’organizzazione giudiziaria, ovvero l’indipendenza
esterna o istituzionale rispetto agli altri poteri, ma in particolare la subordinazi‑
one della funzione del giudicare e del procedere all’impero della legge».
Precedentemente, in tal senso, S. Fois, voce Legalità (principio di), in Enc. dir.,
XXIII, Milano, 1973, p. 662.
8 Cass., sez. I, 24 novembre 2010, n. 1375, in CED Cass., n. 249203; Id., I, 27
ottobre 2006, n. 38846, ivi, n. 235981; Id., I, 2 febbraio 1999, n. 943, ivi,
n. 212743; Id., I, 8 febbraio 1999, n. 1119, ivi, n. 213287; Id., 29 gennaio 1996,
Lucci, in Cass. pen., 1997, p. 106.
9 La riferita ulteriore premessa, sebbene non sia stata riportata nella parte mo‑
tiva della sentenza in commento, si deduce dal riferimento contenuto nella
decisione de qua alla sentenza della I sezione della Corte di cassazione, n. 943
del 2 febbraio 1999, cit., della quale costituisce l’oggetto.
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ratore generale presso la Corte di appello di Bari non è stato
parte nel procedimento di esecuzione nel quale è stato emes‑
so il provvedimento impugnato; pertanto, non è legittimato
a proporre ricorso per cassazione avverso detto provvedi‑
mento in quanto soggetto diverso dai protagonisti della
dialettica processuale del procedimento specifico, rimasto
estraneo a quella fase processuale».
È evidente che la Cassazione, così ragionando, individua
percorsi atipici rispetto a quelli fissati dal legislatore, alteran‑
do le regole di sistema in punto di ruolo pubblico ministero
nel procedimento di esecuzione, nonché di legittimazione ad
impugnare, in particolare.
Si ammette – giova ripeterlo – la possibilità di correttivi
esegetici – è, però, quelli non compromettano il rispetto dei
parametri dell’ordinamento costituzionale e processuale.
Il pericolo, invece, che qui si corre è di mettere in crisi
l’intima connessione tra il riconoscimento dei diritti procedu‑
rali dell’indagato/imputato e l’organizzazione dei poteri pub‑
blici del processo penale; la quale fonda sulla indiscussa,
strumentale, reciprocità tra assetto costituzionale del pubblico
ministero ed uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge10.
2. Ancora sulla natura della fase esecutiva
Altro punto da chiarire, ulteriore, necessaria premessa
delle soluzioni adottate in contrasto con il dictum cassazione,
riguarda la natura della fase della esecuzione.
Sul punto il dibattito resta aperto11 ma privo di spunti di
originalità. Gli orientamenti dottrinali, infatti, finiscono per
ripetere teorie elaborate nei codici precedenti12 , che appaiono
superate anche alla luce delle spinte europeiste e comunitarie
che interessano i profili del processo penale in generale e
della fase dell’esecuzione, in particolare13.
È evidente che la causa principale della incertezza circa la
10G. Riccio, Sulla riforma dello statuto del pubblico ministero, Napoli, 2011,
pp. 34‑35.
11 … nonostante dottrina recente ritenga che appartengano «oramai alla memoria
storica le annose dispute sulla sua [fase esecutiva] natura giuridica»: S. Lo‑
russo, Giudice, pubblico ministero e difesa nella fase esecutiva, Milano, 2002,
p. 73.
La ricostruzione degli orientamenti dottrinali operata, in sintesi, nel testo di‑
mostrano, tuttavia, il contrario.
12 La natura della fase esecutiva ha dato luogo a numerose discussioni nel vigore
dei codici precedenti. Nonostante la letteratura formatasi al riguardo sia ricca
di contributi, qui ci si limita a riassumere le varie opinioni. Da una parte, vi
erano quegli autori che nella procedura di esecuzione vedevano esclusivamente
un’attività giurisdizionale: la teoria era sostenuta principalmente dagli autori
tedeschi, mentre in Italia, tra gli altri, dal Conso (voce Diritto processuale pe‑
nale, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 156), dal Mortara (Commentario del
codice e delle leggi di procedura penale. Della esecuzione, n. 3, p. 3), dal Flo‑
rian (Principi di diritto processuale italiano, Torino, 1932, p. 76), dal Vassalli
(La potestà punitiva, Torino, 1942, p. 150). Dall’altra chi vi ravvisava una at‑
tività esclusivamente amministrativa: la teoria era propugnata dai giuristi
francesi e in Italia dal Bellavista (Lezioni di diritto processuale penale, Milano,
1956, p. 283), dal Leone (Lineamenti di diritto processuale penale, Napoli,
1956, p. 567), dal Marsich (L’esecuzione penale, Padova, 1927, p. 24 ss.).
In Italia, tuttavia, prevalse una teoria cd. mista, secondo la quale nel procedi‑
mento di esecuzione era ravvisabile una parte di carattere amministrativo ed
una parte di carattere giurisdizionale; quest’ultima riservata al controllo giudi‑
ziale sulla esecuzione stessa. Tra i seguaci, tra gli altri, il Lucchini (Principi di
procedura penale, Firenze, p. 63), il Manzini (Istituzioni di diritto processuale
penale secondo il nuovo codice, Padova, 1932, vol. IV, p. 721), il Sabatini
(Principi di diritto processuale penale, Città di Castello, 1931, p. 132), il San‑
toro (Fondamenti della esecuzione penale, Roma, 1931, pp. 127‑129), il Sotgiu
(L’esecuzione penale, Roma, 1935, vol. I, p. 132).
Per l’approfondimento si rinvia a A. Santoro, Fondamenti della esecuzione
penale, Roma, 1931, p. 103 ss.
13 Corte cost., 17 maggio 2001, n. 146, in Giur. cost., 2001, p. 3.
2 0 1 3
71
determinazione della natura della esecuzione penale – di qui
la pluralità di teorie al riguardo – continua a derivare dalla
difficoltà di determinare con esattezza il concetto di giurisdi‑
zione.
Secondo una parte della dottrina recente, «la vicenda
esecutiva di per sé scaturisce, come conseguenza necessaria,
dal perfezionamento di determinate fattispecie processuali
[…]; non sono previsti controlli preventivi di carattere giuri‑
sdizionale; è sufficiente la sola iniziativa dell’ufficio del PM
che agisce quasi come organo di natura amministrativa, por‑
tatore di un potere di attuazione pratica del comando conte‑
nuto nel provvedimento del giudice». Questa situazione – con‑
tinua la dottrina – «se da un lato rappresenta la scoria di
un’epoca neppure troppo lontana, nella quale la fase dell’ese‑
cuzione era ritenuta di natura puramente amministrativa ed
in quanto tale extragiurisdizionale, da un altro lato, rende
indiscutibile la netta scansione tra momento “amministrati‑
vo”, caratterizzato dalla sola esplicazione della forza attuati‑
va del comando contenuto nel dispositivo del provvedimento
da eseguire e momento “giurisdizionale” dedicato al control‑
lo, secondo i principi e le garanzie propri della giurisdizione,
delle situazioni giuridiche che nella loro mera apparenza do‑
cumentale hanno legittimato l’inizio dell’esecuzione»14.
Altra parte, invece, partendo dal presupposto «di uno
stretto rapporto tra l’esistenza del processo e l’intervento del
giudice»15, considera l’esecuzione penale una «appendice del
processo, in quanto le attività che la costituiscono non sono
certo attività di cognizione […] e quindi non appartengono al
processo». Di conseguenza, conclude, «all’esecuzione non è
riconoscibile quella “natura giurisdizionale” che compete
alla sola fase della cognizione in quanto è in essa che agisce
il giudice: le si deve invece attribuire “natura amministrativa”
proprio per il suo consistere in attività meramente attuative,
esulanti da qualunque contenuto conoscitivo e decisorio tipi‑
co di quelle del giudice»16.
Altra parte, infine, ritiene, in generale, che la fase esecu‑
tiva debba essere considerata giurisdizionale, nel senso della
presenza delle garanzie minime imposte dal combinato dispo‑
sto degli artt. 13, 24, 25, 102, 111 Cost. là dove ha introdot‑
to una riserva costituzionale di giurisdizione in materia di
libertà personale. Si dice: poiché la libertà personale è materia
sulla quale incide la esecuzione penale, essa non può sottrar
si ai requisiti fondamentali individuati in ossequio a tale ri‑
14 Letteralmente, A. A. Sammarco, Il procedimento di esecuzione, in G. Span‑
gher, Trattato di procedura penale, vol. VI, a cura di L. Kalb, 2009, p. 241.
15 «Il concetto stesso del processo si identifica con quello della presenza del giudice
e quindi della, per ciò solo dedotta, natura giurisdizionale delle attività che lo
costituiscono, sino ad escludere, sul piano della costruzione dogmatica, da un
lato che di processo si possa parlare, allorché non è previsto un simile inter‑
vento, principale ed assorbente del giudice; dall’altro, che all’intervento del
giudice si debba egualmente fare ricorso anche allorché si tratta di compiere
attività che non rientrano nei limiti logico‑temporali entro i quali è racchiuso e
confinato il processo»: F. Corbi, L’esecuzione nel processo penale, Torino,
1992, p. 30.
16 Letteralmente, F. Corbi, L’esecuzione, cit., p. 30. Conformi, M. Ceresa‑Gast‑
aldo, Esecuzione, in Aa. Vv., Compendio di procedura penale, cit., 2012,
p. 1073; F. Fiorentin‑ G. G. Sandrelli, L’esecuzione dei provvedimenti
giurisdizionali. Disciplina dell’esecuzione penale e penitenziaria, Padova, 2007,
p. 92.
In giurisprudenza, in tal senso, tra le altre, Cass., I, 11 agosto 1999, Crea, in
Cass. pen., 2001, p. 202; Id., I, 30 novembre 1994, D’Annibale, inedita; Id., I,
22 gennaio 1992, Pilone, in Cass. pen., 1993, p. 1484; Id., I, 23 ottobre 1991,
Piu, in Riv. pen., 1993, p. 93.
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serva, che devono caratterizzare tutte le procedure aventi ad
oggetto quella libertà17.
Nella fase esecutiva – conclude – «la giurisdizione esecu‑
tiva in senso stretto è costituita dai provvedimenti del giudice
dell’esecuzione di cui agli artt. 665‑676 c.p.p.»18.
Nessun accenno alla natura delle attività prodromiche al
procedimento di esecuzione (= artt. 28 Reg; 655‑664 c.p.p.),
le quali, secondo noi, costituiscono il vero nervo scoperto
della questione in esame.
Anzi, volendo seguire le speculazioni della riferita dottri‑
na, sembrerebbe implicitamente esclusa o quantomeno affie‑
volita la natura giurisdizionale delle attività disciplinate dagli
artt. 28 Reg; 655‑664 c.p.p. … che pure rientrano nella fase
dell’esecuzione penale.
Diciamo subito che per noi l’esecuzione è fase giurisdizio‑
nale e lo è nel suo complesso19.
17 Da ultimo, F. Caprioli‑D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, Torino,
2011, pp. 7‑8.
Attribuisce natura giurisdizionale alla fase esecutiva anche D. Vigoni, I procedi‑
menti dell’esecuzione penale, in Studi in onore di Mario Pisani, vol. III, Piacen‑
za, 2010, p. 125 ss.: «L’abbandono del riferimento all’incidente (di esecuzione)
proprio della corrispondente disposizione del codice del 1930 (art. 630), privi‑
legiando nella rubrica dell’art. 666 c.p.p. il richiamo al procedimento (di ese‑
cuzione), pare soltanto rimarcare anche sul piano letterale la caratura giurisdi‑
zionale di questa fase: non vi è dubbio che l’intervento del giudice nella sede
esecutiva presenti tuttora, viste le scelte normative di fondo, pur sempre natura
incidentale».
Precedentemente, M. Pisani, Problemi della giurisdizione penale, Padova, 1987,
p. 23, ma già in voce Giurisdizione penale, in Enc. dir., vol. XIX, Milano, 1970,
pp. 389‑390: «una vera e propria attività giurisdizionale, sia pure in forme
particolari (art. 628 ss.) trova spazio nel corso dell’esecuzione (la quale, di per
sé, è piuttosto un facere che un dicere ius): e ciò allorquando insorge un qualche
incidente di esecuzione. Si tratta, in complesso, di questioni le quali importano
una specificazione della portata del giudicato, diretta o magari soltanto media‑
ta […]; oppure una risoluzione del giudicato stesso, per l’allegata insorgenza di
fatti stintivi; oppure ancora l’accertamento di condizioni risolutive della sospen‑
sione a suo tempo intervenuta, e così via».
Collegano, invece, la giurisdizionalità della fase esecutiva a bisogni di personaliz‑
zazione e di individualizzazione del trattamento penitenziario, per scopi di rie‑
ducazione e di risocializzazione del condannato, M. D’Onofrio‑M. Sartori,
Le misure alternative alla detenzione, Milano 2004, p. 339.
18 … mentre la «giurisdizione rieducativa (o giurisdizione sul contenuto sanzion‑
atorio del titolo) è invece quella affidata dagli artt. 677‑684 c.p.p., dalla legge
di ordinamento penitenziario e da numerose disposizioni di leggi speciali al
magistrato e al tribunale di sorveglianza […]»: F. Caprioli‑D. Vicoli, Proce‑
dura penale, cit., p. 7.
19 Del resto, lo si evince già dalla direttiva n. 79 della legge‑delega n. 108 del 3
aprile 1974, nonché dalle direttive nn. 96, 97, 98, 101 e 104 della legge‑delega
n. 81 del 16 febbraio 1987.
Conforme l’intervento della giurisprudenza costituzionale volto a ribadire la
imprescindibilità della garanzia della giurisdizione in una fase centrale della
tutela e delle libertà della persona. Tra le altre, a partire da Corte cost., 23
aprile 1974, n. 110; Id., 4 luglio 1974, n. 204; Id., 6 agosto 1979, n. 114, fino
a Id., 4 novembre 1999, n. 422. Le sentenze sono consultabili sul sito www.
giurcost.it
Sul punto ampiamente, di recente, A. Gaito, La “lunga marcia” dell’esecuzio‑
ne penale (frammenti di giurisprudenza costituzionale, in Il diritto processuale
penale nella giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Conso, Napoli,
pp. 951‑952; F. Della Casa, Il progressivo “traghettamento” dell’esecuzione
penitenziaria dall’amministrazione alla giurisdizione, ivi, p. 961 ss.
Lo stesso discorso può farsi rispetto al particolare settore dell’esecuzione pena‑
le che concerne le misure di sicurezza. L’intervento del giudice di sorveglianza
e, per il caso di ricorso contro il suo decreto, della Corte di appello e della
Corte di cassazione impone, al di là di qualsiasi polemica sulla natura ammini‑
strativa o giurisdizionale delle misure di sicurezza – che esula dall’economia del
nostro discorso – di riconoscerne il carattere giurisdizionale.
La riprova è nel combinato disposto degli artt. 678 commi 3 e 4; 666; 178‑179
c.p.p.: l’art. 666, richiamato dall’art. 678 c.p.p. prescrive, ai commi 3 e 4, il
procedimento camerale partecipato ai sensi dell’art. 127 c.p.p., con l’ulteriore
requisito dell’intervento necessario del difensore e del pubblico ministero. Di
conseguenza, se il giudice di sorveglianza provvede de plano, con inosservanza
delle forme di rito prescritte, si determina una nullità di ordine generale e di
carattere assoluto, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento,
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La soluzione fonda sulla distinzione tra giurisdizione in‑
tesa come valore giurisdizione intesa come canone di attribu‑
zione di specifiche competenze funzionali agli organi giuri‑
sdizionali.
La prima ha portata generale, in quanto è connotato del
processo. Lo dimostra la linea normativa degli artt. 105, 106
e 107 Cost., dalla quale si evince, se letta in combinato dispo‑
sto con l’art. 1 c.p.p., che il processo penale proprio perché
consente l’esercizio – sia pure normativamente guidato – di
poteri di immissione nelle libertà fondamentali della persona,
non può che essere presidiato dal valore‑giurisdizione, la cui
violazione costituisce causa di illegalità del processo (così si
spiegano, ad esempio, gli artt. 178 lett. a); oppure l’art. 36
lett. f) e g) c.p.p.)
La seconda caratterizza il sistema là dove, concretizzando
la regola costituzionale contenuta nel terzo comma dell’art. 107
Cost., stabilisce l’ambito dei poteri dei soggetti pubblici nel
processo.
Entrambe soddisfano i bisogni garantisti del codice del
1989, fondato su legalità ed uguaglianza, cioè sui connotati
indiscussi della democrazia.
Ed è proprio la giurisdizione suo doppio significato a
rendere improponibile qualsiasi comparazione con il codice
del 1930, nel quale la fase esecutiva aveva fisiologicamente
natura amministrativa20.
Invero, la stretta giurisdizionalità – in uno con la stretta
legalità – sono principi complementari che costituiscono ca‑
ratteristiche distintive dell’attuale modello (processuale) de‑
mocratico rispetto a quello autoritativo e rappresentano da
un lato, il superamento di una acritica continuità storica e
dall’altro, all’interno del sistema stesso, l’abbandono del siste‑
ma processuale di tipo inquisitorio che ha caratterizzato le
scelte da tempi risalenti 21.
In generale, la diversa filosofia di codificazione e soprat‑
tutto le precise scelte del legislatore del 1989 sulle funzioni
istituzionali del processo penale e sulle correlative attribuzio‑
ni dei soggetti chiamati a vario titolo a prepararlo; il mutato
ambito del giudice penale all’interno del Preambolo penalisti‑
co della Costituzioneconcretizza le ragioni di essenza e di le‑
gittimità della giurisdizione oltre alle garanzie ordinamentali
per i magistrati ed i diritti fondamentali sono sintomi di un
profondo mutamento di prospettiva rispetto al codice del
1930. Mutamento che fa superare il problema della natura
amministrativa o giurisdizionale della fase esecutiva a favore
della seconda, in quanto solo nell’impianto del codice del 1930
si poteva adbicare a natura giurisdizionale di una fase del
processo – quella esecutiva, appunto – non solo perché il pro‑
cesso non fondava sulla giurisdizione ma sull’azione, ma anche
perché l’azione era nel dominio di un soggetto avente natura
amministrativa.
Di conseguenza, se in quel modello l’esecuzione era con‑
per effetto della estensiva applicazione delle previsioni della omessa citazione
dell’imputato e della assenza del suo difensore nei casi in cui ne è obbligatoria
la presenza. Cass., sez. I, 28 settembre 2011, in Diritto & Giustizia, 2011, 22
ottobre.
20Sui precedenti storici della procedura esecutiva, ampiamente, D. Vigoni, I
procedimenti dell’esecuzione penale, cit., p. 128 ss.
21G. Riccio, sub art. 1, in Codice di procedura penale, a cura di G. Tranchina,
tomo I, Milano, 2008, p. 128.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
siderata fase dell’azione e se il promovimento dell’azione
spettava al pubblico ministero e cioè allo stato‑amministra‑
zione il quale avanzava l’istanza di applicazione della pena;
analogamente il promovimento dell’esecuzione, fase finale
dell’azione, spettava sempre al pubblico ministero, vale a dire
allo stato‑amministrazione il quale avanzava l’istanza di at‑
tuazione della pena giurisdizionalmente concretata nei con‑
fronti di chi doveva subirla.
Di conseguenza, la natura amministrativa dell’esecuzione
era l’effetto della attribuzione della fase ai poteri amministra‑
tivi del pubblico ministero22.
Nel codice del 1989 un siffatto ragionamento non è più
sostenibile, e non solo perché il pubblico ministero ha smesso
i panni di organo‑amministrazione, ma soprattutto in quanto
sul piano dell’assetto sistematico la giurisdizione e, dunque,
la giurisdizionalitàdel (di tutte le fase del) processo (sia pure
con diverse modulazioni) ha primazia sull’azione.
Sicché, giurisdizione‑giudice‑processo sono termini che da
un lato, evocano un contesto organizzativo ben definito e
dall’altro rappresentano la democraticità processo penale,
nella misura in cui solo attraverso la giurisdizione si realizza
nel processo stesso il controllo diffuso della validità della
legge23.
E al primato della giurisdizione nell’art. 1 del codice e
oggi soprattutto nell’art. 111 della Costituzione non può
sottrarsi la fase esecutiva, anzi, rispetto ad essa, quel binomio
normativo rappresenta le ragioni dell’ampliamento della co‑
gnizione del giudice penale ad un contesto procedurale prima
(nel codice del 1930) condiviso con il potere esecutivo.
Anche qui la giurisdizione ha il compito di tenuta della
legalità e di tutela delle situazioni soggettive protette ogni‑
qualvolta si realizzi un conflitto tra pretesa punitiva dello
Stato e diritti della persona.
Specificamente, il legislatore del 1988, nell’individuare
l’oggetto della giurisdizione esecutiva, «ha adottato un crite‑
rio misto che, accanto alla descrizione normativa delle fatti‑
specie sottoponibili alla cognizione del giudice dell’esecuzio‑
ne, fa salva una sua competenza “ad ampio spettro”, a deci‑
dere tutte le questioni suscettibili di insorgere nel corso
dell’esecuzione di un provvedimento giurisdizionale»24.
A ben vedere, la rilevanza della funzione garantista della
giurisdizione vale sia per la fase della cognizione – dove ven‑
gono in rilievo i temi del diritto al processo e dei diritti nel
processo – che per la fase della esecuzione, dove è evidente il
bisogno di assicurare la effettività della pena, senza trascura‑
re la protezione dei diritti del condannato.
Insomma, il dato valoriale della giurisdizione conserva
22 «Il taglio “minimalista di un’esecuzione penale relegata a margine del sistema,
a guisa di mera appendice del processo, emergeva in primis dal ruolo di com‑
primari attribuito al giudice dell’esecuzione ed al giudice di sorveglianza, i
quali, lungi dall’esercitare funzioni giurisdizionali, si limitavano a fornire
un’interpretazione autentica del giudicato, rimuovendo – se del caso – gli osta‑
coli alla sua pratica attuazione. All’interno di tali spazi, la posizione di predo‑
minio attribuita al pubblico ministero, unitamente alle ingerenze del Ministero
di (grazia) e giustizia, valevano a sottolineare il ruolo dell’esecuzione quale mera
realizzazione in via amministrativa del diritto penale materiale e precisamente
delle sanzioni da esso comminate e riconosciute e determinate dal giudice pe‑
nale»: A. Gaito, La “lunga marcia” dell’esecuzione penale (frammenti di
giurisprudenza costituzionale, cit., pp. 951‑952.
23G. Riccio, sub art. 1, in Codice di procedura penale, cit., p. 129.
24 A. Gaito, La “lunga marcia” dell’esecuzione penale, cit., p. 950.
2 0 1 3
73
unicità, nonostante le fasi in cui essa (la giurisdizione) si
svolge presentano ontologie diverse.
Non potrebbe essere altrimenti: le diverse manifestazioni
della giurisdizionalità della fase esecutiva rispetto a quella
cognitiva sono fisiologiche, dipendendo dalle differenti situa‑
zioni concrete che ne costituiscono l’ogget to (fase
cognitiva=decisione circa la sussistenza del fatto e la responsa‑
bilità dell’imputato‑quantificazione ed irrogazione della pena/
fase esecutiva=effettività e concretezza del comando contenuto
nel titolo esecutivo); le quali, a loro volta, si riflettono sul mo‑
do in cui la giurisdizione si manifesta. Vale a dire: nella fase
cognitiva la giurisdizione risponde ai bisogni dell’accertamen‑
to; in quella esecutiva, essa concerne l’applicazione della san‑
zione e le prospettive di rieducazione del condannato.
Certo, se cambia il modo di atteggiarsi della funzione
(giurisdizionale), mutano anche gli standard di giurisdiziona‑
lità che nella fase esecutiva sono affievoliti rispetto ai canoni
del giusto processo cognitivo25; giammai negati.
Epperò, questa è una patologia del sistema, che può esse‑
re risolta soltanto dal legislatore26.
Ebbene, le linee differenziali quanto a forme e a contenu‑
ti fanno emergere l’esatta portata delle norme che regolano la
fase esecutiva nel codice attuale; il loro approfondimento, poi,
soprattutto sotto il profilo della loro collocazione sistematica,
dimostra che la successione delle disposizioni degli artt. 28
Reg; 655‑664 c.p.p. da un lato, e degli artt. 665‑676 c.p.p.,
dall’altro, disciplina (soltanto) le regole di comportamento
rispettivamente per il pubblico ministero (artt. 28 Reg;
655‑664 c.p.p.) e per il giudice (artt. 665‑676 c.p.p.), senza
25 «[…] nel momento di esecuzione della pena il principio di parità delle parti – in
particolar modo, visto lo strapotere del magistrato del pubblico ministero
nella fase esecutiva – ma anche il principio del contraddittorio, soprattutto
riguardo alla formazione della prova, quello della terzietà ed imparzialità del
giudice, quello della ragionevole durata del procedimento, quello del diritto
all’interprete non vengono salvaguardati alla stregua di quanto avviene nelle
altre fasi del processo penale. Probabilmente sul presupposto – errato – che
essendovi stato un giudizio e una condanna, non vi è più necessità di garantire
i diritti del condannato. Riguardo questo aspetto sono, infatti, sorti alcuni
dubbi di legittimità della disciplina della fase esecutiva, intesa in toto, rispetto
all’art. 111 Cost.»: V. Garofoli, Diritto processuale penale, Milano, 2012,
pp. 546‑547.
Così, pure A. Gaito, La “lunga marcia” dell’esecuzione penale, cit.,
pp. 956‑957.
26 L’esigenza fu avvertita dalla Commissione di riforma del codice di procedura
penale presieduta dal prof. Giuseppe Riccio che propose di affidare la titolarità
delle attribuzioni decisorie su tutte le questioni esecutive a una struttura giudi‑
ziaria autonoma: «105.1. prevedere l’istituzione, presso ogni distretto di corte
di appello, del giudice della pena, diverso da quello della cognizione ed indivi‑
duato sulla base di criteri predeterminati; prevedere che il giudice della pena,
quando delibera in composizione collegiale, sia composto, in casi predetermi‑
nati, da giudici togati e da esperti».
Più esattamente, sono state individuate due macroaree di intervento del giudice
della pena – coincidenti con la sua competenza a «conoscere dell’esecuzione dei
provvedimenti giurisdizionali divenuti irrevocabili» (direttiva 105.2) e con la
sua competenza a «conoscere dell’esecuzione delle pene, delle sanzioni sostitu‑
tive delle pene detentive brevi e delle misure di sicurezza» (direttiva 105.4) – e
sono state elencate alcune competenze specifiche che il legislatore delegato
(direttive 105.4 ss.) dovrà necessariamente assegnare al giudice nell’ambito di
tali macroaree.
Per contro, sono stati espressamente fatti salvi «casi predeterminati di attribu‑
zione della competenza al giudice che ha emesso il provvedimento» (direttiva
105.2): ciò al fine di scongiurare l’inevitabile appesantimento della procedura
che deriva dalla competenza distrettuale del giudice della pena in presenza di
adempimenti esecutivi di modesto rilievo e non incidenti sulla persona del
condannato (ad esempio, la restituzione delle cose sequestrate) o per i quali sia
necessario procedere con particolare urgenza.
Relazione di accompagnamento alla Bozza di delega al Governo della repub‑
blica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale – febbraio 2007.
penale
Gazzetta
74
D i r itto
e
p r o c e du r a
attribuire al pubblico ministero funzioni amministrative, né
nega alla fase il carattere della giurisdizionalità.
Sotto il profilo semantico, non è un caso che il titolo II del
Libro X apra con l’art. 655 c.p.p. rubricato specificamente
«Funzioni del pubblico ministero» ed il titolo III sia addirit‑
tura intitolato «Attribuzioni degli organi giurisdizionali».
La scelte rivela la volontà del legislatore di assegnare a
quelle disposizioni funzione attributiva di competenze fun‑
zionali diversificate all’interno della stessa fase e, dunque, di
porre in rilievo le diversità funzionali tra pubblico ministero
e giudice, senza per questo sminuire o addirittura derogare
alla giurisdizionalità (= valore) fase.
Se poi si guarda al contenuto del procedere ed ai suoi
modi, il combinato disposto degli artt. 655 comma 2; 656
commi 5 e 6 c.p.p., da un lato e l’art. 665 comma 1 c.p.p.,
dall’altro, dimostrano che la fase esecutiva ha sempre natura
giurisdizionale, nonostante l’autonomia di ciascun segmento
normativo in ragione del metodo partecipazione del giudice
alla vicenda. Ciò che è diverso, dunque, è l’oggetto della
giurisdizione. Sicché, anche le attività di esecuzione del titolo
esecutivo che la legge affida al pubblico ministero (combina‑
to disposto degli artt. 28 Reg; 655 (626)‑664 c.p.p.) non
mutano la natura giurisdizionale di quel segmento della fase,
nonostante lì l’intervento del giudice trova spazio soltanto se
richiesto dalle parti. Infatti, il pubblico ministero cura l’ese‑
cuzione dei provvedimenti giurisdizionali al di fuori dei casi
per cui necessita risolvere contrasti in ordine alla esistenza o
alla validità del titolo esecutivo o ad atti capaci di modificar‑
ne gli estremi o i contenuti, ambito proprio del giudice.
Diversamente, se si volesse riconoscere al pubblico mini‑
stero una funzione autonoma in quel segmento della proce‑
dura di esecuzione e, di conseguenza, se si volesse attribuire
allo stesso natura anche giudiziale e non soltanto giudizia‑
ria 27, bisognerebbe dimostrare la competenza dell’organo
pubblico a conoscere della esecuzione, e non soltanto a cu‑
rarla, vale a dire, a determinarne le modalità operative28.
Ancora, si dovrebbe spiegare perché il legislatore, nel detta‑
re le regole per la individuazione del pubblico ministero
presso il giudice dell’esecuzione, riproponga nel contesto
esecutivo lo stesso rapporto funzionale previsto per la fase
esecutiva.
È evidente, viceversa, la volontà del legislatore, da un lato,
di affidare la conoscenza esecuzione del titolo esecutivo – an‑
che in funzione di controllo (art. 665 comma 2 ss. c.p.p.) – alla
competenza funzionale del giudice che lo ha deliberato – la
regola di attribuzione è espressamente contenuta nell’art. 665
comma 1 c.p.p. –, dall’altro, di perpetrare anche all’interno di
quel contesto la netta distinzione tra le situazioni soggettive.
Non potrebbe essere altrimenti, non soltanto per «gli
27 La categoria dell’autorità giudiziaria è portatrice di una unitaria funzione statale
di persecuzione penale che si scompone nelle due sotto‑funzioni di accusa e di
decisione (funzione giudiziale, appunto).
28 Così, Cass., sez. III, 12 ottobre 2012, n. 49472, in Riv. giur. edilizia, 2012, 6,
I, p. 1532.
Diversamente, Cass., sez. I, 31 ottobre 2000, Trotta, in Cass. pen., 2001,
p. 3089: «il pubblico ministero è organo dell’esecuzione e, come tale, titolare
del potere‑dovere di emettere il relativo ordine, valutandone in proprio la le‑
galità, mentre il giudice dell’esecuzione è qualificato ad intervenire, sindacando
la regolarità e validità del titolo esecutivo solo in sede di incidente di esecuzione,
ovvero, allorché sia insorta controversia sul punto».
p e n al e
Gazzetta
F O R E N S E
artt. 13, 24, 25, 102 e 111 Cost.» che «hanno introdotto
un’autentica riserva costituzionale di giurisdizione in materia
di libertà personale»29, ma soprattutto perché, lo abbiamo
visto, già sul terreno costituzionale la giurisdizione diventa
elemento di qualificazione delle (di tutte le) attività funzio‑
nalmente orientate ad incidere sul diritto alla libertà perso‑
nale (= attività processuali), sia pure modulato sulle esigenze
della fase processuale.
Si vuole dire che la ampiezza della funzione di garanzia
della giurisdizione (di qui il binomio: giurisdizione = valore)
chiama il giudice a compiti di tutela anche in specifiche vicen‑
de che non attengono direttamente al fatto30 o solo alla respon‑
sabilità penale31, come nella fase della esecuzione penale.
Anzi, se si considera che quella fase è procedimento fun‑
zionale a garantire il principio di effettività della pena secondo
gli scopi fissati dall’art. 27 Cost., la giurisdizionalità della
esecuzione è maggiormente evidente, tenuto conto che la effet‑
tività della pena e la sua esecuzione costituiscono, oggi più che
mai, la misura della efficienza dell’intervento giurisdizionale
e, in un senso più ampio, del grado di civiltà del sistema.
Insomma, il valore giurisdizione non è messo in crisi
dalle peculiarità del procedimento esecutivo: il procedimento
di esecuzione è fase giurisdizionale nella misura in cui vi è un
giudice che, se pure non più chiamato a compiti di accerta‑
mento, ne assicura la concretizzazione (= la attuazione del
contenuto).
Ancora. La giurisdizionalità in executivis manifesta anche
nella circostanza, da un lato, che i meccanismi procedimen‑
tali della fase esecutiva non possono mai limitare gli ambiti
della difesa; dall’altro, che gli atti del pubblico ministeri, o
comunque, di soggetti diversi dal giudice non possono espli‑
care alcun effetto costitutivo per la sorte dell’interessato32.
Su questa premessa, la naturalità conservazione capo al
pubblico ministero della posizione di organo promotore del‑
la esecuzione penale deriva dal sistema, ovvero, dalla pro‑
gressione delle vicende che investono l’azione penale: il pub‑
blico ministero è titolare dell’esercizio dell’azione penale e
rimane nella qualità fino alla consumazione della stessa che
si realizza con la esecuzione del giudicato.
Il concetto di azione in senso lato, infatti, include neces‑
sariamente tanto la fase dell’esercizio (= presupposto della
giurisdizione), quanto la fase successiva in cui l’accertamento
e la decisione si compiono (= giudizio/pronuncia giudiziale
sulla proposta fattuale avanzata dal pubblico ministero),
quanto, infine, la fase della esecuzione, in cui la pretesa pu‑
nitiva (= interesse azionato) raggiunge la sua affermazione:
azione/decisione/esecuzione.
Del resto, la correlazione tra momento cognitivo (e, spe‑
cularmente, azionabilità dell’interesse che lo presuppone) e
momento esecutivo è indiscutibilmente testimoniata dagli
artt. 671, 673 comm1 e 672 c.p.p.; i quali evidenziano inne‑
gabili profili di interferenza le due fasi33.
29 F. Caprioli‑D. Vicoli, Procedura penale, cit., p. 8.
30 Ad esempio, l’art. 327 c.p.p.
31Si pensi all’art. 529; o all’art. 129 comma 2 incipit c.p.p.
32 È quanto si rileva da Corte cost., 31 maggio 1990, n. 274, in Cass. pen., 1991,
p. 533; Id., 3 dicembre 1990, n. 529, in Giur. cost., 1990, p. 3052.
In dottrina, A. Gaito, La “lunga marcia” dell’esecuzione penale, cit., p. 958.
33Un esempio: in ordine ad una fattispecie relativa all’opposizione verso il
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
Anche qui, non c’è giurisdizione senza azione34 (ne proce‑
dat iudex ex officio); per cui, l’assetto dell’organo dell’accusa
è conseguenza necessitata della funzione riconosciutagli
dall’art. 112 Cost.
3. I parametri della legittimazione del pubblico ministero nella
fase della esecuzione della pena
Sicché, l’impulsodell’azione esecutiva non rievoca schemi
del passato, nella misura in cui al pubblico ministero sono
pre clu si p oter i de c i sor i 35 , r i s er vat i , v ic ever sa , a l
giudice36(artt. 655 comma 2; 656 commi 5 e 6 c.p.p./art. 665
comma 1 (655 comma 4; 343) c.p.p.).
Né possono essere considerati decisori competenza ad
emanare l’ordine di esecuzione nonché i provvedimenti di
cumulo delle pene concorrenti e di computo del c.d. presof‑
ferto, in quanto quelli, se pur incidenti sulla libertà persona‑
le del condannato, seguono regole di comportamento specifi‑
provvedimento di rigetto della richiesta di restituzione di beni confiscati ai sensi
dell’art. 12 sexies legge n. 356 del 1992, gli elementi di prova acquisiti nel
corso del giudizio di cognizione, all’esito del quale è stata disposta la confisca,
possono essere utilizzati anche nel procedimento di esecuzione intentato dai
terzi fittizi proprietari dei beni oggetto della misura ablativa. Così, Cass., sez.I,
3 maggio 2011, n. 22860, inedita; Id., I, 5 novembre 2009, n. 48128, inedita;
Id., I, 9 gennaio 2009, n. 4196, inedita.
Ancora: l’erronea applicazione, da parte del giudice di cognizione, di una pena
accessoria predeterminata per legge nella specie e nella durata può essere rile‑
vata anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice
dell’esecuzione. Cass., sez. I, 30 novembre 2012, n. 1800, inedita; Id., I, 13
ottobre 2010, n. 38245, inedita.
In dottrina, S. Lorusso, Giudice, pubblico ministero e difesa, cit., p. 4.
Anche per D. Grosso, voce Esecuzione penale, in Enc. giur., Vol. XIII, Roma,
1989, p. 16 «l’uso del sostantivo fase, avendo quale punto di riferimento im‑
plicito il processo penale, finisce con il delineare le attività successive e conseg‑
uenti alla definizione del giudizio come omogenee rispetto a quelle della fase di
cognizione».
34 Cass., sez. I, 17 ottobre 2012, n. 46405, inedita; Id., III, 4 novembre 2005,
n. 47266, in Cass. pen., 2007, p. 1136; Id., I, 4 dicembre 2000, n. 14358, ivi,
2001, p. 3089.
35 Lo dimostra, ad esempio, la preclusione in capo al pubblico ministero di disporre
l’esecuzione di una pena sospesa in mancanza di un espresso provvedimento
del giudice in tal senso, anche quando esistano tutti i presupposti per la revoca
obbligatoria della sospensione. Tra le altre, Cass., sez. VI, 9 luglio 1997, in
Cass. pen., 1998, p. 2048; Id., I, 15 aprile 1993, Sanna, ivi, 1994, p. 2138.
Ancora: il provvedimento con il quale il pubblico ministero rigetta la richiesta
di sospensione dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione proposta in pendenza
del termine per chiedere eventuali misure alternativa alla detenzione, pur non
ricorribile in cassazione, può essere sottoposto al controllo del giudice
dell’esecuzione mediante l’attivazione della procedura prevista in sede esecutiva
dall’art. 670 c.p.p. Cass., sez. I, 17 giugno 2011, n. 36007, in Cass. pen., 2012,
10, p. 3487.
In senso contrario, L. Kalb, Ruolo e poteri del pubblico ministero quale or‑
gano legittimato all’esecuzione del titolo, in G. Spangher, Trattato di proce‑
dura penale, vol. VI, cit., p. 95: «il quadro normativo rappresentato nel libro
X raffigura una serie di interventi che non possono essere identificati come mera
estrinsecazione del solo potere di iniziativa e di partecipazione. L’attribuzione
di interventi decisori in capo all’ufficio del PM – tra l’altro in assenza di contrad‑
dittorio con l’interessato e del relativo controllo del giudice – non può che essere
letta quale cedimento rispetto al principio della piena giurisdizionalizzazione
della fase esecutiva».
Sono dello stesso avviso, tra gli ultimi, G. Dean, Ideologie e modelli
dell’esecuzione penale, Torino, 2004, p. 8 ss e A. Gaito, Esecuzione, in AA.
VV., Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Padova,
2006, p. 946 ss.
36In questi termini la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura
penale: «[…] è apparso naturale conservare al pubblico ministero la sua posiz‑
ione di organo promotore dell’esecuzione penale, attribuendogli anche il potere
di emettere l’ordine di carcerazione e di scarcerazione, di emanare cioè
provvedimenti che incidono sulla libertà personale dell’individuo. […] nella fase
dell’esecuzione, quando cioè sia stata emanata una sentenza di condanna ormai
irrevocabile, non v’è spazio per l’uso di poteri discrezionali, dovendosi invece
semplicemente dare esecuzione al provvedimento del giudice; dal che, è facile
la deduzione dell’inesistenza di ostacoli a riconoscere nel pubblico ministero
l’organo naturale per il promovimento dell’attività esecutiva».
2 0 1 3
75
camente indicate dal legislatore che garantiscono il condan‑
nato da qualsiasi discrezionalità del pubblico ministero, no‑
nostante la procedura si caratterizzi per un ridotto livello di
conflittualità.
Nella emanazione di tali provvedimenti, quindi, non v’è
spazio per l’uso di poteri autenticamente decisionali37; i quali
sarebbero contemperati, in ogni caso, dalla garanzia del di‑
ritto di difesa (= 656 comma 3 ultima parte; 657 comma 5;
663 comma 3; c.p.p.) e, specularmente, dal diritto alla giuri‑
sdizione (artt. 656 comma 6; 665 comma 1 c.p.p.).
Infine. Le garanzie di giurisdizionalità, lo abbiamo dimo‑
strato, sono sempre assicurate dalla facoltà, attribuita all’in‑
teressato, di contestare di fronte al giudice dell’esecuzione il
contenuto dei suddetti provvedimenti.
La circostanza che il controllo giurisdizionale interviene
soltanto in un momento successivo all’avvenuta restrizione
della libertà personale del condannato ad opera della sua
controparte processuale non inficia la validità del ragiona‑
mento.
La cronologia garanzia giurisdizionale è fisiologica: poi‑
ché il controllo giudiziale ha ad oggetto un provvedimento (=
l’ordine di esecuzione, il decreto di computo del pre‑sofferto
e il decreto di cumulo delle pene concorrenti) che presuppone
una sentenza di condanna passata in giudicato, esso non può
che essere naturalmente postumo al provvedimento restritti‑
vo della libertà personale del condannato; che, però, non è il
frutto di scelte decisorie del pubblico ministero, ma è la na‑
turale conseguenza di una sentenza del giudice che, nell’ac‑
certare positivamente il fatto e la responsabilità dell’imputa‑
to, ha statuito anche sul conseguente trattamento sanziona‑
torio.
In nessun caso, dunque, è possibile ipotizzare in capo al
pubblico ministero la sussistenza di poteri potestativi38.
Lo dimostrano chiaramente la natura informativa‑ com‑
pilativa ’ordine di esecuzione (= comma 3 dell’art. 656 c.p.p.)
e quella meramente esecutiva delle pene stabilite in sentenza,
anche quando egli è chiamato ad operazioni di mero calcolo,
dalle quali, peraltro, non è esclusa la partecipazione dialetti‑
ca – sotto forma di richiesta – del condannato (nel senso che
si rileva dal combinato disposto degli artt. 657 comma 3; 657
comma 5; 655 comma 5 c.p.p.).
Sicché, le iniziative attribuite al pubblico ministero in
questa fase sono funzionali all’esame della posizione proces‑
suale del condannato, oppure alla individuazione dell’esatto
quantum pena da eseguire, tenuto conto di quella irrogata dal
giudice di cognizione, nonché di quella eventualmente previ‑
37Non è un caso che in tema di esecuzione, l’incompetenza del pubblico minis‑
tero che ha emesso il relativo provvedimento non determina nullità dello stesso,
«trattandosi di provvedimento non giurisdizionale» e, per questo, non autono‑
mamente impugnabile, avverso il quale è proponibile soltanto l’incidente di
esecuzione. Così, Cass., sez. III, 29 gennaio 2013, n. 10126, inedita. Conforme,
Cass., sez. V, 2 luglio 2007, n. 31916, in Diritto & Giustizia 2007.
38 …nemmeno quando, volendo fare un esempio, si tratta di risolvere il dubbio
sulla identità fisica della persona detenuta (art. 667 c.p.p.). Anche in questo
caso non rivive il potere inquisitorio ed accertativo del pubblico ministero,
spettando al giudice dell’esecuzione ogni accertamento necessario alla sua
identificazione e residuando in capo al pubblico ministero solo compiti inves‑
tigativi, qualora il giudice accerti l’errore di persona e la identità del detenuto
resti ancora incerta.
Cass., sez. IV, 19 dicembre 2000, R. H., in Cass. pen., 2002, p. 1089; Id., V, 28
febbraio 1996, J., in CED Cass., n. 204239.
penale
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D i r itto
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p r o c e du r a
sta da altre sentenze di condanna emanate contestualmente a
carico dello stesso soggetto.
A ben vedere, si tratta di attività propulsive dell’azione
esecutiva che non abbisognano delle garanzie ordinamentali
della imparzialità e della terzietà del giudice perché non cre‑
ano conflitto tra le situazioni soggettive protette. E quando
ciò accade, l’attribuzionedella esecuzione al giudice ad opera
dell’art. 665 c.p.p. ristabilisce il carattere di sovranità giuri‑
sdizione anche in questa fase39.
Infatti, la contrazione dei diritti della difesa verificatasi
nella fase dove più vasti appaiono i poteri riconosciuti alla
pubblica accusa non mette in crisi l’equità fase, in quanto quel
(l’apparente) gap fronte delle garanzie appare compensato
dalla tutela giurisdizionale offerta in seguito.
In altri termini, anche se l’art. 655 comma 1 (e l’art. 28
Reg) c.p.p. assegna(no) al pubblico ministero non soltanto la
promozione dell’esecuzione ma anche la scelta degli adempi‑
menti necessari e funzionali alla stessa, l’eventuale contrasto
su queste modalità oltre che sul titolo esecutivo deve essere
devoluto al giudice dell’esecuzione, proprio perché l’esecuzio‑
ne è fase giurisdizionale.
La natura giurisdizionale della fase, innanzitutto ed il
mantenimento in capo al pubblico ministero della qualità di
parte anche il potere riconosciuto allo stesso di ricorrere in
cassazione avverso i provvedimenti del giudice dell’esecuzione
(art. 666 comma 6 c.p.p.).
Perciò tali attribuzioni (artt. 28 Reg; 655‑664 c.p.p.) non
comportano una metamorfosi del rapporto pubblico ministe‑
ro‑parte/giudice, proprio in quanto non sfociano in un giudi‑
zio, essendo dirette esclusivamente – giova ripeterlo – alla
mera attuazione della decisione giudiziale.
Né la circostanza che il pubblico ministero ricopra un
ruolo predominante nella fase della esecuzione vuole signifi‑
care – s’è detto – che lo stesso eserciti funzioni proprie del
giudice, né, soprattutto, che ciò rappresenti un retaggio del
codice del 1930, in cui quella fase aveva una valenza preva‑
lentemente amministrativa coerente con l’assetto istituziona‑
le del pubblico ministero 40.
4. La soluzione prospettata
Ripartiamo dalla motivazione in fatto della sentenza.
Nel procedimento a carico di più imputati, il giudice per
le indagini preliminari presso il Tribunale di Bari, quale giu‑
dice dell’esecuzione, accoglieva parzialmente l’istanza con la
39 È quanto accade, per esempio, nel caso in cui il pubblico ministero rigetti la
richiesta di sospensione dell’ordine di carcerazione proposta in pendenza del
termine per chiedere eventuali misure alternative alla detenzione. Ebbene, il
provvedimento non è ricorribile in cassazione, ma può essere sottoposto al
controllo del giudice dell’esecuzione mediante l’attivazione della procedura
prevista in sede esecutiva dall’art. 670 c.p.p.
Cass., sez. I, 17 giugno 2011, n. 36007, in Cass. pen., 2012, p. 3487; Id., II, 4
dicembre 2000, n. 7424, in CED Cass., n. 219045; Id., I, 11 gennaio 1999,
n. 241, in Cass. pen., 2000, p. 117; Id., I, 24 maggio 1995, n. 3229, in Giust.
pen., 1996, III, c. 298.
40In senso contrario, Cass., sez. VI, 22 gennaio 2002, Quercia, in Guida dir.,
2002, 31, n. 94: il vigente ordinamento processuale al pari di quello precedente
non prevede la possibilità di impugnare in modo autonomo e diretto i provved‑
imenti emessi dal pubblico ministero nella fase esecutiva; la ragione
dell’inoppugnabilità deve rinvenirsi nella natura non giurisdizionale di tali atti,
i quali, promanando da un organo la cui competenza è generalmente di carattere
esecutivo e amministrativo, non hanno contenuto decisorio in senso stretto ed
attitudine a definire il rapporto processuale.
p e n al e
Gazzetta
F O R E N S E
quale Domenico De Giglio chiedeva l’applicazione del bene‑
ficio dell’indulto in relazione alla pena inflitta dal giudice
dell’udienza preliminare presso il tribunale di Bari, successi‑
vamente riformata dalla Corte di appello di Bari esclusiva‑
mente in ordine alle statuizioni riguardanti la pena.
In ordine al medesimo procedimento, la stessa Corte di
Appello di Bari, quale giudice dell’esecuzione per aver rifor‑
mato sostanzialmente la decisione di primo grado, rigettava
la richiesta di applicazione dell’indulto avanzata dal coimpu‑
tato Oronzo Montenegro.
Proponeva ricorso per cassazione il Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Bari rilevando la incompetenza
funzionale del giudice per le indagini preliminari.
La Corte di cassazione, con le argomentazioni di cui s’è
detto, dichiarava inammissibile il ricorso per mancanza di
legittimazione ad impugnare da parte del Procuratore gene‑
rale, senza entrare nel merito della esatta individuazione del
giudice dell’esecuzione; rispetto alla quale riteniamo fondati
i motivi dedotti dalla Procura generale di Bari. Vale a dire che
anche per noi il giudice della esecuzione andava individuato
nella Corte di appello di Bari.
La giurisprudenza formatasi sull’art. 665 comma 2 c.p.p. è
costante nell’affermare il principio della unitarietà della ese‑
cuzione penale: nel caso di procedimento a carico di una
pluralità di imputati, qualora la sentenza pronunciata in gra‑
do di appello abbia riformato quella di primo grado – in or‑
dine a statuizioni non riguardanti esclusivamente la pena, le
misure di sicurezza e le disposizioni civili – soltanto nei con‑
fronti di uno o di più imputati, il giudice dell’esecuzione è il
giudice di secondo grado anche rispetto agli altri imputati,
che non abbiano eventualmente impugnato la sentenza di
primo grado o nei cui confronti sia stata confermata41.
Dunque: l’art. 665 commi 1, 2 e 3 c.p.p. distribuisce la
competenza funzionale a conoscere della esecuzione di un
provvedimento tra il giudice di primo grado, il giudice dell’ap‑
pello ed il giudice del rinvio in caso di pronuncia di annulla‑
mento con rinvio.
La ratio norma è attribuire la competenza a conoscere le
questioni relative alla attuazione del titolo esecutivo all’orga‑
no giurisdizionale che, nell’ambito del procedimento di cogni‑
zione, ha maggiormente contribuito alla sua deliberazione42.
41 A partire da Cass., sez. VI, 4 marzo 1991, n. 831, in Giust. pen., 1991, III, c.
501; Id., I, 8 ottobre 1992, n. 3925, ivi, 1994, c. 659, fino a, tra le molte, Id.,
I, 16 febbraio 2010, n. 10415, inedita; Id., n. 10418 del 2009; Id., I, 11 giugno
2008, n. 25962; Id., I, 23 gennaio 2003, n. 5473, in Giur. it., 2004, p. 1717;
Id., I, 18 gennaio 2005, n. 4510; Id., n. 35234 del 2002; Id., I, 28 marzo 2000,
n. 2277.
Cfr., pure, Cass., sez. II, 19 marzo 2003, n. 12803, inedita e Id., I, 19 gennaio
2000, n. 396, in Cass. pen., 2001, p. 199.
Alla regola fa eccezione l’art. 40 del d. lgs. n. 274 del 2000 che ha introdotto
la competenza in materia penale del giudice di pace. La norma, nell’ottica di
massima semplificazione di quel procedimento, ha da un lato stabilito che il
giudice di pace rimane sempre competente per la esecuzione delle sentenze
definitive emesse, anche se riformate in grado di appello; dall’altro, che è es‑
clusa ogni sua competenza nel caso in cui concorrano sentenze di giudici di‑
versi.
42 Di conseguenza, l’attribuzione della funzione di giudice dell’esecuzione agli
organi giurisdizionali che hanno deliberato il provvedimento divenuto irrevo‑
cabile, esclude che tale competenza possa essere assegnata ad organi giurisdiz‑
ionali diversi da quelli che hanno concorso alla formazione del giudicato penale
ai sensi dell’art. 648 comma 1 c.p.p.
Cass., sez. I, 19 giugno 2012, n. 25080, inedita; Id., I, 2 dicembre 2009, n. 49378,
inedita; Id., I, 4 luglio 2008, n. 31946, inedita.
Di qui, la negazione di legittimazione in capo al giudice della revisione, considera‑
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
A ben vedere, non vi è nessun riferimento – le ragioni
sono ovvie, trattandosi di norma attributiva di potere giuri‑
sdizionale – al pubblico ministero.
Per quest’ultimo, infatti, giova ripeterlo, la competenza a
curare l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali si radica
sulla base del combinato disposto degli artt. 655 comma 1;
665 comma 1 c.p.p.; mentre le funzioni sono stabilite dalle
regole che si desumono dal segmento normativo degli artt. 73
comma 1; 78 comma 1 ord. giud.; 655 comma 2; 656 com‑
ma 1; 658; 659 c.p.p.
Quid iuris per i poteri impugnativi?
La cassazione dice che «la legittimazione ad impugnare i
provvedimenti adottati dal giudice dell’esecuzione spetta, in
via esclusiva, per espressa designazione del legislatore, al
pubblico ministero che ha assunto il ruolo di parte nel proce‑
dimento, non potendosi riconoscere al procuratore generale
presso la Corte d’appello un potere di surroga assimilabile a
quello attribuitogli dall’art. 570 c.p.p. nel giudizio di
cognizione»43.
Siamo di diverso avviso.
Basta ragionare sul combinato disposto degli artt. 570
comma 1; 666 comma 6 c.p.p. per verificare come «l’espressa
designazione del legislatore» sia di segno contrario.
Intanto, è proprio l’art. 666 comma 6 a richiamare le di‑
sposizioni sulle impugnazioni e quelle sul procedimento in
camera di consiglio davanti alla Corte di cassazione, in quan‑
to applicabili. Ciò, di per sé, basterebbe a giustificare la
estensione delle regole sub. 570 c.p.p. al procedimento di
esecuzione.
V’è di più.
Non si nega che l’art. 570 comma 1 prima parte c.p.p. pre‑
vede che il procuratore generale presso la Corte di appello
possa proporre impugnazione nei casi stabiliti dalla legge; né
si disconosce che il comma 6 dell’art. 666 c.p.p. in tema di
ordinanze emesse nel procedimento di esecuzione, là dove
dispone che contro di esse sia proponibile ricorso per cassa‑
zione dalle «parti» e dai «difensori», non indica tra i sogget‑
ti legittimati all’impugnazione il procuratore generale presso
la Corte di appello. Ma da qui a sostenere che queste argo‑
mentazioni bastino ad escludere l’applicabilità dell’art. 570
comma 1 ultima parte il passaggio è arduo.
Infatti, se tale interpretazione poteva soddisfare nella vi‑
genza del codice precedente44 – dove pure si discuteva in meri‑
to alla individuazione del pubblico ministero legittimato ad
impugnare l’ordinanza – in quanto l’art. 631 c.p.p. 1930, in
tema di impugnabilità della decisione sull’incidente di esecu‑
zione, non faceva alcun riferimento alle disposizioni generali
sulle impugnazioni, sicché doveva ritenersi che l’impugnazio‑
ne avverso i provvedimenti emessi in sede di esecuzione fos‑
sero regolati in modo specifico dalle norme dettate in materia
dal legislatore, le quali, per il loro carattere speciale deroga‑
vano alle norme previste dallo stesso legislatore con riferimen‑
to che il procedimento di revisione, a differenza delle impugnazioni ordinarie,
non concorre alla formazione del giudicato ma lo presuppone: Cass., sez. I, 25
marzo 2013, n. 18360, inedita.
43 Conforme la dottrina, F. Caprioli‑D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione,
cit., p. 355 e nt. 228.
44Per tutte, Cass., sez. III, 3 marzo 1959, Jattarelli, in Giust. pen., 1960, III, c.
510.
2 0 1 3
77
to alla materia delle impugnazioni in generale; oggi quel ri‑
chiamo (= «si osservano in quanto applicabili le disposizioni
sulle impugnazioni»: art. 666 comma 6 c.p.p.) riconosce ai
membri dell’ufficio gerarchicamente superiore, nell’ipotesi di
provvedimento emesso dal tribunale, il diritto a ricorrere per
cassazione, così come si verifica, in generale, per le impugna‑
zioni dei provvedimenti emessi nella fase della cognizione, sia
pure nelle occasioni tipizzate dall’art. 570 comma 1 seconda
parte c.p.p.
Il ragionamento, infatti, non può limitarsi alla lettura
della sola prima par te del com ma 1 dell’ar t. 570
c.p.p. – evidentemente rafforzata dal disposto del comma 6
dell’art. 666 c.p.p. – ma deve completarsi con la seconda
parte dello stesso comma e soprattutto con il dettato costitu‑
zionale.
Specificamente, non può trascurarsi che il ricorso del
procuratore generale trova la sua fonte di legittimazione
nell’art. 111, 7o comma Cost., così come è lo stesso art. 570,
nell’ultima parte del comma 1 a consentirgli di proporre im‑
pugnazione anche in caso di acquiescenza del pubblico mini‑
stero presso il giudice che ha emesso il provvedimento 45. Si‑
tuazione, quest’ultima, che si aggiunge ai «casi previsti dalla
legge» a cui fa riferimento la prima parte del comma 1
dell’art. 570 c.p.p.
Semplificando: il richiamo alle disposizioni sulle impu‑
gnazioni contenuto nel comma 6 dell’art. 666 c.p.p. modella
il gravame avverso l’ordinanza emessa a seguito del procedi‑
mento esecutivo sulle regole generali del sistema dei controlli
in generale non soltanto quanto ad ammissibilità, termini,
modalità, requisiti, contenuto, ma anche in relazione alla le‑
gittimazione.
La soluzione non cambia nel caso di controllo dei provve‑
dimenti che statuiscono sull’applicazione dell’ indulto, nono‑
stante la Corte di cassazione abbia ribadito che «nel caso di
specie, il procuratore generale presso la Corte di appello di
Bari non è stato parte nel procedimento di esecuzione nel
quale è stato emesso il provvedimento impugnato» – vale a
dire l’ordinanza applicativa dell’indulto – «pertanto, non è
legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso detto
provvedimento in quanto soggetto diverso dai protagonisti
della dialettica processuale del procedimento specifico, rima‑
sto estraneo a quella fase processuale».
Intanto, una precisazione: contro il provvedimento del
giudice dell’esecuzione reso in materia di indulto è esperibile
da parte dell’interessato opposizioneai sensi dell’art. 667
comma 4 c.p.p., allo stesso giudice dell’esecuzione che dovrà
decidere con le forme previste dall’art. 666; non anche ricor‑
so per cassazione che, precluso dallo strumento specificamen‑
te previsto dalla legge, è proponibile soltanto contro l’ordi‑
nanza che ha deciso sull’opposizione.
L’opposizione, infatti, resta l’unico rimedio esperibile
45 Cass., 18 gennaio 1993, Giovannelli, in Cass. pen., 1994, p. 1287; Id., 22 mag‑
gio 1990, Bianchi, in Giur. it., 1991, II, c. 44; id., 2 aprile 1990, Linari, in Foro
it., 1991, II, 223.
In dottrina, attribuisce al procuratore generale presso la Corte di appello una
generale potestà di impugnazione avverso le decisioni adottate dai giudici del
distretto, G. Tranchina, Impugnazione (diritto processuale penale), in Enc.
dir., II Aggiornamento, Milano, 1998, p. 398.
Conforme, Cass., sez. II, 13 giugno 2012, n. 25786, inedita.
penale
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D i r itto
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dalle parti; pertanto, l’eventuale ricorso per cassazione deve
essere qualificato come opposizione, con successiva trasmis‑
sione degli atti al giudice dell’esecuzione46. La ratio è chiara:
anche nel caso in cui il giudice dell’esecuzione abbia deciso
con le forme di cui all’art. 666 c.p.p. sulla richiesta di appli‑
cazione dell’indulto deve essere esperibile l’opposizione – e
non il ricorso immediato per cassazione – per non privare
l’interessato di un controllo nel merito del provvedimento da
parte del giudice stesso 47.
Sicché, è questa l’unica reale causa di inammissibilità del
ricorso rilevabile dal combinato disposto degli artt. 568, 666
comma 6; 591 comma 1 lett. b) c.p.p., ben potendo essere
riconosciuta la legittimazione a ricorrere in capo al procura‑
tore generale, sempre qualora fosse stato corretto il mezzo – e
non lo era –, attesa la inerzia del pubblico ministero.
Sulla legittimazione, l’approdo trova ragione nella linea
normativa degli artt. 672 comma 1; 667 comma 4; 666 (655
comma 1;665 comma 1); 667 comma 6 c.p.p.: se il giudice per
l’applicazione dell’indulto è il giudice dell’esecuzione; se la
competenza si determina sulla base dell’art. 665 comma 1, in
generale, e del comma 2, nel caso che ci occupa; se per il prin‑
cipio della unitarietà della esecuzione, nei procedimenti con
pluralità di imputati la competenza del giudice di appello a
provvedere in executivis a affermata non solo rispetto a quelli
nei cui confronti la decisione di primo grado sia stata sostan‑
zialmente riformata, ma anche rispetto a quelli nei cui confron‑
ti la decisione di primo grado sia stata riformata soltanto ri‑
spetto al quantumpena; se, giusti i richiami dell’art. 672
comma 1 c.p.p. all’art. 667 comma 4 c.p.p. e dell’art. 667
comma 4 c.p.p. all’art.666 c.p.p., rispettivamente al pubblico
ministero è riconosciuto il potere di proporre opposizione,
davanti allo stesso giudice dell’esecuzione, avverso l’ordinanza
che statuisce sulla richiesta di indulto e la procedura segue le
forme previste per il procedimento di esecuzione; se contro
l’ordinanza emessa dal giudice dell’esecuzione a seguito dell’op‑
posizione, il pubblico ministero può presentare ricorso in
cassazione; se per la procedura di ricorso si applicano le dispo‑
sizioni sulle impugnazioni; se il procuratore generale può so‑
stituirsi al pubblico ministero acquiescente; ebbene, se tutto ciò
è vero, legittimato alla impugnazione non è in via esclusiva il
pubblico ministero che ha assunto il ruolo di parte nel proce‑
dimento di esecuzione nel quale è stato emesso il provvedimen‑
to impugnato – come pure scrivono i giudici di legittimità – ben
potendosi considerare tale pure il Procuratore generale presso
la Corte di appello, sia pure nelle ipotesi considerate.
In altri termini, nel caso che ci occupa, nonostante
l’art. 666 comma 6 c.p.p. abbia designato il titolare del dirit‑
to di impugnazione con l’espressione «pubblico ministero»,
intendendo riferirsi soltanto al rappresentante dell’ufficio del
pubblico ministero che esercita le sue funzioni presso il giu‑
dice che ha emesso il provvedimento, la legittimazione del
pubblico ministero di grado superiore non è esclusa, in quan‑
to espressamente autorizzata seconda parte del comma 1
dell’art. 570 c.p.p.
46 Cass., 5 giugno 2008, Nicastro, in CED Cass., n. 239730; Id., 16 gennaio 2008,
Catania, ivi, n. 239076.
47 Cass., sez. I, 11 gennaio 2013, n. 4083, inedita; Id., 7 marzo 2012, n. 9252,
inedita; Id., I, 21 aprile 2010, n. 16806, in CED Cass., n. 247072.
p e n al e
Gazzetta
F O R E N S E
In definitiva, dalle riferite argomentazioni non sembra che
vi siano ostacoli a ritenere che la norma cardine sia rappre‑
sentata dall’art. 666 comma 6 c.p.p. («… si osservano in
quanto applicabili le disposizioni sulle impugnazioni …») e
che con essa debba essere coordinata la disposizione di cui
all’art. 570 comma 1 ultima parte c.p.p., nel senso di inten‑
derla negli stessi termini di un rinvio a quella particolare ca‑
tegoria di regole sulle impugnazionidi generale applicabilità,
se non sussistono ragioni di incompatibilità.
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●
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I contrasti tra la corte Edu e le corti nazionali
● Vittorio Sabato Ambrosio
Avvocato
Corte cost., sent. 18 luglio 2013, n. 202
Sull’illegittimità dell’art. 5 co. 5 del d.lgs. 25 luglio 1998
n. 286
“la disposizione impugnata delimita l’ambito di applica‑
zione della tutela rafforzata, che permette di superare l’auto‑
matismo solo nei confronti dei soggetti che hanno fatto ingres‑
so nel territorio in virtù di un formale provvedimento di ricon‑
giungimento familiare, determinando così una irragionevole
disparità di trattamento rispetto a chi, pur versando nelle
condizioni sostanziali per ottenerlo, non abbia formulato
istanza in tal senso. Simile restrizione viola l’art. 3 Cost. e
reca un irragionevole pregiudizio ai rapporti familiari, che
dovrebbero ricevere una protezione privilegiata ai sensi degli
artt. 29, 30 e 31 Cost. e che la Repubblica è vincolata a soste‑
nere, anche con specifiche agevolazioni e provvidenze, in base
alle suddette previsioni costituzionali. In particolare, la tutela
della famiglia e dei minori assicurata dalla Costituzione impli‑
ca che ogni decisione sul rilascio o sul rinnovo del permesso di
soggiorno di chi abbia legami familiari in Italia debba fondar‑
si su una attenta ponderazione della pericolosità concreta e
attuale dello straniero condannato, senza che il permesso di
soggiorno possa essere negato automaticamente, in forza del
solo rilievo della subita condanna per determinati reati”.
Corte EDU, 7 aprile 2009, Cherif e altri c. Italia
La rilevanza del ricongiungimento familiare del reo per la
Corte EDU
“la CEDU non garantisce allo straniero il diritto di entra‑
re o risiedere in un determinato Paese, di tal che gli Stati
mantengono il potere di espellere gli stranieri condannati per
reati puniti con pena detentiva. Tuttavia, quando nel Paese
dove lo straniero intende soggiornare vivono i membri stret‑
ti della sua famiglia, occorre bilanciare in modo proporzio‑
nato il diritto alla vita familiare del ricorrente e dei suoi
congiunti con il bene giuridico della pubblica sicurezza e con
l’esigenza di prevenire minacce all’ordine pubblico, ex art. 8,
paragrafo 1, della CEDU”.
***
SOMMARIO: Premessa – 1. Il caso di specie sottoposto al
vaglio della Corte – 2. Il giudizio della Corte Costituzionale
sugli automatismi ostativi che limitano il ricongiungimento
familiare – 3. La posizione espressa dalla giurisprudenza
della Corte EDU – 4. Brevi considerazioni conclusive
Premessa
La sentenza della Corte costituzionale n. 202 del 18 luglio
2013, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5,
comma 5, del Testo Unico immigrazione (d.lgs. n. 286 del
1998), ci offre un ulteriore spunto di riflessione per verificare
sino a che punto sia attualmente giunta l’integrazione della
Convenzione EDU nel nostro ordinamento. La disposizione
impugnata prevede che nell’adottare il provvedimento di rifiu‑
to, revoca o diniego di rinnovo del permesso di soggiorno
«dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimen‑
to familiare, ovvero del familiare ricongiunto» si tiene conto
anche della natura e dell’effettività dei vincoli familiari dell’in‑
penale
La Corte Costituzionale
e la Corte Edu
sul ricongiungimento
familiare del reo
luglio • A G O S T O
80
D i r itto
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p r o c e du r a
teressato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo
Paese di origine, nonché della durata del suo soggiorno nel
territorio italiano. In tal modo, gli stranieri che sono presen‑
ti in Italia in virtù di un provvedimento di ricongiungimento
familiare possono godere di una tutela rafforzata, che li pone
al riparo dall’applicazione automatica di misure capaci di
compromettere la loro permanenza nel territorio, in caso di
condanna per i reati indicati dall’art. 4, comma 3, del t.u.
sull’immigrazione.
Per questi aspetti il ragionamento ermeneutico effettuato
dalla Corte si segnala per fondarsi tanto sul parametro
dell’uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in relazione anche alle
esigenze di tutela dei rapporti familiari desumibili dagli
artt. 2, 29, 30 e 31 Cost., quanto sul parametro interposto
costituito dall’art. 8 CEDU, richiamato ex art. 117
co. 1 Cost.
1. Il caso di specie sottoposto al vaglio della Corte
La questione incidentale di costituzionalità era stata sol‑
levata dal TAR Veneto, il quale si veniva adito per un giudizio
di annullamento introdotto da un cittadino non appartenen‑
te all’Unione europea avverso il decreto del Questore di Ve‑
nezia che aveva negato il rinnovo del permesso di soggiorno
per lavoro autonomo sulla base di un giudizio di pericolosità
sociale dell’istante desunto da: un pregresso provvedimento
di espulsione disposto il 15 febbraio 1992; un «deferimento»
all’autorità giudiziaria per il reato di «appropriazione indebi‑
ta», risalente all’anno 2006; e una condanna non definitiva in
materia di stupefacenti, riportata in data 22 gennaio 2010 e
relativa a fatti del 2002.
Nello specifico il ricorrente si doleva del fatto che il prov‑
vedimento di diniego del rinnovo non avesse tenuto conto del
fatto che egli aveva contratto in Italia un primo matrimonio
con una cittadina italiana (unione dalla quale era nato un
figlio in favore del quale, dopo la sentenza divorzile, grava sul
ricorrente obbligo alimentare) e un secondo matrimonio con
una cittadina straniera (unione dalla quale sono nati due figli,
entrambi minorenni alla data dell’istanza di rinnovo).
Al riguardo, occorre considerare che in via generale, ai
sensi dell’art. 5 co. 5 t.u. imm., il permesso di soggiorno o il
suo rinnovo “sono rifiutati […] quando mancano o vengono
a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso o il soggiorno nel
territorio dello Stato”. Tali requisiti sono posti dal preceden‑
te art. 4, nel cui comma 3 si stabilisce, in particolare, che “non
è ammesso in Italia lo straniero […] che sia considerato una
minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato” o
che comunque “risulti condannato, anche con sentenza non
definitiva” per una serie assai ampia di reati, tra cui quelli che
concernono gli stupefacenti.
Bisogna specificare che il quadro legislativo nazionale
offre al legislatore un’ampia discrezionalità nella regolamen‑
tazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel terri‑
torio nazionale, in considerazione della pluralità degli inte‑
ressi che tale regolazione riguarda.
In più occasioni il giudice delle leggi ha specificato che
tale discrezionalità legislativa non è assoluta, dovendo rispec‑
chiare un ragionevole e proporzionato bilanciamento di tutti
i diritti e gli interessi coinvolti, soprattutto quando la disci‑
plina dell’immigrazione sia suscettibile di incidere sui diritti
fondamentali, che la Costituzione protegge egualmente nei
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confronti del cittadino e del non cittadino (cfr. sentenze n. 172
del 2012, n. 245 del 2011, nn. 299 e 249 del 2010, n. 148 del
2008, n. 206 del 2006, n. 78 del 2005).
Di conseguenza, l’automatismo posto dall’art. 4 comma 3
alla concessione del rinnovo del permesso di soggiorno viene
censurato dal giudice rimettente in quanto non consente di
tenere in considerazione taluni parametri relativi alla tutela
della vita relazionale e familiare dello straniero, ciò che inve‑
ce è consentito da due altre norme di natura eccezionale: da
un lato lo stesso art. 5, comma 5, nella parte in cui concerne
però la sola specifica situazione dello “straniero che ha eser‑
citato il diritto al ricongiungimento familiare” e il “familiare
ricongiunto”; dall’altro l’art. 9 inerente il “permesso di sog‑
giorno CE per soggiornanti di lungo periodo”.
In questi casi, infatti, l’automatismo ostativo di cui
all’art. 4, comma 3 viene eccezionalmente temperato dalla
necessità di un’analisi in concreto – e non più presuntiva – del‑
la pericolosità dello straniero, nonché dall’indagine circa i
legami familiari dallo stesso formati e intrattenuti nel territo‑
rio dello Stato operando un vero e proprio bilanciamento tra
diverse esigenze concorrenti (“si tiene anche conto della na‑
tura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e
dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese
d’origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio
nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo
territorio nazionale” – art. 5, comma 5; “si tiene conto anche
dell’età dell’interessato, della durata del soggiorno sul terri‑
torio nazionale, delle conseguenze dell’espulsione per l’inte‑
ressato e i suoi familiari, dell’esistenza di legami familiari e
sociali nel territorio nazionale e dell’assenza di tali vincoli
con il Paese di origine” – art. 9, comma 11).
2. Il giudizio della Corte Costituzionale sugli automatismi ostativi
che limitano il ricongiungimento familiare
La Corte, limitando per ragioni di rilevanza il giudizio a
quanto previsto dall’art. 5, comma 5, e preliminarmente di‑
sattendendo le argomentazioni della difesa erariale la quale
sosteneva l’applicabilità al caso de quo di altra e più favore‑
vole norma, ritiene fondate le censure di incostituzionalità
sulla base di tutti i parametri (‘interni’ e ‘internazionali’) so‑
pracitati.
In particolare la Corte censura la norma impugnata nella
parte in cui fa dipendere l’esito del bilanciamento tra le esi‑
genze di sicurezza, ordine pubblico e controllo delle frontiere,
da un lato, ed il rispetto e la tutela della vita familiare, dall’al‑
tro, dalla mera circostanza dell’esercizio da parte dell’interes‑
sato del diritto a richiedere il ricongiungimento familiare, a
prescindere dalla concreta sussistenza dei requisiti che legit‑
timerebbero l’accoglimento di tale istanza.
Tale assetto normativo, pure inquadrato nell’ampia di‑
screzionalità della quale gode il legislatore nel momento in cui
opera delle limitazioni – anche di carattere presuntivo – alla
regolamentazione dell’ingresso sul territorio nazionale, con‑
fligge da un lato con l’art. 3 della Costituzione, in quanto
tratta diversamente situazioni eguali sul piano sostanziale, le
quali differiscano solo per l’avvenuto esercizio di un diritto
potestativo da parte dell’interessato, dall’altro lato con le
norme costituzionali che tutelano i rapporti familiari dell’in‑
dividuo, recando “un irragionevole pregiudizio ai rapporti
familiari, che dovrebbero ricevere una protezione privilegia‑
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ta ai sensi degli artt. 29, 30 e 31 Cost. e che la Repubblica è
vincolata a sostenere, anche con specifiche agevolazioni e
provvidenze, in base alle suddette previsioni costituzionali.
In particolare, la tutela della famiglia e dei minori assicurata
dalla Costituzione implica che ogni decisione sul rilascio o
sul rinnovo del permesso di soggiorno di chi abbia legami
familiari in Italia debba fondarsi su una attenta ponderazio‑
ne della pericolosità concreta e attuale dello straniero con‑
dannato, senza che il permesso di soggiorno possa essere
negato automaticamente, in forza del solo rilievo della subi‑
ta condanna per determinati reati. Nell’ambito delle relazio‑
ni interpersonali, infatti, ogni decisione che colpisce uno dei
soggetti finisce per ripercuotersi anche sugli altri componen‑
ti della famiglia e il distacco dal nucleo familiare, specie in
presenza di figli minori, è decisione troppo grave perché sia
rimessa in forma generalizzata e automatica a presunzioni di
pericolosità assolute, stabilite con legge, e ad automatismi
procedurali, senza lasciare spazio ad un circostanziato esame
della situazione particolare dello straniero interessato e dei
suoi familiari.”
rente; la durata del soggiorno dell’interessato; il lasso di
tempo trascorso dalla commissione del reato e la condotta
del ricorrente durante tale periodo; la nazionalità delle diver‑
se persone interessate; la situazione familiare del ricorrente,
e segnatamente, all’occorrenza, la durata del suo matrimonio
ed altri fattori che testimonino l’effettività di una vita fami‑
liare in seno alla coppia; la circostanza che il coniuge fosse a
conoscenza del reato all’epoca della creazione della relazione
familiare; il fatto che dal matrimonio siano nati dei figli e la
loro età; le difficoltà che il coniuge o i figli rischiano di tro‑
varsi ad affrontare in caso di espulsione; l’interesse e il benes‑
sere dei figli; la solidità dei legami sociali, culturali e familia‑
ri con il paese ospite”.
All’esito di tali argomentazioni, la Corte dichiara l’illegit‑
timità costituzionale dell’art. 5, comma 5, del t.u. imm.,
“nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in
esso stabilita si applichi solo allo straniero che «ha esercitato
il diritto al ricongiungimento familiare» o al «familiare ricon‑
giunto», e non anche allo straniero «che abbia legami fami‑
liari nel territorio dello Stato»”.
3. La posizione espressa dalla giurisprudenza della Corte EDU
In siffatto contesto la Corte specifica che tale esito con‑
fligge con l’art. 8 CEDU, “come applicato dalla Corte euro‑
pea dei diritti dell’uomo” (la Corte cita in particolare la
sentenza 7 aprile 2009, Cherif e altri c. Italia). Infatti, sotto‑
linea che tale norma convenzionale “esprim[a] un livello di
tutela dei rapporti familiari equivalente, per quanto rileva nel
caso in esame, alla protezione accordata alla famiglia nel
nostro ordinamento costituzionale”, così come desumibile
dagli artt. 2, 29, 30 e 31 e consenta pertanto di giungere alle
medesime conclusioni circa la necessità del sopraccennato
bilanciamento: “quando nel Paese dove lo straniero intende
soggiornare vivono i membri stretti della sua famiglia, occor‑
re bilanciare in modo proporzionato il diritto alla vita fami‑
liare del ricorrente e dei suoi congiunti con il bene giuridico
della pubblica sicurezza e con l’esigenza di prevenire minacce
all’ordine pubblico” (così par. 5 in diritto), operando tale
valutazione per mezzo dei diversificati parametri fattuali
elaborati dalla giurisprudenza della Corte EDU, “quali, ad
esempio, la natura e la gravità del reato commesso dal ricor‑
4. Brevi considerazioni conclusive
La sentenza in esame costituisce un ulteriore esempio, in
conclusione, del circolo virtuoso innescato dalla clausola di
apertura dell’ordinamento nazionale alle fonti di diritto inter‑
nazionale rappresentata dall’art. 117 co. 1 Cost. In questo
caso la Corte incamera i principi legislativi e giurisprudenzia‑
li della Convenzione EDU senza effettuare quel “margine di
apprezzamento” che in molti casi gli ha fornito un comodo
escamotage per sviare i dicta della Corte di Strasburgo. Infat‑
ti, almeno in questo caso, la tutela di cui all’art. 8 CEDU è
equivalente a quella desumibile nel nostro ordinamento costi‑
tuzionale dagli artt. 2, 29, 30 e 31 Cost.
Il valore aggiunto del richiamo alla norma convenziona‑
le quale parametro interposto di costituzionalità sta – ovvia‑
mente – nel contestuale richiamo a una giurisprudenza che
declina in concreto non soltanto l’an della tutela, ma soprat‑
tutto il “come” e il “quanto” di tale tutela, fornendo così un
ampio bacino casistico di certo utile al giudice nazionale che
si trovi a declinare in concreto i livelli di tutela previsti per i
legami familiari dello straniero.
penale
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CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza
10 giugno 2013 (ud. 31 gennaio 2013), n. 25401
I contrasti risolti
dalle Sezioni unite penali
●
e
A cura di Angelo Pignatelli
Avvocato
Il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti rientra nella sfera
dell’illecito amministrativo
Anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 49 del
2006 agli artt. 73 e 75 d.P.R. n. 309 del 1990, non sono
punibili penalmente, e rientrano pertanto nella sfera dell’ille‑
cito amministrativo, l’acquisto e la detenzione di sostanze
stupefacenti destinate all’uso personale che avvengano sin
dall’inizio anche per conto di soggetti diversi dall’agente,
quando sia certa l’identità dei medesimi, nonché manifesta la
loro volontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio
consumo, sempre che l’acquirente sia uno degli assuntori e
che l’acquisto avvenga sin dall’inizio per conto degli altri
componenti il gruppo, al cui uso personale la sostanza è de‑
stinata, i quali abbiano in un qualunque modo manifestato la
volontà sia di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei
compartecipi sia di concorrere coi mezzi finanziari occorren‑
ti all’acquisto.
***
La questione di diritto devoluta alle Sezioni unite può
essere riassunta nei seguenti termini: «se, a seguito della no‑
vella introdotta dalla l. n. 49 del 2006, il consumo di gruppo
di sostanze stupefacenti, nella duplice ipotesi di mandato
all’acquisto o dell’acquisto comune, sia o meno penalmente
rilevante».
Il contrasto giurisprudenziale nasce dalle modifiche appor‑
tate dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49 al t.u. sugli stupefacen‑
ti di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ed in particolare, agli
artt. 73 e 75 secondo le quali l’acquisto e la detenzione di so‑
stanze stupefacenti integrano un illecito amministrativo solo
quando le stesse appaiono destinate ad un uso esclusivamente
personale.
Un primo indirizzo, più rigoroso, ritiene che il nuovo testo
legislativo ha ora reso penalmente rilevante il c.d. consumo di
gruppo, sia nell’ipotesi del mandato all’acquisto sia nell’ipote‑
si dell’acquisto in comune. Ciò perché sono mutate sia la
struttura normativa della disposizione (in quanto ora l’ambito
della non punibilità penale non è indicato dall’art. 75, ma si
desume dal combinato disposto dell’art. 73, comma 1 bis, e
art. 75), sia la struttura semantica della frase, in quanto
nell’art. 73, comma 1 bis, è stato introdotto l’avverbio “esclu‑
sivamente” che non esisteva nel previgente art. 75. Tale con‑
clusione si fonda sulla considerazione che il legislatore ha in‑
teso reprimere in modo più severo ogni attività connessa alla
circolazione, vendita e consumo di sostanze stupefacenti,
tanto che ha equiparato ogni tipo di sostanza. Quindi l’uso di
gruppo non potrebbe più farsi rientrare nell’ipotesi di consumo
esclusiva‑ mente personale in quanto presuppone, per assioma,
l’acquisto di un quantitativo di stupefacente che, per quantità
o per modalità di presentazione, appare necessariamente de‑
stinato ad un uso non esclusivamente personale. (sez. IV, 9
ottobre 2012, n. 4560/2013, inedita; sez. III, 20 aprile 2011,
n. 35706, in questa Rivista, con commento di Tombesi; sez.
III, 13 gennaio 2011 n. 7971, in Cass. pen., 2011, 4003, con
commento di D’Ippolito; sez. II, 6 maggio 2009 n. 23574, in
C.e.d. Cass., n. 244859).
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Un secondo orientamento, ha invece sostenuto la perdu‑
rante validità, anche dopo le modifiche recate dalla l. n. 49
del 2006, della precedente consolidata interpretazione ed ha
riaffermato il principio che il consumo di gruppo di sostanze
stupefacenti conseguente al mandato all’acquisto collettivo ad
uno degli assuntori e nella certezza originaria dell’identità
degli altri non è punibile ai sensi del d.P.R. 9 ottobre 1990,
n. 309, art. 73, comma 1 bis, lett. a), (sez. 6, 26 gennaio 2011,
n. 8366, D’Agostino, Rv. 249000; cfr. sez. III, 11 dicembre
2012, n. 224/2013, inedita; sez. VI, 27 febbraio 2012,
n. 17396, in C.e.d. Cass., n. 252499; sez. VI, 12 gennaio 2012,
n. 3513, ivi, n. 251579; sez. VI, 27 aprile 2011, n. 21375, ivi,
n. 250064).
In particolare, questo indirizzo sottolinea innanzitutto la
non decisività del criterio che si fonda sulla ratio della modi‑
fica legislativa, dal momento che l’esame dei lavori prepara‑
tori non consente di chiarire univocamente il contesto che ne
ha connotato l’approvazione, emergendo dagli interventi dei
parlamentari due antipodiche interpretazioni sul valore e la
portata delle modifiche normative in discussione.
In secondo luogo, affermano i Giudici Ermellini, che la
modifica della struttura normativa delle ipotesi di non puni‑
bilità e l’introduzione dell’avverbio “esclusivamente” non
possono avere portata innovativa della fattispecie penale e
non sono idonee a far ritenere superato il diritto vivente.
Nella novella, infatti, l’avverbio è stato usato due volte
(art. 73, comma 1 bis: “destinate ad un uso non esclusivamen‑
te personale”; e art. 75: richiesta dell’interessato di visione o
copia degli atti “che riguardino esclusivamente la sua perso‑
na”) ed è evidente che in entrambi i casi tale avverbio, di
modo o qualità, è stato usato con funzione e finalità afferma‑
tiva rafforzativa e non già innovativa. Per paralizzare la
consolidata interpretazione sull’uso di gruppo non era suffi‑
ciente l’inserzione dell’avverbio, ma era invece essenziale una
esplicita e non equivoca indicazione, tanto più necessaria te‑
nuto conto dell’esito del referendum abrogativo del 1993 e
tenuto altresì conto che l’espressione “non esclusivamente
personale” ha il medesimo intercambiabile significato di
“tassativamente personale”, risolvendosi così in una aggiunta
ridondante, superflua e pleonastica. Inoltre, l’utilizzo della
forma indeterminativa “un uso esclusivamente personale”
consente “inquadramenti nell’area di rilevanza meramente
amministrativa delle condotte finalizzate all’uso esclusiva‑
mente personale (anche) di persone diverse”.
Si verserebbe quindi in un “deficit di determinatezza e di
sicurezza ermeneutica” con violazione del principio costitu‑
zionale di precisione, dal momento che se davvero la finalità
fosse stata quella di sanzionare l’uso di gruppo, in entrambe
le variabili, essa è stata male espressa, con la conseguenza che,
a fronte di un dubbio interpretativo, deve prevalere l’opzione
più favorevole al reo.
In altre parole, argomenta la Suprema Corte, l’aggiunta
dell’avverbio “esclusivamente” non fa venir meno la validità
di questa ricostruzione, poiché anche il consumo di gruppo,
così inteso, è una forma di consumo “esclusivamente perso‑
nale”. L’avverbio ha pertanto il solo significato di confermare
che hanno rilevanza penale le altre condotte di consumo di
gruppo in cui più persone, in assenza di un preventivo man‑
dato, decidano di consumare droga detenuta da uno di loro,
in quanto in tale ipotesi il cedente è originariamente in posi‑
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zione di estraneità rispetto agli altri assuntori e, quindi, non
si concretizza un “uso esclusivamente personale”.(a conferma
del citato orientamento si vedano anche sez. 6, 27 febbraio
2012, n. 17396, Bove, Rv. 252499; sez. 6, 12 gennaio 2012,
n. 3513, Santini, Rv. 251579; sez. 6, 27 aprile 2011, n. 21375,
Masucci, Rv. 250064).
Ritengono le Sezioni unite che fra i due contrapposti
orientamenti debba senz’altro preferirsi il secondo, che sostie‑
ne che il c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia
nel caso di acquisto in comune sia in quello del mandato
all’acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nell’originaria
conoscenza dell’identità degli altri, continua a costituire,
anche dopo le modifiche apportate dalla l. 21 febbraio 2006,
n. 49, una ipotesi di uso esclusivamente personale dei parte‑
cipanti al gruppo, e quindi integra l’illecito amministrativo di
cui all’art. 75, e non già il reato di cui all’art. 73, comma 1
bis. Non può infatti ritenersi che tali modifiche, ed in parti‑
colare, per quanto qui interessa, l’equivoca e non risolutiva
aggiunta dell’avverbio “esclusivamente”, possano essere inte‑
se nel senso che abbiano addirittura introdotto una nuova
fattispecie incriminatrice punendo un fatto in precedenza
pacificamente integrante, secondo il diritto vivente, un illeci‑
to amministrativo o abbiano comunque determinato la neces‑
sità del superamento della univoca e consolidata giurispru‑
denza.
L’argomento principale su cui si basa l’orientamento re‑
strittivo resta dunque quello letterale, secondo il quale la lo‑
cuzione “uso non esclusivamente personale”, al posto della
precedente dizione di “uso personale”, dovrebbe essere inter‑
pretata nel senso che le ipotesi scriminate penalmente si ridu‑
cano ora ai soli casi in cui la sostanza detenuta possa ritener‑
si destinata all’uso esclusivo, ossia individuale, dell’autore
della condotta.
In altre parole, secondo l’indirizzo più restrittivo, all’ag‑
giunta dell’avverbio “esclusivamente” dovrebbe attribuirsi
l’inequivoco significato di far considerare l’aggettivo “perso‑
nale” come sinonimo di “individuale” e quindi di restringere
i confini del penalmente irrilevante.
L’argomento, secondo il Supremo Consesso, non è però
convincente perché non può ritenersi che questi semplici ri‑
tocchi testuali, e in particolare la sola aggiunta dell’avverbio
“esclusivamente” per caratterizzare la nozione di uso perso‑
nale, siano sufficienti per determinare un allargamento
dell’area delle condotte penalmente rilevanti con la previsione
di una nuova ipotesi di reato e, comunque, per fare venir
meno il presupposto su cui si fondava il diritto vivente, ossia
che nell’acquisto finalizzato all’uso di gruppo non si verifica
alcun tipo di cessione a terzi, ma una mera divisione interna
(di cui la consegna non è altro che una fase esecutiva), che
consente a ciascuno di venire in possesso del solo quantitativo
di reciproca pertinenza fin dall’inizio e già da quel momento
destinato al rispettivo uso personale.
Deve quindi convenirsi con l’osservazione che l’aggiunta
dell’avverbio “esclusivamente” non ha affatto, di per sé, un
significato particolarmente pregnante sotto il profilo seman‑
tico, ma ha, al contrario, un significato quanto meno non
univoco, ben potendo il termine essere inteso in una accezio‑
ne che permette di continuare a ricomprendervi la codeten‑
zione per uso di gruppo.
Non può invero ritenersi che l’espressione “uso persona‑
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le” avrebbe un significato completamente differente da
quella di “uso esclusivamente personale”, e in particolare che
la semplice aggiunta di questo avverbio comporterebbe che
per “uso personale” dovrebbe ora intendersi una cosa diver‑
sa, e precisamente un “uso individuale”. In realtà, l’avverbio
oggettivamente ha un significato rafforzativo e pleonastico,
e comunque non è idoneo a mutare addirittura il significato
assunto in quel contesto dall’aggettivo cui accede. Nel pre‑
cedente testo della disposizione con l’espressione “uso perso‑
nale” si sono escluse dall’ambito penale e ricomprese in
quello amministrativo le ipotesi in cui lo stupefacente non è
destinato, nemmeno in parte, alla cessione a terzi, ma è fina‑
lizzato per intero al consumo personale. Nel caso di uso di
gruppo, secondo il diritto vivente, non è ravvisabile in realtà
una cessione a terzi, neppure parziale, e pertanto non sussiste
il reato. L’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente”, allora,
sembra avere avuto l’oggettivo significato di sottolineare che
per escludere il reato è necessario che la droga sia destinata
totalmente, per intero, ossia appunto “esclusivamente”,
all’uso personale e neppure in parte alla cessione a soggetti
terzi estranei all’acquisto ed alla detenzione. L’avverbio, però,
non ha modificato il significato e l’ambito dell’espressione
“cessione a terzi” e pertanto non è univocamente idoneo a
modificare l’area di ciò che non è cessione ma “uso persona‑
le” secondo la giurisprudenza unanime, e cioè a fare entrare
nell’area della cessione a terzi, sottraendola da quella dell’uso
personale, una fattispecie che, per il diritto vivente, non è
qualificabile come cessione a terzi, bensì, stante l’omogenei‑
tà ideologica delle condotte, come una specie del genere “uso
personale”, e precisamente un “uso personale di gruppo”.
È dunque condivisibile il rilievo che, qualora il legislato‑
re del 2006 avesse davvero voluto in modo non equivoco
punire penalmente condotte fino ad allora non rientranti
nelle ipotesi di “cessione” a terzi dello stupefacente, avrebbe
dovuto introdurre la nuova fattispecie di reato in termini
espliciti, chiari, univoci, eventualmente modificando l’ambi‑
to della nozione di “cessione”, e non limitarsi invece all’ag‑
giunta di un avverbio non idoneo a mutare il significato
proprio che nella disposizione aveva ed ha, di per sè, l’agget‑
tivo “personale”. L’avverbio, dunque, non connota diversa‑
mente l’uso personale nel senso di riferirlo ora al solo sog‑
getto che detiene la sostanza stupefacente, ma ha il signifi‑
cato di evidenziare che la non punibilità riguarda solo i casi
in cui la sostanza non è destinata a terzi ma all’utilizzo per‑
sonale degli appartenenti al gruppo che la codetengono (sez.
6, 12 gennaio 2012, n. 3513, Santini, Rv. 251579).
Ciò, del resto, sembra implicitamente ammesso anche
dalla tesi secondo cui l’uso di gruppo sarebbe ora punibile
perché l’espressione “uso non esclusivamente personale”
dovrebbe intendersi nel senso di “uso non individuale”. Con
ciò, invero, si finisce per riconoscere, appunto, che se si fos‑
se voluto introdurre una nuova fattispecie di reato si sarebbe
dovuta mutare la disposizione in modo inequivoco, eventual‑
mente sostituendo quanto meno il termine “personale”, e non
invece riprodurre il medesimo aggettivo aggiungendovi un
avverbio rafforzativo, non idoneo a mutarne il significato che
pacificamente aveva in quel contesto. Nemmeno può condi‑
vidersi la tesi secondo cui con l’aggiunta dell’avverbio il ter‑
mine “uso personale” andrebbe ora inteso come equipollen‑
te di “uso individuale”, perché con una tale interpretazione
p e n al e
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si verrebbe in sostanza ad estendere l’ambito di applicazione
di una fattispecie penale ad ipotesi che in essa non erano
prima comprese, in contrasto con i principi di tassatività e di
legalità e con il divieto di analogia in malam partem.
D’altra parte, e sotto altro profilo, è stato esattamente
osservato che il nuovo avverbio è inserito in una struttura
ellittica ed oggettiva, che non connota soggettivamente l’uso
da parte del detentore bensì oggettivamente la condotta de‑
tentiva, sicché, se si considera l’intera locuzione, ben può
ritenersi che esistano casi di detenzione per uso non esclusi‑
vamente personale sia individuale, sia anche di persone di‑
verse. In altre parole, poiché la disposizione non parla di uso
individuale e non limita la caratteristica denotativa della
condotta detentiva all’autore singolo, il sintagma “uso non
esclusivamente personale” non è concettualmente incompa‑
tibile con il consumo di gruppo, anche nella forma specifica
del mandato ad acquistare. La locuzione può pertanto essere
legittimamente riferita all’uso collettivo che risulti esclusiva‑
mente personale, ossia anche alle ipotesi in cui la droga de‑
tenuta da una singola persona sia destinata ad un uso “esclu‑
sivamente personale in comune” da parte di tutti i compo‑
nenti del gruppo per conto e su mandato dei quali è stata
acquistata.
Ne deriva, conclusivamente, che le modifiche portate
dalla Legge di conversione n. 49 del 2006, al testo del d.P.R.
n. 309 del 1990, artt. 73 e 75, secondo i Supremi Giudici,
non abbiano inciso sulla correttezza e validità dei principi
affermati dalle Sezioni unite con la sentenza n. 4 del 1997,
Iacolare, in relazione al c.d. consumo di gruppo di sostanze
stupefacenti, in quanto non hanno né introdotto una nuova
norma penale incriminatrice di questa ipotesi né determina‑
to una restrizione, rispetto a quella previgente, dell’area dei
comportamenti rientranti nell’”uso personale”, trasferendo
nell’area dell’illecito penale le condotte qualificate come fi‑
nalizzate al consumo personale dei componenti il gruppo.
La massima enucleabile dalla pronunzia a Sezioni unite
può sintetizzarsi nel seguente principio giuridico «Anche
dopo le modifiche apportate dalla legge n. 49 del 2006 agli
artt. 73 e 75 d.P.R. n. 309 del 1990, non sono punibili pe‑
nalmente, e rientrano pertanto nella sfera dell’illecito ammi‑
nistrativo, l’acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti
destinate all’uso personale che avvengano sin dall’inizio an‑
che per conto di soggetti diversi dall’agente, quando sia
certa l’identità dei medesimi, nonché manifesta la loro vo‑
lontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo,
sempre che l’acquirente sia uno degli assuntori e che l’acqui‑
sto avvenga sin dall’inizio per conto degli altri componenti il
gruppo, al cui uso personale la sostanza è destinata, i quali
abbiano in un qualunque modo manifestato la volontà sia di
procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi sia
di concorrere coi mezzi finanziari occorrenti all’acquisto».
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza
21 giugno 2013, (ud. 28 febbraio 2013), n. 27343
L’incompetenza per connessione
La operatività dell’incompetenza determinata da connes‑
sione non è subordinata alla pendenza dei procedimenti
connessi nello stesso stato e grado, essendo quello della com‑
luglio • A G O S T O
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petenza per connessione criterio originario ed autonomo di
attribuzione della competenza.
***
La questione di diritto controversa sottoposta al vaglio
delle Sezioni unite è così riassumibile: «Se, nel caso in cui
venga dedotta l’incompetenza per territorio determinata da
connessione a norma dell’art. 16 c.p.p., la sussistenza della
connessione quale criterio attributivo della competenza ope‑
ri soltanto se i procedimenti connessi pendono nello stesso
stato e grado».
In sintesi, le Sezioni unite sono chiamate a stabilire se la
competenza per connessione di cui agli artt. 15 e 16 c.p.p. sia
o meno subordinata alla pendenza dei procedimenti connessi
nello stesso stato e grado del procedimento.
Secondo un primo indirizzo interpretativo definibile come
maggioritario, la connessione tra procedimenti determina la
competenza solo se i procedimenti si trovino nella medesima
fase processuale: così si è stabilito (sez. 1, 10 giugno 2010,
n. 26857, Piras, Rv. 247728) che non vi potesse essere sposta‑
mento per competenza in relazione a fatti connessi, alcuni
giudicati con sentenza in corte di assise ed altri con rito ab‑
breviato. Condividono, l’indirizzo maggioritario le seguenti
ulteriori decisioni con le quali si è escluso lo spostamento di
un procedimento per effetto di connessione nella ipotesi di
pendenza di un procedimento in fase dibattimentale ed altro
in quella di indagini preliminari, “dovendosi applicare il
principio della operatività delle norme sulla competenza per
connessione soltanto tra procedimenti pendenti nella medesi‑
ma fase processuale” (sez. 1, 14 maggio 2009, n. 24072,
Macaluso, Rv. 244027). Vedi inoltre sez. 2, 21 aprile 2006,
n. 19579 Foraboschi, Rv. 234194, che ha sottolineato che la
parte che solleva l’eccezione di incompetenza per territorio
determinata dalla connessione ha l’onere di provare sia la
pendenza attuale dell’altro procedimento nella medesima fase,
sia la connessione qualificata ai sensi delle lettere b) e c)
dell’art. 12 c.p.p.; sez. 1, 08 aprile 2004, n. 19003, Darocz,
Rv. 227947, che, dopo avere stabilito che lo spostamento
della competenza per territorio è subordinato alla pendenza
dei procedimenti nella stessa fase processuale, ha, comunque,
sottolineato che si tratta di un criterio originale ed autonomo
di attribuzione della competenza ed ha precisato che gli epi‑
sodi uniti dal vincolo della continuazione debbono riguarda‑
re lo stesso imputato; sez. 6, 19 maggio 1999, n. 8656 Fracas‑
so, Rv. 214685; sez. 1, 29 gennaio 1998,n. 2794 Presti, Rv.
210004; sez. 1, 11 dicembre 1997, n. 6966 dep. 1998, Sidoti,
Rv. 209895; sez. 1, 02 dicembre 1997, n. 6780. Maida, Rv.
209374, che ha precisato che la pendenza nella stessa fase è
rilevante nel conflitto di competenza, ma non in quello di
giurisdizione; sez. 1, 26 ottobre 1995, n. 5360 Ranzato, Rv.
203041, che ha sottolineato la necessità che i due procedimen‑
ti connessi siano pendenti; sez. 1, 11 ottobre 1994, n. 4444
Polverino, Rv. 199663.
Secondo un indirizzo minoritario, che però è condiviso
dalla dottrina, invece, lo spostamento del procedimento pe‑
nale per competenza per connessione tra reati opera indipen‑
dentemente dalla pendenza dei relativi procedimenti nello
stesso stato e grado; ciò sia perché il vincolo tra reati indivi‑
duato dalla legge costituisce criterio originario ed autonomo
2 0 1 3
85
di attribuzione della competenza, sia perché le norme – artt. 15
e 16 c.p.p. – non richiedono la pendenza dei procedimento
nello stesso stato e grado (così sez. 1, 12 giugno 1997, n. 4125,
Di Biase, Rv. 208339, che ha tuttavia precisato che il principio
non trova applicazione allorquando il procedimento per il
reato più grave, che esercita la vis attractiva sia stato definito
con sentenza passata in giudicato, essendo necessaria le pen‑
denza, o la possibile pendenza, dei due procedimenti; sez. 1,
30 aprile 1996, n. 6754 Biasoli, Rv.205179, secondo cui una
volta radicata la competenza risultano irrilevanti le successive
evenienze processuali, quali ad esempio la separazione della
posizione del coimputato accusato dei reati che avevano de‑
terminato anche per gli altri coimputati la competenza per
connessione, per il principio della perpetuano iurisdictionis;
sez. 1, 08 luglio 1992, n. 3312 Maltese, Rv. 191755, che ha
chiarito, tra l’altro, che la eventuale archiviazione di uno dei
procedimenti vale a sciogliere il vincolo di connessione per
l’altro reato o imputato, mentre nel caso di intervenuta con‑
danna per uno soltanto dei reati e degli imputati il predetto
vincolo permane).
Le Sezioni unite hanno aderito all’indirizzo giurispruden‑
ziale minoritario, a favore del quale depongono sia una cor‑
retta interpretazione letterale delle norme attualmente vigen‑
ti in materia di competenza per connessione, che quella logi‑
ca – sistematica dell’istituto in considerazione della evoluzio‑
ne legislativa, nonché la stessa volontà del legislatore desunta
anche dai lavori parlamentari e dalla Relazione al codice di
procedura penale.
Conferma l’indirizzo minoritario anche l’evoluzione legi‑
slativa in materia di connessione.
Il codice Rocco prevedeva all’art. 45 numerosi casi di
connessione e disciplinava gli “Effetti della connessione sulla
competenza per territorio” (così la rubrica dell’art. 47 c,p,p,.
previgente) come deroghe ai principi generali dettati in via
principale in tema di attribuzione di competenza, stabilendo
che “la competenza per i procedimenti connessi rispetto ai
quali più giudici sono egualmente competenti per materia
appartiene a quello tra essi nella circoscrizione del quale fu
commesso il reato più grave o in caso di pari gravità il maggior
numero di reati”.
In effetti dai lavori preparatori al codice del 1930, secon‑
do il Supremo Consesso, emerge la consapevolezza che “la
competenza per connessione in realtà non fosse che una mo‑
dificazione della competenza per materia e per territorio” e
che si trattasse di uno strumento finalizzato a consentire “la
trattazione contemporanea dei processi connessi ad opera di
un unico organo” (così sez. 1, 31 gennaio1968, n. 171 Glielmi,
Rv. 108092, ed autorevole dottrina).
A sua volta, l’innovazione introdotta con il codice del 1988
consiste proprio nella definizione della connessione come
criterio originario di individuazione del giudice competente
al pari della competenza per materia e per territorio e non
come criterio di modificazione della competenza, come era
nel codice previgente; tale innovazione fu determinata dalla
volontà di escludere ogni discrezionalità nella determinazione
del giudice competente e, quindi, di rispettare nella misura
massima possibile il principio del giudice precostituito per
legge.
Negli anni successivi, con la novella sul “giusto processo”
ex art. 1, comma 1, della legge 1 marzo 2001, n. 63, si è
penale
Gazzetta
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D i r itto
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provveduto ad abrogare le ipotesi di connessione di reati
“commessi in occasione di altri ovvero per conseguirne o
assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il pro‑
dotto o l’impunità”; e in tal modo l’art. 12 cod. proc. pen. è
ritornato quasi alla formulazione originaria con l’unica mo‑
difica concernente le ipotesi di connessione dei reati esecutivi
di un unico disegno criminoso.
Secondo una interpretazione logico‑sistematica dell’isti‑
tuto della competenza per connessione di cui agli artt. 15 e
16 c.p.p. quella giurisprudenza maggioritaria in tema di com‑
petenza per connessione che richiede la condizione della
pendenza dei procedimenti nello stesso stato e grado finisce
per sovrapporre ingiustificatamente i due istituti della com‑
petenza per connessione e della riunione dei processi.
Come ha efficacemente affermato la Corte costituzionale
(Corte cost., ord. n. 247 del 1998) quello previsto dagli
artt. 15 e 16 c.p.p.. “è strumento attributivo in via originaria
della competenza, operante nelle ipotesi tassativamente de‑
scritte dall’art. 12 c.p.p., mentre l’istituto della riunione pre‑
visto nei casi indicati dall’art. 17 c.p.p. (tra cui rientrano le
ipotesi di connessione, nonché quelle dei reati commessi da
più persone in danno reciproco le une delle altre e del colle‑
gamento probatorio tra i vari reati), è invece destinato ad
operare solo quando i processi sono già pendenti davanti allo
stesso giudice, essendo criterio di mera organizzazione del
lavoro giudiziario, subordinato alla condizione che la cele‑
brazione cumulativa dei processi non ne pregiudichi la rapida
definizione”.
Quindi la riunione è rimessa alla valutazione discrezio‑
nale del giudice – la norma usa il verbo ‘può’ – ed attiene
alla distribuzione interna dei processi ed all’economia dei
giudizi (sez. 5, 09 giugno2005, n. 26064Colonna, Rv.
231915); può avere ad oggetto solo i processi e non anche i
procedimenti (sez. 6, 04 agosto 1992, n. 3011 Viola, Rv.
191953); e, come risulta evidente dalle espressioni letterali
usate nelle due norme in esame, presuppone che i processi
siano pendenti nello stesso stato e grado dinanzi al medesimo
giudice e che non pregiudichi le esigenze di celerità nella
definizione dei giudizi.
Si tratta di requisiti e presupposti del tutto diversi rispetto
alla competenza per connessione; quest’ultima, quindi, opera
su un piano nettamente distinto rispetto alla riunione; ciò
significa che la praticabilità o meno di quest’ultima non con‑
diziona l’operatività della connessione, mentre non è per lo
più vero il contrario, posto che per l’art. 17 c.p.p. la riunione,
salva l’ipotesi di cui alla lettera e), è possibile nei casi di con‑
nessione ed in presenza delle altre condizioni dinanzi richia‑
mate.
Secondo, poi, una interpretazione letterale, l’indirizzo
minoritario, secondo i Giudici Ermellini, oltre a trovare il
conforto di una interpretazione logico‑sistematica dell’istitu‑
to della competenza per connessione, appare corretto non
solo perché evita la sovrapposizione con il diverso istituto
della riunione, che ha disciplina e finalità del tutto diverse,
ma anche perché è pienamente conforme alla lettera della
legge.
Invero, osservano sotto questo profilo, i Giudici Spremi
che nell’art. 16 c.p.p. manca, qualsiasi riferimento alla neces‑
sità della pendenza dei procedimenti nello stesso stato e grado
e tale omissione, come si desume dalla Relazione al codice, è
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Gazzetta
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stata voluta dal legislatore e non è affatto casuale perché con
essa si mirava a ridurre gli spazi di discrezionalità del giudice
nella individua‑ zione del giudice competente ed a sganciare
l’istituto della competenza per connessione da quello della
riunione proprio per evitare che la vantazione di opportunità
che contraddistingue gli istituti della riunione e separazione
dei processi potesse incidere sulla individuazione del giudice
competente, mate‑ ria di rilevanza costituzionale.
Secondo i Giudici delle Sezioni unite, la interpretazione
prospettata non contravviene, al principio costituzionale di
cui all’art. 25 della Costituzione del giudice naturale preco‑
stituito per legge. “Nessuno può essere distolto dal giudice
naturale precostituito per legge” recita il primo comma del
citato art. 25 Cost.; ciò significa che il giudice competente a
celebrare il processo deve essere preventivamente individuato
secondo criteri generali ed astratti e non fissati in vista di
singole controversie (Corte cost., sent. n. 207 del 1987).
Questo e non altro può significare il termine ‘precostitu‑
ito’; più precisamente il giudice deve essere individuabile
prima che si verifichi il fatto storico che generi il processo.
Ma, secondo alcuni e anche secondo l’orientamento
espresso da alcune pronunce del giudice delle leggi espressa‑
mente richiamate nella ordinanza di rimessione, il concetto
di giudice naturale non si risolve in quello di giudice precosti‑
tuito per legge, nel senso che il predicato della naturalità as‑
sumerebbe nel processo penale un carattere del tutto partico‑
lare in ragione della fisiologica allocazione di quel processo
nel locus commissi delicti; costituisce, infatti, principio tra‑
dizionale quello che il diritto e la giustizia devono riaffermar‑
si proprio nel luogo ove sono stati violati (vedi Corte cost.,
sent. n. 168 del 2006); ciò potrebbe, secondo alcuni, compor‑
tare problemi in ordine alla legittimità delle norme in materia
di connessione.
Per il vero, sottolineano i Giudici, accanto alla richiamata
decisione n. 168 del 2006, che aveva, comunque, dichiarato
non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 45, comma primo, c.p.p. sollevata in riferimento agli
artt. 3, 24, comma secondo, e 111, comma secondo, Cost., ve
ne sono altre più recenti che affermano che “il principio del
giudice naturale deve ritenersi osservato quando l’organo
giudicante sia stato istituito dalla legge sulla base di criteri
generali fissati in anticipo e non in vista di singole controver‑
sie (sent. n. 30 del 2011) e la competenza venga determinata
attraverso atti di soggetti ai quali sia attribuito il relativo
potere, nel rispetto della riserva di legge esistente in tale ma‑
teria (ordd. nn. 417 e 112 del 2002)” (così Corte cost., sent.
n. 117 del 2012).
In effetti con il precetto costituzionale dell’art. 25 si è
voluto garantire che la individuazione della competenza degli
organi giudiziari, al fine di una rigorosa garanzia della loro
imparzialità, venisse sottratta ad ogni possibile arbitrio (sez.
un. 28 gennaio 2003, n. 13687 Berlusconi, Rv. 223636); la
determinazione della competenza deve, quindi, avvenire in
base a norme caratterizzate da un sufficiente grado di deter‑
minatezza, di rigorosa interpretazione e sottratte nella misu‑
ra massima possibile a valutazioni di discrezionalità.
Orbene, secondo le sez.un., a parte il fatto che, come è
stato autorevolmente osservato, anche in tema di competenza
per connessione la individuazione del giudice competente per
territorio riposa comunque su un collega‑ mento tra uno dei
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
fatti connessi ed il locus commissi delicti, va detto che è pro‑
prio il riferimento ad un requisito non contemplato dal siste‑
ma, quale la pendenza dei procedimenti connessi nello stesso
stato e grado, che finisce con il tradire il principio costituzio‑
nale del giudice naturale precostituito introducendo un requi‑
sito non previsto dal legislatore, non ricavabile dal tessuto
normativo e tale da creare incertezza sulla sua applicazione.
Per concludere sul punto, proprio la previsione della com‑
petenza per connessione come criterio originario di attribu‑
zione della competenza, la esclusione di requisiti, come quello
in discussione, al fine dichiarato di escludere ogni discrezio‑
nalità nella determinazione del giudice competente, la riduzio‑
ne significativa dei casi di connessione rispetto alla normativa
previgente, la eliminazione di ogni valutazione di opportunità
nella individuazione del giudice competente e la previsione di
norme sufficientemente determinate rendono l’istituto compa‑
tibile con i principi costituzionali, in quanto del tutto idoneo
a garantire la individuazione di un giudice imparziale.
Al termine della complessiva analisi compiuta dalle Sezio‑
ni unite il principio di diritto è il seguente:« La operatività
dell’incompetenza determinata da connessione non è subor‑
dinata alla pendenza dei procedimenti connessi nello stesso
stato e grado, essendo quello della competenza per connes‑
sione criterio originario ed autonomo di attribuzione della
competenza».
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, 18 lu‑
glio 2013
All’esito dell’udienza pubblica del 18 luglio 2013 le Sezio‑
ni unite hanno risolto i seguenti contrasti giurisprudenziali:
a) «Se, con riferimento al reato di furto, il mero occulta‑
mento all’interno di una borsa o sulla persona della merce
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87
sottratta dagli scaffali di un esercizio commerciale nel quale
si pratichi la vendita a self service configuri la circostanza
aggravante dell’uso di un mezzo fraudolento prevista
dall’art. 625, comma primo, n. 2, c.p.»
Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è
stata data la seguente soluzione: « negativa ».
b) «Se, con riferimento al reato di furto, abbia la veste di
persona offesa – e sia conseguentemente legittimato a pro‑
porre la querela – il responsabile dell’esercizio commerciale
nel quale è avvenuta la sottrazione che non abbia la qualità
di legale rappresentante dell’ente proprietario o non sia mu‑
nito di formale investitura al riguardo».
Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è
stata data la seguente soluzione: « affermativa ».
La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena
sarà depositata la motivazione.
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, 18 lu‑
glio 2013
All’esito dell’udienza pubblica del 18 luglio 2013 le Sezioni
unite hanno risolto il seguente contrasto giurisprudenziale:
«Se, nel caso in cui il giudice di appello abbia rilevato la
sopravvenuta prescrizione del reato senza motivare in ordine
alla ritenuta responsabilità dell’imputato ai fini delle statui‑
zioni civili, la Corte di cassazione debba annullare la senten‑
za con rinvio allo stesso giudice penale che ha emesso il
provvedimento impugnato ovvero al giudice civile competen‑
te per valore in grado di appello, ai sensi dell’art. 622 c.p.p.».
Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è
stata data la seguente soluzione: «seconda alternativa».
La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena
sarà depositata la motivazione.
penale
Gazzetta
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D i r itto
●
Rassegna
di legittimità
●
A cura di Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
e Andrea Alberico
Assegnista di Ricerca in Diritto Penale
Avvocato
e
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Gazzetta
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Banche e Istituti di credito o risparmio – Reato di abusivismo fi‑
nanziario – Elemento materiale – Esercizio di servizi finanzia‑
ri – Requisiti della condotta
Il reato di abusivismo finanziario di cui all’art. 166 d.lgs.
n. 58 del 1998 sussiste solo se l’esercizio di servizi finanziari
viene svolto in maniera professionale e nei confronti del pub‑
blico. (In motivazione la Corte ha precisato, quanto al primo
requisito, che la nozione di professionalità debba essere inte‑
sa in senso ampio che corrisponde al compimento di una serie
di atti coordinati del tipo indicato dalla norma incriminatri‑
ce, e, quanto al secondo, che gli stessi atti debbano essere
indirizzati ad un numero indeterminato di soggetti qualitati‑
vamente non predeterminati).
Cass., sez. 5, sentenza 29 maggio 2013, n. 27246
(dep. 20 giugno 2013) Rv. 255443
Pres. Ferrua, Est. Lapalorcia, Imp. Federici e altro, P.M. Ces‑
qui (Conf.)
(Rigetta, Trib. lib. Como, 13 dicembre 2012)
Edilizia – In genere ‑ Reati edilizi – Condanna – Sospensione con‑
dizionale della pena – Possibilità di subordinare il beneficio alla
demolizione – Legittimità
In tema di reati edilizi, il giudice, nella sentenza di con‑
danna, può subordinare il beneficio della sospensione condi‑
zionale della pena alla demolizione dell’opera abusiva, in
quanto tale ordine ha la funzione di eliminare le conseguenze
dannose del reato.
Cass., sez. 3, sentenza 21 maggio 2013, n. 28356
(dep. 01 luglio 2013) Rv. 255466
Pres. Fiale, Est. Andreazza, Imp. Farina, P.M. Baglione
(Diff.)
(Dichiara inammissibile, App. Lecce, 13 giugno 2012)
Impugnazioni – Presentazione – In genere ‑ Impugnazione a giu‑
dice incompetente – Trasmissione degli atti al giudice competen‑
te – Ambito di applicabilità del principio – Limiti – Fattispecie
L a d i s posi z i o n e d e ll ’a r t . 56 8 , c o m m a q u i n t o ,
c.p.p. – secondo cui l’impugnazione proposta a giudice in‑
competente deve essere da questo trasmessa a quello com‑
petente – non può considerarsi principio generale applicabi‑
le al di fuori della materia delle impugnazioni, atteso che
tale regola vale esclusivamente nel caso in cui l’erronea in‑
dividuazione del giudice dipenda da errata qualificazione
del mezzo di impugnazione dovendo altrimenti ritenersi
inammissibile il gravame. (Fattispecie nella quale la S.C. ha
annullato senza rinvio, per incompetenza funzionale, l’ordi‑
nanza con cui la Corte di appello aveva deciso, in luogo
della Corte di cassazione, sulla richiesta di restituzione nel
termine per proporre impugnazione).
Cass., sez. 4, sentenza 18 giugno 2013, n. 29246
(dep. 09 luglio 2013) Rv. 255464
Pres. Sirena, Est. Dovere, Imp. Portokalski, P.M. Lettieri N.
(Conf.)
(Annulla senza rinvio, App. Brescia, 22 gennaio 2013)
Previdenza e assistenza (Assicurazioni sociali) – Contributi – Rite‑
nute previdenziali ed assistenziali – Omesso versamento – Paga‑
mento della retribuzione – Modalità – Individuazione
In tema di omesso versamento delle ritenute previdenzia‑
li ed assistenziali, ai fini dell’integrazione del reato previsto
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luglio • A G O S T O
dall’art. 2, comma primo bis, del d,l. 12 settembre 1983,
n. 463 (conv. in l. 11 novembre 1983, n. 638) è necessaria la
prova del materiale esborso della retribuzione, anche sotto
forma di compensi in nero.
Cass., sez. 3, sentenza 20 febbraio 2013, n. 29037
(dep. 09 luglio 2013) Rv. 255454
Pres. Fiale, Est. Grillo, Imp. Zampiccoli,P.M. Izzo (Diff.)
(Annulla con rinvio, App. Trento, 25 gennaio 2012)
Procedimenti Speciali – Giudizio abbreviato – Presupposti ‑ Ri‑
chiesta di ammissione – Udienza preliminare – Celebrazione a
seguito di annullamento con rinvio della sentenza di non luogo a
procedere – Legittimità
È ammissibile l’accesso al rito abbreviato richiesto
dall’imputato per la prima volta nell’udienza preliminare
rinnovata a seguito dell’annullamento con rinvio della pre‑
cedente sentenza di non luogo a procedere disposto dalla
Corte di cassazione.
Cass., sez. 4, sentenza 15 maggio 2013, n. 28184
(dep. 27 giugno 2013) Rv. 255465
Pres. Brusco, Est. Blaiotta, Imp. P.G. in proc. Sironi e altri,
P.M. Policastro (Diff.)
(Rigetta, App. Bologna, 12 marzo 2012)
Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubbli‑
ci Ufficiali – In genere ‑Modifiche introdotte dalla legge n. 190
del 2012 – Minaccia di un danno ingiusto del pubblico ufficiale
o dell’incaricato di pubblico servizio – Finalizzata a farsi dare o
promettere denaro o altra utilità – Delitti configurabili – Con‑
cussione o estorsione – Prospettazione da parte di pubblico
ufficiale o incaricato di pubblico di servizio di adottare atti le‑
gittimi ma dannosi – Finalizzata a farsi dare o promettere de‑
naro o altra utilità – Delitto di induzione indebita – Configura‑
bilità
A seguito dell’entrata in vigore della l. 6 novembre 2012,
n. 190, la minaccia, esplicita o implicita, di un danno ingiu‑
sto, finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utili‑
tà, posta in essere con abuso della qualità o dei poteri, integra
il delitto di concussione se proveniente da pubblico ufficiale
ovvero di estorsione se proveniente da incaricato di pubblico
servizio mentre sussiste il delitto di induzione indebita, pre‑
visto dall’art. 319 quater cod. pen., qualora il pubblico uffi‑
ciale o l’incaricato di pubblico servizio, abusando della
qualità o dei poteri, prospetti conseguenze sfavorevoli deri‑
2 0 1 3
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vanti dall’applicazione della legge per farsi dare o promette‑
re il denaro o l’utilità.
Cass., sez. 6, sentenza 27 marzo 2013, n. 26285
(dep. 17 giugno 2013) Rv. 255371
Pres. Milo, Est. Paterno’ Raddusa, Imp. A.r.p.a. e altri, P.M.
D’Angelo (Parz. Diff.)
(Annulla in parte senza rinvio, App. Torino, 30 marzo 2012)
Reato – Causalità (rapporto di) – Obbligo giuridico di impedire
l’evento ‑ Fonte di pericolo per l’altrui incolumità – Posizione di
garanzia – Obblighi di protezione anche in favore dei terzi – Sus‑
sistenza – Fattispecie
Il titolare dell’azienda che, con la propria condotta, abbia
determinato nell’esecuzione abusiva di lavori l’insorgere di
una fonte di pericolo, è titolare di una posizione di garanzia
che gli impone di fornire precise direttive al personale dipen‑
dente per avvertire i terzi dell’esistenza di situazioni di rischio.
(Fattispecie nella quale è stata affermata la responsabilità del
proprietario di un vivaio per il decesso del conducente di un
autocarro, che, a causa dell’innalzamento del piano stradale
realizzato senza rispettare le distanze, rimaneva folgorato per
il contatto delle piante trasportate con la linea elettrica).
Cass., sez. 4, sentenza 10 gennaio 2013, n. 27591
(dep. 24 giugno 2013) Rv. 255452
Pres. Romis, Est. Foti, Imp. Santacroce, P.M. Geraci (Conf.)
(Rigetta, App. Catanzaro, 04 aprile 2012)
Reato – Circostanze – Attenuanti comuni – Danno patrimoniale di
speciale tenuità ‑Reati contro il patrimonio – Delitto tenta‑
to – Compatibilità – Fattispecie
Nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante
comune del danno di speciale tenuità é applicabile anche al
delitto tentato quando sia possibile desumere con certezza,
dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipo‑
tetico che, se il reato fosse stato riportato al compimento, il
danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di
rilevanza minima. (Fattispecie relativa al tentativo di furto
di monete custodite in apposito cassetto di un distributore
automatico di bevande).
Cass., sez. un., sentenza 28 marzo 2013, n. 28243
(dep. 28 giugno 2013) Rv. 255528
Pres. Lupo, Est. Fumo, Imp. Zonni Sanfilippo, P.M. Fedeli
(Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Torino, 19 dicembre 2011)
penale
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DIRITTO PENALE
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di merito
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presso la Corte di Appello di Napoli
e Giuseppina Marotta
Avvocato
Circostanze aggravanti: violenza sulle cose – Presupposti
(art. 625 n. 2 c.p.)
L'aggravante della violenza sulle cose sussiste ogni qual‑
volta gli strumenti materiali predisposti per una più efficace
difesa del patrimonio siano manomessi, sicché, per poter as‑
solvere nuovamente alla loro funzione, essi richiedano una
più o meno complessa attività di ripristino.
Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo
sentenza 4 luglio 2013, n. 1642
Commercio di prodotti con segni falsi: elemento soggettivo
(art. 474 c.p.)
In ordine poi all’elemento soggettivo del reato di cui
all’art. 474 c.p. che consiste nella coscienza e volontà di de‑
tenere le cose contraffatte destinate alla vendita e quindi la
consapevolezza del marchio altrui.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 3 luglio 2013, n. 1708
Pres. Critelli, Est. Di Petti
Contraffazione di marchi – Commercio di marchi contraffatti: bene
tutelato – Natura di reato di pericolo – Elemento materiale
(art. 473 – 474 c.p.)
I reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p. tutelano, in via prin‑
cipale e diretta, non la libera determinazione dell’acquirente
ma la pubblica fede, vale a dire l’affidamento dei cittadini nei
marchi e nei segni distintivi che garantiscono la circolazione
degli stessi. Si tratta pertanto, di reati di pericolo, per la cui
configurazione è del tutto irrilevante che l’acquirente sia in
grado, avuto riguardo alla qualità del prodotto, al prezzo, al
luogo dell’esposizione nonché alla figura del venditore, di
escludere la genuinità del prodotto, in quanto ciò che rileva
è esclusivamente la possibilità d confusione tra i marchi – per
la cui individuazione e sufficiente, ma imprescindibile, un
raffronto tra i segni e non già quella tra i prodotti.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 3 luglio 2013, n. 1708
Pres. Critelli, Est. Di Petti
Frode informatica: utilizzo carte credito falsificate – Configurabi‑
lità del reato
(art. 640 ter c.p.)
Integra il delitto di frode informatica e non quello di in‑
debita utilizzazione di carte di credito, la condotta di colui
che, servendosi di una carta di credito falsificata e di un co‑
dice di accesso fraudolentemente captato in precedenza, pe‑
netri abusivamente nel sistema informatico bancario ed effet‑
tui operazioni di bonifico, accredito o altri ordini, procuran‑
dosi un ingiusto profitto con pari danno per il titolare del
conto oggetto degli interventi.
Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo
sentenza 4 luglio 2013, n. 1653
Frode informatica:differenza con il reato di indebita utilizzazione
di carta di credito
(art. 640 ter.p.)
La condotta di utilizzazione di una carta falsificata, previa
artificiosa captazione del codice segreto di accesso, (utilizzo
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
di carte con banda magnetica falsificata; acquisizione illegit‑
tima dei codici segreti di accesso al sistema bancario; inseri‑
mento senza diritto nel sistema stesso; ordine di pagamento,
con intervento sui dati contabili del sistema) integra il reato
di cui all'art. 640 ter c.p., perché l'elemento specializzante,
rappresentato dall'utilizzazione fraudolenta del sistema in‑
formatico, costituisce un presupposto "assorbente" rispetto
alla "generica" indebita utilizzazione di una carta di credito
Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo
sentenza 4 luglio 2013, n. 1653
Frode informatica: procedibilità
(art. 640 ter c.p.)
Il reato di frode informatica è procedibile a querela ove
non ricorra alcuna delle circostanze aggravanti previste
dall'art. 640 ter, co. 2o, c.p., o dall'art. 61 c.p. (cfr. art. 640
ter, U.C., c.p.).
Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo
sentenza 4 luglio 2013, n. 1653
Istigazione alla corruzione: elementi costitutivi
(art. 322 c.p.)
Il delitto di istigazione alla corruzione si configura con la
semplice offerta o promessa di denaro o di altra utilità, pur‑
chéseria e potenzialmente idonea ad omettere un atto del
proprio ufficio, tale cioè da determinare una rilevante pro‑
babilità di causare un turbamento psichico nel pubblico uf‑
ficiale, così che sorga il pericolo che egli accetti l’offerta o la
promessa; idoneità che va valutata con un giudizio ex ante
che tenga conto di tutte circostanze concrete, sicché il reato
può essere escluso solo se manchi la idoneità potenziale
dell’offerta e della promessa a conseguire lo scopo perseguito
dall’autore per l’evidente quanto assoluta impossibilità del
pubblico ufficiale di tenere il comportamento illecito richie‑
stogli.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 3 luglio 2013, n. 1708
Pres. Critelli, Est. Di Petti
Istigazione alla corruzione: tenuità della somma offerta – Irrile‑
vanza ai fini della configurabilità del reato
(art. 322 comma II c.p.)
La tenuità della somma di denaro offerta al pubblico uf‑
ficiale non esclude il reato di istigazione alla corruzione, ma
anzi lo rende maggiormente lesivo del prestigio del funzion‑
ario in quanto l’agente mostra di ritenere costui persona
suscettibile di venir meno ai propri doveri accettando una
offerta anche minima.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 3 luglio 2013, n. 1708
Pres. Critelli, Est. Di Petti
Omicidio volontario: elemento soggettivo – Volontà omicida –
Accertamento – Criteri
(art. 575 c.p.)
Fra i vari criteri utili indicati dalla dottrina e dalla giuri‑
sprudenza per stabilire se il colpevole ebbe o no la volontà
omicida, assumono particolare rilievo le modalità esteriori
dell’azione criminosa. Nella non semplice attività di indivi‑
duazione del processo volitivo, normalmente del tutto inti‑
2 0 1 3
91
mo, e della direzione della volontà che ne costituisce il risul‑
tato, non può invero farsi a meno di valutare in concreto le
modalità della condotta e rapportare queste ultime a quei
parametri obiettivizzati dalla costante giurisprudenza di le‑
gittimità, desunti sulla base dell’id quod plerunque accidit e
comprensivi del carattere micidiale o meno del mezzo usato,
dell’eventuale pluralità di colpi, della vitalità della zona del
corpo colpita, elementi tutti da considerare procedendo ad
una valutazione ex ante ed in concreto, rispetto alla realizza‑
zione dell’evento. A tali elementi di carattere oggettivo pos‑
sono aggiungersi altre circostanze idonee ad avvalorare
l’ipotesi dell’intenzione omicida come il comportamento del
reo prima e dopo il delitto, i rapporti antecedenti tra l’autore
della condotta violenta e la vittima, mentre secondaria im‑
portanza può attribuirsi alla causale, la cui ricerca ed il cui
rigoroso accertamento si impone solo quando la prova
dell’animus necandinon è sostenuta da elementi univoci. Per
tali ragioni la prova del dolo omicida ha natura essenzialmen‑
te indiretta nel senso che deve desumersi dai sopra eviden‑
ziati elementi esterni rispetto allo stesso elemento soggettivo,
in quanto unici dati idonei ad esprimere il fine effettivamen‑
te perseguito dall’agente, dovendosi l’effettiva volontà
dell’agente essere desunta da quei dati della condotta che, per
la loro non equivoca potenzialità semantica, sono i più idonei
ad esprimere il fine perseguito dall’agente.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 2 luglio 2013, n. 1703
Pres. Aschettino, Est. De Majo
Omicidio: aggravante del fatto commesso con arma – Arma im‑
propria – Sussistenza
(art. 575 – art. 4 l. 110/75)
Ricorre la circostanza aggravante del fatto commesso con
armi anche quando il soggetto agente utilizzi una arma im‑
prorpia ai sensi dell’art. 4 co. 2 l. 110/75, per il quale rientra
in questa categoria, oltre agli strumenti da punta e taglio e
gli altri oggetti specificamente indicati, qualsiasi strumento,
che, nelle circostanze di tempo e di luogo in cui sia portato,
sia potenzialmente utilizzabile per l’offesa della persona.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 2 luglio 2013, n. 1703
Pres. Aschettino, Est. De Majo
Recidiva: riconoscimento ed applicabilità – Criteri di valutazione
del giudice – Conseguenze
(art. 99 c.p.)
Nel caso in cui la contestazione concerna, una delle ipote‑
si di recidiva contemplate dall'art. 99, primi quattro commi,
il giudice deve "verificare in concreto se la reiterazione dell'il‑
lecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità",
tenendo conto, secondo quanto precisato dalla giurispruden‑
za costituzionale (cfr. sentenza n. ]92/2007) e di legittimità
“della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno
della qualità dei comportamenti, del margine di offensivitàdel‑
le condotte, della distanza temporale e del livello di omogenei‑
tà esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricadu‑
ta e di ogni altro possibile parametro individualizzante signi‑
ficativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza al
di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esisten‑
za di precedenti penali. Qualora all'esito di questa verifica il
penale
Gazzetta
92
D i r itto
e
p r o c e du r a
giudice neghi la rilevanza aggravatrice della recidiva, escluden‑
do la circostanza, non solo non ha luogo l'aggravamento della
pena, ma non operano neanche gli ulteriori effetti commisu‑
rativi della sanzione costituiti dal divieto del giudizio di pre‑
valenza delle circostanze attenuanti, di cui all'art. 69, co. 4o,
c.p., e dal limite minimo di aumento della pena per il cumulo
formale di cui all'art. 81, co. 4o, c.p., stesso codice.
Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo
sentenza 4 luglio 2013, n. 1642
Recidiva: natura di aggravante ad effetto speciale – Operatività
dell’aumento di pena – Criteri
(art. 99 c.p.)
La natura di circostanza aggravante ad effetto speciale
della recidiva determina l'operatività, della disciplina detta‑
ta dall'art. 63, co. 4o, c.p., secondo cui, nel caso di concorso
di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, si applica
soltanto la pena stabilita per la‑circostanza più grave, con
facoltà per il giudice di aumentarla fino ad un terzo. A tal
fine è circostanza più grave,quella connotata dalla pena più
alta nel massimo edittale e, a parità di massimo, quella con
la pena più elevata nel minimo edittale, con l'ulteriore speci‑
ficazione che l'aumento da irrogare in concreto non può in
ogni caso essere inferiore alla previsione del più alto minimo
edittale per il caso in cui concorrano circostanze, delle quali
l'una determini una pena più severa nel massimo e l'altra più
severa nel minimo.
Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo
sentenza 4 luglio 2013, n. 1642
Recidiva: obbligatorietà – Limiti e presupposti
(art. 99 c.p.)
Quando non si è in presenza di uno dei delitti previsti
dall'art. 407, comma 2o, letto a) c.p.p., l'applicazione della
recidiva, sia essa semplice, aggravata, pluriaggravata o reite‑
rata, è rimasta una facoltà del giudice, limitandosi il novellato
art. 99 c.p. a stabilire l'obbligatorietà non della sottoposizione
all'aumento di pena, quanto piuttosto della misura dell'au‑
mento medesimo (o in misura fissa, o in misura variabile).
Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo
sentenza 4 luglio 2013, n. 1642
Ricettazione – Commercio di prodotti con marchio contraffatto:
differenze e rapporti
(art. 648 – 474 c.p.)
Colui il quale dopo aver acquistato o ricevuto, al fine di
trarne profitto prodotti con il marchio contraffatto, li detie‑
ne per la vendita, può essere chiamato a rispondere sia del
delitto d ricettazione, sia del reato di commercio di prodotti
con segni falsi, non sussistendo alcun rapporto di specialità
tra le due fattispecie, le quali si differenziano tra loro tanto
sul piano soggettivo – richiedendosi il dolo specifico nella
prima, il dolo generico nella seconda – quanto per la condot‑
ta, che si sostanzia nella ricezione di beni di provenienza il‑
lecita nella ricettazione, nella detenzione per la vendita o
messa in vendita di prodotti con segni contraffatti nel reato
previsto dall’art. 474 c.p.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 3 luglio 2013, n. 1708
Pres. Critelli, Est. Di Petti
p e n al e
Gazzetta
F O R E N S E
Tentativo: limiti e presupposto per punibilità
(art. 56 c.p.)
Invero, secondo l’insegnamento della S.C. ci si trova di
fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l’agen‑
te abbia approntato e completato il suo piano criminoso in
ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo
ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla
concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma in‑
criminatrice.
Tribunale Napoli, G.u.p.Lucarelli
sentenza 3 giugno 2013, n. 1330
Tentativo: idoneità degli atti – Giudizio – Criteri di valutazione
(art. 56 c.p.)
L’idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del
reato tentato, deve essere valutata con giudizio ex ante te‑
nendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle
modalità dell’azione, in modo da determinare la reale ade‑
guatezza casuale e l’attitudine a creare una situazione di
pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 2 luglio 2013, n. 1703
Pres. Aschettino, Est. De Majo
Tentato omicidio – Lesioni personali: differenze – Modalità di
accertamento
(art. 575 – 582 c.p.)
Ricorre la fattispecie di tentato omicidio e non quella di
lesioni personali, se il tipo di arma impiegata e specificamen‑
te l’idoneità offensiva della stessa e la profondità delle ferite
inferte inducano a ritenere la sussistenza in capo al soggetto
agente del cosiddetto “animus necandi”.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 2 luglio 2013, n. 1703
Pres. Aschettino, Est. De Majo
PROCEDURA PENALE
Accertamenti urgenti sulle persone: alcooltest – Procedura – As‑
sistenza del difensore – Necessità – Esclusione
(art. 354 co. 3 c.p.p.)
L’alcool test costituisce un’ accertamento urgente ed indif‑
feribile rientrante nell’ambito di applicazione della norma di
cui all’art. 354 co. 3 c.p.p. e, pertanto, l’atto deve essere ac‑
compagnato dalle garanzie previste dall’art. 356 c.p.p.: in altri
termini, prima dello svolgimento dell’atto, la polizia giudizia‑
ria deve avvertire la persona che ha facoltà di farsi assistere
dal difensore di fiducia. Il difensore della persona nei cui con‑
fronti deve essere svolto l’accertamento potrà, quindi, inter‑
venire ma, non dovendo lo stesso essere preventivamente av‑
visato, non dovrà essere necessariamente atteso prima del suo
compimento. Del resto, esigenze pratiche impongono di rite‑
nere che la P.G. non potrebbe comunque aspettare troppo
tempo l’arrivo dell’avvocato perché il test non solo reca con sé
un’intrinseca irripetibilità ma anche una naturale tensione
verso l’obsolescenza che impone di effettuarlo in tempio stret‑
ti poiché il tasso alcool emico diminuisce nel tempo.
Tribunale Napoli, G.u.p. Pilla
sentenza 2 luglio 2013, n. 1604
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
Accertamenti urgenti sulle persone: alcooltest – Mancato avver‑
timento della facoltà di farsi assistere dal difensore – Nullità di
ordine generale a regime intermedio
(art. 354 c.p.p. – 178 c.p.p.)
La mancanza dell’avvertimento integra ipotesi di nullità
di ordine generale a regime intermedio con la conseguenza
che, laddove la parte assiste alla formazione del vizio in pa‑
rola, deve tenersi conto di quanto disposto dell’art. 182 co.
2 c.p.p., che impone a pena di preclusione e conseguente
sanatoria, che la relativa eccezione debba essere formulata
prima del compimento dell’atto, ovvero se ciò non è possibi‑
le, immediatamente dopo, con la conseguenza che stessa è
tardiva quando è dedotta a distanza di parecchi giorni ed in
occasione di un primo atto successivo del procedimento.
Tribunale Napoli, G.u.p. Pilla
sentenza 2 luglio 2013, n. 1604
Querela: condizione di procedibilità –Requisiti formali
(art. 337 c.p.p.)
Affinché un atto diretto alle competenti autorità possa
interpretarsi come formale querela – e, quindi, possa dirsi
sussistente la condizione di procedibilità nei reati persegui‑
bili a querela – occorre che da tale atto risulti, in modo
espresso e non equivoco, l'intenzione della persona offesa di
richiedere la punizione dell'autore di un presunto reato. Ai
fini della validità della querela, non è necessario l'uso di
formule sacramentali, essendo sufficiente la denuncia dei
fatti e la "chiara manifestazione della volontà della persona
offesa di voler perseguire penalmente i fatti denunciati.
Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo
sentenza 4 luglio 2013, n. 1653
Udienza preliminare: funzioni del G.u.p. – sentenza non luogo a
procedere‑ presupposti.
(art. 429 c.p.p.)
La giurisprudenza ha, più volte, ribadito che, anche a
seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 479 del 1999, la
decisione del giudice dell'udienza preliminare ha mantenuto
una natura eminentemente processuale. La prognosi richiesta
al G.U.P. ha ad oggetto due momenti complementari, ma
distinti, rappresentati dalla completabilità degli atti di inda‑
gine (le indagini sono complete quando non è ragionevole
ritenere che, continuandole, si potrebbero reperire ulteriori
elementi di conoscenza), e dall'utilità del dibattimento (il
dibattimento è inutile quando è ragionevole ritenere che il
suo espletamento non porterebbe a trasformare in prove gli
elementi acquisiti). Pertanto, come sostenuto da autorevole
dottrina, la sentenza di non luogo a procedere va pronuncia‑
ta quando è consentito formulare una prognosi di resistenza
2 0 1 3
93
in giudizio di uno tra tre possibili esiti dell'udienza prelimi‑
nare: la prova dell'innocenza dell'accusato, la mancanza di
prova oppure la prova insufficiente o contraddittoria
(art. 425, commi l e 3, c.p.p.).
Tribunale Napoli, G.u.p.Gallo
sentenza 26 giugno 2013, n. 1569
LEGGI PENALI SPECIALI
Armi: porto di una roncola – Giustificato motivo – Accertamento
(art. 4 l. 110/75)
Deve intendersi per motivo giustificativo del porto quel‑
lo determinato da particolari esigenze dell’agente perfetta‑
mente corrispondenti a regole comportamentali lecite, rela‑
zionate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazio‑
ne del fatto, alle condizione soggettive dell’agente del porta‑
tore ai luoghi dell’accadimento. Il porto di una roncola
fuori dalla propria abitazione al fine di provvedere al taglio
degli alberi di nocciole, integra un motivo illecito.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 17 luglio 2013, n. 1782
Pres. Critelli, Di Petti, Tirone
Pubblica sicurezza: misure prevenzione – d.lgs. 159/11 – Modifi‑
che legislative – Continuità normativa
(l. 1423/56 – d.lgs. 159/11)
In relazione al delitto concernente la violazione delle
prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale con obbligo di
soggiorno, va rilevato che la l. 1423/56 è stata abrogata a
seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011; il
reato previsto dall'art. 9 co. II L. 1423 /56 è stato, però, ri‑
prodotto nell'art. 75 co. II e, pertanto, vi è continuità fra le
due norme incriminatrici.
Tribunale Napoli, G.u.p. Carola
sentenza 21 giugno 2013, n. 1524
Stranieri: espulsione – Applicabilità – Presupposti
(d.lgs. 286/98)
In diritto si rileva che l'espulsione dal territorio dello
Strato dello straniero può essere ordinata dal giudice in cor‑
relazione al giudizio di pericolosità, sempre necessario (cfr.
Cass. Sez. III, 511112009, n. 48937; Cass. Sez. II, 217/2009,
n. 28614),e indipendentemente da qualsiasi contestazione
delle circostanze che possono importare l'applicazione delle
misure di sicurezza, quando la condanna superi due anni di
reclusione.
Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo
sentenza 4 luglio 2013, n. 1642
penale
Gazzetta
Diritto amministrativo
I diritti edificatori nella gestione pianificatoria del territorio 97
Gaetana Marena
Accessibilità degli atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione
Nota a Tar Lazio – Roma, sez. II, 20 maggio 2013, n. 5021
102
Alessandro Barbieri
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n.163 e ss. mm.)
109
amministrativo
A cura di Almerina Bove
Gazzetta
F O R E N S E
●
2 0 1 3
97
Sommario: 1. La rilevanza dei diritti edificatori nei nuovi
strumenti di pianificazione urbanistica: la perequazione, la
compensazione e le premialità edilizie – 2. I diritti edificatori:
natura giuridica e profili problematici.
● Gaetana Marena
Avvocato e Docente Università Telematica Pegaso
1. La rilevanza dei diritti edificatori nei nuovi strumenti di piani‑
ficazione urbanistica: la perequazione, la compensazione e le
premialità edilizie
Un concreta applicazione di quanto finora asserito e, cioè,
dell’imperare del principio della consensualità nell’azione
amministrativa, ma soprattutto nella materia della gestione
del territorio, è la negoziazione dei diritti edificatori, norma‑
tivamente consacrata dal recente Decreto Sviluppo 70 del
2011. Per effetto dell’incessante evoluzione giurisprudenziale
e legislativa, i diritti edificatori possono oggi costituire ogget‑
to di attività di scambio tra i privati, mediante il tipico nego‑
zio di cessione di cubatura1, nonché di concessione da parte
della Pubblica Amministrazione, con tutti i risvolti pratici ed
applicativi che la questione pone.
Il contesto di riferimento è quello dell’urbanistica e, dun‑
que, della funzione pubblicistica di pianificazione dell’assetto
territoriale e di conformazione della proprietà privata, dove è
incisivo il momento discrezionale nella fase pianificatoria, al
punto da operare, in via preliminare, un’esaustiva conforma‑
zione dell’an, del quid, del quomodoe del quandodel diritto
di edificare ed, al contempo, relegare il permesso di costruire
a mera autorizzazione ricognitiva 2. Ma la scelta discrezionale
non sempre risulta rispettosa dei parametri dell’uguaglianza.
Per converso, il più delle volte evidenzia un connotato intrin‑
secamente discriminatorio3, per sopperire al quale si è assis‑
titi ad una recente proliferazione di tecniche pianificatorie di
tipo perequativo. Queste nuove modalità di governo del ter‑
ritorio nascono essenzialmente proprio per ovviare alle crit‑
1 La giurisprudenza ha chiarito come il negozio di cessione di cubatura non abbia
efficacia traslativa, in quanto l’effetto costitutivo non è riconducibile al consen‑
so delle parti, ma discende dal permesso di costruire. La cessione di cubatura è
dunque una fattispecie a formazione progressiva in cui confluiscono, sul piano
dei presupposti, dichiarazioni negoziali nel contesto di un procedimento ammi‑
nistrativo; a determinare il trasferimento di cubatura, tra le parti e nei confron‑
ti dei terzi, è esclusivamente il provvedimento concessorio. Cass., Sez. II, 24
settembre 2009, n. 20623, in Riv. Giur. Ed., 1, 72.
2 R. Galli‑ D. Galli, Corso di diritto amministrativo, 2004, p. 958 e ss.: Il
mutamento della qualificazione giuridica della vecchia concessione edilizia è
stato immediato. Originariamente, quest’ultima rispondeva appieno ai requisi‑
ti ed alla funzione tipica dei provvedimenti autorizza tori, in quanto deputata
a rimuovere discrezionalmente i limiti imposti dalla legge allo svolgimento
della facoltà di edificare ricompresa nel diritto di proprietà. Per il vero, prima
che la legge Ponte del 67 imponesse l’adozione da parte dei Comuni di un
programma di fabbricazione alternativo al piano regolatore generale, il rilascio
della licenza edilizia per la realizzazione di costruzioni in zone non soggette a
pianificazione urbanistica richiedeva valutazioni discrezionali così impegnative
e complesse da far ritenere che si trattasse di autorizzazione costitutiva, in
quanto conformativa dello ius aedificandi.
Un’ampia estensione del potere discrezionale venne a regredire man mano che
furono i piani urbanistici, generali e particolari, a conformare il diritto ad edi‑
ficare, relegando la verifica posta in essere dalla P. A. a mera attività di control‑
lo tecnico. Di qui la configurazione della concessione edilizia in termini di au‑
torizzazione ricognitiva, se non addirittura vincolata.
3 P. Stella Richter, Diritto Urbanistico, 2010, p. 47: “non è possibile pianifi‑
care l’uso del territorio senza differenziare le varie sue parti, valorizzandone
alcune (con il destinarle ad esempio all’edilizia privata) e mettendone altre più
o meno direttamente al loro servizio (con il prevedervi opere di urbanizzazione
od anche una sola zona verde)…poiché il piano ha come oggetto principale
quello di attribuire destinazione di aree, che non possono essere ovunque le
stesse, esso riveste necessariamente un carattere discriminatorio”.
In giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. IV, 14 aprile 1981, n. 367, in Foro Amm.,
I, 851.
amministrativo
I diritti edificatori
nella gestione
pianificatoria
del territorio
luglio • A G O S T O
98
di r itto
a m m i n ist r ati v o
icità tipiche della zonizzazione e, segnatamente, alle forti
sperequazioni che la tecnica dello zoning4 determina tra le
diverse classi dei proprietari fondiari, alcuni avvantaggiati in
maniera considerevole dalle scelte della pubblica amminis‑
trazione in ordine all’edificabilità dei suoli (proprietari di
fondi interessati da destinazioni edificatorie); altri, invece,
impoveriti perché colpiti da disposizioni vincolistiche o comu‑
nque riduttive della capacità edificatoria5. In realtà, ulteriori
sono le ragioni sottese al diffondersi di tale tecnica urbanis‑
tica. Anzitutto, pregante è l’esigenza di consentire ai Comuni
di disporre di aree pubbliche per servizi senza affrontare da
un lato il carico finanziario necessario per l’attuazione di
misure espropriative, dall’altro la conflittualità conseguente
al ricorso ai vincoli di inedificabilità. Oltre alle due finalità
di superare la discriminatorietà degli effetti della zonizzazi‑
one6 e di disporre gratuitamente di aree pubbliche per servizi,
determinante è, altresì, la logica “della cosiddetta integrazione
di funzioni edificatorie: ovvero la possibilità che coesistano
nei medesimi spazi diverse forme di utilizzazione del territorio.
L’obiettivo è superare il rigido principio della divisione in zone
monofunzionali, che si rivela spesso elemento di rigidità
pianificatoria”7.
A livello tecnico‑definitorio, per perequazione8 s’intende
4 M. Miglioranza, Le funzioni delle zone e degli edifici: individuazione e con‑
seguenze, in Riv. Giur. Edil. 2005, p. 245.
5 R. Garofoli‑ G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, 2012, pag. 1235
e ss.
6 Urbani, Urbanistica solidale, 2011, 141: muovendo dal presupposto che la
zonizzazione è discriminatoria nella misura un cui parcellizza le destinazioni
d’uso e le vocazioni edificatorie, come “dalle camere stagne della zonizzazione
si passa ad un sistema perequativo di vasi comunicanti che permette oltre al
riconoscimento dell’edificabilità virtuale anche la circolazione di tale edificabi‑
lità su tutto il territorio trasformabile”.
7 P. Urbani, Disciplina regionale concorrente in materia di governo del territo‑
rio e principio perequativo nella pianificazione urbanistica comunale, tenuta
al Congresso nazionale dei notai “Urbanistica e attività notarile: nuovi stru‑
menti di pianificazione del territorio e sicurezza delle contrattazioni”, 11 giugno
2011. Sul punto, altresì, S. Perongini, profili giuridici della pianificazione
urbanistica perequativa, Milano, 2005; Gambaro, Compensazione urbanisti‑
ca e mercato dei diritti edificatori, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2010, I, 3
ss.; P. Stella Richter, La perequazione urbanistica, in Rivista Giuridica
dell’Edilizia, 2005, 2, 169 e ss.; Police, Gli strumenti di perequazione urba‑
nistica. Magia evocativa dei nomi, legalità ed effettività, in Rivista Giuridica
dell’Edilizia, 2004, II, 3 e ss.; Portaluri, Poteri urbanistici e principio di
pianificazione, Napoli, 2003; Quaglia, Pianificazione urbanistica e perequa‑
zione, Torino, 2000; Sabbato, La perequazione urbanistica, Relazione al
Convegno di studi di Salerno, 20 novembre 2009, Attività edilizia tra governo
del territorio e tutela paesaggistica e ambientale; A.Travi, Accordi tra proprie‑
tari e Comune per modifiche al piano regolatore ed oneri esorbitanti, in Il
Foro It., 2002, 274 e ss.; P. Urbani, La perequazione tra ipotesi di riforma
nazionale e leggi regionali, in Edilizia e Territorio. Commenti e norme, 2008,
30; ID, voce Urbanistica, in Enciclopedia Giuridica Treccani, Aggiornamento
XVII, 2009; ID, Concertazione e perequazione urbanistica, in Atti del Conve‑
gno di Lisbona sulla perequazione urbanistica 15‑18 giugno 2008, in www.
pausania.it.
8 E. Boscolo, Le perequazioni e le compensazioni, op. cit., p. 6, il quale sotto‑
linea anche un problema di formazione del consenso intorno ai modelli della
perequazione e della compensazione, dal momento che oggi spesso le uniche
possibilità di intervento sono rappresentate dalla “ricucitura di circoscritte aree
interstiziali” e che anche in un piano che preveda il mantenimento delle capa‑
cità insediative anteriori (i cd. residui di piano), i proprietari delle aree attual‑
mente edificabili chiamati a condividere le possibilità edificatorie vivono tale
situazione quale “un'autentica privazione”; rispetto, infatti, ad un piano tradi‑
zionale in cui il saldo volumetrico non subisce variazioni mutano “gli esiti in‑
dividuali”. Deve essere segnalato che la tecnica dello zoning segnava inevitabil‑
mente anche le sorti dei proprietari sulla base delle linee disegnate dal penna‑
rello del pianificatore (p. 9). La perequazione costituisce insomma il rimedio
alle “esternalità negative dello zoning” (p. 10). Questione questa delicatissima,
ma già segnalata in un risalente ma attuale saggio da P. Stella Richter, Il
potere di pianificazione nella legislazione urbanistica, in Riv. Giur. Edil. 1968,
Gazzetta
F O R E N S E
una tecnica urbanistica volta ad attribuire un valore edifica‑
torio uniforme a tutte le proprietà che possano concorrere
alla trasformazione urbanistica di uno o più ambiti del ter‑
ritorio comunale, prescindendo dall’effettiva localizzazione
della capacità edificatoria sulle singole proprietà. Questo
implica che i proprietari partecipino in misura uguale alla
distribuzione dei valori e degli oneri correlati alla trasfor‑
mazione urbanistica.
Segnatamente, i proprietari di aree inedificabili diventano
titolari di diritti edificatori “virtuali” o “potenziali”, non
potendo esercitarli di fatto. I proprietari di aree edificabili,
seppur titolari del diritto ad edificare in astratto, non possono
esercitarlo in concreto, perché l’area soggetta a perequazione
non raggiunge il limite minimo dell’indice di edificabilità
previsto. Dovranno procurarsi, mediante una cessione a tito‑
lo oneroso, la differenza volumetrica necessaria o dai proprie‑
tari di aree inedificabili oppure dai proprietari di aree con
destinazione pubblica. Questi ultimi possono decidere di ce‑
dere tali aree al Comune, a titolo gratuito, ed essere parimen‑
ti ristorati del sacrificio sostenuto, cedendo, a titolo oneroso,
i loro diritti edificatori ai proprietari di aree edificabili.
Il modello perequativo9 tende, insomma, a generare il
massimo dell’equità applicando all’intero territorio un unico
indice di edificazione, con l’esclusione delle sole zone agrico‑
le e del centro storico. In tale luce, in prima approssimazione,
la permuta o la cessione delle aree o lo scambio (a titolo one‑
roso) dei diritti edificatori ripartiti prima di tutto sui fondi
cd. sorgente (sending areas) permetteranno, al tempo della
successiva concentrazione dei volumi (cd. fase di atterraggio)
sui soli fondi cd. accipienti o riceventi (receiving areas), di
garantire anche ai proprietari dei fondi cd. sorgente di otte‑
nere una frazione in senso economico o nel senso dello sfrut‑
tamento edificatorio dell’attività di trasformazione del terri‑
torio urbano interessato dall’intervento.
Il rischio di un tale meccanismo, che richiede necessaria‑
mente di essere affinato è, però, palese: la totale parificazione
delle aree, dal punto di vista urbanistico, reca con sé, infatti,
II, p. 123, il quale già all'epoca affermava il carattere intrinsecamente discrimi‑
natorio degli schemi tradizionali.
9 E. Boscolo, Le perequazioni e le compensazioni. Relazione pubblicata in atti
del Convegno organizzato dalla società Paradigma tenuto nel mese di marzo
2009 in Milano e nel mese di aprile 2009 in Roma. Inoltre, A. Bartolini, I
diritti edificatori in funzione premiale (le cd. premialità edilizie) (pubblicato
anche in Giust. Amm. 2008, n. 4, p. 163); E. Micelli, La perequazione urba‑
nistica in alcune esperienze di piani e progetti (slides); A. Quaglia, Gli stru‑
menti di concertazione pubblico‑privato nelle politiche di rinnovamento urba‑
no; G. Rizzi, I crediti edilizi : l'esperienza della Legge Regione Veneto n. 11 del
2004; Sulla questione dei crediti di volumetria diffusamente altresì, A. Barto‑
lini, Profili giuridici del cd. credito di volumetria, in Riv. Giur. Urb. 2007
p. 302; P. Marzaro Gamba, Credito edilizio compensazione e potere di piani‑
ficazione. Il caso della legge urbanistica veneta, in Riv. Giur. Urb. 2005 p. 644;
P. Urbani, Conformazione della proprietà diritti edificatori e moduli di desti‑
nazione d'uso dei suoli, in Urb. e app. 2006, p. 905. Sul tema della perequazio‑
ne, E. Boscolo, Una conferma urbanistica (e qualche novità legislativa) in
tema di perequazione urbanistica, in Riv. Giur. Edil. 2003, 3, p. 823; S. De
Paolis, Pianificazione di dettaglio e perequazione, in Riv. Giur. Edil, 2008,
p. 527; P. Stella Richter, La perequazione urbanistica,in Riv. Giur. Edil.,
2005, pag. 169. N. Assini, Pianificazione urbanistica e governo del territorio,
Padova, 2000, p. 148 e ss.; N. Centofanti, Diritto urbanistico, Padova, 2008;
E. Micelli, Perequazione urbanistica, 2004; P. Urbani, Urbanistica consensu‑
ale, Bollati Boringhieri 2000, AA.VV. Urbanistica e perequazione a cura di S.
Carbonara – C.M. Torre Franco Angeli, 2008. In tema di lettura della
fattispecie dal punto di vista fiscale A. Pischetola, Utilizzo di volumetria pe‑
requativa e ipotesi di applicabilità delle agevolazioni ex legge n. 10 del 1977,
in Studi e Materiali del Cons. naz. Not. 2006/1, p. 556.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
il risultato paradossale di non tenere in alcuna considerazione
le differenze discendenti dalla allocazione delle medesime,
generando in tal modo una disuguaglianza per così dire di
ritorno.
Per evitare un tale risultato inefficiente e soprattutto ini‑
quo e certo discordante con le premesse di partenza, è neces‑
sario procedere, allora, “alla decodificazione dei caratteri e
delle invarianti territoriali” (la cd. classificazione dei suoli): i
lotti compresi in una certa classe riceveranno una eguale
potenzialità di cubatura, indipendentemente dalla destinazio‑
ne finale; le dinamiche perequative consentono, infatti, con
la revisione profonda delle regole di pianificazione, una mag‑
giore flessibilità.
Dovranno essere, di conseguenza, fissate le regole di tra‑
sformazione all’interno di unità minime di intervento (com‑
parti, piani attuativi, ambiti o distretti) o le regole di circola‑
zione dei titoli volumetrici esattamente corrispondenti con la
cubatura sviluppata da ciascun fondo interessato
Si distingue tra perequazione10 ristretta e perequazione
allargata11.
La prima è riferita ai comparti oggetto degli strumenti
urbanistici, ovvero ad un insieme di aree di proprietà privata
componenti un comparto12. All’interno di questo, a ciascuna
area viene attribuita un’identica capacità volumetrica, pro‑
porzionale all’estensione dell’area stessa, ma in ogni caso in‑
feriore al limite minimo fondiario di edificabilità. La seconda
si riferisce all’intero territorio comunale13. Prevede l’assegna‑
zione ai cosiddetti fondi sorgente di una dotazione volumetri‑
ca sotto forma di diritto edificatorio cedibile a terzi. Il piano
individua due macrocategorie di fondi: aree di trasformazione
ed aree di conservazione. L’utilizzo del diritto edificatorio che
10 P. Urbani, La perequazione tra ipotesi di riforma nazionale e leggi regionali,
op. cit., p. 3 distingue tra la perequazione di valori e la perequazione di volumi.
La prima consiste nella monetizzazione dei diritti edificatori unita ai trasferi‑
menti compensativi delle disparità derivanti dalla pianificazione; si tratta di un
modello che richiede l'applicazione all'intero territorio comunale ed è quindi di
difficile applicazione concreta. La seconda, piuttosto diffusa negli strumenti di
pianificazione già adottati, si realizza allorquando a certe aree (o ambiti) esat‑
tamente individuate, è attribuito un unico indice territoriale. Compete ai priva‑
ti il trasferimento e la conseguente distribuzione delle quote di edificabilità;
alla pubblica Amministrazione posta in posizione di terzietà spetta il controllo
sul rispetto delle previsioni di piano.
11E. Boscolo, Una conferma giurisprudenziale (e qualche novità legislativa) in
tema di perequazione urbanistica, Riv. Giur. Edil., 3, 823; ID, Le perequazioni
e le compensazioni, Riv. Giur. Di urbanistica, 1, 104 e ss.; Colnaghi, I nuovi
strumenti della programmazione urbanistica: perequazioni, compensazioni e
diritti edificatori. tenuta al Convegno di Como dell’8 aprile 2011, del Collegio
Notarile dei Distretti Riuniti di Como e Lecco; Urbani, Disciplina regionale
concorrente in materia di governo del territorio e principio perequativo nella
pianificazione urbanistica comunale, tenuta al Congresso nazionale dei notai
“Urbanistica e attività notarile: nuovi strumenti di pianificazione del territorio
e sicurezza delle contrattazioni”, 11 giugno 2011; ID, voce Urbanistica, Enci‑
clopedia Giuridica Treccani, XVII, 2009; ID, La perequazione tra ipotesi di ri‑
forma nazionale e leggi regionali, Edilizia e territorio. Commenti e norme, 30.
12 La giurisprudenza distingue, nell’ambito del “comparto perequativo”, tra il
“comparto continuo”, che delimita un settore determinato del territorio nel
quale sorgono i diritti edificatori e nel quale soltanto gli stessi possono essere
utilizzati, ed il “comparto discontinuo”, i cui diritti possono essere trasferiti e
sfruttati su aree diverse da quelle incluse nel perimetro originario. Si veda TAR
Puglia, Bari, Sez. II, 1 luglio 2010, n. 2810, in Foro amm.‑ Tar, 2607.
13E. Boscolo, Le novità in materia urbanistico‑edilizia introdotte dall’art. 5 del
decreto sviluppo, Urb. e App., 1060: Soltanto la seconda pone in luce la circo‑
lazione dei diritti edificatori, con i connessi problemi di “decollo, volo ed atter‑
raggio”, atteso che nei piani con perequazione endoambito l’atto traslativo non
incide tanto sui titoli volumetrici e dunque sulle potenzialità edificatorie, quan‑
to piuttosto sulla proprietà dei suoli interni ai parametri di comparto‑piano
attuativo.
2 0 1 3
99
spetta ad un’area non suscettibile di trasformazione secondo
le indicazioni del pianificatore potrà avvenire su un altro
fondo detto accipiente, scelto tra le numerose aree di atterrag‑
gio previste dal piano.
Altra forma di negoziazione dei diritti edificatori è la
compensazione urbanistica, che consiste nella cessione di una
volumetria da parte del Comune in favore di soggetti che
cedono volontariamente le aree di proprietà a destinazione
pubblica, soggette come tali ad un vincolo d’inedificabilità.
Tale possibilità deve essere espressamente contemplata nel
piano regolatore. Ovviamente, il diritto edificatorio ceduto
non può essere concretamente esercitato dal destinatario,
essendosi quest’ultimo spogliato della titolarità dell’area.
Sarà, invece, esercitato su una differente area di atterraggio,
anch’essa predeterminata dal piano, di pertinenza di un terzo.
Lo schema che, allora, viene in rilievo è quello tipico della
datio in solutum. Comune estingue la propria obbligazione
urbanistico‑paesaggistica con una prestazione diversa da
quella ordinaria del pagamento del corrispettivo, ovvero l’at‑
tribuzione di un diritto edificatorio14. Precisamente, ciò che
l’Amministrazione concede al proprietario è un credito edili‑
zio nei confronti del terzo titolare dell’area di atterraggio, che
riceverà, pertanto, un soddisfacimento differito attraverso
l’esperimento di una nuova vicenda giuridica15.
Sono, poi, previste misure incentivanti, quali la premialità
e d i l i z i a , c he c on si s t e nel l’at t r ibu z ione d a p a r t e
dell’amministrazione comunale di diritti edificatori in favore
di alcuni soggetti ritenuti meritevoli, in quanto autori di con‑
dotte di promozione e soddisfacimento di interessi pubblici.
Gli interventi di riqualificazione urbana diretti a realizzare
attrezzature e servizi in aggiunta a quanto necessario per sod‑
disfare gli standards o migliorare la qualità ambientale deter‑
minano un premio, vale a dire nuovi diritti edificatori in ag‑
giunta a quelli già spettanti sull’area. L’istituto ha trovato
riconoscimento nella legge statale ed, in particolare, nella
legge finanziaria per il 200816. Ma, accanto a questa regola‑
mentazione nazionale17, vigono differenziate discipline re‑
14 La Corte Cost., con sentenza del 1999, n. 179, ha riconosciuto la legittimità
della compensazione urbanistica quale procedura alternativa all’indennizzo
espropriativo, che non penalizza i soggetti interessati dalle scelte urbanistiche
che incidono su determinati beni, riconoscendo la conformità all’ordinamento
di moduli di compensazione anche a prescindere da specifiche previsioni nor‑
mative.
15Già da questa breve disamina emerge in maniera in equivoca il discrimen tra la
perequazione e la compensazione.
La cessione perequativa è alternativa all’espropriazione, perché non prevede l’ap‑
posizione di un vincolo espropriativo sulle aree destinate ai servizi pubblici, ma
prevede che tutti i proprietari, sia di aree edificabili si di aree non edificabili,
partecipino alla realizzazione di infrastrutture pubbliche. La cessione compen‑
sativa, invece, si caratterizza per la previa apposizione di un vincolo d’inedifi‑
cabilità su aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche, potendo risto‑
rare il proprietario leso mediante l’attribuzione di crediti compensativi.
16 L’art. 1, comma 259, della legge finanziaria per il 2008 (legge 24 dicembre 2007,
n. 244), stabilisce che “ai fini dell’attuazione di interventi finalizzati ala realiz‑
zazione di edilizia residenziale sociale, di rinnovo urbanistico ed edilizio, di ri‑
qualificazione e miglioramento della qualità ambientale degli insediamenti, il
comune può, nell’ambito delle previsioni degli strumenti urbanistici, consentire
un aumento di volumetria premiale nei limiti di incremento massimi della ca‑
pacità edificatoria previsti per gli ambiti di cui al comma 258”.
17 La disciplina statale sul “piano casa”, rivolta all’incremento del patrimonio
immobiliare ad uso abitativo, consente il perseguimento di tale obiettivo anche
mediante la promozione da parte dei privati in project financing; in tale eve‑
nienza l’art. 11, comma 5, lett. a) del D. L. 25 giugno 2008, n. 112 prevede la
possibilità di trasferimento dei diritti edificatori in favore dei promotori degli
interventi di incremento del patrimonio abitativo.
amministrativo
Gazzetta
100
di r itto
a m m i n ist r ati v o
gionali sul tema, che spiccano anche per differenze termino‑
logiche. La legge veneta del 2004 parla di credito edilizio con
riferimento agli interventi di riqualificazione ambientale che
danno origine al premio; la legge lombarda consente al docu‑
mento di piano di prevedere, a fronte di rilevanti benefici
pubblici, una disciplina di incentivazione, in misura non su‑
periore al 15% della volumetria ammessa.
Diverse sono le ragioni che sottendono le tipologie di
misure urbanistiche prese in esame: redistributive nella
perequazione, indennitarie nella perequazione, incentivanti
nella premialità. A tali diversità ontologiche corrispondono
anche differenze nella disciplina dei diritti edificatori. Mentre
i diritti perequativi sono assegnati direttamente in seguito
alla formazione del piano e sono commerciabili nel momento
stesso in cui il piano è approvato; i diritti compensativi sono
attribuiti in seguito alla cessione all’amministrazione comu‑
nale del fondo sorgente e non hanno limiti spaziali; i diritti
incentivanti o premiali sono attribuiti in seguito all’intervento
di riqualificazione urbanistica ed ambientale. La diversa
natura e genesi dei diversi tipi di diritti edificatori determina,
altresi’, una diversità funzionale degli stessi. I diritti perequa‑
tivi sono assoggettati a revisioni in seguito alle modifiche del
piano che li ha assegnati; i diritti compensativi, in quanto
corrispettivo della prestazione privata di cessione dell’area,
sono del tutto indifferenti alle variazioni del piano.
Ma al di là delle palesi divergenze strutturali e funzionali
che contrassegnano le tre tipologie, residua un comune deno‑
minatore che le avvince in maniera stringente, rappresentato
dall’attitudine a generare quei diritti edificatori, che hanno
trovato una loro recente consacrazione nell’art. 5 del D. L. 13
maggio 2011, n. 70, convertito con la legge 12 luglio 2011,
n. 106 (c. d. Decreto Sviluppo), che inserisce nell’art. 2643,
comma 1, c. c. il punto 2 bis18 .
2. I nuovi diritti edificatori: natura giuridica e profili problematici
All’indomani dell’entrata in vigore della nuova normativa
in tema di circolazione dei diritti edificatori, dottrina e giu‑
risprudenza si sono schierate su posizioni divergenti, alla ri‑
cerca di soluzioni ricostruttive che potessero dirimere qual‑
sivoglia dubbio sulla complessità del meccanismo di funzio‑
namento.
Ciò che connota questa categoria di situazioni giuridiche
è, senza dubbio, la loro scorporazione rispetto alla titolarità
del fondo, trattandosi di diritti autonomi ed idonei in quanto
tali ad essere oggetto di negozi giuridici, senza un collegamen‑
to con l’area di provenienza o di destinazione19. Va sottoline‑
ato, però, un aspetto importante. Se nell’ipotesi di perequa‑
zione c’è un collegamento genetico tra diritto edificatorio e
terreno, al punto da assurgere il primo a qualità intrinseca del
Tale normativa, però, ingenera un dubbio sistematico. Ci si chiede se i diritti
edificatori ceduti al promotore siano comunque connessi ad una proprietà
preesistente, ovvero costituiscano “un tesoretto svincolato da una dimensione
realistica” (Bartolini, I diritti edificatori in funzione premiale, www.giustamm.
it, 10).
18Il 2 bis l’istituto della trascrizione a quei “contratti che trasferiscono, costitui‑
scono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, previsti da
normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoria‑
le”.
19Per un approfondimento dell’argomento, si veda S. Fantini, L’ambito di rile‑
vanze dei diritti edificatori, www.giustizia_amministrativa.it, ottobre 2011.
Gazzetta
F O R E N S E
secondo; nell’ipotesi di compensazione e di premialità questo
rapporto diretto di tipo genetico difetta, dal momento che il
diritto edificatorio è attribuito dall’amministrazione quale
corrispettivo per la cessione di un’area ovvero in seguito ad
un intervento di riqualificazione urbanistica.
Se, dunque, il diritto edificatorio, sia pure con delle sotti‑
li sfumature, non coincide con lo ius aedificandi, i motivi
espressi, senza dubbio ne rappresenta la dimensione quanti‑
tativa, evocando la volumetria concretamente utilizzabile dal
titolare dei diritto di edificare ed esprimendo, al contempo,
la misura della trasformazione urbanistica effettivamente
realizzabile dal medesimo. Ne discende il corollario per cui
questo diritto edificatorio viene ad assumere la consistenza di
una chance, come seria possibilità di trasformazione dell’as‑
setto territoriale in termini volumetrici 20. È una situazione
giuridica soggettiva che dialoga con il potere21 e che, segnata‑
mente, si atteggia alla stregua di un interesse legittimo pre‑
tensivo, in quanto il diritto a costruire è riconducibile al fascio
di facoltà connaturate alla proprietà fondiaria, il cui esercizio
è condizionato al rilascio di un titolo abilitativo edilizio da
parte dell’amministrazione. Ampliando le fila del ragionamen‑
to si potrebbe anche arrivare ad affermare che il diritto edifi‑
catorio è una situazione che vede la coesistenza di diritti
soggettivi e di interessi legittimi 22.
Il dibattito sulla natura giuridica dei diritti edificatori ha
recato con sé ulteriori spunti di riflessione circa aspetti pro‑
blematici legati all’operatività dell’art. 2643 c.c., che, al nuo‑
vo punto 2 bis, ad aver dato risposta ad esigenze di certezza
nella circolazione giuridica, ha anche tipizzato il contratto con
cui dispone dei diritti edificatori. L’esigenza di certezza giuri‑
dica si pone per rendere nota ai terzi la limitazione edificato‑
ria intervenuta con riguardo all’area di proprietà del cedente,
ma anche per rendere opponibili quelle cessioni di cubatura
strutturate in modo da non consentire previamente l’indivi‑
duazione di un’area di atterraggio delle volumetrie cedute.
Quanto al dato definitorio della categoria contrattuale di ri‑
ferimento, senza dubbio si aggiungono al contratto di trasfe‑
rimento le “fattispecie modificative e costitutive” dei diritti
edificatori. Finora il trasferimento dei diritti edificatori esau‑
riva l’ambito dell’attività negoziale dei privati consentita nella
materia in esame. Il riferimento alla costituzione e modifica‑
zione sembra alludere all’esercizio dei poteri pubblicistici e,
dunque, ad atti convenzionali tra il privato e l’amministrazio‑
ne, non propriamente contrattuali, in quanto non espressione
di autonomia privata, bensì veicolo di discrezionalità ammi‑
nistrativa 23.
20 Bartolini, Profili giuridici del credito di volumetria, Riv. Giur. Urb., 303
e ss.
21 Scoca, Interessi protetti, Enc. Giur., Roma, 1989, 9.
22In tal senso, E. Boscolo, Le novità in materia urbanistico‑edilizia introdotte
dall’art. 5 del decreto sviluppo, Urb. e app., 1060: il diritto edificatorio è disci‑
plinato al contempo da norme di azione e norme di relazione, che evidenziano
“il lato pubblicistico, inscindibilmente connesso alla sua derivazione e destina‑
zione entro una vicenda che coinvolge anche l’amministrazione, e di un lato
privatistico, che si manifesta ove il titolo viene assunto alla stregua di un be‑
ne‑diritto avente natura patrimoniale e suscettibile di circolazione autono‑
ma”.
23P. Urbani, Le innovazioni in materia di edilizia privata nella legge n. 106/2011,
di conversione del d.l. 13 maggio 2011, n. 70. Semestre europeo‑ prime dispo‑
sizioni urgenti per l’economia, www.giustamm.it, 2011, 5: “un esempio di
contratto costitutivo di diritti potrebbe essere quello concluso ai sensi dell’art. 45
del t. u. sull’espropriazione, che nel sancire il diritto del proprietario di stipula‑
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
Altra questione riguarda le modalità di trasferimento dei
diritti edificatori e poi dei diritti premiali, cioè connessi alle
premialità edilizie. Occorre chiedersi, in particolare, se sia
necessario l’esperimento di un procedimento di evidenza
pubblica o di valutazione comparativa concorrenziale24. Il
tema, parzialmente affrontato dall’ Autorità di Vigilanza sui
contratti pubblici 25, richiede una rivisitazione del concetto
di onerosità. Anche a voler ritenere che lo stesso sia collega‑
bile solamente ad una controprestazione in termini moneta‑
ri e, dunque, in difetto di corrispettività, deve comunque
ritenersi che la fattispecie della cessione dei diritti edificato‑
ri soggiaccia ai principi del Trattato in tema di concorrenza,
valevoli al di là dei confini tracciati dalle direttive26. Nei
diritti premiali non vi è, invece, corrispettività tra le presta‑
zioni e l’ambito nazionale di riferimento sembra essere quel‑
lo dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici, di‑
sciplinati dall’art. 2 della legge 241/1990. Atteso che la
legge subordina le sovvenzioni alla predeterminazione e
pubblicazione dei criteri e delle modalità cui le amministra‑
zioni devono attenersi, si è ritenuto in dottrina che ciò esima
l’amministrazione dal procedere all’assegnazione con proce‑
dure competitive27.
Degno di riflessione è, altresi’, l’aspetto inerente all’indi‑
viduazione del fondamento dei diritti edificatori. Sebbene la
legge statale si sia marginalmente occupata di queste peculia‑
ri situazioni giuridiche soggettive, riconoscendone l’esistenza
e regolamentandone il funzionamento (come, da ultimo, il
recente Decreto Sviluppo), la fonte principale di disciplina è
tradizionalmente stata la legge regionale e ciò ha sempre dato
adito a dibattiti circa la sua legittimità in tal senso. L’inqua‑
dramento prospettato induce a dare una soluzione positiva al
quesito, in quanto i diritti edificatori sono espressione del
potere conformativo del territorio e della proprietà, che è il
quidproprio della pianificazione urbanistica. Non viene,
dunque, in gioco, sempre in linea di principio, la competenza
esclusiva statale in materia di ordinamento civile ex art. 117,
comma 2, Cost., ma la potestà concorrente in materia di go‑
verno del territorio ex art. 117, comma 3, Cost.
Resta inteso che, laddove la disciplina dei diritti edifica‑
tori incida sulla materia dell’ordinamento civile, sarà neces‑
saria la legge statale, come è emblematicamente accaduto con
l’art. 5 del Decreto 70 del 2011, che estende il regime di pub‑
re un atto di cessione volontaria del bene espropriando, consente di prevedere
un controvalore in diritti edificatori anziché in denaro”.
24Nell’esperienza pratica, va ricordato come nel Comune di Reggio Emilia sia
stata disposta, a prescindere dal fatto che ciò fosse o meno dovuto alla stregua
di quanto disposto dalla legge regionale Emilia Romagna 24 marzo 2000, n. 20,
l’alienazione di quote di edificabilità generate da proprietà fondiarie comunali
mediante gara aperta, secondo il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, finalizzata alla selezione delle aree su cui far atterrare i diritti
edificatori.
25 L’Autorità in questione, con la determinazione n. 4 del 2 aprile 2008, con rife‑
rimento ad una convenzione urbanistica, che prevedeva, a fronte del riconosci‑
mento al soggetto privato di diritti edificatori, la cessione, da parte dello stesso,
di aree, ovvero la realizzazione di opere di adeguamento infrastrutturale e di
trasformazione del territorio, ha ritenuto, richiamando la sentenza della Corte
Costituzionale 23 marzo 2006, n. 129 sulla legge regionale Lombardia n. 12
del 2005, che le opere che il privato si impegna a fare sono assoggettate alla
disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici di lavori, salvo
che l’amministrazione non abbia esperito previamente una procedura ad evi‑
denza pubblica per la scelta del privato sottoscrittore.
26 Cons. Stato, Sez. VI, 10 gennaio 2007, n. 30, in Foro amm. – CDS, 2, 1, 161.
27 Bartolini, I diritti edificatori in funzione premiale, 5‑6.
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blicità immobiliare ai “contratti che trasferiscono, modifica‑
no o costituiscono i diritti edificatori comunque denominati,
previsti da normative statali o regionali ovvero da strumenti
di pianificazione territoriale”. Il riferimento alla pianificazio‑
ne territoriale come fonte di disciplina dei diritti edificatori,
contenuto nella norma, schiude la strada ad una riflessione in
ordine al fatto che, anche in assenza di una legge regionale,
può essere lo strumento urbanistico a contenere una discipli‑
na della materia 28.
Collegato al complesso meccanismo di funzionamento dei
diritti edificatori è il puntum dolens la possibilità di parlare
di un mercato di capacità edificatorie virtuali. In sostanza, se
si è detto che il titolare di un titolo volumetrico possa trasfe‑
rire la propria volumetria mediante negozio di cessione ad
altro soggetto, che così acquista un credito edilizio, da com‑
merciare con altri ovvero da far atterrare su un’area conces‑
sionaria, ci si è chiesti se la possibilità di un trasferimento di
tali diritti “in volo” (in una condizione cioè in cui è indivi‑
duata l’area di decollo, ma non anche quella di atterraggio)
configuri un vero e proprio mercato di titoli smaterializzati.
Benché alcune norme regionali contemplino questa evenienza,
non sembra esservi spazio per un libero mercato dei diritti
edificatori, in quanto le norme e gli strumenti urbanistici ne
contemplano la commerciabilità nella misura in cui siano
funzionali ad un più equo ed efficiente governo del territorio.
Ne è la prova il fatto che tali negoziazioni sussistano negli
ambiti della perequazione, della compensazione e delle pre‑
mialità edilizie.
Ma, anche ove si intenda configurare un mercato di titoli
edificatori, proprio in considerazione dei rischi cui vanno
incontro i crediti edilizi in volo, e cioè non ancora atterrati
sull’area di destinazione, si tratterebbe comunque di un mer‑
cato a rischio di inefficienza e soprattutto non libero, perché
condizionato dal ruolo di decisore dell’amministrazione pub‑
blica e, dunque, non di un mercato di diritti 29.
28 È quanto accaduto con il nuovo P.R.G. di Roma, in relazione al quale il Con‑
siglio di Stato, Sez. IV, 13 luglio 2010, n. 4545 (in www.giustamm.it, 2010) ha
ritenuto legittimo l’istituto perequativo della cessione delle aree a favore dell’am‑
ministrazione, proprio nella considerazione che, pur in assenza di una specifica
previsione normativa, trova il suo fondamento in due pilastri fondamentali del
nostro ordinamento e cioè nella potestà conformativa del territorio di cui è ti‑
tolare l’amministrazione nell’esercizio della propria attività di pianificazione,
ed al contempo nella possibilità di utilizzare i modelli consensuali per il perse‑
guimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dall’art. 1,
comma 1 bis, e 11 della legge 241 del 1990.
29 Renna, L’esperienza della Lombardia, Governo e mercato dei diritti edifica‑
tori: esperienze regionali a confronto, cura di Bartolini‑ Maltoni, 2009,
p. 70‑84, il quale, con riferimento all’ipotesi in cui un Comune crei dal nulla e
si auto assegni diritti edificatori, evoca, pur con le debite differenze, la vicenda
del battere moneta senza riserva aurea. A p. 85, precisa che “ove si intenda
istituire mercato di diritti edificatori virtuali, si deve essere consapevoli del
fatto che si tratterebbe di diritti per forza esposti, con il passare del tempo e
con l’allungarsi del loro volo, al rischio di non poter essere totalmente concre‑
tizzati”.
amministrativo
Gazzetta
102
di r itto
●
F O R E N S E
TAR LAZIO - ROMA SEZ. II
sentenza 20 maggio 2013, n. 5021
Luigi Tosti, Presidente; Elena Stanizzi, Estensore
Accessibilità degli atti
amministrativi generali,
di pianificazione
e di programmazione
Nota a Tar Lazio – Roma, sez. II, 20 maggio 2013,
n. 5021
● Alessandro Barbieri
Gazzetta
a m m i n ist r ati v o
Gli atti di carattere generale e normativo sono suscettibi‑
li di divulgazione e possono formare oggetto di accesso.
Non può essere negato l’accesso agli atti inerenti la deter‑
minazione del fabbisogno da acquisire mediante mobilità
intercompartimentale ed agli atti inerenti il fabbisogno com‑
plessivo di personale dell’ente in quanto, adottati a conclu‑
sione del relativo procedimento e espressione di potestà or‑
ganizzatoria, rivestono carattere definitivo, amministrativo
generale, a contenuto programmatorio e di pianificazione.
Esulano dall’ambito applicativo del comb. disposto di cui agli
artt. 13 comma 1 e 24 comma 1 lett. c) della Legge n. 241/90
tutti gli atti normativi, amministrativi generali, di pianifica‑
zione e di programmazione che non siano sussumibili nel
novero degli atti endoprocedimentali e sempre che per essi la
legge non contempli un autonomo regime di pubblicità, con
conseguente illegittimità della motivazione di diniego di ac‑
cesso agli atti.
Avvocato
***
(Omissis)
Fatto
Espongono in fatto gli odierni ricorrenti di aver presenta‑
to istanza di accesso, in qualità di soggetti risultati idonei
allo svolgimento del tirocinio tecnico‑pratico di cui alla sele‑
zione bandita nel 2008 dall’Agenzia delle Entrate, volta ad
ottenere gli atti inerenti la determinazione del fabbisogno da
acquisire mediante mobilità intercompartimentale, gli atti
inerenti la procedura di mobilità intercompartimentale di cui
alla nota prot. n. 94765/RU e gli atti inerenti il fabbisogno
complessivo di personale dell’ente.
L’istanza di accesso è stata presentata a fronte della deter‑
minazione dell’Agenzia delle Dogane di provvedere al soddi‑
sfacimento del proprio fabbisogno mediante mobilità inter‑
compartimentale nonostante l’esistenza di graduatorie regio‑
nali ancora valide ed efficaci, ai sensi del decreto legge n. 216
del 2011, in cui risultano collocati i ricorrenti, da cui attinge‑
re.
Tale istanza è stata rigettata, mediante adozione del gra‑
vato provvedimento, nella considerazione che, con riferimen‑
to alla richiesta relativa agli atti inerenti la determinazione
del fabbisogno da acquisire mediante mobilità intercompar‑
timentale ed agli atti inerenti il fabbisogno complessivo di
personale dell’ente, l’art. 24, comma 1, lettera c), della legge
n. 241 del 1990 esclude l’accesso con riferimento agli atti
generali, di pianificazione e di programmazione.
Con riferimento alla richiesta di accesso agli atti inerenti
la procedura di mobilità intercompartimentale di cui alla
nota prot. n. 94765/RU, il diniego di accesso poggia sulla
considerazione dell’assenza di un collegamento tra gli stessi e
la posizione degli istanti, precisando che per la tutela degli
interessi degli stessi deve essere considerata sufficiente la co‑
noscenza degli atti già pubblicati, nel dettaglio indicati.
Avverso tale diniego di accesso, deducono i ricorrenti i
seguenti motivi di censura:
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
1 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 97 della Co‑
stituzione. Violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e
seguenti della legge n. 241 del 1990. Eccesso di potere. Vio‑
lazione e falsa applicazione degli artt. 3, 13 e 24 della legge
n. 241 del 1990. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, all.
1, della legge n. 14 del 2012 e del comma 4 bis dell’art. 1.
Violazione dei principi di imparzialità e buon andamento
della P.A.. Ingiustizia manifesta. Difetto di motivazione.
Denunciano i ricorrenti l’illegittimità dell’interpretazione
adottata dalla resistente Amministrazione con riferimento al
diniego di accesso agli atti relativi alla determinazione del
fabbisogno di personale dell’ente, sostenendo che, ai sensi
dell’art. 24, comma 1, lettera c), della legge n. 241 del 1990,
l’accesso deve essere escluso solo con riferimento all’attività
diretta all’emanazione di atti normativi, generali, di pianifi‑
cazione e di programmazione, e quindi ai soli atti che ne co‑
stituiscono il substrato, dovendo conseguentemente essere
riconosciuto l’accesso agli atti programmatori definitivi e non
aventi natura infraprocedimentale.
Affermano, inoltre, i ricorrenti che essendo la scelta
dell’Amministrazione di procedere alla mobilità intercompar‑
timentale comunque connessa agli atti di programmazione del
fabbisogno del personale, e rivestendo la stessa natura lesiva
dei propri interessi, non potrebbe negarsi l’accesso ad atti
dotati di autonoma lesività e suscettibili di impugnativa giu‑
risdizionale.
2 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 97 della Co‑
stituzione. Violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e
seguenti della legge n. 241 del 1990. Eccesso di potere. Vio‑
lazione e falsa applicazione degli artt. 3, 13 e 24 della legge
n. 241 del 1990. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, all.
1, della legge n. 14 del 2012 e del comma 4 bis dell’art. 1.
Violazione dei principi di imparzialità e buon andamento
della P.A.. Ingiustizia manifesta. Difetto di motivazione.
Contestano i ricorrenti la motivazione con la quale l’Am‑
ministrazione ha negato l’accesso sul rilievo dell’assenza di un
collegamento tra la posizione degli istanti e gli atti inerenti la
procedura di mobilità intercompartimentale per non avere
essi partecipato a tale procedura né contestato la legittimità
degli atti endoprocedimentali, sostenendo, quanto al rilievo
ostativo tributato alla mancata partecipazione alla procedura,
l’inconferenza dello stesso, per essere la mobilità riservata
solo ai soggetti già appartenenti all’Amministrazione, ed af‑
fermando di essere portatori di un interesse diretto, concreto
e attuale alla conoscenza dei documenti richiesti per essere
risultati idonei alla selezione pubblica per l’assunzione a tem‑
po indeterminato di funzionari per attività amministrati‑
vo‑tributaria, sulla base di graduatorie regionali tuttora vali‑
de ed efficaci, sulla cui base hanno diffidato l’Amministrazio‑
ne a procedere allo scorrimento delle graduatorie in luogo
della mobilità intercompartimentale, lesiva delle posizioni dei
ricorrenti.
Evidenziano, al riguardo, di essere destinatari di uno
specifico regime legislativo di assunzione, come dettato
dall’art. 1, allegato 1, della legge n. 14 del 20012, di conver‑
sione in legge del decreto legge n. 216 del 2011, ai sensi del
quale l’efficacia delle graduatorie di merito per l’ammissione
al tirocinio tecnico‑pratico è prorogata sino al 31 dicembre
2012, e da tali graduatorie deve essere attinto il personale
prima di reclutare nuovo personale.
2 0 1 3
103
Quanto al rilievo, contenuto nel gravato atto di diniego di
accesso, secondo cui i ricorrenti non avrebbero contestato la
legittimità degli atti endoprocedimentali, precisano gli stessi
l’impossibilità di siffatta contestazione per non essere a cono‑
scenza di tali atti, evidenziando come l’interesse che sorregge
l’accesso non coincide con quello all’impugnazione e deve
essere inteso in senso ampio.
Si sono costituite in resistenza le intimate Amministrazio‑
ni difendendo la legittimità del gravato provvedimento e so‑
stenendo l’infondatezza del ricorso, con richiesta di corrispon‑
dente pronuncia.
Con memoria successivamente depositata i ricorrenti
hanno controdedotto a quanto ex adverso sostenuto, insisten‑
do nelle loro deduzioni e ulteriormente argomentando.
Alla Camera di Consiglio del 10 aprile 2013 la causa è
stata chiamata e, sentiti i difensori delle parti presenti, trat‑
tenuta per la decisione, come da verbale.
Diritto
Con il ricorso in esame, proposto ai sensi dell’art. 116 del
codice del processo amministrativo, è impugnato il provvedi‑
mento – meglio indicato in epigrafe nei suoi estremi – con cui
è stata rigettata l’istanza presentata dagli interessati all’Agen‑
zia delle Dogane, volta ad ottenere l’accesso agli atti inerenti
la determinazione del fabbisogno da acquisire mediante mo‑
bilità intercompartimentale, gli atti inerenti la procedura di
mobilità intercompartimentale di cui alla nota prot. n. 94765/
RU e gli atti inerenti il fabbisogno complessivo di personale
dell’ente.
Tale istanza è stata presentata dagli odierni ricorrenti a
fronte dell’avvio delle procedure di mobilità intercomparti‑
mentale da parte dell’Agenzia delle Dogane, ritenuta dagli
stessi illegittima stante la persistente validità ed efficacia
delle graduatorie regionali per l’assunzione a tempo indeter‑
minato di funzionari per l’attività amministrativo‑tributaria,
cui i ricorrenti hanno partecipato risultando idonei e da cui
l’Amministrazione avrebbe dovuto attingere il personale tra‑
mite scorrimento, ai sensi dell’art. 1, Allegato 1, della legge
n. 14 del 2012.
L’istanza di accesso è stata rigettata nella considerazio‑
ne – quanto agli atti relativi alla determinazione del fabbiso‑
gno di personale da acquisire mediante mobilità intercompar‑
timentale e del fabbisogno complessivo di personale dell’en‑
te – che trattasi di atti rientranti nella previsione di cui
all’art. 24, comma 1, lettera c), della legge n. 241 del 1990, ai
sensi della quale l’accesso deve essere escluso con riferimento
agli atti generali, di pianificazione e di programmazione.
Con riferimento alla richiesta di accesso agli atti inerenti
la procedura di mobilità intercompartimentale di cui alla
nota prot. n. 94765/RU, il gravato diniego di accesso poggia
sulla considerazione dell’assenza di un collegamento tra gli
stessi e la posizione degli istanti, per non avere gli stessi par‑
tecipato alla procedura di mobilità e per non averne contesta‑
to i relativi atti infraprocedimentali, ulteriormente evidenzian‑
do che per la tutela degli interessi degli istanti deve essere
considerata sufficiente la conoscenza degli atti già pubblicati,
nel dettaglio indicati.
Posta tale breve ricognizione del contenuto del gravato
provvedimento di diniego di accesso alla richiesta documen‑
tazione e procedendo al vaglio della legittimità dello stesso,
alla luce delle doglianze sollevate dai ricorrenti, osserva in
amministrativo
Gazzetta
104
di r itto
a m m i n ist r ati v o
primo luogo il Collegio che deve essere censurato il richiamo,
ivi contenuto a sostegno della decisione, all’art. 24, comma 1,
lettera c), della legge n. 241 del 1990, quale fondamento
dell’opposto diniego all’accesso agli atti con cui è stato deter‑
minato il fabbisogno del personale da acquisire mediante
mobilità intercompartimentale ed il fabbisogno complessivo
di personale dell’ente, dovendo al riguardo rilevarsi che tale
previsione fa riferimento, in senso letterale, ai soli atti endo‑
precedimentali diretti all’emanazione di atti amministrativi
generali, di pianificazione e di programmazione, e non già
agli atti definitivi aventi carattere generale, di pianificazione
e di programmazione.
La citata norma è chiara, difatti, nel sottrarre all’accesso
unicamente “l’attività della pubblica amministrazione diretta
all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di
pianificazione e di programmazione” e non già gli atti con‑
clusivi del procedimento aventi tali caratteri di generalità,
pianificazione e programmazione.
Se, dunque, viene escluso l’accesso agli atti preparatori
intervenuti nel corso della formazione dei provvedimenti
normativi ed amministrativi generali, analoga esclusione non
può predicarsi – alla luce del tenore letterale della norma e
della sua connessione con il mancato riconoscimento di dirit‑
ti partecipativi nell’ambito dell’attività amministrativa diret‑
ta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali,
di pianificazione e di programmazione – con riferimento alla
documentazione avente natura normativa, generale, di piani‑
ficazione o di programmazione una volta che il relativo pro‑
cedimento abbia trovato definizione.
Ne deriva che anche gli atti di carattere generale e norma‑
tivo sono in linea di principio suscettibili di divulgazione e
possono, quindi formare oggetto di accesso, con il solo limite
per i casi in cui sia previsto un autonomo regime di pubblici‑
tà, che rende l’istanza di accesso superflua.
Posto, quindi, che la documentazione di cui all’istanza di
accesso presentata dai ricorrenti, come riferita agli atti ine‑
renti la determinazione del fabbisogno da acquisire mediante
mobilità intercompartimentale ed agli atti inerenti il fabbiso‑
gno complessivo di personale dell’ente, riveste carattere am‑
ministrativo generale, a contenuto programmatorio e di pia‑
nificazione, espressione di potestà organizzatoria, ed avendo
tali atti carattere definitivo in quanto adottati a conclusione
del relativo procedimento, la motivazione posta a sostegno
del gravato diniego risulta frutto di un’errata percezione del‑
la portata della previsione di cui all’art. 24, comma 1, lettera
c), della legge n. 241 del 1990, con riveniente illegittimità
della stessa.
La citata norma esclude espressamente dal suo ambito di
applicazione solo quelle attività rivolte alla adozione ed alla
approvazione degli atti ivi indicati, e non gli atti conclusivi,
dovendo coniugarsi la portata di detta previsione con quella
di cui all’art. 13 della legge n. 241 del 1990, che esclude i
diritti partecipativi nei confronti dell’attività della pubblica
amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e di programmazio‑
ne, riferendosi quindi la prevista esclusione ai soli atti prepa‑
ratori allorché sia ancora in corso il procedimento e dovendo
invece riconoscersi il diritto all’accesso sul presupposto che
l’Amministrazione abbia concluso il procedimento, con l’ema‑
nazione del provvedimento.
Gazzetta
F O R E N S E
L’esclusione dell’accesso e della partecipazione alla fase
preparatoria degli atti amministrativi generali, normativi, di
pianificazione e di programmazione – quest’ultima esclusione
riconducibile alla necessità di evitare intralci all’azione am‑
ministrativa ed alla inutilità della stessa stante la generalità
degli atti, non suscettibili di arrecare concreti pregiudizi ai
privati, tali da richiederne il coinvolgimento in sede procedi‑
mentale – si traduce in un differimento e non in una radicale
esclusione, cosicché l’accesso, ricorrendone i presupposti, può
essere consentito dal momento della formazione del provve‑
dimento finale.
Se i principi generali in tema di partecipazione procedi‑
mentale hanno lo scopo di assicurare l’acquisizione corretta
e imparziale degli interessi privati coinvolti nell’esercizio del
pubblico potere, l’esclusione della partecipazione nei procedi‑
mento volti all’adozione di atti generali, normativi e di pro‑
grammazione, si giustifica con la non utilità, nell’ambito dei
relativi procedimenti, dell’acquisizione del contributo dei
privati, cui corrisponde la mancata previsione del diritto di
accesso ai relativi atti infraprocedimentali, nei cui confronti
non è ravvisabile la sussistenza di una posizione di interesse
concreto e attuale cui l’accesso potrebbe risultare funziona‑
le.
Discende, dalla superiori considerazioni, l’illegittimità
della motivazione, recata dal gravato provvedimento, sottesa
al diniego di accesso ai documenti relativi alla determinazio‑
ne del fabbisogno di personale da soddisfare mediante proce‑
dura di mobilità intercompartimentale e del fabbisogno
complessivo di personale dell’ente, non trattandosi di catego‑
rie di atti che, per la loro natura di atti generali ed il loro
carattere programmatorio quanto a profili organizzativi ine‑
renti la provvista di personale, sono ex se sottratti all’accesso
ai sensi della disciplina dettata dal citato art. 24 della legge
n. 241 del 1990, la quale riconduce la sottrazione al diritto di
accesso ai soli atti preparatori ed endoprocedimentali volti
all’adozione di tali categorie di atti, dovendo ravvisarsi la ra‑
tio di tale sottrazione all’accesso nell’esigenza di non creare
intralcio all’azione amministrativa, anche nella considerazio‑
ne della assenza di esigenze di dialettica procedimentale con
i privati con riferimento all’adozione di tali atti, fatte salve
discipline specifiche di pubblicità per determinate categorie
di atti.
Tanto chiarito quanto alla riconducibilità dei predetti
atti tra quelli per i quali è consentito l’esercizio del diritto di
accesso, deve rilevarsi, quanto ai richiesti presupposti legitti‑
manti la relativa azione, che deve riconoscersi, in capo ai ri‑
correnti, la sussistenza di una posizione di interesse all’acqui‑
sizione dei richiesti documenti in quanto direttamente con‑
nessi con la situazione giuridica di cui gli stessi sono portato‑
ri, come radicata nella loro posizione di soggetti risultati
idonei allo svolgimento del tirocinio tecnico‑pratico in esito
alla selezione, indetta nel 2008, per l’assunzione a tempo in‑
determinato di funzionari per attività amministrativo‑tribu‑
taria, essendo stata la validità ed efficacia delle relative gra‑
duatorie regionali prorogata sino al 31 dicembre 2012 per
effetto dell’art. 1, Allegato 1, della legge n. 14 del 2012 – di
conversione del decreto legge n. 216 del 2011 – cui l’Ammini‑
strazione deve attingere fino alla loro completa utilizzazione,
prima di poter reclutare nuovo personale.
Sulla base di tale posizione giuridica soggettiva, come
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
delineata dallo specifico regime legislativo privilegiato di as‑
sunzione di cui alla illustrata previsione normativa, viene
dunque a delinearsi l’interesse diretto, attuale e concreto dei
ricorrenti ad ottenere l’ostensione dei richiesti documenti, a
fronte della decisione della resistente Amministrazione di
provvedere al soddisfacimento del proprio fabbisogno di
personale mediante procedura di mobilità intercompartimen‑
tale, piuttosto che attingere alle graduatorie regionali, valide
ed efficaci, in cui i ricorrenti sono collocati quali soggetti
idonei.
L’interesse di cui i ricorrenti sono portatori acquista, dun‑
que, carattere di concretezza ed attualità proprio in ragione
della decisione della resistente Amministrazione di avviare
procedure di mobilità intercompartimentale piuttosto che
attingere alle graduatorie regionali, così incidendo sulla posi‑
zione giuridica degli stessi.
Tali considerazioni vanno coniugate con i principi gene‑
rali declinati in materia di accesso alla documentazione am‑
ministrativa, sulla cui base deve riconoscersi il diritto di ac‑
cesso, ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241 del 1990, a
chiunque vi abbia interesse, ricollegando siffatto interesse
all’esigenza di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti. Per
aversi un interesse qualificato e una legittimazione ad accede‑
re alla documentazione amministrativa è necessario trovarsi
in una posizione differenziata ed avere una titolarità di una
posizione giuridicamente rilevante, che significa non titolari‑
tà di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo – ossia
posizioni giuridiche soggettive piene – ma di una posizione
giuridica soggettiva allo stato anche meramente potenziale,
radicandosi, nel caso di specie, la posizione legittimante l’ac‑
cesso, nella posizione di idonei rivestita dai ricorrenti nelle
graduatorie cui l’Amministrazione deve attingere, ai sensi
della richiamata normativa, per soddisfare i propri fabbisogni
di personale, laddove la stessa ha invece optato per la proce‑
dura di mobilità intercompartimentale.
Ciò in quanto il diritto di accesso, e quindi alla trasparen‑
za dell’azione amministrativa e alla conoscenza di atti con‑
nessi con una posizione giuridica soggettiva giuridicamente
rilevante, costituisce situazione attiva meritevole di autonoma
protezione, in quanto diretto al conseguimento di un autono‑
mo bene della vita.
Sussiste, quindi, un interesse diretto, concreto e attuale in
capo ai ricorrenti, corrispondente ad una situazione giuridi‑
camente tutelata e collegata alla documentazione richiesta
dalla quale poter evincere sia il fabbisogno totale di persona‑
le dell’ente, sia il fabbisogno che si intende soddisfare median‑
te procedura di mobilità intercompartimentale, essendo in‑
dubbia la rilevanza della conoscenza di tali atti in relazione
alle aspettative maturate dai ricorrenti sulla base della posi‑
zione rivestita nell’ambito delle predette graduatorie.
Risulta, quindi, soddisfatta la condizione in base alla
quale l’esercizio del diritto di accesso – in quanto non corri‑
spondente ad una azione popolare – deve essere necessaria‑
mente collegato alla sussistenza (e alla puntuale rappresenta‑
zione) di un interesse differenziato, concreto ed attuale
all’accesso ai documenti, postulando pertanto il diritto di
accesso – per come configurato dalla legge n. 241 del 1990 – un
accertamento concreto dell’esistenza di un bisogno differen‑
ziato di conoscenza in capo a chi richiede i documenti, non
essendo l’accesso orientato ad un controllo generalizzato ed
2 0 1 3
105
indiscriminato di chiunque sull’azione amministrativa (che è
anzi espressamente vietato a norma dell’art. 24 comma 3), ma
solo alla conoscenza da parte dei singoli titolari di atti effet‑
tivamente, o anche solo potenzialmente, incidenti sui loro
interessi particolari.
Nel caso di specie, essendo la scelta dell’Amministrazione
di procedere alla mobilità intercompartimentale comunque
connessa agli atti di programmazione del fabbisogno del
personale, e rivestendo la stessa natura lesiva degli interessi
dei ricorrenti in quanto incidente sulla loro posizione di idonei
in graduatorie da cui normativamente attingere tramite scor‑
rimento, va riconosciuto il loro interesse alla conoscenza
della richiesta documentazione.
Il positivo riscontro della legittimazione all’accesso in
capo ai ricorrenti, come parametrata alla titolarità di una
posizione differenziata su cui si radica un interesse diretto,
attuale e concreto alla conoscenza della indicata documenta‑
zione, stante il collegamento della stessa con detta posizione,
va esteso anche agli atti inerenti la procedura di mobilità in‑
tercompartimentale di cui alla nota prot. n. 94765/RU,
anch’essi oggetto dell’istanza di accesso.
Con riferimento a tali atti, la resistente Amministrazione
ha negato l’accesso nella considerazione dell’assenza di un
loro collegamento con la situazione giuridica di cui gli istan‑
ti sono portatori, come desunta dalla circostanza che gli
stessi non hanno partecipato alla procedura di mobilità e non
hanno contestato tale procedura con riferimento agli atti
endoprocedimentali.
In disparte il rilievo circa l’erroneità della negazione del
necessario collegamento tra posizione giuridica rivestita e
richiesta documentazione come basata sulla mancata parte‑
cipazione dei ricorrenti alla procedura di mobilità – la quale
è riservata ai soli soggetti già appartenenti alle Amministra‑
zioni dello Stato – tale collegamento è invero rinvenibile alla
luce dell’incidenza di tale documentazione sulla posizione
rivestita dai ricorrenti, in quanto preclusiva della possibilità
di procedere allo scorrimento delle graduatorie in cui gli
stessi sono inseriti.
Né, ai fini del riconoscimento della legittimazione all’ac‑
cesso occorre che la documentazione richiesta sia funzionale
alla difesa in giudizio delle posizioni vantate dagli istanti,
stante il carattere autonomo dell’interesse all’accesso rispetto
all’interesse all’impugnazione.
Ed invero, la legittimazione all’accesso deve essere ricono‑
sciuta a chiunque subisca dagli atti di cui è chiesta l’ostensio‑
ne, effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendente‑
mente dalla lesione di una posizione giuridica stante l’auto‑
nomia del diritto di accesso, inteso come bene della vita di‑
stinto rispetto alla posizione legittimante all’impugnativa
degli atti.
Né il diritto di accesso può essere negato, a fronte della
riconducibilità degli atti richiesti tra quelli di cui è possibile
l’ostensione e della sussistenza di una posizione legittimante,
sulla base della considerazione, contenuta nel gravato atto di
diniego, secondo cui per la tutela degli interessi dei ricorrenti
dovrebbe essere considerata sufficiente la conoscenza degli
atti già pubblicati, nel dettaglio indicati, in quanto, laddove
gli atti già pubblicati siano diversi da quelli richiesti – posto
che la pubblicità degli atti rende superfluo l’accesso – non può
l’Amministrazione sostituirsi nelle valutazioni rimesse agli
amministrativo
Gazzetta
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a m m i n ist r ati v o
istanti in ordine alle esigenze di conoscenza degli atti ritenuti
funzionali alla tutela delle proprie posizioni giuridiche una
volta riscontrato il collegamento tra l’interesse giuridicamen‑
te rilevante e la documentazione richiesta.
Discende dalle considerazioni sin qui illustrate che, stante
la sussistenza, in capo ai ricorrenti, di un interesse specifico,
concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridi‑
camente tutelata e collegata alla richiesta documentazione, e
stante l’ostensibilità degli atti richiesti – non sottratti all’acces‑
so in ragione della loro natura alla luce della disciplina di rife‑
rimento – il ricorso in esame deve essere accolto, con conseguen‑
te annullamento del gravato provvedimento di diniego, la cui
illegittimità risiede nelle esposte argomentazioni, e riconosci‑
mento del diritto dei ricorrenti ad ottenere l’esibizione della
richiesta documentazione, ordinando alla resistente Agenzie
delle Dogane di provvedere in ordine all’istanza dei ricorrenti.
(Omissis)”
*** Nota a sentenza
Premessa
La sentenza in epigrafe affronta il problema dell’accessi‑
bilità ai documenti amministrativi1 alla luce delle esclusioni
contemplate dalla Legge sul procedimento amministrativo e,
segnatamente, dal comb. disp. degli artt. 13 comma 1 e 24
comma 1 lett. c) della Legge n. 241/90.
Va, al riguardo, evidenziato che la recente decisione dei
giudici amministrativi muove da una interpretazione lettera‑
le e costituzionalmente orientata della normativa di riferimen‑
to approdando alla conclusione, da un lato, della inutilità
della partecipazione procedimentale e dell’acquisizione di
contributi di privati nell’ambito del processo di formazione
degli atti generali, normativi e di programmazione e, dall’al‑
tro, della sussistenza del relativo diritto ad accedere agli atti
allorquando l’amministrazione abbia concluso il relativo
procedimento.
E ciò in quanto, il diritto di accesso, anche in tali ipotesi,
cristallizza un principio cardine e generale dell’attività ammi‑
nistrativa, volto a favorire nel modo più ampio possibile la
partecipazione procedimentale onde assicurare l’imparzialità
e la trasparenza laddove, in concreto, sussista un interesse
effettivo ed attuale agli atti conclusivi del procedimento (ge‑
nerali, normativi e di programmazione) per i quali è stato
richiesto l’accesso2.
I giudici campani, anche alla luce delle difficoltà interpre‑
tative circa la natura giuridica dell’ accesso e della rilevanza
dell’interesse all’esercizio del diritto all’ostensione, hanno ri‑
tenuto illegittimo il diniego espresso dall’Agenzia delle Doga‑
1
Cfr. Cassese, Dizionario di diritto pubblico, Volume I, Giuffrè, 2006; San‑
dulli, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Enc. dir., Agg., IV,
2000; Sandulli, Il procedimento, in Trattato di diritto amministrativo, (a
cura di Cassese), Parte generale, Milano, 2003, spec. 1157; Sandulli, Ac‑
cesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Enc. dir., (agg.) Milano,
2001.
2 Cfr. sul punto Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6682; Tar Marche,
n. 681/2011.
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ne e dei Monopoli in merito a una istanza di accessi tendente
a ottenere gli atti inerenti la determinazione del fabbisogno
del personale da acquisire mediante mobilità intercomprati‑
mentale e gli atti inerenti il fabbisogno complessivo persona‑
le dell’ente, avanzata dai soggetti risultati idonei allo svolgi‑
mento tecnico‑pratico della selezione bandita dall’Agenzia
delle Entrate.
Le motivazioni del Tar Campania offrono lo spunto per
una riflessione sulla disciplina prevista dal legislatore per il
diritto di accesso e sui limiti contemplati dalla normativa di
riferimento.
1. La vicenda sottoposta all’attenzione del Tar Campania – Napoli
I soggetti risultati idonei allo svolgimento del tirocinio
tecnico‑pratico della selezione bandita nel 2008 dall’Agenzia
delle Entrate hanno impugnato il diniego opposto alla richie‑
sta di accesso presentata all’Agenzia delle Dogane e dei Mo‑
nopoli e finalizzata ad ottenere gli atti inerenti la determina‑
zione del fabbisogno del personale da acquisire mediante
mobilità intercompartimentale e gli atti inerenti il fabbisogno
complessivo di personale dell’ente.
L’istanza di accesso veniva presentata a fronte della deter‑
minazione dell’Agenzia delle Dogane di provvedere al soddi‑
sfacimento del proprio fabbisogno mediante mobilità inter‑
compartimentale nonostante l’esistenza di graduatorie regio‑
nali ancora valide ed efficaci, ai sensi del decreto legge n. 216
del 2011, in cui risultavano utilmente collocati i ricorrenti.
L’Agenzia delle Dogane nel negare l’accesso agli atti rela‑
tivi alla procedura di mobilità intercompartimentale deduce‑
va che il c.d. fabbisogno del personale rientrerebbe tra gli
atti che il comb. disp. di cui agli artt. 13 e 24 comma 1 lett.
c) della Legge n. 241/90 escluderebbe dal diritto all’ostensio‑
ne documentale.
I Giudici Campani, nel condividere le censure sollevate
dai ricorrenti, hanno ritenuto che: i) la previsione di cui
all’art. 24 comma 1 lett. c), Legge n. 241/90 fa riferimento, in
senso letterale, ai soli atti endoprocedimentali diretti all’ema‑
nazione di atti amministrativi generali, di pianificazione e di
programmazione, e non già agli atti definitivi aventi caratte‑
re generale, di pianificazione e di programmazione; ii) l’esclu‑
sione dell’accesso e della partecipazione alla fase preparatoria
degli atti amministrativi generali, normativi, di pianificazio‑
ne e di programmazione – riconducibile alla necessità di evi‑
tare intralci all’azione amministrativa – si traduce in un dif‑
ferimento e non in una radicale esclusione, cosicché l’accesso,
ricorrendone i presupposti, può essere consentito dal momen‑
to della formazione del provvedimento finale.
2. Diritto di accesso ed esclusioni
Al fine di comprendere la portata della sentenza in com‑
mento, occorre richiamare il quadro normativo di riferimen‑
to.
Come noto, invero, la determinazione del fabbisogno del
personale, costituisce per l’amministrazione atto di pianifica‑
zione e programmazione mediante il quale, ai sensi dell’art. 6
D.Lgs 165/2001 e dell’art. 39 comma 1 L. 449/1997, le risor‑
se umane ed i servizi vengono organizzate compatibilmente
con le disponibilità finanziarie.
Strumenti, quindi, attraverso cui le amministrazioni espli‑
cano una generale competenza organizzativa.
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Ciò posto, e chiarita la natura giuridica degli atti oggetto
di accesso, va, altresì, e‑videnziato come ai sensi dell’art. 13
comma 1 della Legge n. 241/90 “le disposizioni contenute nel
presente capo non si applicano nei confronti dell’attività
della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di
atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di
programmazione, per i quali restano ferme le particolari
norme che ne regolano la formazione”
Il successivo art. 24 comma 1, lettera c) della L. 241/1990
recita quanto segue: “il diritto di accesso è escluso: […] nei
confronti dell’attività della pubblica ammini‑strazione diret‑
ta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali,
di pia‑nificazione e di programmazione, per i quali restano
ferme le particolari norme che ne regolano la formazione”.
La normativa richiamata [art. 13 e art. 24 comma 1 lett.
c)], alla luce di una inter‑pretazione non solo testuale ma
anche costituzionalmente orientata, è chiara nell’escludere il
diritto di acceso solo ed esclusivamente per quegli atti che
costituiscono il substrato endoprocedimentale di provvedi‑
menti normativi, programmatori o comunque aventi contenu‑
to generale.
Come si vede, l’articolo 24, primo comma, lettera c), del‑
la Legge 7 agosto 1990, n. 241 esclude il diritto d’accesso non
con riguardo agli atti normativi, amministrativi generali, di
pianificazione e di programmazione, bensì solo nei confronti
degli atti infraprocedimentali diretti all’emanazione dei pri‑
mi.
La previsione, si lega all’articolo 13 della stessa legge,
regolante la partecipazione in tali casi, per i quali fu elimina‑
ta, nel testo definitivo della legge sul procedimento, l’origina‑
ria formulazione della “commissione Nigro”, tendente a in‑
trodurre l’istruttoria pubblica3.
Il diritto di accesso nei confronti degli atti a contenuto
generale, normativi, di pianificazione e programmazione – tra
cui rientra il fabbisogno del personale da acquisire mediante
la procedura di mobilità – costituiscono, per converso, atti
programmatori definitivi e non atti meramente endoprocedi‑
mentali.
Del resto, escludere dagli atti considerati ostensibili quel‑
li sopra richiamati significherebbe violare l’art. 24 Cost. ed i
principi di effettività della tutela giurisdizionale, laddove si
consideri che gli atti di programmazione del fabbisogno di
personale assumono una autonoma carica lesiva poiché è
mediante tali atti che le Amministrazioni radicano le proprie
scelte in materia di assunzioni.
L’autonoma lesività degli stessi è, peraltro, tale da deter‑
minarne l’autonoma impugnabilità4.
Orbene, pur volendo ritenere che ai sensi dell’art. 22,
comma 1, lettera b) della L. 2241/1990 l’interesse alla osten‑
sione dei documenti amministrativi è sostanzialmente avulso
dall’impugnazione dei provvedimenti dei quali si intende
avere conoscenza, non può di certo affermarsi che un atto e/o
provvedimento, il quale presenti le caratteristiche dell’auto‑
noma lesività e dell’autonoma impugnabilità, venga sottratto
al diritto di accesso.
3
4
Cfr. in terminis Tar Puglia – Bari, Sez. I, 7 novembre 2011, n. 1686.
Cfr. Tar Calabria – Reggio Calabria, 28 maggio 2009 n. 375) anche innanzi al
Giudice Ordinario (Tar Lazio‑ Latina, sez. I, 19 giugno 2012, n. 498.
2 0 1 3
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La ratio sottesa al divieto di cui all’art. 24 è certamente
idonea ad evitare che il soggetto privato possa effettuare in‑
debite indagini sull’operato dell’amministrazione, ma certa‑
mente tale principio è recessivo di fronte ad atti pubblici dal
carattere programmatorio adottati ex lege.
Alla luce delle suddette considerazioni, la sentenza in
commento non ha solo ha chiarito che la determinazione del
fabbisogno del personale rientri tra quegli atti di pianificazio‑
ne e di programmazione contemplati dall’art. 24 comma 1
lett. c) della Legge n. 241/90, ma, maxime, che una interpre‑
tazione letterale della norma di riferimento delimita la relati‑
va esclusione solo a quegli atti aventi valore endoprecedimen‑
tale e diretti all’emanazione dei primi5.
Con la conseguenza per cui anche gli atti a carattere ge‑
nerale e normativo sono in linea di principio suscettibili di
divulgazione e possono, quindi formare oggetto di accesso,
con il solo limite per i casi in cui sia previsto un autonomo
regime di pubblicità6, che rende l’istanza di accesso super‑
flua.
Pertanto, gli atti inerenti la determinazione del fabbisogno
complessivo di personale dell’ente, riveste carattere ammini‑
strativo generale, a contenuto programmatorio e di pianifica‑
zione, espressione di potestà organizzatoria, ed avendo tali
atti carattere definitivo in quanto adottati a conclusione del
relativo procedimento, sono pienamente accessibili.
E ciò in quanto, l’art. 24, comma 1, lettera c), della
legge n. 241 del 1990 “esclude espressamente dal suo am‑
bito di applicazione solo quelle attività rivolte alla adozio‑
ne ed alla approvazione degli atti ivi indicati, e non gli
atti conclusivi, dovendo coniugarsi la portata di detta
previsione con quella di cui all’art. 13 della legge n. 241
del 1990, che esclude i diritti partecipativi nei confronti
dell’attività della pubblica amministrazione diretta alla
emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di
pianificazione e di programmazione, riferendosi quindi la
5 Cfr. per un’interpretazione estensiva della norma cfr. Tar Sicilia – Palermo, sent.
n. 3457/2007 secondo cui "in caso di un procedimento complesso, qualora
ciascuna fase mantenga una propria autonoma rilevanza, il diritto di accesso
deve essere garantito una volta concluso ogni singolo sub‑procedimento, con
conseguente illegittimità del diniego di accesso nei riguardi dell'attività prepa‑
ratoria di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di program‑
mazione".
6 Cfr. sul punto Tar Sicilia, Catania, sez. III, 10 febbraio 2011, n. 314 secondo
cui “L'art. 24 comma 1 lett. c), l. n. 241 del 1990, per il quale "il diritto di
accesso è escluso nei confronti dell'attività della p.a. diretta all'emanazione di
atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione,
per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione,
esclude espressamente dal suo ambito di applicazione quelle attività
dell'amministrazione rivolte anche alla adozione ed alla approvazione degli
strumenti di pianificazione urbanistica, non perché quei procedimento siano
sottratti alla trasparenza e alla conoscenza dei cittadini e non sia possibile nei
loro confronti alcun tipo di accesso, ma solo perché la trasparenza degli atti
volti all'emanazione del piano – che era possibile già prima l. n. 241 del
1990 – continua ad essere disciplinata dalle norme speciali che la regolavano e
che prevalgono pertanto su quelle generali, secondo il criterio risolutore di
antinomie normative appunto della specialità; infatti gli atti dei procedimenti
amministrativi generali volti all'approvazione degli strumenti di piano, per‑
tanto, sono accessibili agli interessati nelle particolari forme del deposito al
pubblico del progetto di piano con i relativi elaborati, della pubblicazione
dell'avvenuto deposito, della visione dello stesso da parte di ogni soggetto in‑
teressato e la disciplina dell'accesso agli strumenti di piano, quindi, è model‑
lata sulle particolarità di tali procedure amministrative, che – proprio perché
interessano potenzialmente un numero indeterminato di soggetti che sono tito‑
lari di situazioni soggettive che l'amministrazione deve regolare in modo uni‑
forme con efficacia generale – suggeriscono di prevedere per esse forme di
conoscenza legale”.
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prevista esclusione ai soli atti preparatori allorché sia an‑
cora in corso il procedimento e dovendo invece riconoscer‑
si il diritto all’accesso sul presupposto che l’Amministra‑
zione abbia concluso il procedimento, con l’emanazione
del provvedimento”.
Secondo la sentenza in commento, “l’esclusione dell’ac‑
cesso e della partecipazione alla fase preparatoria degli atti
amministrativi generali, normativi, di pianificazione e di
programmazione – quest’ultima esclusione riconducibile alla
necessità di evitare intralci all’azione amministrativa ed alla
inutilità della stessa stante la generalità degli atti, non suscet‑
tibili di arrecare concreti pregiudizi ai privati, tali da richie‑
derne il coinvolgimento in sede procedimentale – si traduce
in un differimento e non in una radicale esclusione, cosicché
l’accesso, ricorrendone i presupposti, può essere consentito
dal momento della formazione del provvedimento finale”78.
Tali conclusioni, risultano giustificate dalla stessa inter‑
pretazione delle norme in tema di partecipazione procedimen‑
tale le quali escludono la partecipazione in tutti quei procedi‑
menti nei quali l’acquisizione del contributo dei privati non
apporterebbero allo stesso alcuna utilità.
3. Conclusioni
Alla luce della sentenza in commento, dunque, esulano
dall’ambito applicativo del comb. disposto di cui agli artt. artt. 13
comma 1 e 24 comma 1 lett. c) della Legge n. 241/90 tutti gli
atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di
programmazione che non siano sussumibili nel novero degli
atti endoprocedimentali e sempre che per essi la legge non con‑
templi un autonomo regime di pubblicità.
7 In senso sostanzialmente conforme anche se con riferimento all’art. 24 comma 1
lett. b) della Legge 241/90 cfr. Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 21 dicembre
2012, n. 1280 secondo cui “l'art. 24 l. n. 241/1990 esclude dall'accesso solo
gli atti preparatori del procedimento tributario adottati nel corso di formazione
del provvedimento, prima che lo stesso sia emanato, con la conseguenza che
tale causa di esclusione opera con riguardo a documenti inerenti l'attività della
p.a. diretta alla emanazione di atti propedeutici alla emanazione del provvedi‑
mento conclusivo ed allorché sia ancora in corso il procedimento; viceversa,
deve riconoscersi il diritto di accesso qualora l'Amministrazione abbia con‑
cluso il procedimento con l'emanazione del provvedimento finale; quindi, in
via generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere agli atti di un pro‑
cedimento tributario ormai concluso”
8 cfr. Tar Catania‑ Sicilia sez. IV 11 luglio 2012, n. 1831; cfr. da ultimo anche
Consiglio di Stato sez. IV, 20 settembre 2012, n. 5047, e 30 luglio 2012,
n. 4316.
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●
Rassegna di giurisprudenza
sul Codice dei contratti
pubblici di lavori, servizi
e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n.163 e ss. mm.)
●
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato
presso l’Avvocatura Regionale della Campania
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Aggiudicazione provvisoria – Decisione di non procedere all’ag‑
giudicazione definitiva: declinazione dell'obbligo motivazionale
L'articolo 81, comma ultimo, d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163,
è una norma di chiusura che facoltizza un ultimo vaglio del‑
la stazione appaltante circa la convenienza dell'offerta aggiu‑
dicataria a prescindere da profili di illegittimità della proce‑
dura. La determinazione di non procedere all’aggiudicazione
definitiva, tuttavia, costituendo un esito evidentemente
anormale della procedura di evidenza pubblica (la quale è
non priva di onerosità per la stazione appaltante), deve ripo‑
sare su argomentazioni reali, logiche e consistenti, da poter
sottoporre a verifica giudiziaria di adeguatezza e proporzio‑
nalità. Ed invero, sebbene l'aggiudicazione provvisoria abbia
natura di atto endoprocedimentale con effetti interinali,
conseguentemente inidonea ad attribuire in modo stabile il
bene della vita cui si aspira e ad ingenerare il connesso legit‑
timo affidamento, non può trascurarsi la posizione di quali‑
ficata aspettativa dell'aggiudicatario provvisoriamente,
unico rimasto in gara, ad ottenere il bene della vita sperato,
posizione che concorre ad irrobustire l’onere motivazionale
del provvedimento di determinazione della «non convenien‑
za» dell’offerta presentata, quale esplicitazione precisa e
circostanziata da parte dell’Amministrazione degli elementi
di inidoneità dell'offerta che giustificano la mancata aggiu‑
dicazione.
Tar Campania‑Napoli, sez. I, 26 luglio 2013, n. 03964
Pres. Cesare Mastrocola; Est. Michele Buonauro
Atti di gara – L'istituto della etero integrazione non è applicabile
in danno dei partecipanti in presenza di clausole di esclusione
ambigue ed in violazione del principio dell’affidamento ex art. 1,
comma 1, legge 241/1990
L'istituto della eterointegrazione ha come necessario
presupposto la sussistenza di una "lacuna" nella legge di
gara e, solo nel caso in cui la stazione appaltante ometta di
inserire nella disciplina di gara elementi previsti come obbli‑
gatori dall'ordinamento giuridico, soccorre il meccanismo di
integrazione automatica in base alla normativa in materia,
analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi
degli artt. 1374 e 1339 c.c., colmandosi in via suppletiva le
eventuali lacune del provvedimento adottato dalla pubblica
amministrazione.
Quando invece la legge di gara contiene disposizioni
contrastanti con quanto normativamente previsto, non può
disporsi l'esclusione dalla gara del concorrente che non abbia
allegato quanto espressamente previsto dalla legge, dovendo
tenersi conto che solo fondamentali esigenze di certezza del
diritto e tutela della “ par condicio” dei concorrenti possono
impedire all'Amministrazione di disattendere i precetti fissa‑
ti nella normativa di gara dalla stessa formulata, in ossequio
al principio di affidamento formalmente elevato al rango di
principio generale dell'azione amministrativa dall'art. 1,
comma 1, della l. n. 241/1990, che impedisce che sul cittadi‑
no possano ricadere gli errori dell'Amministrazione (Consi‑
glio di Stato, sez. V, 9 settembre 2011, n. 5073).
Non può quindi escludersi il soggetto che rende una di‑
chiarazione del tutto conforme a quella richiesta dall'Ammi‑
nistrazione, se pur con clausola della “lex specialis” che,
anche se potesse ritenersi equivoca, era comunque pienamen‑
te idonea ad ingenerare l'errore in cui è caduto il concorren‑
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te, non vertendosi in caso di omessa regolamentazione della
fattispecie che avrebbe dovuto essere automaticamente ete‑
rointegrata.
Va difatti ricordato che, nelle procedure ad evidenza
pubblica, le clausole di esclusione poste dal bando in ordine
agli adempimenti cui è tenuto il soggetto partecipante alla
gara sono di stretta interpretazione, dovendosi dare esclusiva
prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute; resta
quindi preclusa ogni forma di estensione analogica diretta ad
evidenziare significati impliciti, che rischierebbe di vulnerare
l'affidamento dei partecipanti, la “ par condicio” dei concor‑
renti e l'esigenza della più ampia partecipazione, con prefe‑
ribilità dell'interpretazione che favorisca la massima parte‑
cipazione alla gara piuttosto quella che la ostacoli.
Ne deriva che, a fronte di una dichiarazione conforme al
dettato del bando di gara – anche in presenza di una clauso‑
la ambigua – la stazione appaltante non può procedere
all'esclusione, dovendo viceversa consentire la regolarizza‑
zione della documentazione di gara mediante integrazione
della dichiarazione incompleta.
Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3811
Pres. Carmine Volpe, Est. Antonio Amicuzzi
ribasso offerto sia incongruo rispetto alla media dei ribassi
degli altri concorrenti, non importa ex se l’incongruità
dell'offerta complessiva.
2. Mentre l'art. 86, comma 2, d.lgs. 12 aprile 2006, n.
163 impone un obbligo di procedere alla verifica nei casi di
anomalia da quella stessa previsione individuati, il successi‑
vo comma 3 si limita a facoltizzare la stazione appaltante a
procedere alla suddetta verifica sempre che l'offerta, pur in
assenza delle condizioni indicate dal comma precedente,
appaia, in base ad elementi specifici ‑da indicare con idonea
motivazione‑ anormalmente bassa (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. IV, 27 luglio 2011, n. 4489).
Qualora quindi, ex art. 86 comma 3 del Codice dei Con‑
tratti Pubblici, l’Amministrazione non rilevi alcuno di quegli
specifici elementi capaci di indurre a dubitare della congruità
dell’offerta e a giustificare la decisione di sottoporla a verifi‑
ca di anomalia, il giudice non può censurare tale comporta‑
mento, a pena di un’inammissibile interferenza nell'esercizio
della discrezionalita' amministrativa.
Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 2013, n. 4193
Pres. FF Francesco Caringella, Est. Paolo Giovanni Nicolò
Lotti
Cooptazione – Ratio e presupposti di legittimità
La cooptazione è un istituto di carattere speciale che
abilita un soggetto, privo dei prescritti requisiti di qualifica‑
zione (e, dunque, di partecipazione), alla sola esecuzione dei
lavori nei limiti del 20%, in deroga alla disciplina vigente in
tema di qualificazione SOA, per cui il soggetto cooptato :
‑ non può acquistare lo status di concorrente;
‑ non può acquistare alcuna quota di partecipazione all’ap‑
palto;
‑ non può rivestire la posizione di offerente, prima, e di
contraente, poi;
‑ non può prestare garanzie, al pari di un concorrente o di
un contraente;
‑ non può, in alcun modo, subappaltare o affidare a terzi
una quota dei lavori da eseguire.
Alla luce del carattere eccezionale e derogatorio dell’isti‑
tuto, il ricorso alla cooptazione deve necessariamente scatu‑
rire da una dichiarazione espressa ed inequivoca del concor‑
rente, per evitare che un uso improprio della stessa consenta
l’elusione della disciplina inderogabile in tema di qualificazio‑
ne e di partecipazione alle procedure di evidenza pubblica.
Cons. Stato, sez. V, 27 agosto 2013, n. 4278
Pres. Manfredo Atzeni, Est. Antonio Bianchi
Offerta – Criteri di valutazione – Divieto generale di commistione
tra elementi soggettivi e oggettivi – 1. Ratio – 2. Natura attenua‑
ta
1. Per giurisprudenza consolidata – di matrice comunita‑
ria – sono indebitamente inclusi, tra i criteri di valutazione
delle offerte, gli elementi attinenti alla capacità tecnica dell'im‑
presa (certificazione di qualità e pregressa esperienza presso
soggetti pubblici e privati). È difatti da respingere ogni com‑
mistione fra i criteri soggettivi di prequalificazione e criteri
afferenti alla valutazione dell'offerta ai fini dell'aggiudicazio‑
ne, in funzione dell'esigenza di aprire il mercato premiando le
offerte più competitive, ove presentate da imprese comunque
affidabili, anche allo scopo di dare applicazione al canone
della par condicio (vietante asimmetrie pregiudiziali di tipo
meramente soggettivo). Ne discende la necessità di tenere
separati i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara da
quelli pertinenti all'offerta ed all'aggiudicazione, non potendo
rientrare tra questi ultimi i requisiti soggettivi in sé considera‑
ti, avulsi dalla valutazione dell'incidenza dell'organizzazione
sull'espletamento dello specifico servizio da aggiudicare.
2. Alla stregua di quanto appena detto, l’inserimento, da
parte dell’Amministrazione, del requisito di esperienza pro‑
pria dell’impresa tra i requisiti di valutazione dell’offerta è
illegittimo con conseguente illegittimità della gara.
Tanto premesso, la previsione nel bando di gara di ele‑
menti di valutazione dell'offerta tecnica di tipo soggettivo
(concernenti la specifica attitudine del concorrente a realiz‑
zare lo specifico progetto oggetto di gara), è tuttavia legittima
nella misura in cui aspetti dell'attività dell'impresa possano
illuminare la qualità dell'offerta.
Infatti, secondo questo orientamento, tale divieto gene‑
rale di commistione tra le caratteristiche oggettive dell’offer‑
ta e i requisiti soggettivi dell’impresa concorrente deve avere
un’applicazione per così dire “ attenuata”; ciò alla luce del
principio di proporzionalità ed in relazione all’art. 83 del
Codice dei contratti che – nel delineare i criteri di valutazio‑
ne dell'offerta da aggiudicare con il criterio dell'offerta eco‑
Offerta – Verifica relativa all'eventuale anomalia – 1. Oggetto e
presupposti – 2. Divieto di sindacato giurisdizionale sull'esercizio
della facoltà ex art. 86, comma 3, d.lgs. 163/2006 in merito ai
presupposti per la verifica
1. La verifica di anomalia ha per oggetto l’offerta nel suo
complesso, posto che essa deve essere effettuata sulla base del
punteggio attribuito tanto per il progetto tecnico, quanto per
l’offerta economica, mentre il ribasso non è che una delle mol‑
teplici voci che compongono l'offerta economica che, singolar‑
mente considerata, è del tutto insufficiente a costituire un va‑
lido indice per valutare la congruità dell’offerta complessiva.
Ne deriva che la circostanza per la quale la commissione,
all’esito dell’apertura delle offerte economiche, osservi che il
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nomicamente più vantaggiosa – prescrive che gli elementi di
valutazione debbano essere pertinenti alla natura, all'oggetto
e alle caratteristiche del contratto, quando consente di ri‑
spondere in concreto alle possibili specificità che le procedu‑
re di affidamento degli appalti pubblici in talune ipotesi
presentano, dove l’offerta tecnica si sostanzia non in proget‑
to o in un prodotto, bensì in un “facere” e dove, pertanto,
anche la pregressa esperienza del professionista che partecipa
alla gara può essere di ausilio nella valutazione dell’offerta
tecnica.
Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 2013, n. 4191
Pres. FF Francesco Caringella, Est. Paolo Giovanni Nicolò
Lotti
Offerta tecnica – In applicazione del principio del 'raggiungimen‑
to dello scopo', la mancanza di un documento non è ex se causa di
esclusione dell’offerta
In omaggio ad un approccio sostanzialistico, imperniato
sulla regola del raggiungimento dello scopo, la mancata
produzione di un autonomo documento programmatico
operativo non può essere considerata causa di esclusione
dell’offerta, qualora i relativi contenuti siano ricavabili dal
complessivo contenuto dell’offerta tecnica evincibile da
un’apposita scheda allegata all’offerta tecnica stessa e dalla
relazione descrittiva.
A fronte di un’adeguata esplicazione dei contenuti richie‑
sti dal capitolato, il fatto che manchi un autonomo elaborato
non può invero essere considerato causa di esclusione dell'of‑
ferta.
Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2013, n. 3966
Pres. Pier Giorgio Trovato, Est. Francesco Caringella
Requisiti di moralità – Le relative dichiarazioni sono doverose da
parte di qualsiasi figura dirigenziale che, a prescindere dalla de‑
nominazione, sia nella sostanza assimilabile al direttore tecnico
L'art. 38 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163‑ nella parte in
cui impone al direttore tecnico delle societa' partecipanti di
dichiarare l’assenza di circostanze, incidenti sulla moralità
professionale, che impedirebbero la stipula del relativo con‑
tratto – si applica anche al responsabile tecnico, ovvero ad
altre figure professionali che siano connotate da sovrapponi‑
bilità dei compiti rispetto al direttore tecnico.
Argomentando altrimenti, difatti, si giungerebbe alla il‑
logica conclusione secondo la quale la normativa che concer‑
ne il direttore tecnico potrebbe essere facilmente aggirata
sulla base di espedienti puramente verbali, privi di qualsiasi
contenuto sostanziale.
Cons. Stato, sez. V, 30 agosto 2013, n. 4328
Pres. FF Francesco Caringella, Est. Manfredo Atzeni.
Risarcimento del danno da risoluzione del contratto di appalto
basata su informativa prefettizia successivamente annullata in
sede giurisdizionale – La complessità della valutazione alla base
dell’interdittiva antimafia e la assenza di discrezionalità della PA
impediscono il risarcimento del danno, anche a fronte di una ri‑
soluzione del contratto
Il risarcimento del danno non è una conseguenza diretta
e costante dell'annullamento giurisdizionale di un atto am‑
ministrativo, in quanto richiede la positiva verifica, oltre che
della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse
2 0 1 3
111
tutelata dall'ordinento, anche del nesso causale tra l'illecito
e il danno subito, nonché della sussistenza della colpa o del
dolo dell'amministrazione, almeno nelle controversie nelle
quali non trovi diretta applicazione il diritto comunitario.
Orbene, relativamente all’emanazione dell’interdittiva
antimafia, è da escludere un giudizio di colpevolezza dell’au‑
torità prefettizia, in quanto vanno considerate la difficoltà e
la complessità delle questioni da affrontare nell'esercizio
della funzione amministrativa di merito, che nella specie
implica accertamenti e verifiche delicate ed insidiose di una
realtà sfuggente.
Sotto altro profilo è da rilevare che la determinazione di
risoluzione del rapporto contrattuale è direttamente e stretta‑
mente consequenziale all’interdittiva prefettizia. Infatti, il
sistema normativo non offre alle stazioni appaltanti strumen‑
ti e capacità per apprezzare la correttezza e la rilevanza “an‑
timafia” degli elementi e delle indicazioni fornite dalla Prefet‑
tura, alla quale spettano le funzioni connesse alla classifica‑
zione, analisi, elaborazione e valutazione delle notizie e dei
dati specificamente attinenti ai fenomeni di tipo mafioso.
Pertanto l’effettivo ambito della discrezionalità riservata
alle stazioni appaltanti ne esce sostanzialmente depotenziato,
per quanto riguarda i contenuti delle suddette informative,
rispetto all’interesse pubblico alla tutela dell'ordine e della
sicurezza pubblici, che presiede ai poteri interdettivi antima‑
fia, per cui la motivazione sulle controindicazioni di preven‑
zione rispetto alla criminalità organizzata è normalmente
sufficiente a giustificare la determinazione di non proseguire
il rapporto contrattuale con un soggetto rispetto al quale si
presentano indizi di condizionamento mafioso.
Da quanto detto, ne deriva che non sono meritevoli di
accoglimento eventuali pretese risarcitorie avanzate nei ter‑
mini suddetti.
Tar Napoli, sez. I, 10 luglio 2013, n. 3579
Pres. Cesare Mastrocola, Est. Fabio Donadono
Partecipazione alla gara – Affidamento di lavori scorporabi‑
li – Sufficienza dei requisiti di partecipazione relativamente alla
categoria prevalente – Identificazione del sub‑appaltatore – At‑
tiene al momento dell'esecuzione, e non a quello della partecipa‑
zione alla gara
L’art. 92 del d.p.r. n. 207 del 2010, in materia di parteci‑
pazione alla gara, stabilisce che è l’esistenza della totale co‑
pertura della categoria prevalente a legittimare la partecipa‑
zione alla gara, pur in carenza dei requisiti nelle categorie
scorporabili, purché accompagnata dalla dichiarazione di
voler subappaltare le scorporabili. Quanto alla identificazio‑
ne del subappaltatore ed alla verifica del possesso da parte di
questi di tutti i requisiti richiesti dalla legge e dal bando, essa
attiene solo al momento dell’esecuzione. Tale scelta è stata
voluta dal legislatore. Infatti, la prima stesura del d.lgs. n. 163
del 2006 prevedeva esplicitamente che le opere specializzate
eccedenti il 15% potessero essere eseguite solo da a.t.i. nel
caso in cui il partecipante alla gara non avesse avuto i requi‑
siti tecnico – organizzativi ed economico – finanziari relativi
alla categoria scorporabile; successivamente, con la modifica
operata dal d.lgs. n. 152 dell’11 settembre 2008 è stata pre‑
vista la possibilità del subappalto anche per le opere speciali‑
stiche, senza alcuna specificazione, rinviando il tutto a quan‑
to disposto dall’art. 118, comma 2, terzo periodo del d.lgs. n.
amministrativo
Gazzetta
112
di r itto
a m m i n ist r ati v o
163 del 2006, non ritenendo di delineare in modo diverso le
condizioni di partecipazione alla gara neppure nel caso in cui
l’opera specialistica superi il 15% dell’importo complessivo.
Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2013, n. 03963
Pres. Pier Giorgio Trovato; Est. Doris Durante
Valutazione dell'offerta – Insindacabilità intrinseca delle scelte
operate dalla PA in merito alle formule matematiche da utilizzare
per la valutazione dell’offerta
Nelle gare pubbliche, la formula da utilizzare per la valu‑
tazione dell'offerta economica può essere scelta dall'ammi‑
Gazzetta
F O R E N S E
nistrazione con ampia discrezionalità: la stazione appaltante
dispone di ampi margini nella determinazione non solo dei
criteri da porre quale riferimento per l'individuazione dell'of‑
ferta economicamente più vantaggiosa, ma anche nella indi‑
viduazione delle formule matematiche.
Ne deriva che il sindacato giurisdizionale nei confronti di
tali scelte, tipica espressione di discrezionalità tecnico‑am‑
ministrativa, può essere consentito unicamente in casi di
abnormità, sviamento e manifesta illogicità.
Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3802
Pres. Pier Giorgio Trovato, Est. Saltelli.
Diritto tributario
La detassazione dei premi di produttività prorogata anche per il 2013
115
tributario
Enza Sonetti
Gazzetta
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
●
Dottoranda di ricerca in “Strategie legali per lo sviluppo
e l’internazionalizzazione delle P.M.I.”
presso l’Università degli Studi di Napoli
“Suor Orsola Benincasa”
1. Introduzione
Nell’ambito delle misure adottate per fronteggiare la crisi
economica e per incrementare la produttività delle aziende,
anche nel 2013, il legislatore ha deciso di prevedere forme di
tassazione agevolata per quanto erogato ai propri dipendenti
a fronte di incrementi di produttività delle aziende private.
La scelta di introdurre misure a sostegno della produtti‑
vità, a cui si è proceduto per la prima volta ed in via speri‑
mentale nel 2008, è stata spesso oggetto di aspri contrappo‑
sizioni fra il favormostrato dalle rappresentanze industriali e
il disappunto delle rappresentanze sindacali che in poche
occasioni hanno sottolineato come tali misure incidesse‑
ro – ed incidano – ben poco sul tanto invocato alleggerimen‑
to fiscale della busta paga dei lavoratori dipendenti e che non
hanno mai nascosto il timore che le stesse potessero – e pos‑
sano – spalancare le porte a forme mascherate di demansio‑
namento e sfruttamento.
La disciplina in esame, che sfiora questioni tanto giusla‑
voristiche quanto fiscali, ha subito nel corso degli anni nume‑
rose modifiche, sfiorando forse solo in parte la soluzione del
problema principale ovvero favorire e facilitare la produttivi‑
tà, aumentando al contempo il potere d’acquisto dei lavora‑
tori dipendenti e migliorando le forme di flessibilità attual‑
mente esistenti nel mercato del lavoro.
Da più parti infatti è stato sottolineato che la detassazio‑
ne degli straordinari, per quanto encomiabile è stata scarsa‑
mente incisiva essendo mancato negli anni, un vero e struttu‑
rato intervento diretto a ridurre il cuneo fiscale che oggi
grava su dipendenti ed imprese in maniera illogica e spropor‑
zionata e che costituisce il primo e principale disincentivo agli
investimenti e al rilancio dell’economia nel nostro Paese.
Procedendo con ordine, dunque occorre prendere le mos‑
se dall’originaria disciplina,che introduceva imposta sostitu‑
tiva del 10%, tutt’oggi invariata, analizzando i vari interven‑
ti legislativi e dell’amministrazione finanziaria che negli anni
hanno contribuito a meglio delineare i profili della misura in
questione.
2. L’originaria disciplina introdotta con il D.L. n. 93/2008.
Con il preciso obiettivo di consentire l’incentivo e l’aumen‑
to della produttività nel settore privato il legislatore del 2008,
ha introdotto con il decreto n. 93, la possibilità di applicare
un’imposta sostitutiva per quelle componenti di reddito dei
lavoratori dipendenti, erogate per prestazioni di lavoro stra‑
ordinario, lavoro supplementare e/o rese in virtù di clausole
cd. elastiche e flessibili nell’arco temporale compreso fra il 31
luglio ed il 31 dicembre 20081. Il breve lasso di tempo cui fa
1 1. Salva espressa rinuncia scritta del prestatore di lavoro, nel periodo dal luglio 2008
al 31 dicembre 2008, sono soggetti a una imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 10 per
cento, entro il limite di importo complessivo di 3.000 euro lordi, le somme erogate
a livello aziendale:
a) per prestazioni di lavoro straordinario, ai sensi del decreto legislativo 8 aprile 2003,
n. 66, effettuate nel periodo suddetto;
tributario
● Enza Sonetti
115
Sommario: 1. Introduzione – 2. L’originaria disciplina intro‑
dotta con il D.L. n. 93/2008 – 3. Le modifiche avvenute
negli anni seguenti – 4. Le novità introdotte nel 2012 e
2013 – 5. L’istanza di rimborso – 6. Conclusioni.
La detassazione dei premi
di produttività prorogata
anche per il 2013
2 0 1 3
116
di r itto
riferimento la norma e soprattutto la sua applicazione limi‑
tata al settore produttivo privato sono diretta conseguenza
del suo carattere sperimentale, come essa stessa precisa al co.
5 del suddetto articolo, tant’è che – anche se non si è mai
proceduto in tal senso – non si precludeva una volta verifi‑
cati gli effetti della misura, una possibilità di estensione anche
al settore pubblico.
Quanto ai soggetti che potevano beneficiare della misura
agevolativa dunque, il legislatore ne ha limitato la possibilità
al settore privato. È d’uopo precisare però, che il termine
azienda utilizzato dalla norma, va inteso, secondo le indica‑
zioni fornite dall’Agenzia delle Entrate, in senso a‑tecnico,
non potendosi escludere la possibilità del beneficio ai dipen‑
denti di soggetto non imprenditore2. Rientrano nel novero dei
soggetti potenzialmente beneficiari, altresì i lavoratori dipen‑
denti di lavoratori autonomi, nonché quelli dipendenti da
agenzie del lavoro, anche per missioni rese nel settore della
p.a. 3.
Passando ad analizzare la misura “dalla parte dei dipen‑
denti”, il beneficio può essere concesso a coloro che sono ti‑
tolari nell’anno antecedente a quello in cui si vuol godere
dell’agevolazione, di un reddito di lavoro dipendente di cui
all’art. 49 T.U.I.R., che non superi un determinato ammon‑
tare. Per l’anno 2008 il limite era fissato entro il 30.000 €
annui lordi, prodotti nel 2007. Il chiaro riferimento all’art. 49
del T.U.I.R. consente di escludere dal novero dei soggetti che
possono beneficiare dell’imposta sostitutiva i titolari di red‑
dito di lavoro assimilato a quello dipendente, come ad esempio
i lavoratori a progetto. Il limite previsto dalle norme fa
riferimento inoltre a tutti i redditi percepiti nell’anno anteced‑
ente a titolo di reddito di lavoro dipendente ex art. 49 del
T.U.I.R., nonché alle ipotesi nelle quali il dipendente non ab‑
b) per prestazioni di lavoro supplementare ovvero per prestazioni rese in funzione
di clausole elastiche effettuate nel periodo suddetto e con esclusivo riferimento
a contratti di lavoro a tempo parziale stipulati prima della data di entrata in vigore del presente provvedimento;
c)in relazione a incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico
dell’impresa.
2. I redditi di cui al comma 1 non concorrono ai fini fiscali e della determinazione
della situazione economica equivalente alla formazione del reddito complessivo
del percipiente o del suo nucleo familiare entro il limite massimo di 3.000 euro.
Resta fermo il computo dei predetti redditi ai fini dell’accesso alle prestazioni
previdenziali e assistenziali, salve restando le prestazioni in godimento sulla base
del reddito di cui al comma 5.
3. L’imposta sostitutiva è applicata dal sostituto d’imposta. Se quest’ultimo non è
lo stesso che ha rilasciato la certificazione unica dei redditi per il 2007, il beneficiario attesta per iscritto l’importo del reddito da lavoro dipendente conseguito nel medesimo anno 2007.
4. Per l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e il contenzioso, si applicano, in
quanto compatibili, le ordinarie disposizioni in materia di imposte dirette.
5. Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 hanno natura sperimentale e trovano
applicazione con esclusivo riferimento al settore privato e per i titolari di reddito da lavoro dipendente non superiore, nell’anno 2007, a 30.000 euro. Trenta
giorni prima del termine della sperimentazione, il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali procede, con le organizzazioni sindacali dei datori e
dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a una verifica degli effetti delle disposizioni in esso contenute. Alla verifica
partecipa anche il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, al
fine di valutare l’eventuale estensione del provvedimento ai dipendenti delle
amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo
30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni.
6. Nell’articolo 51, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, la lettera b) è
soppressa.
2 Agenzia delle Entrate, Circ. n. 59/E del 22 ottobre 2008.
3 Agenzie delle Entrate, Circ. n. 59/E 2008,cit.
t r i b uta r io
Gazzetta
F O R E N S E
bia percepito alcun reddito nell’anno da utilizzare quale
parametro.
A restare fuori da tale disciplina pertanto sono solo i la‑
voratori dipendenti del settore pubblico.
Sotto un profilo oggettivo la norma, limita il beneficio
alle prestazioni rese o per lavoro straordinario (lett. a) o sup‑
plementare o in virtù di clausole elastiche o flessibili (lett. b) o
in relazione ad incrementi di produttività, innovazione ed ef‑
ficienza organizzativa e altri elementi di competitività e reddi‑
tività legati all’andamento economico dell’impresa (lett. c).
Preliminarmente va precisato che per lavoro straordinario,
si intende quello che si concretizza in quello reso attraverso il
prolungamento dell’orario oltre il normale orario di lavoro
full‑time4.
L’art. 2 del decreto per la definizione di lavoro straordi‑
nario rinvia genericamente al D.lgs. 66/2003 e da ciò deve
dedursi che sarà considerato lavoro straordinario tanto quel‑
lo reso oltre la misura legale di lavoro, quanto quello reso
oltre una misura, inferiore a quella legale, definita dal con‑
tratto collettivo applicato5. Anche in tale ultimo caso, quindi
si sarebbe in presenza di lavoro straordinario seppur a meri
fini contrattuali ed in quanto tale potenzialmente meritevole
di beneficiare dell’imposta sostitutiva.
Ad essere soggetti all’imposta sostitutiva pertanto sono i
compensi, premi o gettoni, corrisposti per l’esecuzione di
prestazioni straordinarie rese ad esempio nei giorni di riposo
o festivi o che possano esser ricondotte alle ipotesi ex lett. c).
Con riferimento al lavoro straordinario, ha creato non
pochi dubbi l’estensione della misura anche al lavoro nottur‑
no. La circolare 59/E del 2008, ha però precisato che il lavo‑
ro notturno ordinario beneficiava dell’imposta sostitutiva,
specificando che l’agevolazione deve applicare sia ai lavorato‑
ri che rendano lavoro straordinario notturno, sia ai lavorato‑
ri non turnisti che prestano il loro lavoro giornaliero norma‑
le nel periodo notturno e ciò in relazione sia al compenso che
alla maggiorazione.
Il regime agevolato inoltre può essere applicato altresì
alle ipotesi di straordinario forfetario, all’intera somma cor‑
risposta a tal fine indipendentemente dall’effettiva resa di
prestazioni l’orario normale poiché in tal caso potrebbe trat‑
tarsi di ipotesi rientranti nella lett. c)6.
Ancora in caso di superminimi o delle cd. indennità di
funzione e /o mansione, secondo l’orientamento dell’Ammi‑
nistrazione finanziaria, è applicabile il regime sostitutivo
solo per il lavoro reso per compensare eventuali prestazioni
di lavoro rese oltre il normale orario o per quello rientrante
nelle ipotesi di incrementi di produttività ex lett. c).
Con l’espressione “lavoro supplementare” si fa invece ri‑
ferimento a quello reso in misura eccedente il limite fissato
dai contratti collettivi, ma entro il limite del tempo pieno7. In
questo caso ad esser agevolato è il compenso percepito per il
4 Carinci‑De Luca Tamajo‑Tosi‑Treu, Diritto del Lavoro – Il rapporto di
Lavoro subordinato, Utet, 2013.
5 “I contratti collettivi possono stabilire che la durata dell’orario normale sia
ridotta rispetto al limite legale delle 40 ore settimanali. Questa facoltà ha ad
oggetto una riduzione d’orario valida ai soli fini contrattuali”, Circolare del
Ministero del lavoro e delle politiche sociali, n. 8 del 3 marzo 2005.
6 Agenzia Entrate, Circ. n. 59/E cit.
7 Art. 1 co. 1 lett.e), d.lgs. n. 61 del 25 febbraio 2000.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
lavoro reso oltre l’orario concordato. La norma inoltre richia‑
ma sia le cd. clausole elastiche che flessibili. Le prime, modi‑
ficate rispetto all’originaria disciplina contenuta nel D.lgs.
61/2000 che le inquadrava fra quelle che consentivano la
variabilità della collocazione temporale del lavoro, consento‑
no ora di incrementare la durata delle prestazioni lavorative8.
In tali ultimi casi, già nel 2008, potevano beneficiare del re‑
gime più favorevole solo le prestazioni rientranti nelle ipotesi
di straordinario o di incrementi di produttività. Quanto alle
ipotesi di lavoro supplementare di cui alla lett. b) era invece
necessario che i contratti di lavoro a tempo parziale fossero
stati stipulati antecedentemente al 29 maggio 2008, data di
entrata in vigore del decreto.
Quanto alle cd. clausole flessibili, con tale espressione, si
fa riferimento alla variazione di collocazione oraria delle
prestazioni rese del lavoratore dipendente. In questo caso, il
beneficio può essere accordato per le ore situate al di fuori
della fascia oraria precedentemente concordata.
In ultimo, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia de‑
ciso di utilizzare il sistema della cd. banca ore, che consente
di compensare risposi con prestazioni lavorative aggiuntive,
sarà oggetto di imposizione sostitutiva la sola maggiorazione
retributiva.
L’imposta sostitutiva, come già detto, si applicava per
l’anno 2008 per le somme erogate per le prestazioni di cui
sopra, fra il 1 luglio ed il 31 dicembre 2008, entro il tetto
massimo di € 3.000 al lordo della ritenuta fiscale. La norma
fa specifico riferimento all’ipotesi di erogazione tanto per cui,
occorre considerare solo i compensi erogati in denaro e non
in natura ed in ossequio al principio di cassa allargata, ex
art. 51 del T.U.I.R., vanno considerate ai fini del calcolo del
tetto massimo anche le somme percepite entro il 12 gennaio
dell’anno seguente (nel caso di specie 2009).
In ordine invece ai cd. premi di produttività e delle somme
erogate per produttività ed efficienza ai sensi dell’art. 2 co. 1
lett. c), la circolare dell’Agenzia delle Entrate di ottobre 2008,
ha precisato che il concetto di somma va interpretato in ma‑
niera estesa e tenendo conto della ratioperseguita dal legisla‑
tore. In caso ad esempio di compensi per cd. permessi R.O.L.
(Riduzione orario di lavoro) non goduti entro i termini di
maturazione, l’imposta sostitutiva può essere applicata sia su
richiesta del dipendente, sia periodicamente se così pattuito
in sede di contrattazione collettiva. I premi per le vendite,
invece possono esser soggetti all’agevolazione solo se le pre‑
stazioni lavorative da cui discendono hanno contribuito un
incremento della produttività del lavoro e dell’efficienza or‑
ganizzativa ovvero se le stesse sono legate alla competitività
e redditività dell’impresa9.
I redditi percepiti a tale titolo pertanto potevano – e pos‑
sono –, salvo eventuale scelta contraria del lavoratore, esser
soggetti a imposta sostitutiva del 10%. Il lavoratore infatti
può valutare se applicare l’imposta sostitutiva o se del caso,
qualora la stessa dovesse risultare meno conveniente, applica‑
re la tassazione ordinaria per scaglioni. È infatti ipotizzabile
che al lavoratore dipendente possa non convenire applicare
8 Cardarello C., Licenziamento, lavoro a progetto, agenzia, Giuffré, 2008,
pag. 54.
9 Agenzia delle Entrate, Circ. n. 59/E 2008, cit.
2 0 1 3
117
l’imposta sostitutiva che potrebbe ad esempio impedire la
deduzione o detrazione di oneri che invece gli sarebbero rico‑
nosciute, assoggettando le somme percepite alle aliquote
progressive IRPEF. In tal caso, deve formulare espressa di‑
chiarazione di rinuncia da inviare al datore di lavoro, poiché
in caso contrario, là dove il lavoratore non effettui alcuna
scelta, la decisione circa la convenienza della sottoposizione
ad imposta sostitutiva quelle somme, entro i limiti previsti e
se sussiste la condizione relativa all’annualità precedente,
spetterà solo ed esclusivamente al datore di lavoro. È infatti a
quest’ultimo che competono tutti gli adempimenti necessari
per l’applicazione dell’imposta sostitutiva.
L’imposta sostitutiva è applicata in via automatica in busta
paga, se il datore di lavoro è lo stesso che ha rilasciato il CUD
per l’anno precedente. Se invece si tratta di due soggetti diver‑
si allora sarà il lavoratore a comunicare per iscritto al nuovo
datore di lavoro se nell’anno precedente ha conseguito un
reddito di lavoro dipendente tale da consentire di godere del
beneficio in esame. Le somme che potranno beneficiare
dell’imposta sostituiva dovranno essere indicate nel modello
CUD, insieme all’importo trattenuto al dipendente. Ovvia‑
mente sarà necessario altresì indicare quella quota di somme
erogate allo stesso titolo delle precedenti per le quali non è
stato possibile applicare l’imposta sostitutiva a causa del su‑
peramento della soglia limite.
L’imposta sostitutiva, inoltre può essere oggetto di com‑
pensazione ai sensi dell’art. 17 D.lgs. 241/97.
Infine va sottolineato che l’art. 2 al co. 6 del decreto
93/2008, ha abrogato la lett. b) co. 2 dell’art. 51 del T.U.I.R.
che escludeva dalla base imponibile ai fini del reddito di lavo‑
ro dipendente determinate voci, come ad esempio le erogazio‑
ni liberali entro determinati importi o ad esempio altri sussi‑
di fra i quali rientravano quelli corrisposti ai dipendenti vit‑
time di usura ex l. 108/9610. A seguito dell’abrogazione di
tale articolo, tali voci, concorrono a formare il reddito impo‑
nibile per l’intero importo e verranno assoggettate a tassazio‑
ne ordinaria.
3. Le modifiche avvenute negli anni seguenti.
Negli anni successivi al 2008, le disposizioni che avevano
introdotto in maniera sperimentale la detassazione degli
straordinari, non sono state prorogate in toto. Solo le ipotesi
relative ai premi di produttività, sono state oggetto di inter‑
venti legislativi, volti ad assicurare la possibilità di applicare
ancora l’imposta sostitutiva del 10%.
L’art. 5 del d.l. n. 185 del 200811, ha infatti previsto la
proroga solo della disposizione di cui alla lett. c) dell’art. 2
del D.L. 93/2008, comportando quale conseguenza l’elimina‑
zione di qualsiasi riferimento espresso a lavoro straordinario
o a lavoro supplementare e soprattutto legando, l’ammissibi‑
10 b) le erogazioni liberali concesse in occasione di festività o ricorrenze alla gene‑
ralità o a categorie di dipendenti non superiori nel periodo d’imposta a lire
500.000 [euro 258,23], nonché i sussidi occasionali concessi in occasione di
rilevanti esigenze personali o familiari del dipendente e quelli corrisposti a di‑
pendenti vittime dell’usura ai sensi della legge 7 marzo 1996, n. 108, o ammes‑
si a fruire delle erogazioni pecuniarie a ristoro dei danni conseguenti a rifiuto
opposto a richieste estorsive ai sensi del decreto‑legge 31 dicembre 1991, n. 419,
convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 1992, n. 172, art. 51, co.
2 lett. b), abrogata dall’art. 2 co. 6 D.l. 93/2008.
11 Art. 5, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito in l. 28 gennaio 2009, n.2 tributario
Gazzetta
118
di r itto
lità dell’imposta sostitutiva alla presenza di somme erogate
per incrementi di produttività, o di innovazione, efficienza
organizzativa, e altri elementi di competitività e redditività
legati all’andamento economico dell’azienda.
I vari incontri con le parti sociali, hanno portato il legi‑
slatore a prediligere quale strada di intervento quello dell’au‑
mento delle soglie reddituali poter beneficiare dell’imposta
sostitutiva. Il limite di somme erogate sottoponibili all’impo‑
sta sostitutiva passava dai 3.000 € a 6.000 € lordi e il para‑
metro di riferimento, relativo all’annualità precedente passa‑
va da 30.000 € a 35.000. Una scelta poi confermata anche
per l’anno 201012 e 201113 con l’aumento in quest’ultimo anno
del reddito relativo all’annualità precedente portato ad
€ 40.000.
La “riduzione” delle ipotesi di straordinario agevolato è
una scelta che è stata confermata anche da parte dell’Agenzia
delle Entrate che in una nota congiunta del 201014, secondo la
quale avendo la proroga riguardato solo la lett. c) dell’art. 2
del D.L. 98/2003, l’imposta sostitutiva per potersi applicare
doveva necessariamente far riferimento a somme erogate per
prestazioni riconducibili fra i cd. premi di produttività o co‑
munque fra quelle previste dalla lett.c) in attuazione di quan‑
to previsto da accordi o contratti collettivi territoriali o
aziendali15.
Nel 2011 infatti per la prima volta, viene ancorata la
possibilità di fruire dell’imposta sostitutiva alla circostanza
che tali somme siano state erogate in attuazione di quanto
previsto da accordi collettivi territoriali o aziendali cui sia
stata data esecuzione in azienda16. In particolare stando a
quanto riferito dall’Agenzia delle Entrate e sicuramente al
fine di rafforzare e semplificare la dimostrazione della pre‑
mialità della somma erogata, diventava necessaria la forma‑
lizzazione per iscritto del contratto17.
Diventava dunque necessario che gli straordinari, potesse‑
ro esser collegati a parametri di produttività dell’azienda. Il
punto diventa riuscire a dimostrare che quella determinata
prestazione lavorativa abbia inciso sull’aumento di produtti‑
12 Art. 2 co. 156, l. 23 dicembre 2009, n. 191.
13 Art. 53, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 convertito in l. 30 luglio 2010, n. 122.
14Nota congiunta Agenzia delle Entrate e Ministero del Lavoro‑ Prot. N.
2010/134950‑ Imposta sostitutiva del 10 per cento su retribuzioni erogate ai
dipendenti per lavoro straordinario.
15 L’agenzia delle Entrate in seguito alle polemiche insorte con le parti sociali, ha
precisato in una nota congiunta che il beneficio poteva essere applicato solo ed
esclusivamente per quelle somme erogate a seguito della stipulazione del con‑
tratto collettivo applicato in azienda, non potendo la disciplina fiscale esser
aggirata tramite la retrodatazione convenzionale degli effetti del contratto.
Si veda: Agenzia delle Entrate, Circ. n. 19/E del 10 maggio 2011; Nota
F.I.O.M.‑CGIL del 13 maggio 2011 “La detassazione del salario di produttivi‑
tà per il 2011 non può essere retroattiva rispetto alla data della stipula degli
accordi territoriali e/o aziendali”.
16 Agenzia delle Entrate, Circolare 14 febbraio 2011, n. 3/E.
17 Agenzia delle Entrate, Circolare del 10 maggio 2011, n. 14/E.
La circolare di maggio 2011, si pone in netto contrasto con quanto affermato
nella precedente circolare del febbraio dello stesso anno, nella quale l’ammini‑
strazione finanziaria aveva dichiarato che “Per i contratti collettivi c.d. di dirit‑
to comune, in applicazione del principio generale di libertà di forma e come
ribadito dalla giurisprudenza di Cassazione (ex multis Cass. 15 febbraio 1998,
n. 1735; Cass. 13 dicembre 1995, n. 12757; Cass. 22 marzo 1995, n. 3318),
non esiste un onere di tipo formale, ragione per cui possono concorrere a in‑
crementi di produttività, come non di rado avviene, accordi collettivi non cri‑
stallizzati in un documento cartolare e cionondimeno riconducibili, a livello di
fonti del diritto, al generale principio di libertà di azione sindacale di cui all’ar‑
ticolo 39 della Costituzione”.
t r i b uta r io
Gazzetta
F O R E N S E
vità o efficienza dell’impresa. Fatto sicuramente non di facile
dimostrazione soprattutto in assenza di collegamenti con
parametri di tipo numerici quali potrebbero essere quelli le‑
gati al ricavi o ai minori costi sostenuti dall’azienda nel perio‑
do in cui è stata svolta la prestazione di lavoro straordinaria.
Ed anche in quel caso però sarebbe difficile dimostrare
che sia stata la prestazione straordinaria del lavoratore a
consentire tutto ciò. A tal riguardo, nella nota ora citata,
l’amministrazione finanziaria, rinviando alle circolari del
2008, ha precisato che è la stessa azienda a dover certificare
in un certo senso lo svolgimento di tali mansioni da parte del
lavoratore dipendente. L’impresa pertanto dovrà fornire al
lavoratore dipendente tutta la documentazione attestante
l’espletamento di mansioni straordinarie che hanno contribu‑
ito ad incrementi di produttività od efficienza della stessa e
ciò potrà avvenire anche tramite una comunicazione nella
quale sono esplicitate le ragioni della corresponsione della
somma. Era quindi difficile, per non dire quasi impossibile,
in caso di accertamenti da parte dell’amministrazione finan‑
ziaria circa la sussistenza delle condizioni per l’applicazione
dell’imposta sostitutiva, dimostrare che effettivamente l’ap‑
porto di quel determinato lavoratore aveva contribuito a in‑
crementi di produttività o efficienza.
4. Le novità introdotte nel 2012 e 2013.
La proroga delle misure introdotte nel 2008, è stata effet‑
tuata, seppur limitatamente alle ipotesi ex lett. c), anche per
le annualità 201218 e 201319, con l’introduzione di alcune
importanti novità.
Nel 2012, il tetto massimo di somme agevolabili è stato
portato a 2.500 € lordi annui, con un riferimento reddituale
per l’anno precedente di € 30.000, mentre nel 2013, fermo
restando il limite di € 2.500, è stato innalzato il riferimento
reddituale complessivo per l’anno precedente ad € 40.000.
Fatta tale premessa, a partire dall’anno 2012, con disci‑
plina sostanzialmente riprodotta nell’anno seguente le somme
per incrementi di produttività o di efficienza aziendale, così
come individuati dalla lett. c) dell’art. 1 del d.l.98/2003, pos‑
sono continuare a beneficiare dell’imposta sostitutiva del
10%20.
Tali incrementi devono essere stati resi in esecuzione di
contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o
territoriale da associazioni comparativamente più rappresen‑
tative sul piano nazionale o anche dalle loro rappresentanze
sindacali presenti in azienda 21.
18 Art. 26, D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito in l. 15 luglio 2011, n. 111
19 Art. 2 co. 481, l. 24 dicembre 2012, n. 228
20 Massi E., Salario di produttività e fiscalizzazione agevolata, in Diritto e Prati‑
ca del Lavoro, n. 20/2013, pag. 1278; MaistroA., Detassazione2013: prime
istruzioni, in Guida alle paghe, n. 5/2013, pag. 267.
21 “Alla luce della nuova formulazione normativa va dunque evidenziata la
necessità che gli accordi in questione, ai fini della applicabilità del regime
agevolativo, siano sottoscritti da associazioni in possesso del requisito della
maggiore rappresentatività comparata sul piano nazionale. In sostanza, in
relazione agli accordi territoriali, entrambe le parti devono essere in possesso
di tale requisito di rappresentatività.
La problematica appare invece più complessa nell’ipotesi di accordi azien‑
dali, in quanto solo uno dei firmatari dell’accordo può considerarsi una
“associazione” in rappresentanza di una collettività di soggetti (i lavora‑
tori).
Per la parte datoriale, pertanto, trattandosi di accordo aziendale, non potrà
che essere il singolo datore di lavoro a stipulare l’accordo con le rappresen‑
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
Diventa quindi necessario per poter applicare la detassa‑
zione che in azienda sia stata sottoscritto un contratto collet‑
tivo aziendale, o che sia stato sottoscritto o recepito un con‑
tratto collettivo territoriale e di conseguenza sarà possibile
solo per quanto maturato ed erogato dopo la sottoscrizione o
il recepimento dei contratti. Ma a diventare protagonista è
soprattutto la contrattazione di secondo livello, a cui, secon‑
do la CGIL, si darebbe in alcune occasioni altresì la facoltà
di derogare in pejusai minimi retributivi nazionali 22.
A seguito dell’emanazione del D.P.C.M. del 23 marzo
2012, con il quale venivano individuati i nuovi parametri
reddituali, la fondazione Studi dei Consulenti del lavoro ha
evidenziato, con riferimento alla necessità della presenza del
contratto aziendale o territoriale, che problemi particolari per
poter godere del beneficio potrebbero nascere per quelle
aziende prive di un sindacato interno (micro aziende)23.
Va sottolineato però, che tale disciplina è stata frutto di
scontri e dibattiti con le parti sociali molto accesi. In partico‑
lare il D.P.C.M. del 22 gennaio 2013, ha cercato sostanzial‑
mente di conformarsi a quanto definito in sede di accordo con
le parti sociali il 21 novembre 201224 in ordine alla nozione
di “retribuzione di produttività”. L’obiettivo dell’accordo era
quello di garantire lo sviluppo di un “sistema di relazioni
industriali, che crei condizioni di competitività e di produtti‑
vità tali da rafforzare il sistema produttivo, occupazione e le
retribuzioni”. Lo stesso era stato firmato da tutte le parti
sociali, con l’eccezione della sola CGIL che, pur valutando
con favore quella parte del provvedimento che confermava
l’applicazione dell’imposta sostitutiva per i premi di produt‑
tività, ha comunque considerato le previsioni ivi contenute
“peggiorative del sistema di detassazione”: l’aver infatti can‑
cellato, qualsiasi riferimento testuale ai turni di lavoro, ovve‑
ro al lavoro notturno o festivo che incidono, questi sì, su
competitività e produttività delle aziende, porta alla nascita
di un sistema “sbagliato ed inadeguato”25.
A prescindere tuttavia dalla normale dialettica con le
parti sociali, va dato atto e merito al legislatore di aver affron‑
tato il nodo della definizione di “retribuzione di produttività”.
tanze dei lavoratori che promanano da organizzazioni comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale mentre, per le realtà datoriali che non
abbiano al proprio interno tali rappresentanze, tali accordi potranno essere
sottoscritti con le organizzazioni sindacali territoriali in possesso del citato
requisito di rappresentatività”, Interpello Del Ministero del Lavoro e delle
politiche sociali n. 8 del 5 febbraio 2013; In seguito anche la Circolare del
Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, n. 15 del 3 aprile 2013, ha
precisato che per “rappresentanze sindacali presenti in azienda” devono in‑
tendersi tanto le R.S.A.(rappresentanze sindacali aziendali) che le
R.S.U.(rappresentanze sindacali unitarie).
22Si veda al riguardo: GiugniG., Diritto sindacale – Appendice di aggiornamen‑
to, Carucci Editore, 2013, pag. 221.
23 “In questo caso, è comunque possibile detassare le somme incentivate re‑
cependo in forma scritta il contratto collettivo territoriale sottoscritto dalle
parti sociali individuate dalla norma. Si fa presente che, sulla base dell’ordinario
principio contenuto nell’articolo 39 della Costituzione, è possibile recepire tale
accordo territoriale anche da parte di aziende non iscritte alle organizzazioni
firmatarie, purché sia data espressa adesione (possibilmente in forma scritta)
cosi come l’azienda ha presumibilmente effettuato per il contratto collettivo
nazionale. La sottoscrizione di un contratto collettivo aziendale potrà avvenire
anche con una sola sigla sindacale purché comparativamente rappresentativa
sul piano nazionale”. Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, Circolare
n. 13 del 19 giugno 2012.
24 Accordo per la crescita della produttività e della competitività in Italia, firmato
il 21 novembre 2012.
25 CGIL, nota della Segreteria Nazionale del 21 gennaio 2013.
2 0 1 3
119
In particolare secondo il decreto di gennaio 2013, al fine di
qualificare una somma erogata a titolo di retribuzione di
produttività occorre far riferimento o alle voci “retributive
erogate in esecuzione di contratti, con esplicito riferimento ad
indicatori quantitativi di produttività/redditività/qualità/effi‑
cienza/ innovazione, o, in alternativa, alle voci retributive
erogate in esecuzione di contratti che prevedano l’attivazione
di almeno una misura in almeno tre delle aree di intervento”
alternativamente ivi indicate che afferiscono agli orari di la‑
voro e alla distribuzione con modelli flessibili ovvero all’in‑
troduzione di una distribuzione flessibile delle ferie o all’ado‑
zione di misure che rendano consentano l’attivazione di
strumentazioni informatiche compatibilmente coi diritti dei
lavoratori ovvero la previsione di interventi atti a consentire
la fungibilità delle mansioni 26.
È questa la vera e propria novità introdotta – fra non poche
polemiche – dal decreto del 2013, ovvero la previsione di una
chiara ed ampia estrinsecazione degli obiettivi perseguiti e dei
parametri da utilizzare per valutarne la sussistenza.
L’introduzione di tali voci, comporta infatti quale conse‑
guenza che poter provare la sussistenza degli stessi, ci sia un
parametro di riferimento di tipo quantitativo/oggettivo. Ed in
effetti onde dimostrare che le somme siano state erogate a
fronte di incrementi è necessario che le prestazioni di lavoro
da cui traggono origine siano strettamente connesse e abbia‑
no comportato una riduzione dei costi di produzione o ad
esempio un aumento dei ricavi dell’azienda o quanto meno
devono esser state frutto dell’attivazione di una delle misure
alternative che il legislatore ha voluto a priori, far rientrare
fra le misure incrementative della produttività. Va però sot‑
tolineato che se con riferimento a criteri quali la produttività
e la redditività sembra possibile procedere ad un confronto di
tipo quantitativo/oggettivo, altrettanto non può dirsi per
quanto attiene alle valutazioni attinenti all’incremento di ef‑
ficienza, innovazione e qualità del lavoro reso.
Il Ministero ha precisato inoltre, che le due grandi cate‑
gorie definite dal decreto, possono coesistere purché ovvia‑
mente sussista altresì il requisito fondamentale della destina‑
zione ad incrementi di produttività degli stessi.
Infine, l’ultima novità introdotta nel decreto del 2013, è
costituita dall’obbligo di depositare il contratto di lavoro
applicato in azienda presso la Direzione Territoriale del lavo‑
ro competente entro 30 giorni dalla sua sottoscrizione alle‑
gando un’apposita autodichiarazione di conformità dell’ac‑
cordo depositato a quanto previsto dal decreto attuativo.
26 a) ridefinizione dei sistemi di orari e della loro distribuzione con modelli flessi‑
bili, anche in rapporto agli investimenti, all’innovazione tecnologica e alla
fluttuazione dei mercati finalizzati ad un piu’ efficiente utilizzo delle strutture
produttive idoneo a raggiungere gli obiettivi di produttivita’ convenuti median‑
te una programmazione mensile della quantita’ e della collocazione oraria
della prestazione;
b) introduzione di una distribuzione flessibile delle ferie mediante una program‑
mazione aziendale anche non continuativa delle giornate di ferie eccedenti le
due settimane;
c) adozione di misure volte a rendere compatibile l’impiego di nuove tecnologie
con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, per facilitare l’attivazione
di strumenti informatici, indispensabili per lo svolgimento delle attivita’ lavo‑
rative;
d) attivazione di interventi in materia di fungibilita’ delle mansioni e di integrazio‑
ne delle competenze, anche funzionali a processi di innovazione tecnologica.
tributario
Gazzetta
120
di r itto
Al riguardo, la circolare n. 15 del 201327, come già preci‑
sato, prevede che l’imposta sostitutiva non può applicarsi
anteriormente alla data di sottoscrizione del contratto collet‑
tivo eseguito e che per i contratti sottoscritti anteriormente
alla data in entrata in vigore del decreto, i 30 giorni non pos‑
sono che decorrere da tale data 28.
Anche l’agenzia delle Entrate sul punto ha precisato che
per i contratti sottoscritti in vigenza della precedente discipli‑
na, che già contenevano fra le ipotesi di somme erogate a ti‑
tolo di incrementi di produttività, una di quelle rientranti
nella casistica poi cristallizzata dal decreto, l’applicazione
dell’imposta sostitutiva potrà essere retrodatata sino al 1
gennaio 2013. Qualora poi un datore di lavoro avesse scelto,
prima dell’entrata in vigore del decreto di sottoporre a tassa‑
zione ordinaria le somme erogate per produttività, e poi
avesse deciso in seguito di applicare l’imposta sostitutiva,
potrebbe farlo alla prima retribuzione utile, recuperando il
versamento delle ritenute alla fonte operate in misura supe‑
riore rispetto a quanto dovuto a titolo di imposta sostitutiva
e scomputando l’eccedenza nei versamenti successivi 29.
5. L’istanza di rimborso.
L’agenzia dell’entrate, con risoluzione n. 83 del 201030 ha
precisato che i dipendenti, che in seguito all’introduzione
della misura non ne avessero beneficiato, possano farlo me‑
diante dichiarazione integrativa per gli anni passati ovvero
chiedendo il rimborso delle somme versate in eccedenza, ex
art. 38 d.p.r. 602/7331. Ovviamente, previa verifica dei pre‑
supposti di carattere reddituale per ciascun anno. La questio‑
ne però al riguardo non è così banale e scontata come sembra.
Problemi particolari si pongono ad esempio con riferimento
all’individuazione del dies a quo a partire dal quale il contri‑
buente può presentare istanza di rimborso. Un consolidato
orientamento giurisprudenziale al riguardo, sostiene la neces‑
sità di guardare all’origine del debito tributario. Il termine
comincerebbe dunque a decorrere dal saldo, solo se il diritto
scaturisce da un versamento successivamente considerato in
eccesso rispetto a quanto correttamente dovuto o se tale
“eccesso” dipenda da una ridefinizione dell’obbligazione fi‑
scale. Se invece i versamenti risultino non dovuti già al mo‑
mento dei versamenti in acconto, allora il dies a quo per il
rimborso degli stessi inizia a decorrere nel giorno in cui sono
stati effettuati32. Nel caso di specie, risulta difficile stabilire
sempre che non ci sia stata una espressa rinuncia, stabilire il
dies a quo.
27 Circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 15/2013, cit.
28 La data di entrata in vigore del decreto è quella del 13 aprile 2013 ovvero del
quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione in gazzetta ufficiale, avve‑
nuta il 29 marzo 2013.
29 Agenzia delle Entrate, Circ. del 30 aprile 2013, n. 11/E.
30 Agenzia delle Entrate, Ris. del 17 agosto 2010, n. 83/E.
31 “Il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare all’intenden‑
te di finanza nella cui circoscrizione ha sede l’esattoria presso la quale è stato
eseguito il versamento istanza di rimborso, entro il termine di decadenza di
quarantotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale,
duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento. L’istan‑
za di cui al primo comma può essere presentata anche dal percipiente delle
somme assoggettate a ritenuta entro il termine di decadenza di quarantotto
mesi dalla data in cui la ritenuta è stata operata”Art. 38 co. 1, D.p.r. 602/73.
32 Mannoni E., Il dies a quo nella procedura di rimborso ex art. 38 del D.P.R.
602 del 1973, in Il fisco, 18/2013, pag. 2719.
t r i b uta r io
Gazzetta
F O R E N S E
Inoltre, non vanno sottaciute le preoccupazioni in ordine
a profili per così dire probatori: se nel 2013, sono stati intro‑
dotti degli specifici parametri ed indicatori che “testimonia‑
no” gli incrementi di produttività, parimenti non può dirsi per
gli anni precedenti.
A tale scopo infatti in un primo momento era stata richie‑
sta necessariamente una dichiarazione proveniente dal datore
di lavoro che attestasse la straordinarietà e/o la destinazione
ad incrementi di produttività della prestazione resa da parte
del lavoratore per le quali erano state erogate determinate
somme di danaro. Le difficoltà connesse alla operatività pra‑
tica di tali adempimenti, segnalati in particolar modo da Caf
e da associazioni dei datori di lavoro ha portato l’amministra‑
zione finanziaria a scegliere una via più pratica e veloce.
Proprio per tale motivo l’agenzia delle Entrate, ha ritenu‑
to nel 2010, di dover integrare i modelli di dichiarazione e di
certificazione, consentendo che l’indicazione di tali somme
possa esser fatta anche nello stesso CUD. Ovviamente non
vanno nascoste le difficoltà per il lavoratore di dimostrare la
sussistenza del diritto al rimborso in particolar modo quando
il datore di lavoro è differente da quello alle cui dipendenze
sono state svolte le prestazioni straordinarie33. Trattasi in tali
casi di una sorta di probatio diabolica, che ad esempio in
caso di lavoro notturno ordinario, svolto dal dipendente do‑
vrebbe non esser necessaria soprattutto se riferita alle annua‑
lità 2008‑09.
Per quanto attiene alle annualità a partire dalle quali le
ipotesi di “straordinario” dovevano esser rese in attuazione di
quanto previsto dai contratti territoriali o aziendali applicati
in azienda, forse la questione si pone in misura leggermente
diversa, anche se non vanno sottaciuti i timori e le difficoltà
di dimostrare che delle retribuzioni possano essere effettiva‑
mente connesse ad incrementi di produttività. Se si guarda
infatti al 2011, anno durante il quale è stato sì espressamente
previsto il legame col contratto applicato in azienda ma senza
che l’estrinsecazione di parametri di tipo quantitativo/ogget‑
tivo – come previsto invece nel 2013‑ allora la questione
“probatoria” assume dei contorni ancora troppo sfuocati e
poco chiari, ma soprattutto di difficile risoluzione.
6. Conclusioni.
La disciplina in materia di detassazione dei premi di pro‑
duttività, era stata introdotta nell’ottica di rilancio delle atti‑
vità produttive ed al fine di rafforzare il potere di acquisto dei
lavoratori dipendenti. Al di là del periodo di sperimentazione,
però va sottolineato come gli interventi del legislatore siano
stati per certi versi poco organici e poco coerenti con la ratio‑
ispiratrice. Problemi sono stati ad esempio evidenziati da più
parti in ordine alla possibilità di applicare tale disciplina,
così come novellata alle piccole e medie imprese, stante l’as‑
senza di riferimenti espliciti ai turni di lavoro che potevano
costituire una valida e “sintomatica” chiave di lettura per
dimostrare l’esistenza di lavoro straordinario a sostegno del‑
la produttività delle imprese34.
33 Agenzia delle Entrate, Ris. 83/2010, cit.
34 Mastromatteo A. – SantacroceB., Prima applicazione o opzione per la ri‑
nuncia all’imposta sostitutiva sulla retribuzione di produttività, in Corriere
Tributario, n. 23/2013, pag. 1827.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
La disciplina originaria infatti, facendo espresso riferi‑
mento al lavoro straordinario o supplementare consentiva di
agevolare il lavoro festivo o notturno, in maniera più sempli‑
ce e diretta, senza dover ancorare la concessione del beneficio
alla sussistenza di parametri contrattuali e di produttività.
Il legame necessario con i contratti territoriali o azienda‑
li introdotto, ha invece comportato quale conseguenza che le
modalità attraverso le quali si realizzano tali incrementi deb‑
bano in un certo senso esser preventivate e previste a priori
dagli accordi. Non è dunque privo di senso, il timore che più
volte le rappresentanze sindacali hanno mostrato in ordine
alla possibilità che lavoro festivo e notturno, possano non
beneficiare dei regimi preferenziali, in particolar modo per
quanto attiene alle realtà medio piccole.
Non vanno, poi sottovalutati i rischi “dell’uso distorto”
delle tre aree di intervento previste dal legislatore, che per
2 0 1 3
121
quanto attiene ad esempio alla definizione di modelli flessibi‑
li o di fungibilità delle mansioni, potrebbero nascondere
sfruttamenti e demansionamenti ingiustificati.
Non è dunque priva di pregio, la richiesta proveniente in
particolar modo dalle parti sociali, di definire questa disci‑
plina, con più attenzione e aderenza alla realtà, considerando
soprattutto quello che è il reale tessuto produttivo italiano,
costituto per lo più da piccole e medie imprese.
Se da un lato infatti, non può esser negato il giusto e degno
di nota intervento del legislatore volto a dare “respiro” tanto
alle imprese quanto ai lavoratori dipendenti, che si collocano
al di sotto di una determinata fascia reddituale, dall’altro non
può esser sottaciuto che questo Paese attende ormai da troppo
tempo un intervento strutturato ed adeguato in ordine alla
fiscalità delle imprese, che sappia dare slancio e nuova vita
all’economia italiana.
tributario
Gazzetta
Diritto internazionale
Rassegna di diritto internazionale
125
internazionale
Francesco Romanelli
F O R E N S E
●
Rassegna
di diritto
internazionale
●
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e specialista in diritto ed economia
delle comunità europee
luglio • A G O S T O
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Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e
delle libertà fondamentali – Ricorso alla Corte – Legittimazio‑
ne – Esaurimento dei mezzi interni di ricorso – Diritto ad un pro‑
cesso equo – Protezione della proprietà – Divieto di discrimina‑
zione – Obbligo per lo Stato di adottare misure di carattere gene‑
rale – Indennizzo ex lege n. 210/1992
Il decreto legge 78/2010 1 che con il quale si dà, tra l’altro,
un’interpretazione autentica 2 della l. 210/1992, relativa all’in‑
dennizzo da corrispondersi a coloro che siano stati contagia‑
ti dal virus HCV a causa di emotrasfusioni, viola il principio
di legalità ed il diritto dei ricorrenti ad un processo equo.
Il divieto di rivalutazione annuale dell’indennità integra‑
tiva speciale, di cui al d.l. 78/2010, costituisce violazione
dell’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione.
Il decreto legge 78/2010 viola l’art. 14 della Convenzione
e l’art. 1 del Protocollo n. 12 integrando una illegittima di‑
sparità di trattamento
C.E.D.U., sez. II, sentenza 03 settembre 2013, ricorso
n. 5376/11, M.C. e altri c/ Italia
La pronuncia della Corte europea, riportata da molti
quotidiani, è intervenuta sul diritto alla rivalutazione dell’in‑
dennità integrativa speciale, componente principale dell’in‑
dennizzo spettante a coloro che abbiano subito menomazioni
permanenti a causa di emotrasfusioni o che siano affetti dal‑
la sindrome della talidomide.
Il legislatore aveva stabilito, per limitare la spesa pubblica,
di bloccare la rivalutazione della IIS in favore dei soggetti
portatori di HCV, determinando così una irragionevole di‑
sparità di trattamento in contrasto con l’art. 3, comma primo,
Cost., per le persone affette da epatite post‑trasfusionale ri‑
spetto a quella dei soggetti portatori della sindrome da tali‑
domide. A questi ultimi è riconosciuta la rivalutazione annua‑
le dell’intero indennizzo, mentre alle prime la rivalutazione
sulla base del tasso di inflazione programmato3 è negata pro‑
prio sulla componente diretta a coprire la maggior parte
dell’indennizzo stesso, con la conseguenza, tra l’altro, che
soltanto questo rimane esposto alla progressiva erosione de‑
rivante dalla svalutazione.
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costi‑
tuzionale della norma con la sentenza n. 293 del 9.11.11. La
Corte europea ha però rilevato, accogliendo le ragioni dei
ricorrenti, che nonostante ciò, essi non abbiano ancora perce‑
pito quanto loro spettante.
La Corte europea ha riaffermato il principio 4 secondo cui,
pur se, in linea di principio in materia civile, al legislatore non
1 Convertito, con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, legge 30 luglio 2010,
n. 122.
2 L’art. 11, comma 13, ha disposto che «Il comma 2 dell'articolo 2 della legge 25
febbraio 1992, n. 210 e successive modificazioni si interpreta nel senso che la
somma corrispondente all'importo dell'indennità integrativa speciale non è
rivalutata secondo il tasso d'inflazione».
3 art. 2, comma 1, legge n. 210 del 1992.
4 cfr. Raffineries grecques Stran et Stratis Andreadis c. Grèce, 9 décembre 1994,
o § 49, série A n –B ; Papageorgiou c. Grèce, 22 octobre 1997, § 37, Recueil
des arrêts et décisions1997–VI ; National & Provincial Building Society, Leeds
Permanent Building Society et Yorkshire Building Society c. Royaume‑Uni, 23
octobre 1997, § 112, Recueil des arrêts et décisions1997–VII, Zielinski et
Pradal et Gonzalez et autres c. France[GC], nos /94 et 34165/96 à 34173/96,
§ 57, CEDH 1999–VII, Agrati et autres c. Italie, nos 43549/08, 6107/09 et
5087/09, § 58, 7 juin 2011 et Maggio et autres c. Italie, nos 46286/09,
52851/08, 53727/08, 54486/08 et 56001/08, § 43, 31 mai 2011.
internazionale
Gazzetta
126
D i r itto
I n t e r n a z io n al e
è precluso di regolare con nuove disposizioni retroattive dirit‑
ti derivanti da leggi vigenti, il principio di legalità e la nozio‑
ne di processo equo sancito dall’articolo 6 § 1 Conv. ostano,
se non per ragioni imperative di interesse generale, a che il
legislatore intervenga sulle decisioni giudiziali delle contro‑
versie.
Parte essenziale del principio di legalità è, infatti, costitu‑
ito dalla certezza del diritto che richiede, tra l’altro, che le
decisioni definitive dell’autorità giudiziaria non siano poste
nel nulla5. Purtroppo il legislatore italiano, carente sotto più
profili, spesso dimentica concetti fondamentali come questi.
La Corte ha rilevato che il d. l. 78/2010 interveniva su una
materia che era oggetto di numerosi procedimenti giudiziari
e che, a causa di esso, un gran numero di procedure esecutive
era stato interrotto.
Diritto degli Stati Uniti d’America – Class action – Responsabilità
civile – Mediazione – Omologazione da parte del Giudice
Il Giudice è tenuto a valutare la correttezza, sia formale
sia sostanziale, l’adeguatezza e la ragionevolezza di un accor‑
do transattivo che definisca una class action e tale scrutinio
deve essere tanto maggiore nel caso in cui le trattative per un
bonario componimento abbiano avuto inizio prima del prov‑
vedimento autorizzativo della class action stessa.
Corte Distrettuale degli Stati Uniti, Distretto meridionale di
New York, sentenza 20 agosto 2013, M. et al. c/ C*** inc.
Un gruppo assai numeroso di acquirenti di titoli emessi o
venduti da uno dei maggiori gruppi bancari statunitensi ha
promosso un’azione risarcitoria ai sensi del Securities Act del
1933 che disciplina, tra l’altro, la responsabilità degli emit‑
tenti titoli finanziari.
Gli attori lamentavano che la Banca avesse fornito infor‑
mazioni non complete e non veritiere circa il proprio coinvol‑
gimento nel mercato dei mutui cd. subprime, in occasione
delle 48 emissioni di titoli obbligazionari nel corso degli anni
2006/08.
Avendo quindi raggiunto un accordo, attraverso la media‑
zione di un conciliatore a tal fine nominato dalla Corte, che
prevede il pagamento agli appartenenti alla classe di $
730.000.000,00, essi hanno chiesto quella che potremmo
definire, nel nostro sistema giuridico, l’omologazione dell’ac‑
cordo alla Corte.
Nella propria sentenza, il Giudice monocratico ripercorre
lo svolgimento del giudizio. I ricorrenti lamentavano che la
mancata indicazione del pesante coinvolgimento della Banca
‑ $ 66 miliardi nel mercato dei derivati per mutui, $ 100 mi‑
liardi nel mercato dei derivati per finanziamento all’acquisto
di veicoli, $ 11 miliardi investiti in obbligazioni a tasso varia‑
bile, il cui valore era “evaporato” (sic!) – aveva prodotto, nel
momento della scoperta di tali investimenti sbagliati il drasti‑
co deprezzamento delle obbligazioni della Banca da loro ac‑
quistate.
Esaminate e risolte alcune eccezioni procedurali sollevate
dalla convenuta, in fase di istruttoria, le parti iniziavano
delle trattative a fini transattivi. A tal fine chiedevano al giu‑
dice di sospendere il procedimento, nominando congiunta‑
5 Brumărescu. Romania [, § 61, GC], n. 28342/95, CEDU 1999 VII.
Gazzetta
F O R E N S E
mente un mediatore per facilitare l’accordo nella persona di
un ex giudice federale ormai in pensione.
La Corte approvò quindi gli accordi preliminari, certifi‑
cando altresì l’esistenza di una classe formata da tutti coloro
che avevano acquistato titoli obbligazionari emessi dalla
Banca nel periodo oggetto della transazione, nominando al
contempo il procuratore ed il difensore della classe stessa. Con
il medesimo provvedimento, la Corte dispose la notifica a
tutti coloro che avessero acquistato le obbligazioni dell’esi‑
stenza di una class action, della proposta di accordo e delle
modalità per l’adesione e/o la non adesione all’azione.
Il procuratore provvide alla formale comunicazione a circa
500.000 appartenenti alla classe, ricevendo soltanto 31 oppo‑
sizioni. Fissata l’udienza per l’esame della regolarità della
proposta, il giudice si è riservato ed a scioglimento di essa ha
emesso il provvedimento di omologazione dell’accordo.
In particolare, la Corte, ricordando che vi sia una presun‑
zione di correttezza quando l’accordo venga a seguito di un
negoziato serrato tra esperti e capaci difensori6 dopo un’esau‑
stiva istruttoria7, ha rilevato che l’accordo possa ritenersi
conveniente alla luce di nove parametri, dettati dall’elabora‑
zione giurisprudenziale8: 1) la complessità, i costi e la proba‑
bile durata del giudizio; 2) la reazione dei membri della classe
alla proposta di accordo; 3) lo stato del processo e l’avanza‑
mento dell’istruttoria; 4) il rischio di un accertamento di re‑
sponsabilità; 5) il rischio della quantificazione del risarcimen‑
to; 6) il rischio “processuale” della class action; 7) la capacità
del convenuto di resistere in un giudizio molto complesso; 8)
la ragionevolezza delle somme in accordo alla luce del maggior
possibile recupero; 9) la ragionevolezza delle somme in accor‑
do da valutarsi alla luce dei rischi della prosecuzione del
giudizio.
La questione risolta, con l’attribuzione di una somma che
è la seconda per grandezza in controversie relative a diritti
obbligazionari negli Stati Uniti, dimostra che anche contro‑
versie di enorme complessità e coinvolgenti un esteso numero
di soggetti possa essere risolta in maniera efficace ed efficien‑
te attraverso lo strumento delle class action, strumento che il
legislatore nazionale si ostina a voler limitare.
Inadempimento di uno Stato – Direttiva 1999/31/CE – Discariche
di rifiuti –Proseguimento dell’attività in mancanza di un piano di
riassetto dell’area – Obbligo di chiusura
La mancata chiusura di tutte le discariche di smaltimen‑
to incontrollato dei rifiuti che sono in attività sul suo terri‑
torio e non adeguandosi agli obblighi derivanti dalla diretti‑
va 1999/31/CE del Consiglio, del 26 aprile 1999, relativa
alle discariche di rifiuti, costituisce inadempimento agli ob‑
blighi che incombono sugli Stati membri in forza dell’artico‑
lo 14 di tale direttiva.
C.G.U.E., sentenza 18 luglio 2013, Causa C‑412/12,
Commissione europea / Repubblica di Cipro
6
Deve rilevarsi una stima della professione forense da parte della magistratura
invidiabile nel nostro contesto.
7 Federal Judicial Center, Manual for complex litigation (third), §30.42, 1995,
Thomson West.
8 City of Detroit v. Grinnell Corp., 495, F.2d, 448, 463 (2d Circ., 1974): “la
Corte è impegnata in un processo che richiede un amalgama di delicati bilan‑
ciamenti, grosse approssimazioni e giustizia sostanziale”.
F O R E N S E
luglio • A G O S T O
La Repubblica di Cipro è stata convenuta in giudizio dal‑
la Commissione poiché nel corso della fase precontenziosa
aveva dichiarato di non poter procedere alla completa chiu‑
sura di tutte le discariche funzionanti al momento dell’entra‑
ta in vigore della direttiva in parola prima del 2015, poiché a
causa della sua conformazione territoriale era necessario at‑
tendere la costruzione di impianti di smaltimento prima di
procedere alla disattivazione delle discariche, non potendo
altrimenti smaltire i rifiuti prodotti.
La Corte ha disatteso la giustificazione dello Stato mem‑
bro, ricordando che secondo la propria costante giurispruden‑
za, uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o
situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per
giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini previsti
da una direttiva9.
La materia della gestione dei rifiuti è particolarmente
nota. È opportuno solo segnalare che sono stati proposti
dalla Commissione due ricorsi contro il nostro Paese iscritti
ai n. C‑196/13, per l’accoglimento delle seguenti conclusioni:
dichiarare che, non avendo adottato tutte le misure necessarie
per conformarsi alla sentenza della Corte di giustizia delle
Comunità europee del 26 aprile 2007, nella causa C‑135/05,
nella quale è stato dichiarato che la Repubblica italiana è
venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli
articoli 4, 8 e 9 della direttiva 75/442/CEE, come modificata
dalla direttiva 91/156/CEE, dell’articolo 2, n. 1, della diretti‑
va del Consiglio, del 12 dicembre 1991, 91/689/CEE, relativa
ai rifiuti pericolosi, e dell’articolo 14, lettere a) – c), della di‑
rettiva del Consiglio, del 26 aprile 1999, 1999/31/CE, relativa
alle discariche di rifiuti, la Repubblica italiana è venuta meno
agli obblighi che le incombono in virtù dell’articolo 260,
paragrafo 1, TFUE; ordinare alla Repubblica italiana di ver‑
sare alla Commissione una penalità giornaliera pari a EUR
256 819,2 per il ritardo nell’esecuzione della sentenza nella
causa C‑135/05 dal giorno in cui sarà pronunciata la senten‑
za nella presente causa fino al giorno in cui sarà stata esegui‑
ta la sentenza nella causa C‑135/05; ordinare alla Repubblica
italiana di versare alla Commissione una somma forfettaria
il cui importo risulta dalla moltiplicazione di un importo
giornaliero pari a EUR 28 089,6 per il numero di giorni di
persistenza dell’infrazione dal giorno della pronunzia della
sentenza nella causa C‑135/05 alla data alla quale sarà pro‑
nunziata la sentenza nella presente causa, condannare la
Repubblica italiana al pagamento delle spese di giudizio.
Con il secondo ricorso, iscritto al n. C‑313/13, la Com‑
missione ha chiesto alla Corte di dichiarare che, poiché una
parte dei rifiuti urbani conferiti nelle discariche del SubATO
di Roma, inclusa quella di Malagrotta e in quelle del SubATO
Latina non viene sottoposta ad un trattamento che compren‑
da un’adeguata selezione delle diverse frazioni dei rifiuti e la
stabilizzazione della frazione organica, e poiché in Lazio non
è stata creata una rete integrata e adeguata di impianti per la
gestione dei rifiuti tenendo conto delle migliori tecniche di‑
sponibili, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi
9
Sentenze del 28 febbraio 2013, Commissione / Regno di Spagna, C‑ 483/10,
non ancora pubblicata, del 7 luglio 2009, Commissione/Grecia, C–369/07,
Racc. pag. I–5703, punto 45, e del 25 febbraio 2010, Commissione/Spagna,
C–295/09, punto 10.
2 0 1 3
127
imposti dall’articolo 6, lettera a), della direttiva 1999/31/CE,
letto in combinato disposto con l’articolo 1, paragrafo 1,
della direttiva 1999/31/CE e con gli articoli 4 e 13 della di‑
rettiva 2008/98/CE e dall’articolo 16, paragrafo 1, della di‑
rettiva 2008/98/CE; condannare la Repubblica italiana al
pagamento delle spese processuali.
internazionale
Gazzetta
Questioni
[ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ]
È sempre possibile, in attuazione degli artt. 3 e 32 Cost., trovare tutela ex art. 700 c.p.c.? Profili
processuali e costituzionali scaturenti dalle recenti richieste d’urgenza di accesso alla speri‑
mentazione e trattamenti con cellule staminali, secondo il metodo Stamina. Analisi di quattro
131
ordinanze in materia. / Domenico Spena
Nesso di causalità e colpa: un percorso argomentativo tra profili logico‑scientifici ed emozio‑
135
nali. / Elisa Asprone
questioni
Un Istituto scolastico statale può impugnare un provvedimento emanato da un’Amministrazio‑
ne non statale, (nella specie la Regione), avvalendosi del patrocinio di un avvocato del libero
142
Foro? / Elia Scafuri
F O R E N S E
●
DIRITTO CIVILE È sempre possibile,
in attuazione degli artt. 3
e 32 Cost., trovare tutela
ex art. 700 c.p.c.? Profili
processuali e costituzionali
scaturenti dalle recenti
richieste d’urgenza di accesso
alla sperimentazione
e trattamenti con cellule
staminali, secondo il metodo
Stamina. Analisi di quattro
ordinanze in materia
● Domenico Spena
Avvocato
Nel panorama dei più recenti pro‑
nunciati giurisprudenziali, in ambito di
trattamento ed uso delle cellule stami‑
nali attraverso la metodica Stamina,
vanno segnalate quattro recenti ordi‑
nanze, emesse tra la fine di luglio e
l’inizio dell’agosto scorso. Ci si riferisce
all’ordinanza del Tribunale di Bergamo
del 17 luglio 2013 R.G. n. 1810/2013,
all’ordinanza del Tribunale di Milano
del 26 luglio 2013 R.G. 7655/2013, a
quella del Tribunale di Lecco del 18
luglio 2013 R.G. n. 454/2013 e, infine,
ultima in ordine temporale, a quella
emanata dal Tribunale di Firenze il 9
agosto 2013 R.G. 29231/2013.
L’analisi di queste ordinanze, acco‑
munate dal fatto che tutte concludono
per il rigetto della richiesta di parte at‑
torea relativamente all’accesso al tratta‑
mento con cellule staminali col metodo
Stamina, appare utile ai fini di una ri‑
costruzione delle problematiche, non
solo di ordine processuale, che si sono
poste in relazione a tali tipi di ricorsi.
La prima questione che va affrontata
è quella della possibilità o meno di otte‑
nere una tutela in via d’urgenza ex
art. 700 c.p.c., in merito alla richiesta di
accedere a cure di frontiera o ai pro‑
grammi di sperimentazione delle stesse.
Al riguardo, il Tribunale di Lecco,
in funzione di giudice del lavoro, affer‑
ma l’insussistenza del fumus boni iuris,
uno dei presupposti di cui all’art. 700
c.p.c. Ciò sia sotto un profilo astratto,
luglio • A G O S T O
2 0 1 3
sia sotto il profilo particolare della
questione trattata.
Sotto il profilo astratto, nell’ordi‑
nanza del Tribunale di Lecco si legge
che nella sede cautelare d’urgenza, pro‑
prio perché caratterizzata da una cogni‑
zione necessariamente sommaria dei
fatti per cui è causa a fronte di richieste
oggettivamente di rilevante incidenza
sulla sfera giuridica della parte conve‑
nuta, debba pretendersi un grado di
valutazione prognostica di fondatezza
della domanda di elevato livello; ciò
deve ritenersi anche in particolare per i
presupposti processuali, stante il fatto
che, per la stessa ragione d’urgenza di
cui sopra, il rispetto delle garanzie pro‑
cessuali rischierebbe altrimenti di subi‑
re una attenuazione, inammissibile;
Sotto il profilo concreto, poi, la
domanda riguarda una autorizzazione
al ricorso alla infusione di cellule stami‑
nali coma da metodo Stamina Founda‑
tion, previa disapplicazione di ordinan‑
ze AIFA del 15.05.2012 e 29.11.2012
che hanno vietato ciò. Questione questa
che, necessariamente, coinvolge giudizi
di costituzionalità estranei alla sede
cautelare.
Infatti, nell’ordinanza citata si legge
che, in sede cautelare, il giudice non
potrebbe ipotizzare eventuali profili di
illegittimità costituzionale a prescindere
da una formale adozione di una rimes‑
sione degli atti alla Corte Costituzionale
(iter che, peraltro, sembrerebbe incom‑
patibile con la procedura d’urgenza).
Al riguardo l’ordinanza del Tribu‑
nale di Firenze, richiamando una sen‑
tenza della Corte di Cassazione, affer‑
ma che “il provvedimento d’urgenza ex
art. 700 cod. proc. civ. illegittimamen‑
te emesso con riguardo a norme che
escludono il diritto con esso riconosciu‑
to e per le quali è stata sollevata que‑
stione di legittimità costituzionale con
sospensione del giudizio di merito, ha
carattere abnorme, in quanto è corre‑
lato solo formalmente alla previsione
normativa che attribuisce efficacia
temporanea al provvedimento cautela‑
re di tutela interinale dei diritti, la
sorte del quale è affidata alla sentenza
di merito, costituendo bensì una tutela
in attesa del futuro ed eventuale rico‑
noscimento dei diritti correlativi; tale
atto anomalo – la cui caducazione non
può essere ancorata alla prosecuzione
del giudizio di merito e all’appello – è
suscettibile di ricorso per cassazione ex
131
art. 111 secondo comma Cost., che ne
consente la verifica di legittimità” (co‑
sì Cass. Civ., Sez. Lav., 12 dicembre
1991, n. 13415, nonché, sulla medesima
questione oggetto del presente giudizio,
v. Trib. Milano, 28.05.2013; Trib. Ti‑
voli, 22 .05. 2013; Trib. Bologna,
06.05.2013, Trib. Como 7.6.2013, Trib.
Firenze 12.06.2013).
Infine sul punto si richiama quanto
affermato dall’ordinanza del Tribunale
di Milano del 26 luglio 2013: “non si
ritiene di aderire all’orientamento
espresso da alcune pronunce che am‑
mettono la possibilità di un controllo
diffuso di legittimità costituzionale
nell’ambito della fase cautelare, con
rinvio alla fase di cognizione piena (ma
eventuale) per sollevare effettivamente
la questione, con conseguente disappli‑
cazione di una norma di legge.
Com’è noto l’ordinamento italiano
è caratterizzato da un sindacato di co‑
stituzionalità accentrato (art. 134
Cost., art. 1 legge Cost. n. 1/1948 e
art. 23 legge n. 87/1953) che non con‑
sente mai al giudice ordinario, in alcu‑
na sede, di disapplicare la legge o emet‑
tere ‘pronunce additive’ che determini‑
no un ampliamento della platea dei
destinatari della legge stessa, in base a
un autonomo giudizio di incostituzio‑
nalità della disciplina vigente”.
Le ordinanze in oggetto, in ogni
modo, forniscono un contributo all’ana‑
lisi dei profili costituzionali collegati
alla vicenda.
In particolare, la questione attiene
alla portata applicativa degli artt. 3 e
32 della Costituzione.
Il tema della salute e della cura si
muove per intero nell’orizzonte del pri‑
mo comma dell’art. 32 Cost., tra il di‑
ritto fondamentale dell’individuo alla
salute e l’interesse della collettività alla
salute individuale. Questo è l’unico di‑
ritto nella Costituzione per il quale si
prevede un concorrente interesse della
collettività, rispetto alla situazione giu‑
ridica soggettiva tutelata e che integra
una pretesa generale (in ciò diversa, ed
esempio, dall’istruzione – che fa riferi‑
mento, per i gradi più alti degli studi, ai
“capaci e meritevoli”), azionabile in
pratica solo se la Repubblica costituisce
strutture e assicura servizi che lo con‑
cretizzano.
Preliminarmente, però, è opportuno
fare una sintesi del quadro normativo
che si è succeduto a regolamentare la
questioni
Gazzetta
132
materia, nonché delle concrete vicende
relative al caso Stamina.
Il sistema normativo di riferimento,
prima dell’entrata in vigore della Legge
23 maggio 2013, n. 17 (che ha conver‑
tito con modificazioni il D.L. 25 marzo
2013, n. 24), era ancorato al D.M. 5
d icembre 20 06 e a l cit ato D. L .
n. 24/2013.
Il D.M. 5 dicembre 2006 n. 25520
prevede la sussistenza di una serie di
requisiti specificamente individuati ai
fini della salvaguardia della salute del
paziente.
L’art. 1 comma 3 così recita: “con
provvedimento del direttore generale
della Agenzia italiana del farmaco (AI‑
FA), da aggiornare periodicamente,
sentita la Commissione consultiva tec‑
nico scientifica della medesima Agen‑
zia, vengono elencati gli impieghi di
medicinali per terapia cellulare somati‑
ca considerati clinicamente e scientifi‑
camente consolidati”.
L’art.1 comma 4, aggiunge: “Fermo
restando il disposto di cui al comma 3,
è consentito l’impiego dei medicinali di
cui al comma 1 su singoli pazienti, in
mancanza di valida alternativa tera‑
peutica, nei casi di urgenza ed emergen‑
za che pongono il paziente in pericolo
di vita o di grave danno alla salute,
nonché nei casi di grave patologia a
rapida progressione, sotto la responsa‑
bilità del medico prescrittore e, per
quanto concerne la qualità del medici‑
nale, sotto la responsabilità del diretto‑
re del laboratorio di produzione di tali
medicinali purché: a) siano disponibili
dati scientifici, che ne giustifichino
l’uso, pubblicati su accreditate riviste
internazionali; b) sia stato acquisito il
consenso informato del paziente; c) sia
stato acquisito il parere favorevole del
Comitato etico di cui all’art. 6 del de‑
creto legislativo 24 giugno 20 03,
n. 211, con specifica pronuncia sul
rapporto favorevole fra i benefici ipo‑
tizzabili ed i rischi prevedibili del trat‑
tamento proposto, nelle particolari
condizioni del paziente; d) siano utiliz‑
zati, non a fini di lucro, prodotti prepa‑
rati in laboratori in possesso dei requi‑
siti di cui all’art. 2, anche nei casi di
preparazioni standard e comunque nel
rispetto dei requisiti di qualità farma‑
ceutica approvati dalle Autorità com‑
petenti, qualora il medicinale sia stato
precedentemente utilizzato per speri‑
mentazioni cliniche in Italia; se il me‑
q u e stio n i
dicinale non è stato sperimentato in
Italia, dovrà essere assicurato il rispet‑
to dei requisiti di qualità farmaceutica
approvati dall’Istituto superiore di sa‑
nità, secondo modalità da stabilirsi con
provvedimento del Presidente del me‑
desimo Istituto; e) il trattamento sia
eseguito in Istituti di ricovero e cura a
carattere scientifico o in struttura pub‑
blica o ad essa equiparata; f) pregressa
trasmissione all’AIFA di autocertifica‑
zione del possesso di quanto indicato
nelle lettere a), b), c), d) ed e)”.
Più in particolare la fattispecie era
regolata, dagli artt. 1 (comma 4) e 2
(comma 1) del decreto del Ministro
della salute 5 dicembre 2006, nonché
dall’art. 3, comma 1, lett. f‑­bis, del de‑
creto legislativo 24 aprile 2006, n. 219
(introdotto dall’art. 34 della legge 7
luglio 2009, n. 88, in attuazione di
quanto previsto dal regolamento
2007/1394/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio 13 novembre 2007),
fonti normative relative “a qualsiasi
medicinale per terapia avanzata prepa‑
rato su base non ripetitiva in esecuzione
di una prescrizione medica individuale
per un prodotto specifico destinato ad
un determinato paziente”. Da questo
complesso normativo si evince innanzi‑
tutto che la produzione di tali specifici
medicinali deve essere espressamente
“autorizzata dall’autorità competente
dello Stato membro” (così l’ art. 28,
comma 2, del regolamento). Gli Stati
membri devono inoltre far sì che, per
tali medicinali, “la tracciabilità”, “i
requisiti di farmacovigilanza”, “gli
specifici requisiti di qualità” siano
“equivalenti a quelli previsti a livello
comunitario per quanto riguarda i me‑
dicinali per terapie avanzate per i quali
è richiesta l’autorizzazione a norma del
regolamento (CE) n. 726/2004” (così,
l’art. 28, comma 2, del regolamento
2007/I394/CE).
Lo Stato italiano individua nell’AI‑
FA (Agenzia Italiana del Farmaco) l’au‑
torità competente al rilascio dell’auto‑
rizzazione alla produzione di tali medi‑
cinali (così l’art. 3, comma 1, lett. f‑bis,
del decreto legislativo 24 aprile 2006,
n. 219, introdotto dall’art. 34 della
legge 7 luglio 2009, n. 88) e lo Stato
italiano stabilisce altresì che compito
specifico dell’ AIFA è di garantire (a
norma della citata fonte comunitaria e
della legge italiana) “la tracciabilità”, “i
requisiti di farmacovigilanza”, “gli
Gazzetta
F O R E N S E
specifici requisiti di qualità” (quelli cioè
di buona fabbricazione) in modo “equi‑
valente” a quanto previsto per i medici‑
nali per terapie avanzate, per i quali è
richiesta l’autorizzazione all’immissione
in commercio (aic).
Dal 2011, dopo il nullaosta dell’AI‑
FA, la reclamata Azienda Ospedaliera
Spedali Civili di Brescia e la Stamina
Foundation ONLUS formalizzano la
collaborazione per il trattamento di
cellule mesenchimali ed avviano la
somministrazione di queste cellule su
alcuni pazienti, previa acquisizione dei
requisiti richiesti dalla legge.
I trattamenti proseguono fino al 13
febbraio 2012, quando l’Azienda comu‑
nica a Stamina Foundation di volere
temporaneamente sospendere l’arruola‑
mento di nuovi pazienti da trattare,
stante il raggiungimento del previsto
limite annuale.
Tuttavia, a seguito dell’avvio di in‑
dagine della Procura della Repubblica
di Torino e di un sopralluogo dei N.A.S.
presso il laboratorio dell’Azienda, viene
disposta l’interruzione delle procedure
di preparazione e somministrazione del
materiale biologico, in quanto non sod‑
disfacenti le norme generali e in parti‑
colare di salute pubblica.
A questo punto interviene 1’AIFA,
che, con ordinanza n. 1/2012 del 15
maggio 2012, vieta “con decorrenza
immediata, di effettuare: prelievi, tra‑
sporti, manipolazioni, colture, stoccag‑
gi e somministrazioni di cellule umane
presso l’Azienda Ospedaliera Spedali
Civili di Brescia in collaborazione con
la Stamina Foundation ONLUS, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 142 del
D.lgs.219 del 2006 e s.m.i.”. Il 25 giu‑
gno 2012 l’Azienda reclamata risolve il
contratto con la Stamina Foundation.
Contro il provvedimento dell’AIFA
è stato proposto, con esito negativo,
ricorso al TAR Lombardia Brescia dai
pa zient i i nteressat i, da St a m i na
Foundation e dalla stessa Azienda
Ospedaliera.
Il 29 novembre 2012 AIFA diffida
l’Azienda Ospedaliera Spedali Civili di
Brescia ad eseguire i provvedimenti
cautelari (nel frattempo intervenuti), in
coerenza con l’iter previsto dal D.M.
c.d. Turco del 2006, utilizzando “esclu‑
sivamente cellule staminali prodotte da
cell factory autorizzate ai sensi della
normativa vigente sulla sperimentazio‑
ne clinica”.
F O R E N S E
Ad oggi, per effetto della soppres‑
sione attuata in sede di conversione del
comma 1 dell’art. 2 del D.L. 24/2013,
quest’ultimo sembra l’unica fonte nor‑
mativa applicabile.
Il comma 1 dell’art. 2 del predetto
decreto legge conteneva una disposizio‑
ne transitoria in forza della quale, fino
all’entrata in vigore del regolamento da
adottarsi dal Ministero della Salute per
la determinazione delle disposizioni
attuative in materia di medicinali per
terapie avanzate preparate su base non
ripetitiva, trovava applicazione il D.M.
5 dicembre 2006.
Per effetto dell’abrogazione di tale
disposizione, l’attuale riferimento nor‑
mativo sembra essere costituito unica‑
mente dal D.L. 24/2013.
Il D.L. n. 24/2013, convertito con
modificazioni dalla I. 57/13 che all’art 2
prevede: “2. Le strutture pubbliche in
cui sono stati avviati, anteriormente
alla data di entrata in vigore del presen‑
te decreto, trattamenti su singoli pazien‑
ti con medicinali per terapie avanzate a
base di cellule staminali mesenchimali,
lavorati in laboratori di strutture pub‑
bliche e secondo procedure idonee alla
lavorazione e alla conservazione di
cellule e tessuti, possono completare i
trattamenti medesimi, sotto la respon‑
sabilità del medico prescrittore, nell’am‑
bito delle risorse finanziarie disponibili
secondo la normativa vigente.
2‑bis. Il Ministero della salute, av‑
valendosi dell’Agenzia italiana del far‑
maco e del Centro nazionale trapianti,
promuove lo svolgimento di una speri‑
mentazione clinica, coordinata dall’Isti‑
tuto superiore di sanità, condotta an‑
che in deroga alla normativa vigente e
da completarsi entro 18 mesi a decor‑
rere dal 1o luglio 2013, concernente
l’impiego di medicinali per terapie
avanzate a base di cellule staminali
mesenchimali, utilizzate nell’ambito
dei trattamenti di cui al comma 2, a
condizione che i predetti medicinali,
per quanto attiene alla sicurezza del
paziente, siano preparati in conformità
alle linee guida di cui all’articolo 5 del
regolamento (CE) n. 1394/2007 del
Parlamento europeo e del Consiglio,
del 13 novembre 2007. Al fine di garan‑
tire la ripetibilità delle terapie di cui al
primo periodo, le modalità di prepara‑
zione sono rese disponibili all’Agenzia
italiana del farmaco e all’Istituto supe‑
riore di sanità. L’Istituto superiore di
luglio • A G O S T O
2 0 1 3
sanità fornisce un servizio di consulen‑
za multidisciplinare di alta specializza‑
zione per i pazienti arruolati. L’Istituto
superiore di sanità e l’Agenzia italiana
del farmaco curano la valutazione della
predetta sperimentazione. Per l’attua‑
zione della sperimentazione di cui al
primo periodo, il Comitato intermini‑
steriale per la programmazione econo‑
mica, in attuazione dell’articolo 1,
comma 34, della legge 23 dicembre
1996, n. 662, vincola, fino a 1 milione
di euro per l’anno 2013 e a 2 milioni di
euro per l’anno 2014, una quota del
Fondo sanitario nazionale, su proposta
del Ministro della salute, di concerto
con il Ministro dell’economia e delle
finanze, previa intesa in sede di Confe‑
renza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le regioni e le province autonome
di Trento e di Bolzano. Si applicano, in
quanto compatibili, le disposizioni di
cui al decreto del Ministro della salute
17 dicembre 2004, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 43 del 22 febbra‑
io 2005. Il Ministro dell’economia e
delle finanze è autorizzato ad apporta‑
re, con propri decreti, le occorrenti
variazioni di bilancio.
Si considerano avviati, ai sensi del
comma 2, anche i trattamenti in rela‑
zione ai quali sia stato praticato, pres‑
so strutture pubbliche, il prelievo dal
paziente o da donatore di cellule desti‑
nate all’uso terapeutico e quelli che
siano stati già ordinati dall’autorità
giudiziaria.
Le strutture di cui al comma 2, e
quelle che effettuano la sperimentazio‑
ne ai sensi del comma 2‑bis, assicurano
la costante trasmissione all’Agenzia
italiana del farmaco, all’Istituto supe‑
riore di sanità, al Centro nazionale
trapianti ed al Ministero della salute di
informazioni dettagliate sulle indica‑
zioni terapeutiche per le quali è stato
avviato il trattamento, sullo stato di
salute dei pazienti e su ogni altro ele‑
mento utile alla valutazione degli esiti
e degli eventi avversi, con modalità
t ali d a garantire l a rise r vatez z a
dell’identità dei pazienti.
4‑bis. 11 Ministero della salute,
almeno con cadenza semestrale, tra‑
smette alle competenti Commissioni
parlamentari ed alla Conferenza delle
regioni e delle province autonome di
Trento e di Bolzano la documentazione
di cui al comma 4 ed una relazione sugli
esiti dell’attività di controllo, valutazio‑
133
ne e monitoraggio svolta ai sensi del
presente articolo nonché sull’utilizzo
delle risorse stanziate per la sperimen‑
tazione di cui al comma 2‑bis.
4‑ter. Presso il Ministero della salu‑
te è istituito un Osservatorio sulle tera‑
pie avanzate con cellule staminali me‑
senchimali con compiti consultivi e di
proposta, di monitoraggio, di garanzia
della trasparenza delle informazioni e
delle procedure, presieduto dal medesi‑
mo Ministro o da un suo delegato e
composto da esperti e da rappresentan‑
ti di associazioni interessate. Ai compo‑
nenti dell’Osservatorio non sono cor‑
risposti gettoni, compensi, rimborsi di
spese o altri emolumenti comunque
denominati. Al funzionamento dell’Os‑
servatorio si provvede nell’ambito delle
risorse umane, finanziarie e strumenta‑
li disponibili a legislazione vigente e,
comunque, senza nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica”.
Dalla lettura della norma emerge
con chiarezza che i trattamenti a base
di cellule staminali mesenchimali sono
consentiti esclusivamente per quei pa‑
zienti in relazione ai quali, alla data di
entrata in vigore del decreto:
‑ sia stata già praticata un’infusione;
‑ sia stato effettuato il prelievo delle
cellule destinate all’uso terapeuti‑
co;
‑ sia stato emesso un provvedimento
dell’Autorità giudiziaria che impone
la terapia.
Con tale rigorosa formulazione, del
tutto antitetica rispetto a quella conte‑
nuta nel decreto legge, che faceva rife‑
rimento a “medicinali per terapie avan‑
zate preparati presso laboratori non
conformi ai principi delle norme euro‑
pee di buona fabbricazione dei medici‑
nali e in difformità delle disposizioni
del decreto del. Ministro della Salute 5
dicembre 2006” la nuova normativa fa
riferimento a terapie avanzate a base di
cellule staminali mesenchimali lavorate
(A) in “laboratori di strutture pubbli‑
che” e (B) “secondo procedure idonee
alla lavorazione e alla conservazione di
cellule e tessuti”; e, in questo quadro e
solo in questo quadro, prevede che i
trattamenti già avviati prima dell’entra‑
ta in vigore del decreto legge possano
essere portati a compimento. Ritornan‑
do ai profili costituzionali accennati e
sulla base delle ordinanze suindicate, si
può affermare che nell’art. 32, com‑
ma 1, Cost., trovano sede le questioni
questioni
Gazzetta
134
relative al rapporto di collaborazione
tra paziente e medico, quelle inerenti al
consenso informato, il rispetto e l’appli‑
cazione delle risultanze della scienza
medica, il distinguo tra la cura e l’acca‑
nimento terapeutico, la valutazione
sulle prestazioni da assicurare in sede di
sanità pubblica (anche quali cure pallia‑
tive) e sui comportamenti che le autori‑
tà sanitarie devono suggerire dal punto
di vista dell’interesse pubblico e dell’in‑
dividuo.
Dall’art. 32 Cost. discende, quindi,
non soltanto l’obbligo di fornire ai pa‑
zienti affetti da patologie contrassegna‑
te da inarrestabile evoluzione, prognosi
infausta e assenza di trattamenti speci‑
fici, cure palliative nella speranza che
possano determinare un prolungamen‑
to della vita o, comunque, alleviare le
loro sofferenze, ma anche l’obbligo, in
sede giudiziale, di affrontare la materia
con professionalità e competenza, po‑
nendo alla base una corretta e scientifi‑
ca valutazione sulle prestazioni da assi‑
curare in sede di sanità pubblica, che è
gratuita ed al servizio di tutti.
Orbene risulta che nessuna autoriz‑
zazione è stata rilasciata dall’AIFA, con
riferimento ai trattamenti con cellule
staminali mesenchimali, secondo il co‑
siddetto metodo Stamina Foundation
ONLUS, come viceversa prescritto
all’art. 3, comma 1, lett. f‑bis), del de‑
creto legislativo 24 aprile 2006, n. 219,
introdotto dall’art. 34 della legge 7 lu‑
glio 2009, n. 88, in attuazione della
prescrizione di cui all’art. 28, comma 2,
del regolamento 2007/1394/CE.
Esistono al contrario specifici prov‑
vedimenti AIFA, resi nell’esercizio del
potere di farmacovigilanza che la legge
attribuisce all’ente, ai sensi dell’art. 129
e ss., in relazione all’art. 3, comma 1,
lett. f‑bis), del decreto legislativo 24
aprile 2006, n. 219, che espressamen‑
te:
a) vietano l’effettuazione di “Prelievi,
trasporti, manipolazioni, colture,
stoccaggi somministrazione di cel‑
lule umane presso l’Azienda Ospe‑
daliera Spedali Civili di Brescia in
collaborazione con la Statuina.
Foundation ONLUS” (Ordinanza
n. 1/2012 del 15 maggio 2012);
b) diffidano “l’Azienda Ospedaliera
Spedali Civili di Brescia dallo svol‑
gimento nei propri laboratori di
qualsiasi attività di produzione di
medicinali per terapie avanzate
q u e stio n i
con. cellule staminali mesenchima‑
li” e intimano “alla stessa Azienda
Ospedaliera, per l’esecuzione dei
provvedimenti cautelari dei tribu‑
nali civili …, di attivare l’ iter pro‑
cedurale previsto dal DM 5 dicem‑
bre 2006 utilizzando esclusivamen‑
te cellule staminali prodotte da cell
factory autorizzate ai sensi della
normativa vigente sulla sperimen‑
tazione clinica” (Diffida 29 novem‑
bre 2012).
Quel che maggiormente rileva è che
la metodologia seguita da Stamina
Foundation ONLUS nei prelievi, tra‑
sporti, manipolazioni, colture, stoccag‑
gi, somministrazioni di cellule non se‑
gue alcun protocollo noto e, pertanto,
tale attività viene svolta in palese viola‑
zione degli obblighi di tracciabilità (e,
quindi, ex post di rintracciabilità) e di
buona fabbricazione sanciti dal decreto
legislativo 24 aprile 2006, n. 219, intro‑
dotto dall’art. 34 della legge 7 luglio
2009, n. 88, in attuazione della prescri‑
zione di cui all’art. 28, comma 2, del
regolamento 2007/1394/CE.
Nell’ambito di una causa innanzi al
Tribunale di Udine si può riportare
quanto accertato da un CTU, il quale
segnala una inadeguata validità scienti‑
fica certificata dall’US Patent Office che
ha respinto la richiesta di brevettabilità
del modello, sulla base della non credi‑
bilità delle prove allegate; segnala inol‑
tre una coltura delle cellule in condizio‑
ni “non GMP” (Good Manufacturing
Practice) e la mancanza totale di infor‑
mazioni sui risultati clinici ottenuti,
senza prove documentarie cliniche spe‑
rimentali che testimonino un minimo
effetto.
A ciò deve aggiungersi che – duran‑
te un accertamento compiuto a seguito
di sopralluogo dell’8‑9 maggio 2012,
presso l’Azienda Ospedaliera di Brescia,
dai Carabinieri NAS e da due ispettori
AIFA – sono emersi, nell’operato di
Stamina Foundation ONLUS presso
l’Azienda Ospedaliera citata, gravi e
plurime violazioni dell’obbligo di trac‑
ciabilità, nonché di quello afferente i
requisiti di buona fabbricazione, en‑
trambi sanciti dall’ art. 3, comma 1,
lett. f‑bis), del decreto legislativo 24
apr i le 20 0 6 , n. 219, i nt rodot to
dall’art. 34 della legge 7 luglio 2009,
n. 88, in attuazione della prescrizione
di cui al_l’art. 28, comma 2, del rego‑
lamento 2007/1394/CE.
Gazzetta
F O R E N S E
Come evidenziato dal Tribunale di
Torino nell’ordinanza 28 giugno 2013
(RG 15833/13) “nella vicenda sono
presenti elementi sintomatici (assenza
di protocollo; assenza di prove di effi‑
cacia; presunta idoneità a curare pato‑
logie estremamente eterogenee), che
paiono rammentare tratti propri delle
c.d. “cure miracolose” e, con ciò, del
“quack method”, indicato dalla lette‑
ratura medica italiana ed internaziona‑
le quale connotato distintivo delle cure
alternative rispetto al metodo clini‑
co‑scientifico propugnato dalla scienza
medica”.
In questo quadro, riportando il
pensiero e le conclusioni delle ordinan‑
ze citate, nessun aggancio diretto
all’art. 32 Costituzione è possibile in
mancanza di ogni minimo fondamento
di validità scientifica. Né la nuova nor‑
mativa può in alcun modo essere intesa
come idonea ad autorizzare terapie
cellulari, come quelle effettuate con il
cosiddetto metodo Stamina Foundation
ONLUS, che si svolgono in palese vio‑
lazione della normativa comunitaria e
di quella legale che ne ha dato attuazio‑
ne.
Quanto poi al principio di ugua‑
glianza sancito dall’art. 3 della Costitu‑
zione, in ordine alla limitazione dei
soggetti che possono accedere ai tratta‑
menti a base di cellule staminali mesen‑
chimali, l’ordinanza del Tribunale di
Firenze, richiamando anche precedenti
giurisprudenziali, ne afferma il pieno
rispetto sottolineando che:
1) l’individuazione dei soggetti auto‑
rizzati a continuare la cura in base
al dato cronologico appare ragione‑
vole essendo stata effettuata in base
al “principio etico, largamente se‑
guito in sanità, secondo cui un
trattamento sanitario avviato che
non abbia provocato gravi effetti
collaterali non deve essere interrot‑
to” (v. relazione al disegno di legge
S‑298) e in base al già avvenuto
consolidamento, per effetto del rico‑
noscimento in sede giudiziale, di
situazioni soggettive in capo ai pa‑
zienti.
2) L’intervento normativo realizzato
con il D.L. 24/2013, effettuato in un
contesto nel quale si erano succedu‑
te molteplici pronunce giurisdizio‑
nali, contrastanti tra di loro e con
provvedimenti amministrativi (cfr.
ordinanze AIFA più volte citate in
luglio • A G O S T O
F O R E N S E
atti) relativi ad una terapia non an‑
cora accreditata, è stato predisposto
tenendo conto da un Iato dell’obbli‑
go di protezione della salute dei
cittadini e dall’altro della necessità
di garantire l’utilizzo delle risorse
disponibili, regolamentando per il
futuro l’accesso ai trattamenti a
base di cellule staminali secondo il
principio di precauzione, promuo‑
vendo una sperimentazione (art. 2
comma 2 bis ss.) all’interno della
quale sono garantiti l’uso di prepa‑
rati conformi ai requisiti di sicurez‑
za per i pazienti, stabiliti dalla legi‑
slazione europea, la trasparenza
delle modalità di preparazione dei
farmaci e la valutazione della speri‑
mentazione a cura dell’Istituto supe‑
riore di sanità e dell’AIFA.
Ultimo profilo che si ritiene di evi‑
denziare è quello della competenza in
tale materia del giudice del lavoro. Sul
punto, nelle ordinanze succitate, si può
rilevare un contrasto di posizione.
Infatti, mentre l’ordinanza del Tri‑
bunale di Firenze e quella del Tribunale
di Milano hanno dato una risposta
positiva in ordine alla competenza in
materia del Giudice del lavoro, l’ordi‑
nanza del Tribunale di Lecco ne ha so‑
stenuto la mancanza.
In particolare, il Tribunale di Mila‑
no ha riaffermato il principio di diritto,
più volte espresso dalla Suprema Corte,
secondo cui la determinazione della
competenza dipende dal contenuto della
domanda proposta in giudizio (cfr.
Cass. ord. 8189/12; Cass. sent.
n. 8214/2009). Nel caso specifico, infat‑
ti, la domanda si concretizzava nella ri‑
chiesta, da parte del ricorrente, di usu‑
fruire gratuitamente di una prestazione
previdenziale, ritenendo che il suo dirit‑
to alla salute dovesse essere garantito
attraverso la somministrazione di un
trattamento, consistente nella partecipa‑
zione ad una sperimentazione avviata
dal Ministero della Salute. Secondo il
disposto dell’art. 442 c.p.c. sono devo‑
lute
Sulla base di tali premesse, e tenuto
conto che l’art. 442 c.p.c. stabilisce che
sono devolute alla cognizione del Giu‑
dice del Lavoro, tra le altre “…le con‑
troversie derivanti dall’applicazione
delle norme riguardanti…ogni altra
forma di previdenza ed assistenza ob‑
bligatorie…”, l’interprete ha ritenuto
che il giudizio in oggetto rientrasse
2 0 1 3
nella cognizione dell’autorità giudizia‑
ria adita.
Laddove il Tribunale di Lecco, inve‑
ce, ha sostenuto che “nel caso concreto
non si comprende in base a quale crite‑
rio la causa dovrebbe rientrare nelle
fattispecie di previdenza e assistenza
obbligatorie di cui all’art. 442 cpc;
nella causa si chiede infatti, nei con‑
fronti di un ente che non ha natura
previdenziale né assistenziale, la ado‑
zione di una cura medica, ritenuta in‑
differibile; in relazione a ciò, nessuna
prestazione previdenziale o assistenzia‑
le si chiede”.
●
Diritto PENALE
Nesso di causalità e colpa:
un percorso argomentativo
tra profili logico‑scientifici ed
emozionali.
● Elisa Asprone
Avvocato
Introduzione
La questione prende spunto dalla celebre
sentenza del Tribunale di L’Aquila del
22 ottobre 2012, n. 380, che, con non
poco clamore e risonanza mediatica,
condannava per i reati di omicidio
colposo e lesione colpose plurimi i
componenti della Commissione Grandi
Rischi, istituita presso la Protezione
Civile, in riferimento al sisma avvenuto
nella notte tra il 5 e il 6 aprile 2009.
Secondo i giudici delle prime cure,
cioè, tale Commissione effettuava una
valutazione approssimativa, generica ed
inefficace, in violazione dei doveri di
prevenzione e protezione nella valuta‑
zione dei rischi incombente sulla stessa,
fornendo, altresì, informazioni incom‑
plete, imprecise e contraddittorie sulle
cause, sulla pericolosità e sui futuri
sviluppi dell’attività sismica, in tal mo‑
do vanificando le finalità di tutela
dell’integrità della vita, dei beni, degli
insediamenti e dell’ambiente dai danni
o dal pericolo di danni derivanti da
calamità naturali, da catastrofi e da
135
altri grandi eventi che determinino si‑
tuazioni di grave rischio.
Secondo il Tribunale di L’Aquila,
tale condotta è idonea a porsi come
antecedente causale rispetto alla deci‑
sione delle vittime di abbandonare le
cautele fin ad allora seguite (evitando,
ad esempio, di rimanere in casa), in
grado, invece, di eludere gli effetti di‑
struttivi della scossa sismica di più
ampia portata, intervenuta nella notte
tra il 5 e il 6 aprile 2009. L’intensità di
tale scossa, secondo la ricostruzione
fornita dai giudici, non si pone come
causa da sola sufficiente a determinare
l’evento ed idonea ad elidere il nesso di
causa tra le risultanze della riunione
della Commissione Grandi Rischi circa
lo sviluppo futuro dell’attività sismica e
le morti e lesioni delle vittime, in quan‑
to evento non imprevedibile né eccezio‑
nale o atipico.
1. Breve ricostruzione dei fatti.
La città di L’Aquila, è stata interes‑
sata, a partire dal giugno 2008, da una
serie continuata e ripetuta di scosse,
culminata nell’evento sismico di magni‑
tudo momento 6.3 del 6 aprile 2009.
Lo sciame sismico precedente l’even‑
to de quo, nel periodo di riferimento,
fonte di forti preoccupazioni presso la
popolazione locale, sopratutto per l’ele‑
vato interessamento dei mediae per la
presenza di soggetti che, creando allar‑
mismo, paventavano la possibilità di un
incremento dell’intensità di tali scosse,
suffragato dall’analisi del gas radon di
superficie, secondo un metodo forte‑
mente criticato dalla comunità scienti‑
fica.
Orbene, a seguito del prolungarsi di
tale situazione e sopratutto della forte
scossa del 30 marzo del 2009, il Dipar‑
timento della Protezione Civile decise di
convocare, con urgenza, la Commissio‑
ne Grandi Rischi, suo organo consulti‑
vo, per offrire “una attenta disamina
degli aspetti scientifici e di protezione
civile relativi alla sequenza sismica
degli ultimi quattro mesi verifcatesi nei
territori della provincia di L’Aquila e
culminata nella scossa di magnitudo
4.0 del 30 marzo alle ore
15,38 locali” (pag. 81 della senten‑
za in commento) e per prospettare pos‑
sibili scenari futuri in ordine alla peri‑
colosità di tale sciame sismico.
La riunione della Commissione,
formata da scienziati di levatura inter‑
questioni
Gazzetta
136
nazionale, ebbe luogo il giorno dopo e,
al di là della questione inerente la rego‑
lare costituzione del collegio, è interes‑
sante dar conto delle risultanze della
stessa.
Da quanto è dato riscontrare nel
verbale emerge, da un lato, la sismicità
del territorio abruzzese, regione dall’ele‑
vato rischio sismico, e, dall’altro, si ri‑
marca che, allo stato delle conoscenze
scientifiche “è estremamente difficile
fare previsioni temporali sull’evoluzio‑
ne dei fenomeni sismici”, “che in pas‑
sato non ci sono stati forti eventi, ma
numerosi sciami che però non hanno
preceduto grossi eventi (esempio in
Garfagnana). Ovviamente essendo la
zona di L’Aquila sismica non è possibi‑
le affermare che non ci saranno terre‑
moti” (pag. 88), che “non c’è alcuno
strumento che possa avvisare che ci
sarà un terremoto” (pag. 89), “non c’è
nessun motivo per cui si possa dire che
una sequenza di scosse di bassa magni‑
tudo possa essere considerata precurso‑
re di un forte evento” (pag. 83).
La notte del 6 aprile 2009 alle 3.32
un sisma di ben più profonda intensità
colpì L’Aquila provocando i disastri a
tutti noti.
2. Il profilo della colpa
2.1. Sull’analisi dei fenomeni precursori
La sentenza in commento ha conte‑
stato ai membri della Commissione
Grandi Rischi di avere colposamente
concorso a determinare la morte e le
lesioni delle vittime a causa di una va‑
lutazione approssimativa, generica ed
inefficace del rischio in relazione ai
doveri di prevenzione e protezione in‑
combenti sulla stessa e di aver fornito al
Dipartimento Nazionale della Protezio‑
ne Civile, all’assessore alla Protezione
Civile della Regione Abruzzo, al sinda‑
co di L’Aquila ed alla cittadinanza
aquilana informazioni incomplete, im‑
precise e contraddittorie sulla natura,
sulle cause, sulla pericolosità e sui futu‑
ri sviluppi dell’attività sismica in corso;
con l’effetto di aver indotto, in via esclu‑
siva, le vittime a rimanere all’interno
delle rispettive abitazioni, contraria‑
mente alle consolidate abitudini di cau‑
tela, fino all’esito fatale delle ore 03.32
del 6 aprile 2009.
Ricostruiti, in tal modo, i profili di
colpevolezza delineati dai giudici del
Tribunale di L’Aquila, occorre effettua‑
re un rilievo preliminare circa l’ordine
q u e stio n i
metodologico seguito dallo stesso, al‑
lorquando incentra la propria analisi
dapprima sul profilo soggettivo della
colpa per poi passare ad esaminare la
sussistenza, sul piano oggettivo, del
nesso di causalità.
Si finisce, così, per anticipare giudi‑
zi circa il profilo soggettivo ancor prima
di aver ricostruito il fatto sul piano
oggettivo e la sua riconduzione all’agen‑
te e si affida alla dimensione psicologica
una funzione tipizzante, delineata dai
caratteri della regola cautelare, la cui
violazione attribuisce rilevanza alla
condotta.
Scegliendo, dunque, di seguire l’or‑
dine metodologico della sentenza, oc‑
corre analizzare i profili inerenti il
piano della colpa e la sua dubbia rico‑
struzione nel caso di specie.
Uno dei punti di rilievo, considerati
nella sentenza de qua,per ritenere sussi‑
stente la condotta colposa degli impu‑
tati, consiste nell’analisi dei cd. fenome‑
ni precursori.
Tali sono fenomeni o insieme di fe‑
nomeni che “talvolta è possibile regi‑
strare prima di un terremoto, che “pre‑
corrono” un terremoto. Tali fenomeni
consistono in anomalie o variazioni di
alcuni parametri chimici o geofisici che
talvolta è possibile osservare prima di
alcuni terremoti come, ad esempio, le
variazioni anomale della sismicità, le
anomalie nella pressione atmosferica,
nella temperatura o nel flusso di calore
terrestre, le variazioni del campo gravi‑
tazionale e geomagnetico, le modifica‑
zioni anomale del flusso delle acque
sotterranee e dei componenti chimici
dell’acqua, le variazioni anomale negli
sforzi crostali.” (pag. 59).
I giudici del Tribunale ritengono
che, dall’analisi di tali fenomeni, gli
imputati avrebbero dovuto valutare il
rischio del verificarsi della scossa del 6
aprile 2009.
Vengono richiamati, in proposito,
cinque fenomeni in presenza dei quali,
secondo la sentenza de qua, è dato ri‑
scontrare una relazione intercorrente
con un evento sismico futuro.
Tuttavia nella sentenza stessa si af‑
ferma che, allo stato delle conoscenze
scientifiche, nell’analisi dei fenomeni
precursori e nella riconduzione degli
stessi ad un evento sismico di più ampia
portata, si riscontrano “posizioni diver‑
se e contrastanti: alla posizione di chi
attribuisce ai fenomeni precursori gran‑
Gazzetta
F O R E N S E
de importanza e significatività come
strumenti di previsione dei terremoti si
contrappone la posizione di chi, invece,
disconosce la possibilità di utilizzo di
tali fenomeni per fare previsioni conno‑
tate da apprezzabile attendibilità.”
(pag 59).
Si richiamano sul punto lavori auto‑
revoli effettuati sullo studio dei fenome‑
ni precursori, i quali, però, concludono
che non esiste una relazione che con
certezza lega il verificarsi di un “feno‑
meno precursore” ad un evento sismico
di più ampia portata.
Tra l’altro, ad avviso della scrivente,
i giudici male interpretano l’individua‑
zione di cinque fenomeni come sicuri
precursori, rispetto ai quali poter fare
previsioni su un evento sismico futuro,
quando, invece, essi negli studi scienti‑
fici su citati vengono individuati come
quelli che allo stato dell’arte sono meri‑
tevoli di ulteriori ricerche, per poter poi
essere in un futuro considerati come
precursori affidabili.
V’è di più: dei cinque fenomeni
menzionati, tre sono riferibili ad ano‑
malie della sismicità di fondo e i giudici
impropriamente ritengono che essi fos‑
sero applicabili al caso di specie e,
dunque, tali da poter essere ricondotti
alla scossa determinativa dell’evento.
In presenza di tali anomalie, cioè,
gli esperti della Commissione Grandi
Rischi avrebbero dovuto prevedere il
rischio del verificarsi di un evento sismi‑
co come quello del 6 aprile 2009.
Tuttavia, balza agli occhi che, ferma
la loro non certa riconducibilità all’even‑
to sismico de quo, in quanto ancora in
itinereè lo stato della ricerca su tali fe‑
nomeni, uno di questi tre è riferito alla
quiescenza sismica (ossia anomala ridu‑
zione della sismicità di fondo), tutt’altro
che riscontrabile a L’Aquila nel periodo
considerato.
I giudici delle prime cure sottoline‑
ano, nella ricostruzione dell’elemento
psicologico del reato, la contraddittorie‑
tà della posizione della Commissione
Grandi Rischi, la quale sostiene “da un
lato l’impossibilità di fare previsioni
(tout court) o l’impossibilità di fare
previsioni supportate da un valido
fondamento scientifco e, dall’altro lato
(e contestualmente), esclude recisamen‑
te la riconducibilità di una sequenza di
scosse di bassa magnitudo (o di molti
piccoli terremoti) al fenomeno dei cd.
precursori dei terremoti”. (pag. 189).
F O R E N S E
Uno dei profili maggiormente discu‑
tibili della sentenza in commento si
rinviene proprio nella scelta dei criteri
in base ai quali decide di poter utilizza‑
re una determinata teoria scientifica.
Essa dà atto che, in riferimento ai
fenomeni precursori, si registrano po‑
sizioni diverse e contrastanti e che
questi non appaiono indici di riferimen‑
to sicuri.
Non può dunque addebitarsi agli
imputati la mancata valutazione, ex
ante, dello sciame sismico come feno‑
meno precursore che avrebbe dovuto
instaurare una relazione con la scossa
del 6 aprile 2009.
Un simile criterio non è in grado di
giustificare l’utilizzo nel processo di
una determinata teoria scientifica,
quando essa non sia pacifica tra gli
esperti, ma anzi ancora non consolidata
e ritenuta critica dalle più autorevoli
fonti scientifiche.
Le leggi scientifiche che possono
trovare applicazione nel processo pena‑
le infatti, sono quelle “più generalmente
accolte, più condivise” (Cass. SS.UU.
n. 9163 del 2005) individuate “secondo
il grado di consenso che la tesi raccoglie
nella comunità scientifica” (Cass. pen. IV
sez. n. 43786 del 2010). Ciò non è acca‑
duto nella sentenza in commento.
V’è da evidenziare, in sostanza, che
la pretesa contraddittorietà, imputata
alle risultanze della Commissione Gran‑
di Rischi, sconta essenzialmente il dato
imprescindibile dell’impossibilità di
ogni previsione, che abbia riconosciuti
riscontri nella comunità scientifica in‑
ternazionale, in ordine ai futuri svilup‑
pi di uno sciame sismico, anche protrat‑
tosi per lungo tempo, come quello di
L’Aquila, con riguardo all’intensità,
frequenza, al tempo e al luogo di verifi‑
cazione delle future scosse.
La pretesa antinomia risultante dal
verbale, laddove, da un lato, si evidenzia
l’elevata sismicità del territorio aquilano
e, dall’altro, l’impossibilità di evidenzia‑
re ex anteuna relazione sussistente tra
lo sciame sismico ed una scossa delle
dimensioni di quella della notte del 6
aprile è il riflesso dell’attuale evoluzione
scientifica in tema di terremoti, che gli
esperti della commissione si sono pre‑
occupati di evidenziare.
2.2. Sulla valutazione del rischio
I giudici delle prime cure, ritenendo
sussistente il profilo psicologico della
colpa e dunque rimproverabile la con‑
luglio • A G O S T O
2 0 1 3
dotta degli agenti, sono chiari nell’affer‑
mare un principio, puntualmente ripro‑
posto, poi, in più parti nella sentenza.
Sostengono, infatti, che non si vuo‑
le contestare agli imputati la mancata
previsione del terremoto o la mancata
evacuazione della città di L’Aquila o la
mancata promulgazione di uno stato di
allarme o un generico mancato allarme
o un generico “rassicurazionismo”, ma
la violazione di specifici obblighi in te‑
ma di previsione e prevenzione del ri‑
schio sismico. “La “base di accusa”, in
altri termini, non consiste nella manca‑
ta previsione di un evento naturalistico
(il terremoto) che non si può prevedere
in senso deterministico o nella manca‑
ta promulgazione di uno stato di allar‑
me: non si tratta di “processo alla
scienza” ma di processo a sette funzio‑
nari pubblici, dotati di particolari com‑
petenze e conoscenze scientifiche, chia‑
mati per tali ragioni a comporre una
commissione statale, che, nel corso
della riunione del 31.3.09, effettuava‑
no una valutazione del rischio sismico
in violazione delle regole di analisi,
previsione e prevenzione disciplinate
dalla legge.” (pag. 183).
Il giudizio di prevedibilità/evitabili‑
tà, secondo la sentenza in commento,
non va calibrato sul terremoto quale
evento naturale, bensì sul rischio quale
giudizio di valore. Non va confuso, se‑
condo l’impianto sistematico della stes‑
sa, l’impossibilità di prevedere il terre‑
moto quale fenomeno naturale e l’im‑
possibilità di prevederne il rischio. Se,
dunque, il terremoto quale fenomeno
naturale non è certo evitabile, e se le
attuali conoscenze non consentono di
lanciare fondati allarmi per forti scosse
imminenti, la corretta valutazione di
prevedibilità del rischio e la completa
informazione in tal senso avrebbero
evitato o contribuito ad evitare la morte
e il ferimento delle vittime (pag. 246).
Due i rilievi principali che possono
muoversi a tale iter argomentativo.
In primo luogo, può dirsi che l’ad‑
debito colposo contestato agli imputati
si muove sulla base di un giudizio di
approssimazione, insufficienza e con‑
traddittorietà in ordine alla valutazione
del rischio.
In generale, può dirsi che la colpa
consiste in uno scollamento tra la rego‑
la di diligenza che impone all’agente un
determinato comportamento e la con‑
dotta operata nel caso concreto.
137
Tale titolo di imputazione psichica,
distinguendosi dal dolo, si caratterizza
per una mancata volizione dell’evento
finale e per la riconduzione dello stesso
ad una condotta dell’agente distaccata da
una regola di diligenza che lo stesso era
tenuto ad osservare nel caso di specie.
Tale regola può trovare la propria
fonte in norme di carattere sociale (col‑
pa generica) la cui violazione dà luogo
ad un comportamento qualificabile in
termini di negligenza, imprudenza,
imperizia ovvero nell’inosservanza di
leggi, regolamenti, ordini o discipline
(colpa specifica).
Imprescindibile appare allora il pa‑
rametro di riferimento cui ricondurre la
condotta dell’agente, lo standard da
osservare per non incorrere in respon‑
sabilità colposa.
Nel caso di specie, il giudizio di re‑
sponsabilità formulato a titolo di colpa
avrebbe dovuto trovare, dunque, fonda‑
mento nell’individuazione di regole e di
uno standard metodologico condivisi
da tutta la comunità scientifica.
L’imputazione in termini di negli‑
genza, imprudenza, imperizia non può
che fondarsi sullo scollamento tra il
comportamento tenuto dagli agenti e la
regola di diligenza da osservare nel caso
di specie, che impone agli stessi di tene‑
re una determinata condotta.
La valutazione del rischio effettuata
dalla commissione deve, cioè, raffron‑
tarsi con un comportamento alternativo
imposto da una norma che avrebbe
evitato o ridotto il rischio di verificazio‑
ne dell’evento dannoso.
Il rimprovero colposo deve trovare
la propria fonte nella discrasia tra quan‑
to affermato dalla Commissione Gran‑
di Rischi e quanto assunto dalla miglio‑
re scienza fondante uno standardmeto‑
dologico accreditato nella comunità
scientifica.
Tale operazione ricostruttiva non
viene effettuata nella sentenza in com‑
mento.
Nella parte in cui, infatti, viene
evidenziato il cd. comportamento alter‑
nativo lecito, il comportamento, cioè,
che gli agenti avrebbero dovuto tenere
per assumere un condotta diligente, i
giudici non possono sottrarsi da affer‑
mazioni tautologiche.
Viene evidenziato che per rispetta‑
re la presunta regola di diligenza sa‑
rebbe bastato non dire che, ad esempio,
“la semplice osservazione di molti
questioni
Gazzetta
138
piccoli terremoti non costituisce feno‑
meno precursore”. Ma, in tal modo, la
regola di diligenza non sarebbe comun‑
que stata rispettata, imponendo alla
Commissione Grandi Rischi di omet‑
tere di prospettare lo stato dei fatti e
ogni possibile sviluppo della situazio‑
ne.
Anche con riferimento al profilo
della colpa specifica, vengono richiama‑
te norme che pongono l’obbligo di pre‑
visione e prevenzione del rischio ma non
evidenziano uno standardcomporta‑
mentale di riferimento, rispetto al quale
giungere alla conclusione che la condot‑
ta in concreto tenuta dalla Commissione
Grandi Rischi possa risultare violativa
o inosservante di tale modello di com‑
portamento.
Anche nell’opera di ricostruzione
del rischio come risultato della valuta‑
zione della pericolosità, vulnerabilità ed
esposizione (R=PxVxE) non si dà poi
atto di come in concreto la condotta
della commissione risultata violativa di
tale regola.
L’altro punto degno di rilievo nella
sentenza in commento concerne il ri‑
condurre il giudizio di rimproverabilità
degli agenti non alla mancata previsione
dell’evento, come nella specie verifica‑
tosi, ma nella mancata valutazione del
rischio dell’evento in termini di preven‑
zione.
Orbene, in primo luogo è dato rile‑
vare che ciò che si imputa è la morte e le
lesioni plurime, occorse in occasione
dell’evento e non una imprecisata con‑
dotta di errata valutazione del rischio,
scollegata da eventi naturalistici, peral‑
tro non sanzionata penalmente.
Non si muove, cioè, agli imputati un
rimprovero basato sulla mera erronea
valutazione del rischio sismico, ma si
imputa agli stessi la morte e le lesioni
delle vittime nel terremoto del 6 aprile
2009. La presunta imprudenza nella
valutazione del rischio non rileva ex se,
quasi come se fosse un reato di mera
condotta previsto dal legislatore, ma
rileva nella misura in cui determini o
concorra a determinare l’evento natura‑
listico verificatosi.
Non è dunque possibile procedere
nella prevenzione e previsione del rischio
sismico senza operare un collegamento
in termini di previsione dell’evento.
Nella sentenza non è in gioco un’im‑
putazione avente ad oggetto un reato di
mera condotta, la violazione della rego‑
q u e stio n i
la cautelare, nel caso di specie, non as‑
sorbe ed esaurisce in sé il reato.
La regola di diligenza ha senso sol‑
tanto allorquando si ricolleghi all’even‑
to naturalistico. Ed ecco che appare
degna di rilievo l’affermazione secondo
la quale rischio e terremoto non posso‑
no essere separati. La previsione del ri‑
schio è intimamente collegata alla pre‑
visione del terremoto. Ciò in quanto il
rischio varia al variare della magnitudo
e localizzazione della scossa.
Non potendosi dunque prevedere
l’intensità, la localizzazione e il tempo
di una determinata scossa, non può
analizzarsi il rischio sismico provenien‑
te dalla stessa.
Ragionando nel senso della senten‑
za, invero, si sovrapporrebbero due
piani tra loro distinti, operando un’in‑
debita commistione tra reati di danno e
reati di pericolo.
Addebitare agli agenti l’inesatta
valutazione del rischio avrebbe riper‑
cussione anche sul piano del principio
di offensività, andando a sanzionare
non il verificarsi di un evento, collegato
ad una condotta colposa, ma il mero
pericolo del verificarsi dell’evento, dan‑
do luogo ad una anticipazione della
soglia di punibilità, non consentita nel
caso di specie e non voluta dal legisla‑
tore.
È questo uno dei punctum prurien‑
sdelle motivazioni della sentenza che
non regge ad un’analisi più approfondi‑
ta. Tanto è vero, infatti, che quando i
giudici, sono chiamati a sostenere la
tenuta del loro ragionamento sul piano
dell’offensività, richiamano esempi,
come l’attentato, dove la soglia di puni‑
bilità è già anticipata ex antedal legisla‑
tore.
2.3.Sui destinatari dell’obbligo informativo e
sulla natura consultiva della Commissione
Grandi Rischi
L’altro rimprovero che si muove alla
condotta degli imputati si incentra sulla
violazione degli obblighi informativi a
vantaggio del Dipartimento di Protezio‑
ne Civile.
Si contesta, cioè, la condotta degli
imputati nell’aver fornito al Diparti‑
mento Nazionale della Protezione Civi‑
le, all’assessore alla Protezione Civile
della Regione Abruzzo, al sindaco di
L’Aquila ed alla cittadinanza aquilana
informazioni incomplete, imprecise e
contraddittorie sulla natura, sulle cau‑
Gazzetta
F O R E N S E
se, sulla pericolosità e sui futuri svilup‑
pi dell’attività sismica in corso; con
l’effetto di aver indotto, in via esclusiva,
le vittime a rimanere all’interno delle
rispettive abitazioni, contrariamente
alle consolidate abitudini di cautela,
fino all’esito fatale delle ore 03.32 del 6
aprile 2009.
Occorre, a tal punto, evidenziare la
natura della Commissione Grandi Ri‑
schi, onde verificare i destinatari
dell’obbligo informativo e la titolarità
circa l’assunzione di decisioni, in ordine
alle concrete attività precauzionali da
predisporre circa il sisma in atto.
Con riferimento all’obbligo di infor‑
mazione gravante sulla Commissione
Grandi Rischi, è da richiamare la l. n. 21
del 2006, nella parte in cui definisce la
Commissione come un “organo di Con‑
sulenza tecnico scientifica del Diparti‑
mento della Protezione civile(pag. 170),
incaricata di rendere pareri e proposte
in ordine alle tematiche relative ai setto‑
ri di rischio. “La Commissione fornisce
le indicazioni necessarie per la defini‑
zione delle esigenze di studio e ricerca
in materia di protezione civile, procede
all’esame dei dati forniti dalle istituzio‑
ni ed organizzazioni preposte alla vigi‑
lanza degli eventi previsti dalla presente
legge ed alla valutazione dei rischi con‑
nessi e degli interventi conseguenti,
nonché all’esame di ogni altra questione
inerente alle attività di cui alla presente
legge ad essa rimesse” (art. 9 l. 225 del
1992).
Il destinatario di tale attività di
studio e consulenza è, quindi, il Dipar‑
timento Nazionale della protezione ci‑
vile, sul quale grava l’obbligo di “pro‑
muovere l’attività di informazione alle
popolazioni interessate, per gli scenari
nazionali e l’attività di formazione in
materia di protezione civile, in raccor‑
do con le regioni” (art. 5 l. 401 del
2001). Il destinatario di tali obblighi è
la popolazione interessata.
Sulla parte politica, poi, in relazione
ad eventi di urgenza e necessità, vale
richiamare l’art. 54 co. 4 del TUEL
nella parte in cui affida al sindaco il
potere di emanare ordinanze contingi‑
bili ed urgenti “nel rispetto dei principi
generali dell’ordinamento, al fine di
prevenire e di eliminare gravi pericoli
che minacciano l’incolumità pubblica e
la sicurezza urbana”.
Sebbene, dunque, gli esperti della
Commissione Grandi Rischi assunsero
F O R E N S E
direttamente rapporti con la stampa,
esternando le loro valutazioni in merito
ai possibili futuri sviluppi della situazio‑
ne e ebbero contatto con la popolazione
locale, ciò non toglie la natura di orga‑
no consultivo della stessa, né elide i
poteri di intervento in ordine alla ge‑
stione delle emergenze ravvisabili in
capo alla Protezione Civile e agli organi
politici locali.
Forzato appare, dunque, ricondurre
la scelta deterministica delle vittime di
restare in casa o abbandonare le ordina‑
rie misure cautelari all’attività di valuta‑
zione della Commissione Grandi Rischi
che, quale organo consultivo, sebbene
autorevole, non può sostituirsi ai poteri
di intervento nella predisposizione con‑
creta di misure o ordinanze in merito
alla gestione della situazione locale.
La decisione in ordine alla messa in
atto di misure volte a gestire l’emergen‑
za rientra comunque nei poteri normal‑
mente attribuibili al sindaco, che gode
di ampia discrezionalità in merito, non
soltanto nell’anma, attraverso lo stru‑
mento dell’art. 54 TUEL, anche anche
nelle concrete modalità di esercizio de‑
gli stessi.
Che, dunque, questo ruolo di valu‑
tazione del livello di rischio accettabile
e di conseguente adozione delle decisio‑
ni operative spetti ai politici emerge
anche dalla normativa europea sul prin‑
cipio di precauzione, allorquando, nella
Comunicazione 2 febbraio 2000 della
Commissione europea, si evidenzia co‑
me di fronte alle possibili catastrofi,
“pur essendo indispensabile una valu‑
tazione scientifica quanto più completa
possibile, il giudizio su quale sia un li‑
vello di rischio accettabile per la socie‑
tà costituisce una responsabilità emi‑
nentemente politica”.
3.Sulla sussistenza del nesso di causalità
Nel ricostruire il nesso di causalità
tra l’evento e la condotta, i giudici di
L’Aquila concentrano l’indagine sul le‑
game intercorrente tra l’inesatta valuta‑
zione dei rischi offerta dagli scienziati e
l’effetto di rassicurazione che ha deter‑
minato nei cittadini la scelta volontari‑
stica di dismettere le ordinarie cautele e
di rimanere all’interno degli edifici poi
crollati.
In particolare, i giudici basano la
loro analisi su i seguenti punti:
a) quale fosse l’abituale comporta‑
mento delle vittime di fronte alla minac‑
luglio • A G O S T O
2 0 1 3
cia di scosse sismiche fino al 30 marzo
2009;
b) il mutamento delle abitudini del‑
le vittime a seguito della riunione della
Commissione Grandi Rischi del 31
marzo 2009;
c) l’influenza che la condotta conte‑
stata agli imputati abbia esercitato, in
senso causalmente rilevante, sulla deci‑
sione delle vittime di rimanere in casa.
Si è quindi ritenuto sussistente il
nesso di causalità e riconducibile l’even‑
to morte e lesioni alla presunta impru‑
dente valutazione dei rischi operata
dagli imputati, ogni qual volta, all’esito
dell’istruttoria dibattimentale, è risulta‑
to che le vittime, a seguito delle risul‑
tanze della Commissione Grandi Ri‑
schi, hanno modificato le proprie abitu‑
dini e deciso di rimanere in casa.
Eliminato mentalmente, secondo i
giudici, l’antecedente, costituito dalla
riunione della Commissione Grandi
Rischi, dunque, le morti e le lesioni non
si sarebbero verificate, poiché la notte a
cavallo tra il 5 e il 6 aprile 2009, dopo
le due scosse delle ore 22.48, di magni‑
tudo 3.9 e delle ore 00.39, di magnitudo
3.5, le vittime sarebbero certamente
uscite di casa, in aderenza alle preceden‑
ti abitudini di prudenza; sicché la scos‑
sa delle ore 03.32, di magnitudo 6.3,
giunta a distanza di meno di tre ore da
quelle delle ore 00.39, non le avrebbe
sorprese in casa (pag. 380).
Tuttavia, la ricostruzione del nesso
di causalità nel caso di specie si espone,
ad avviso della scrivente, alle medesime
critiche cui va incontro un’applicazione
meccanicista della regola della condicio
sine qua non, avallata da puntuali e
precise leggi scientifiche di copertura
che, calate nel caso di specie, consenta‑
no di affermare con “un alto ed elevato
grado di probabilità logica o di credibi‑
lità razionale” che una condotta è cau‑
sa di un evento, esponendosi in tal
modo al rischio di regressi all’infinito.
Com’è noto, infatti, nella regola di
causalità il procedimento di eliminazio‑
ne mentale consente di selezionare, nel
novero degli antecedenti di un evento, la
condizione necessaria (condicio sine qua
non), cioè quella condizione che non può
essere mentalmente eliminata senza che
far venir meno l’evento stesso.
Ovviamente, tale procedimento di
verifica della regola causale presuppone
la pregressa conoscenza della regola che
consente di affermare che da una deter‑
139
minata condotta scaturisce (o non sca‑
turisce) un determinato evento.
La regola della condicio sine qua
nonè un procedimento logico e, per il
suo corretto funzionamento, è richiesta
la pregressa conoscenza della legge
scientifica in base alla quale una deter‑
minata condotta provoca un determina‑
to evento.
Sul punto nella sentenza Franzese si
legge: “in tanto può affermarsi che,
operata l’eliminazione mentale dell’an‑
tecedente costituito dalla condotta
umana, il risultato non si sarebbe o si
sarebbe comunque prodotto, in quanto
si sappia, “già da prima”, che da una
determinata condotta scaturisca, o
non, un determinato evento.”
Per la verifica della causalità si è
dunque storicamente fatto ricorso alla
teoria condizionalistica con l’integra‑
zione di leggi scientifiche di copertura,
ossia si è spiegata la successione causa‑
le attraverso il ricorso a leggi scientifi‑
che, individuate e fornite di volta in
volta ai giudici dai periti e dai consulen‑
ti tecnici di parte secondo la migliore
scienza ed esperienza del momento
storico.
Ancorare la regola condizionalistica
a leggi scientifiche di copertura, con‑
trollabili empiricamente, di applicazio‑
ne generale, che esprimono regolarità di
successione tra accadimenti, consente di
non fare ricorso, nella verifica della
causalità, a metodi individualizzanti e
di evitare che il singolo giudice, piutto‑
sto che un fruitore di leggi scientifiche,
diventi egli stesso fonte di produzione
di nessi causali scientificamente non
confermati.
Tuttavia non sempre è agevole l’in‑
dividuare di una tale legge.
Ci si è interrogati dunque in ordine
alla percentuale di validità statistica
della stessa per ritenere sussistente il
nesso di causa nel caso di specie.
Nella maggior parte dei casi della
vita quotidiana, invero, non esistono
regole causali con validità assoluta, per
cui, data una determinata condotta, è
certo che si produrrà un determinato
evento.
È per questo che, nella maggior
parte dei casi, la verifica della causalità
si basa su leggi di tipo statistico.
Fino alla celeberrima sentenza Fran‑
zese vi erano disparità di vedute in
dottrina e in giurisprudenza circa la
percentuale di validità statistica da ri‑
questioni
Gazzetta
140
chiedere alla legge scientifica di coper‑
tura.
Da un lato, infatti, si richiedevano
serie e apprezzabili probabilità di veri‑
ficazione dell’evento, dall’altro si esige‑
va un coefficiente pari alla certezza.
Le Sezioni Unite del 2002, interve‑
nendo a dirimere il contrasto, hanno
spiegato che è “sufficiente che le leggi
statistiche forniscano la spiegazione
causale di un evento con un alto ed
elevato grado di probabilità logica o di
credibilità razionale, che dovrà essere
individuato caso per caso, in ragione
delle particolarità del fenomeno in
considerazione” (la cd. certezza proces‑
suale).
Il giudice, quindi, nell’accertamen‑
to del nesso di causalità, è chiamato ad
operare secondo uno schema bifasico:
deve dapprima individuare la legge
scientifica di copertura astrattamente
applicabile al caso in esame, per accer‑
tare poi, con un’analisi attenta e pun‑
tuale, condotta alla luce delle evidenze
del caso concreto emerse nel corso del
dibattimento e di tutti gli eventuali
fattori condizionalistici alternativi, se
il fenomeno verificatosi in concreto
può essere spiegato alla luce di quella
legge.
Come affermato anche nella senten‑
za in commento, la probabilità logica,
pur presupponendo e partendo da una
legge scientifica, la supera e va oltre,
proprio perché è caratterizzata dalla
verifica aggiuntiva (condotta sulla base
dell’evidenza probatoria disponibile)
dell’attendibilità dell’impiego della leg‑
ge scientifica in quello specifico caso
concreto.
Nel caso di specie, il ricondurre la
decisione delle vittime di rimanere in
casa all’imprudente valutazione dei ri‑
schi contestata agli imputati pare, dun‑
que, non trovare una legge scientifica di
copertura che, calandosi nel caso con‑
creto, dimostri, con un alto ed elevato
grado di probabilità logica o di credibi‑
lità razionale, la riconduzione delle
morti e lesioni al comportamento degli
agenti, sì da ritenerli responsabili oltre
ogni ragionevole dubbio.
La scelta deterministica delle vitti‑
me di restare in casa non può ricondur‑
si esclusivamente o prevalentemente
alle rassicurazioni della commissioni
grandi rischi, in quanto frutto di elabo‑
razioni personali, spesso intrecciate con
motivazioni totalmente avulse da rassi‑
q u e stio n i
curazioni esterne, in quanto apparte‑
nenti alla sfera dell’intimo volere.
La scelta delle vittime, cioè, innesca
percorsi psichici che richiamano valuta‑
zioni diverse ed intrecciate tra loro. Non
possono ricondursi in un rapporto di
causa ed effetto con la presunta rassicu‑
razione degli esperti della commissione
grandi rischi. Sopratutto, poi, si tratta
di scelte frutto di elaborazioni persona‑
li, non dimostrabili con evidenza e con
facilità.
Non si conoscono le ragioni, sup‑
portate da leggi scientifiche di copertu‑
ra, tali da affermare con un alto ed
elevato grado di probabilità logica o di
credibilità razionale che la decisione di
rimanere in casa può essere stata causa‑
ta dalla condotta degli imputati.
Si pensi, infatti, che di fronte alla
medesima condotta, non tutta la popo‑
lazione ha reagito nel medesimo modo.
In alcuni casi, infatti, le vittime sono
rimaste nelle abitazioni, dismettendo le
proprie ordinarie misure precauzionali.
In altri casi, invece, a fronte della me‑
desima condotta rassicurante, altri han‑
no preferito abbandonare le proprie
dimore.
L’errore metodologico in cui è incor‑
sa la sentenza de qua si basa, quindi, su
una mera applicazione del giudizio
contrafattuale della condicio. Ma, da
un lato, occorre dimostrare che, pur
eliminando mentalmente la condotta
censurata ne seguirebbe il venir meno
dell’evento con un alto ed elevato grado
di probabilità logica o di credibilità
razionale e, dall’altro, occorre ancorare
tale nesso ad una valida legge scientifica
di copertura, che trovi applicazione nel
caso di specie.
La possibilità di rinvenire una legge
di tale natura incontra, invece, resisten‑
ze nel caso in esame.
È infatti da tempo confutata la pre‑
tesa di voler inquadrare in rigidi riferi‑
menti causali situazioni che presuppon‑
gono plurime condotte umane che si
intrecciano sul piano psichico. Una
medesima decisione, cioè, può essere il
frutto di più fattori.
Stante dunque la difficoltà di ricor‑
rere a sicuri riferimenti scientifici, ap‑
pare arduo il servirsi di strumenti an‑
tropoligici, affermando che le scelte
motivazionali di una persona siano, sul
piano psichico, influenzate in maniera
esclusiva o prevalente da una condotta
esterna rassicurante.
Gazzetta
F O R E N S E
Potrebbe, quindi, apparire invitante
la tentazione, stante un non sicuro an‑
coraggio ad una legge scientifica di co‑
pertura, di rifuggire da leggi di tal
specie per affidarsi al comodo terreno
della probabilità logica, atta a colmare
la lacuna di una regola di validità scien‑
tifica.
Evidente è dunque il rischio che la
capacità esplicativa della legge scienti‑
fica sia affidata o superata dall’accerta‑
mento della tenuta della probabilità
logica nel caso concreto.
Sarebbe convenuto, dunque, che i
giudici, prima di dimostrare la validità
del nesso causale nel caso concreto,
operando sulla probabilità logica, aves‑
sero dato conto della validità generale
delle leggi scientifiche di copertura da
utilizzare ovvero avessero analizzato le
massime di esperienza operanti presso
la popolazione circa una propensione
della stessa ad adeguarsi supinamente
alle risultanze della Commissione Gran‑
di Rischi.
V’è ancora da dimostrare, cioè,
sulla base di una legge scientifica di
copertura, che la determinazione volon‑
taristica di parte della popolazione di
restare nella proprie abitazioni sia esclu‑
sivamente o prevalentemente il risultato
della condotta degli esperti della Com‑
missione Grandi Rischi, escludendo
quindi il concorrere di altre motivazioni
personali.
Tale dimostrazione non può rifuggire
da regole di validità scientifica che affer‑
mino con un alto ed elevato grado di
probabilità logica o di credibilità razio‑
nale il non abbandonare la propria dimo‑
ra sia derivato in maniera esclusiva o
prevalente dalla condotta degli agenti.
4. Sull’interruzione del nesso di causalità
Per pervenire ad una sentenza di
condanna, tuttavia, non è sufficiente
dimostrare la sussistenza di un rappor‑
to di causalità tra condotta ed evento.
Non è sufficiente, cioè, dimostrare che
se il comportamento colposo non fosse
intervenuto l’evento non si sarebbe ve‑
rificato. Occorre, altresì, accertare che
il nesso tra condotta ed evento non si sia
interrotto per effetto di una “causa so‑
pravvenuta da sola sufficiente a deter‑
minare l’evento”(art. 41, co.2 c.p.).
La norma, posta dall’articolo appe‑
na richiamato, è stata fonte di profondi
contrasti interpretativi.
Si riteneva, in passato, infatti, che
F O R E N S E
l’espressione “cause sopravvenute da
s o l e s u f f i c i e n t i a d e t e r m i n a re
l’evento”fosse indicativa di una serie
causale del tutto autonoma, ossia di una
causa che opera indipendentemente ed
a prescindere da qualsiasi legame con
l’azione del soggetto agente.
Tale interpretazione rendeva tutta‑
v ia pleonast ic a la for mu la zione
dell’art. 41 co. 2 c.p., in quanto tale
regola già poteva evincersi con chiarez‑
za dall’art. 40 co. 1 c.p. L’art. 41 comma 2 c.p., dunque, per
acquisire un’autonoma capacità norma‑
tiva, esclude il nesso causale non quando
l’evento sia riconducibile a fatti del tutto
autonomi ed indipendenti dall’azione
del soggetto agente (tale situazione viene
già contemplata, come visto, dall’art. 40
comma 1 c.p.), ma quanto l’evento sia
riconducibile a fatti che, pur ponendosi
lungo la linea di sviluppo della condotta
antecedente e non essendo del tutto
autonomi e scollegati dall’azione del
soggetto agente, sono imprevedibili e
risultano connotati da un carattere di
assoluta anormalità.
In tal senso è utile richiamare
Cass. n. 42502/09 secondo la quale “le
cause sopravvenute idonee ad esclude‑
re il rapporto di causalità non sono
solo quelle che innescano un percorso
causale completamente autonomo da
quello determinato dall’agente, bensì
anche quei fatti sopravvenuti che rea‑
lizzano una linea di sviluppo del tutto
anomala e imprevedibile della condot‑
ta antecedente”.
Orbene, il Tribunale procede nella
considerazione di cause che potrebbero
porsi come fattori causali anormali e
eccezionali, come tali sufficienti, da
soli, a costituire unica causa dell’evento
lesivo e idonei ad interrompere il colle‑
gamento causale tra l’evento e la con‑
dotta degli imputati.
Quanto alla scossa determinativa
dell’evento morte e lesioni del 6 aprile
2009, i giudici ritengono che la sua ve‑
rificabilità non poteva essere esclusa
alla stregua delle acquisizioni scientifi‑
che e dei dati disponibili alla Commis‑
sione Grandi Rischi. Non si è trattato,
dunque, secondo i giudici di un evento
eccezionale ed atipico, idoneo a porsi
come causa sopravvenuta da sola suffi‑
ciente a determinare l’evento.
Si tratta di un discorso non facile
da svolgere, sopratutto sul piano
dell’elevato tecnicismo scientifico e
luglio • A G O S T O
2 0 1 3
l’argomentazione del Tribunale sembra
soffrirne.
Di fronte al dato che solo una parte
degli edifici sono crollati in seguito alla
scossa del 6 aprile 2009, la sentenza si
affida non all’interpretazione scientifica
dei dati in suo possesso, ma a valutazio‑
ni logiche incentrate sul piano della
ragionevolezza.
Si vuole evidenziare, in questa sede,
non soltanto la considerazione secondo
la quale solo una parte, appunto, degli
edifici caratterizzati da debolezza strut‑
turale è crollata, ma sopratutto come
può considerarsi tale evento rientrante
nel patrimonio di prevedibilità degli
agenti.
Basta considerare, infatti, che gran
parte del patrimonio edilizio esistente
sul territorio nazionale soffre delle con‑
dizioni strutturali in cui si trovavano
quelle di L’Aquila.
Non può dubitarsi che tali strutture
possono dunque sottostare ai rischi di
un cedimento.
Tale situazione venne denunciata
dagli esperti della Commissione Grandi
Rischi, nell’opera di valutazione effet‑
tuata. Ma non può ex antedeterminarsi
in concreto l’entità dell’evento sismico
che di lì a poco sarebbe intervenuto, né
il tempo e il luogo. Tutti dati che, se per
assurdo conoscibili, avrebbero consen‑
tito di indicare quali strutture avrebbe‑
ro retto meglio alla scossa e quali, vice‑
versa, crollate.
L’evento sismico, come in concreto
verificatosi la notte del 6 aprile, non può
considerarsi, cioè, come evento non
imprevedibile e non eccezionale, atipi‑
co, inidoneo ad elidere il nesso di cau‑
salità tra condotta ed evento che, sulla
base dei dati disponibili alla Commis‑
sione, non poteva essere escluso.
In tale argomentazione, il Tribuna‑
le pare confondere due piani: quello
della prevedibilità di un evento sismico
in qualche parte del mondo o proprio
nel territorio di vaste dimensioni in cui
stava avvenendo lo sciame e il piano
della prevedibilità della scossa in con‑
creto verificatosi, sopratutto con ri‑
guardo alla magnitudo, al tempo e al
luogo.
Non può semplicisticamente osser‑
varsi, come fanno i giudici delle prime
cure, che i dati in possesso della com‑
missione erano idonei a valutare il ri‑
schio di un evento di tale portata.
Il giudizio probabilistico sulla ecce‑
141
zionalità o meno di un fenomeno non
può prescindere da valutazioni di inten‑
sità, di tempo e di luogo. Deve, cioè,
prendersi in considerazione l’evento hic
et nunc.
Il verificarsi della scossa del 6 aprile
non poteva, cioè, essere un logico svi‑
luppo nella sequenza causale originata
dalla condotta degli imputati, in quan‑
to evento eccezionale e non prevedibile
sulla base dei dati in possesso della
commissione in termini di magnitudo,
di luogo e di tempo. Qual era dunque il
comportamento esigibile dagli esperti?
Evacuare le abitazioni? In quale zona?
Per quanto tempo?
Si noti, infatti, che lo sciame sismico
stava interessando una zona di vaste
dimensioni. Come dunque poteva pre‑
vedersi che l’evento si fosse verificato
proprio quella notte, di quella magnitu‑
do e in quel luogo? E quand’anche si
voglia accettare l’argomentazione se‑
condo la quale non occorreva prevedere
l’evento, ma il rischio dell’evento, non
può poi rifuggirsi dalla considerazione
che la valutazione del rischio di un
evento di tale portata richiede la previ‑
sione di un evento di tale portata, in
tale luogo e in tale momento; una pre‑
visione non richiedibile ex ante.
Non può, dunque, condividersi che
la scossa del 6 aprile costituisce un
normale sviluppo della presunta impru‑
dente valutazione del rischio, in quanto
si è trattato di un evento che per inten‑
sità, luogo e tempo era imprevedibile,
atipico, eccezionale, idoneo ad elidere il
nesso di causa.
Va detto, tuttavia, che l’affermazio‑
ne di responsabilità degli imputati si
alimenta dalla interferenza che i giudici
ritengono ravvisabile tra il piano della
non eccezionalità dell’evento e quello
della prevedibilità degli eventi, secondo
le capacità dell’agente modello ravvisa‑
bile nel caso di specie. Non può negarsi
che, allorquando si affidi la soluzione di
tali questioni ad una prognosi normati‑
vo‑valutativa che non trova un solido
ancoraggio da un riscontro esplicativo
sufficientemente scientifico, si propone
il problema non di una interruzione del
nesso di causalità, ma di una sua man‑
cata sussistenza nel caso in esame.
In conclusione possono formularsi
due considerazioni.
In primo luogo, occorrerebbe che
giudizi di così delicata natura, sopratut‑
to con riferimento alla elevata carica
questioni
Gazzetta
142
q u e stio n i
emotiva e all’intensa pressione mediati‑
ca, si potessero svolgere in un territorio
non caratterizzato da una così intima
vicinitascon il luogo di verificazione
dell’evento.
In secondo luogo, va rilevato che
un’opera di prevenzione, atta a scongiu‑
rare eventi di tale natura, deve inevita‑
bilmente passare non per un (inesigibile)
sforzo di previsione oculato del rischio
del verificarsi di fenomeni del genere,
con riguardo all’intensità, al tempo e al
luogo in cui potranno accadere tali ca‑
lamità (che, come si è detto non possono
prevedersi), ma con una necessaria mes‑
sa in sicurezza dell’esistente, con impro‑
crastinabili interventi di rinforzo strut‑
turale degli edifici.
Come, infatti, affermato da Rousse‑
au nella “Lettera a Voltaire sul disastro
di Lisbona” del 18 agosto del 1756, non
v’è rimedio alle calamità naturali, “do‑
potutto non è la natura che ha ammuc‑
chiato là ventimila case di sei‑sette
piani”.
●
Diritto amministrativo
Un Istituto scolastico
statale può impugnare
un provvedimento
emanato da
un’Amministrazione
non statale, (nella specie
la Regione), avvalendosi
del patrocinio di un
avvocato del libero Foro?
● Elia Scafuri
Dottoressa in Giurisprudenza
La questione in esame trae spunto
dalla sentenza n. 4823/2012 del
Tar‑Campania emessa in data 9 ottobre
2012.
L’aspetto della decisione che s’inten‑
de analizzare in questa sede è la tradizio‑
nale quaestio, pur tuttavia prospettata
in termini innovativi dal Collegio giudi‑
cante, circa la possibilità, da parte di un
Istituto scolastico statale, di avvalersi del
patrocinio di un avvocato del libero
Foro nel giudizio amministrativo.
Preliminare all’analisi della senten‑
za, è la breve ricostruzione delle recenti
riforme ordinamentali sull’autonomia
scolastica.
L’organizzazione del sistema scola‑
stico è stata riformata ad opera
dell’art. 21 della L. 15 marzo 1997, n. 59
(“Delega al Governo per il conferimen‑
to di funzioni e compiti alle regioni ed
enti locali, per la riforma della Pubblica
Amministrazione e per la semplificazio‑
ne amministrativa” pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale n. 63 del 17 marzo
1997) e conseguentemente dai successivi
provvedimenti di attuazione (in partico‑
lare il D.p.r. n. 233/1998 e il D.p.r.
n. 275/1999). La riforma legislativa ha
dotato le istituzioni scolastiche di perso‑
nalità giuridica ed autonomia didattica
e organizzativa.
Tra gli obiettivi primari ed innovati‑
vi perseguiti dall’intervento normativo
figurano: la riduzione del numero delle
istituzioni scolastiche; la dotazione delle
istituzioni scolastiche di personalità
giuridica; l’ampliamento dell’autonomia
amministrativa di tali istituzioni, sia
sotto il profilo didattico, che sotto quel‑
lo organizzativo e finanziario; l’attribu‑
zione della qualifica dirigenziale ai capi
d’istituto in servizio.
Tuttavia, ad onta delle numerose
novità, la riforma non ha impedito che
le istituzioni scolastiche, tuttora autono‑
me, continuino a svolgere le funzioni e
ad incarnare le finalità di competenza
dello Stato, così come previsto dall’art. 1,
comma 3, lett. q), della L. n. 59 del 1997.
Tale norma dispone, infatti, che le attri‑
buzioni in materia di ordinamenti sco‑
lastici, programmi scolastici, organizza‑
zione generale dell’istruzione scolastica
e status giuridico del personale, per‑
mangono in capo allo Stato.
Il D.p.r. n. 275 del 1999 (“Regola‑
mento recante norme in materia di au‑
tonomia delle istituzioni scolastiche, ai
sensi dell’art. 21 della legge 15 marzo
1997, n.59”) ha poi individuato l’ambi‑
to di autonomia attribuito alle istituzio‑
ni scolastiche, segnando il confine ri‑
spetto al quale queste ultime operano
come enti diversi dallo Stato, o continua‑
no ad operare come organi statali.
La qualificazione delle istituzioni
scolastiche come organi statali, e conse‑
guentemente come “Amministrazioni
dello Stato” ai sensi dell’art. 1 del R.d.
n. 1611 del 1933, non è una questione di
poco momento, rilevando ai fini dell’ob‑
Gazzetta
F O R E N S E
bligatorietà del patrocinio dell’Avvoca‑
tura dello Stato.
Com’è noto, infatti, rientrando nel
genus delle “Amministrazioni dello
Stato”, la rappresentanza, il patrocinio
e l’assistenza in giudizio delle istituzioni
scolastiche spetterebbero obbligatoria‑
mente ed inderogabilmente all’Avvoca‑
tura dello Stato. Diversamente, rientran‑
do tra le Amministrazioni non statali il
patrocinio dell’Avvocatura dello Stato si
risolverebbe in una mera facoltà eserci‑
tabile da parte dell’istituto scolastico.
Così, mentre nel caso di patrocinio
obbligatorio la procura eventualmente
conferita ad un avvocato del libero Foro
sarebbe nulla, come i conseguenti atti
processuali eventualmente posti in esse‑
re, nel caso di patrocinio facoltativo non
potrebbe essere messa in dubbio la
legittimità, sotto il profilo generale,
dell’eventuale conferimento della procu‑
ra ad un avvocato del libero Foro e la
validità degli atti processuali posti in
essere.
È ormai palese, post‑riforma, che
non possa più essere messa in dubbio la
natura di “Amministrazioni dello Stato”
delle istituzioni scolastiche autonome,
con la conseguenza che ad esse continua
ad applicarsi il patrocinio obbligatorio
di cui all’art. 1 del R.d. n. 1611 del 1933,
che prevede che “la rappresentanza, il
patrocinio e l’assistenza in giudizio del‑
le Amministrazioni dello Stato, anche se
organizzate ad ordinamento autonomo,
spettano all’Avvocatura dello Stato”.
A dissipare ogni dubbio è infatti in‑
tervenuto l’art. 14, comma 7‑bis, del
D.p.r. n. 275/1999, (aggiunto dall’art. 1
del D.p.r. n. 352/2001, contenente il
regolamento in materia di istituzioni
scolastiche), disponendo in tal senso:
“l’Avvocatura dello Stato continua ad
assumere la rappresentanza e la difesa
nei giudizi attivi e passivi avanti le Au‑
torità giudiziarie, i Collegi arbitrali, le
giurisdizioni amministrative e speciali,
di tutte le istituzioni scolastiche cui è
stata attribuita l’autonomia e la perso‑
nalità giuridica a norma dell’art. 21
della legge n. 57/1997.”
Ne deriva che, pur configurando, a
seguito della riforma, autonomi centri
d’imputazione giuridica, le istituzioni
scolastiche continuano tuttora ad ope‑
rare in veste di organi statali.
A conferma di tanto, l’autorevole
giurisprudenza della Corte di Cassazio‑
ne ha precisato che le istituzioni “rifor‑
F O R E N S E
mate”, sebbene dotate di personalità
giuridica di diritto pubblico, costituisco‑
no organi dello Stato, rimanendo inseri‑
te nell’organizzazione statale, ed essendo
la loro attività direttamente imputabile
allo Stato (ex multis si veda: Cass. civ.,
Sez. lav., n. 20521 del 28.7.2008).
Corollario ne è la circostanza che gli
istituti de quibus appaiono titolari di
situazioni giuridiche soggettive esclusi‑
vamente nei confronti di soggetti terzi,
ma non nei confronti dello Stato, atteso
che con esso i rapporti sono di tipo inte‑
rorganico, con impossibilità, dunque,
che tali istituti dispongano di alcuna
tutela in via giurisdizionale nei confron‑
ti dello Stato.
Sgombrato il campo da eventuali
equivoci, si può quindi pacificamente
affermare che l’Avvocatura dello Stato,
in via generale, è l’unico difensore attri‑
buito dalla legge alle istituzioni scola‑
stiche.
Non mancano tuttavia eccezioni.
L’art. 5 del R.d. citato, prevede, infatti,
che le Amministrazioni statali possano
richiedere l’assistenza di avvocati del li‑
bero Foro “per ragioni eccezionali, in‑
teso il parere dell’Avvocato generale
dello Stato e secondo norme che saran‑
no stabilite dal Consiglio dei Ministri”.
Le ragioni eccezionali contemplate dalla
norma si configurano nelle ipotesi di
conflitto di interesse con lo Stato (in tal
senso si veda, ex multis, la recente ordi‑
nanza del Cds, sez. VI, n. 2370/2012 in
cui il tenore del provvedimento fa riferi‑
mento ad una diretta contrapposizione
tra Istituto scolastico e Miur), ovvero in
casi speciali.
Occorre poi ricordare che, ai sensi
dell’art. 43 del regio decreto, l’Avvoca‑
tura può assumere la rappresentanza e
la difesa in giudizio delle “Amministra‑
zioni pubbliche non statali ed enti sov‑
venzionati”, sempre che autorizzata da
disposizione di legge o di regolamento,
con esclusione delle “ipotesi di conflit‑
to”. Anche nelle ipotesi di patrocinio
autorizzato, dunque, (per le Ammini‑
strazioni non statali e per quelle dotate
di autonomia e personalità giuridica) il
ricorso al patrocinio dell’Avvocatura è
escluso nei casi di conflitto di interesse
con lo Stato o con le Regioni, conflitto
che l’Avvocatura deve obbligatoriamen‑
te rilevare e segnalare, ai sensi del III
comma della stessa norma. Ancora,
“salve le ipotesi di conflitto, ove tali
amministrazioni ed enti intendano in
luglio • A G O S T O
2 0 1 3
casi speciali non avvalersi della Avvo‑
catura dello Stato, debbono adottare
apposita motivata delibera da sottopor‑
re agli organi di vigilanza”(IV com‑
ma art. 43 citato).
Conseguentemente all’estensione del
patrocinio dell’Avvocatura agli Enti
pubblici, e alla novella dell’art. 11 della
L. n. 103 del 1979 (che ha riformato il
suddetto art. 43), l’istituto del patrocinio
facoltativo come originariamente inteso,
ov vero nel senso della piena
discrezionalità dell’Ente di ricorrere o
meno all’Avvocatura, non ha più ragion
d’essere.
In definitiva, l’Avvocatura dello
Stato assiste l’Amministrazione e gli
Enti in via organica ed esclusiva, eccet‑
tuati i casi di conflitto di interesse con
lo Stato o con una Regione che abbia
deliberato di servirsi dell’Avvocatura
dello Stato. (Per una visione completa
della tematica si veda P. Pavone, Lo
Stato in giudizio, Editoriale Scientifica,
Napoli, 1992, 157 e ss).
Tanto brevemente premesso, tornan‑
do alla quaestio in esame, l’aspetto in‑
novativo e contestualmente delicato
della sentenza sopracitata riguarda la
legittimità del mandato conferito da un
Istituto scolastico statale ricorrente ad
un avvocato del libero Foro.
Sul punto, si è espressa la recente
ordinanza del Consiglio di Stato
(n. 2370/2012) che, in riforma di un
orientamento del Tar Abruzzo (cfr.
n. 641/2011) ha espressamente afferma‑
to la nullità del mandato conferito da un
Istituto scolastico ad un avvocato del
libero Foro per impugnare un provvedi‑
mento amministrativo statale, atteso
che: “gli istituti scolastici, sebbene for‑
niti della personalità giuridica, riman‑
gono Amministrazioni dello Stato, co‑
me tali soggetti al patrocinio esclusivo
dell’Avvocatura dello Stato, patrocinio
derogabile soltanto seguendo lo specia‑
le procedimento di cui all’art. 5 r.d. 30
ottobre 1933, n. 1611.” Vertendo sul
conflitto sorto tra un Istituto scolastico
e il Ministero dell’istruzione, la stessa
ordinanza ha anche affermato che un
contrasto meramente interno all’Ammi‑
nistrazione statale debba “trovare com‑
posizione in sede amministrativa e non
giurisdizionale”.
Tornando alla sentenza da esamina‑
re, la controversia sorgeva su input di
un’Amministrazione statale, ovvero un
Istituto scolastico statale, che agiva in
143
giudizio nei confronti della Regione
Campania (Amministrazione resistente)
e di un’ulteriore Scuola secondaria di
primo grado.
A seguito dell’operazione di “dimen‑
sionamento” del sistema scuola, (opera‑
zione che si basa su una logica di accen‑
tramento mediante l’incorporazione dei
plessi più piccoli in quelli di maggiori
dimensioni, o mediante la fusione tra
plessi sottodimensionati), avvenuta tra‑
mite due delibere emanate dalla giunta
regionale (con cui veniva dapprima ap‑
provata la riorganizzazione della rete
scolastica, ed in seguito confermato il
ridimensionamento), l’Istituto ricorrente
veniva depotenziato con la sottrazione di
alcune sezioni in favore di istituti di mi‑
nore rilievo, tra cui la Scuola resistente.
Lamentando, dunque, che l’opera‑
zione si fosse risolta in una mera azione
a suo detrimento – scuola già di per sè
“ben dimensionata” – l’Istituto ricor‑
rente agiva davanti al Tar Campania per
l’annullamento, previa sospensione, dei
provvedimenti della regione Campa‑
nia.
La Scuola media controinteressata,
patrocinata dalla difesa erariale, si co‑
stituiva eccependo, tra l’altro: l’inam‑
missibilità del ricorso per difetto di legi‑
timatio ad processum, in quanto l’Isti‑
tuto ricorrente aveva proposto il grava‑
me rivolgendosi ad un avvocato del libe‑
ro Foro in violazione dell’art. 5 del R.d.
n. 1611/1933, ed in mancanza di elemen‑
ti idonei a denotare un conflitto (ordi‑
nanza del CdS, sez. VI, n. 2370/2012);
l’inammissibilità della domanda, in
quanto proposta da un organo periferi‑
co dell’Amministrazione scolastica, che
avrebbe potuto configurare un conflitto
meramente interorganico e non inter‑
soggettivo.
Con la sentenza suindicata, il Tar
Campania riteneva la legittimità del
mandato conferito dall’Istituto scolasti‑
co ricorrente ad un avvocato delibero
Foro.
Inquadrata brevemente la controver‑
sia a meri fini chiarificatori, appare ne‑
cessario esaminare i punti salienti della
sentenza de qua, soffermandosi in par‑
ticolare sull’eccezione di nullità del ri‑
corso, avanzata dalla scuola convenuta,
per nullità della procura ad litem.
In primis, il Collegio ritiene che il
ricorrente sia portatore di un interesse
qualificato e differenziato a reagire
contro le asserite lesioni dell’autonomia
questioni
Gazzetta
144
strettamente dipendente dal requisito
dimensionale previsto dalle norme:
l’Istituto scolastico, leso proprio negli
elementi costituenti della sua stessa
autonomia, avrebbe correttamente in‑
tentato il ricorso con finalità protettive
per impedire illegittimi sconfinamenti
ai suoi danni nell’esercizio di competen‑
ze attribuite dalla legge. Ad avviso
dell’Autorità giudicante, l’interesse le‑
gittimo protetto coinciderebbe, dunque,
con lo status individuato dalle norme
sull’autonomia scolastica che definisco‑
no le attribuzioni degli organismi in
questione.
Chiarito il punto circa la legittima‑
zione a ricorrere da parte dell’Istituto, il
Collegio non sembra condividere la su‑
indicata tesi della Cassazione (rectius,
pur condividendo tale tesi ritiene che la
stessa non colga il focus della controver‑
sia oggetto della sentenza) per cui le
istituzioni scolastiche, seppur dotate di
personalità giuridica di diritto pubblico,
costituiscano sempre organi dello Stato.
Tesi, lo si ripete, che afferma la compe‑
netrazione delle istituzioni scolastiche
nell’organizzazione dello Stato – perma‑
nendo in capo a quest’ultimo la funzione
“istruzione” – e ne fa discendere il co‑
rollario per cui tali istituzioni sarebbero
titolari di situazioni giuridiche soggetti‑
ve esclusivamente nei confronti dei terzi,
ma non nei confronti dello Stato.
Al fine di giustificare la non adatta‑
bilità al caso concreto della citata sen‑
tenza, e di distinguere tale fattispecie da
quella esaminata dal Consiglio di Stato
con la suindicata ordinanza n. 2370/2012
(i n r i f o r m a d e l Ta r A b r u z z o
n. 641/2011) – ordinanza pure evocata
dalla difesa erariale – il Collegio ne
evidenzia il proprium, ovvero i caratteri
peculiari:
‑ la controversia è diretta a contestare
provvedimenti di Amministrazioni
terze, (Regione ed Enti locali coin‑
volti nel procedimento di dimensio‑
namento), che avrebbero illegittima‑
mente favorito un organo dell’ammi‑
nistrazione scolastica in danno del
ricorrente Istituto;
‑ la sostanziale contrapposizione è tra
due istituti scolastici, entrambi dota‑
ti di pari autonomia, ed in posizione
di incompatibilità in ragione della
contestata opzione che ha operato la
“trasfusione” degli alunni da un
istituto all’altro.
Dai descritti caratteri peculiari del‑
q u e stio n i
la sentenza l’Autorità giudicante fa di‑
scendere, dunque, la considerazione per
cui il contrasto non possa essere ricon‑
dotto allo schema del conflitto interor‑
ganico, trattandosi di un contrasto in‑
tersoggettivo.
Proseguendo, centrale appare l’esa‑
me dell’eccezione di nullità del ricorso,
mossa dalla Scuola convenuta, per nul‑
lità della procura ad litem, stante il
conferimento del mandato ad un avvo‑
cato del libero Foro.
Invero, come obiettato dalla difesa
erariale, trattandosi di un motivo di
per sè assorbente di ogni altra censura
sul merito della controversia, il Tar
adito avrebbe potuto “rilevare la nul‑
lità del mandato conferito e dunque
ritenere preclusa ogni pronuncia di
merito”, piuttosto che rinviare l’appro‑
fondimento della questione alla fase del
merito.
L’Autorità giudicante, invece, riba‑
dendo di essersi trovata di fronte ad un
rapporto conflittuale intersoggettivo, (e
non interorganico, come sostenuto dal‑
la difesa erariale), afferma che l’Istituto
scolastico ricorrente nella specie non
agisca in veste di organo dello Stato,
“ma come un diverso e confliggente
centro di interessi” per cui ritiene do‑
versi applicare, in via analogica, l’art. 43
del decreto sopracitato.
La norma, avente ad oggetto il c.d.
patrocinio autorizzato, dispone (in
particolare ai commi III e IV aggiunti
dall’art. 11 della L. 3 aprile 1979,
n. 103) l’esclusione del patrocinio obbli‑
gatorio dell’Avvocatura nei casi in cui le
Amministrazioni pubbliche non statali
e gli Enti sovvenzionati vengano a tro‑
varsi in conflitto con lo Stato o con le
Regioni e nei casi speciali in cui inten‑
dano non avvalersene. A ben guardare,
tale norma si riferisce esclusivamente
“alle amministrazioni pubbliche non
statali ed enti sovvenzionati, sottoposti
a tutela od anche a sola vigilanza dello
Stato, sempre che sia autorizzata da
disposizione di legge, di regolamento o
di altro provvedimento approvato con
regio decreto.”
Il Collegio, dunque, applica analo‑
gicamente all’Istituto ricorrente (di na‑
tura statale) l’art. 43 che è espressamen‑
te rivolto alle Amministrazioni non
statali ivi contemplate.
Seguendo ancora l’interessante ra‑
gionamento posto in essere dall’Autori‑
tà giudicante, coerente con il meccani‑
Gazzetta
F O R E N S E
s m o d i appl i c a z io n e a n a lo g i c a
dell’art. 43, la sentenza afferma che
nella specie la mancata richiesta del
parere dell’Avvocato generale dello
Stato non comporti la nullità del man‑
dato, nè ravvisa nella specie l’obbligo
del ricorrente di munirsi dell’autorizza‑
zione del Consiglio di istituto.
Si potrebbe dunque ritenere che il
Collegio faccia riferimento proprio
al l’ipotesi prev ist a dal III com‑
ma dell’art. 43 che non prevede alcun
obbligo per le Amministrazioni che non
si avvalgano del patrocinio nei casi di
conflitto; conflitto che l’Avvocatura
deve obbligatoriamente rilevare e se‑
gnalare.
L’aspetto particolare, già messo in
luce dalla Cassazione (cfr. Cass.
n. 10982/96), su cui si sofferma il Col‑
legio, è la dicotomia venutasi a creare a
seguito della riforma. Posto che l’auto‑
nomia riconosciuta alle istituzioni inte‑
ressa l’impostazione organizzativa e
didattica della scuola, da un lato le
istituzioni sarebbero state trasformate
in centri autonomi di imputazione nei
rapporti nei confronti di enti terzi (rap‑
porti riguardanti attività negoziali e
fatti illeciti), dall’altro le istituzioni sa‑
rebbero rimaste, nei rapporti interni,
organi statali.
Tuttavia, seguendo l’iter logico in‑
trapreso dall’Autorità giudicante, se le
istituzioni scolastiche, per legge, conti‑
nuano ad essere ammesse al patrocinio
dell’Avvocatura dello Stato ai sensi
dell’art. 1 del decreto citato, e in nessun
caso potrebbe verificarsi un contrasto
giudiziale tra le medesime e lo Stato (cfr.
sentenza Tar Calabria, Sez. II, n. 2800
del 29.11.2010; parere Avvocatura ge‑
nerale cs. 16507/00; Ordinanza del
Cds, Sez. VI, n. 2370/2012), non po‑
trebbe escludersi, come nel caso di
specie, un contrasto tra due centri di
imputazione dell’autonomia: in tal caso,
afferma la sentenza de qua, se lo Stato,
in persona del Ministero competente,
non interviene a risolvere il conflitto, il
centro di imputazione autonomo po‑
trebbe ricorrere alla difesa di un avvo‑
cato del libero Foro.
Il Collegio dunque afferma che: “Il
ricorso ad un avvocato del libero foro
in tale ipotesi appare non solo ammis‑
sibile, ma obbligato, in quanto il diritto
di difesa, costituzionalmente garantito,
non tollera che possano sussistere situa‑
zioni nelle quali il patrocinio venga ri‑
F O R E N S E
fiutato e non si possa adire altrimenti il
Giudice.”
Ad ulteriore sostegno di tale conclu‑
sione, l’Autorità giudicante distingue,
nel disegno organizzativo dell’autono‑
mia scolastica, due linee direttrici diver‑
genti:
‑ l’una, quella esaminata in alcune
sentenze dall’autorevole giurispru‑
denza della Cassazione (ex multis
Cass. civ., Sez. lav., 6372/11), relati‑
va alle funzioni amministrative ed
alla gestione del servizio di istruzio‑
ne (ivi compresi i rapporti con il
personale);
‑ l’altra, quella relativa alla presenza
di una soggettività giuridica con
legittimazione sostanziale e proces‑
suale, attinente al piano della rico‑
nosciuta autonomia funzionale, che
riguarda il caso di specie.
Per la prima varrebbero, secondo il
Collegio giudicante, le limitazioni pro‑
cessuali sopra richiamate – ovvero l’ob‑
bligatorietà del patrocinio dell’Avvoca‑
tura – derogabili solo seguendo la pro‑
cedura di cui all’art. 5 del regio decreto.
Diversamente, per la seconda tali limi‑
tazioni non varrebbero, verificandosi
l’ipotesi di conflitto con lo Stato.
Ne deriva che, ove sia in contesta‑
zione la sussistenza della stessa autono‑
mia funzionale (autonomia didattica,
organizzativa, di ricerca, sperimenta‑
zione e sviluppo), come nel caso di
specie, debba riconoscersi all’Istituto
scolastico una soggettività e legittima‑
zione autonoma.
Ciò è reso evidente, ad avviso del
Collegio, dallo stesso tenore del D.p.r.
n. 223/98 sul dimensionamento, in
quanto l’art. 1 dispone che: “Il raggiun‑
gimento delle dimensioni ottimali delle
istituzioni scolastiche ha la finalità di
garantire l’efficace esercizio dell’auto‑
nomia prevista dall’art. 21 della legge
15 marzo 1997, n. 59, di dare stabilità
nel tempo alle stesse istituzioni e di
offrire alle comunità locali una plura‑
lità di scelte, articolate sul territorio,
che agevolino l’esercizio del diritto
all’istruzione.” Dunque è proprio la
stessa normativa ad individuare, circo‑
scrivere e radicare una posizione diffe‑
renziata e qualificata del singolo istitu‑
to scolastico nei confronti degli atti le‑
sivi dell’autonomia, come conclude il
Collegio.
Da un’attenta lettura della sentenza
luglio • A G O S T O
2 0 1 3
de qua discendono due possibilità inter‑
pretative:
a) Prima facie sembra che il Tar
abbia operato una vera e propria inver‑
sione logica, in quanto l’unica Ammini‑
strazione non statale coinvolta nel giu‑
dizio è la Regione Campania che, però,
nel caso di specie è convenuta. Ciò con
particolare riguardo all’estensione in
via analogica delle prescrizioni di cui
all’art. 43 del decreto citato al caso di
specie, trovando tale norma applicazio‑
ne esclusiva alle Amministrazioni non
statali ed agli Enti sovvenzionati.
Partendo da tale presupposto si ap‑
palesa, dunque, che tutto quanto affer‑
mato dal Collegio giudicante – discen‑
dente dall’applicazione dell’art. 43 del
R.d. sopracitato – varrebbe esclusiva‑
mente nel caso in cui ad intentare il
giudizio fosse stata un’Amministrazio‑
ne non statale. Trattandosi, invece,
nella specie, di un’Amministrazione
statale – in quanto ricorrente è l’Istituto
scolastico autonomo – quest’ultimo si
sarebbe dovuto correttamente avvalere
del patrocinio dell’Avvocatura dello
Stato obbligatorio ed inderogabile.
Il problema della derogabilità della
regola generale tramite la procedura di
cui all’art. 5 del decreto citato si sarebbe
potuto porre, tutt’al più, per la Scuola
convenuta controinteressata.
b) A ben vedere, sembra che il Tar
abbia affermato una tesi innovativa
quanto all’autonomia scolastica: se la
qualificazione di “Amministrazione
dello Stato” dell’istituzione scolastica,
e quindi l’obbligatorietà del patrocinio
dell’Avvocatura dello Stato non può
essere posta in discussione ogniqualvol‑
ta la stessa operi come organo dello
Stato (in tal senso infatti è la costante
giurisprudenza formatasi a proposito
delle Università), nel caso di specie, non
operando quale organo dello Stato,
l’Amministrazione non può essere qua‑
lificata come statale.
In conclusione, laddove non si vo‑
glia ritenere che il Collegio giudicante
abbia operato un’inversione logica tra
l’Istituzione scolastica ricorrente e la
Regione Campania resistente – la sola
Amministrazione non statale in giudi‑
zio – si dovrà necessariamente avallare
la tesi innovativa affermata dal Colle‑
gio. L’Autorità giudicante, ritenendo
che l’Istituto ricorrente nella specie non
agisca in veste di organo dello Stato,
145
“ma come un diverso e confliggente
centro di interessi” applica, in via ana‑
logica, l’art. 43 del decreto sopracitato.
Trattandosi, dunque, di un contrasto
tra due centri di imputazione dell’auto‑
nomia, e non intervenendo il Ministero
a risolvere il conflitto ingeneratosi tra
gli stessi avverso l’adozione di un atto
emanato da un ente terzo (nella specie
la Regione), l’ipotesi di impossibilità di
conflitto viene a cadere, e l’Istituto non
può che avvalersi del patrocinio di un
avvocato del libero Foro.
In merito a tale tesi innovativa, che
tra l’altro riprende, con ulteriori appro‑
fondimenti, principi già affermati dal
Tar Calabria, Sez. II, n. 2800 del 29
novembre 2010, residua qualche dubbio
circa la possibilità di equiparare un’Isti‑
tuzione scolastica statale ad un’Ammi‑
nistrazione non statale per il solo fatto
che agisca in un giudizio amministrati‑
vo a difesa della propria autonomia
funzionale.
Sebbene infatti la normativa sul di‑
mensionamento individui una posizio‑
ne differenziata e qualificata del singo‑
lo istituto scolastico nei confronti degli
atti lesivi della propria autonomia, è
palese che le norme in materia di patro‑
cinio dell’Avvocatura – tra l’altro rifor‑
mate posteriormente alla disciplina del
dimensionamento – non tengano conto
di tale circostanza.
Tant’è che l’art. 14, comma 7‑bis,
del D.p.r. n. 275/1999, (come già evi‑
denziato sopra), dispone che: “l’Avvo‑
catura dello Stato continua ad assume‑
re la rappresentanza e la difesa nei
giudizi attivi e passivi avanti le Autori‑
tà giudiziarie, i Collegi arbitrali, le
giurisdizioni amministrative e speciali,
di tutte le istituzioni scolastiche cui è
stata attribuita l’autonomia e la perso‑
nalità giuridica a norma dell’art. 21
della legge n. 57/1997”.
La norma, come si evince dal dato
testuale, non opera distinzioni in meri‑
to alle contestazioni fatte valere in giu‑
dizio dalle Istituzioni scolastiche ai fini
dell’obbligatorietà del patrocinio
dell’Avvocatura dello Stato.
Si deve dunque presumere, in difetto
di un’espressa previsione legislativa in
tal senso, che il patrocinio dell’Avvoca‑
tura sia obbligatorio anche nei casi in
cui un’Amministrazione agisca in un
giudizio amministrativo a difesa della
propria autonomia funzionale.
questioni
Gazzetta
Recensioni
Il capitale sociale e le operazioni straordinarie, di Michele Nastri, Paolo Divizia,
Luca Olivieri, Milano, 2012 149
recensioni
A cura di Sara Frizzoni
F O R E N S E
●
Il capitale sociale
e le operazioni
straordinarie,
di Michele Nastri,
Paolo Divizia,
Luca Olivieri
Milano, 2012
● A cura di Sara Frizzoni
Dottoressa in Giurisprudenza
L’Opera in commento si propone di
analizzare la complessa tematica con‑
cernente il capitale sociale in pendenza
delle operazioni straordinarie di tra‑
sformazione, fusione e scissione.
Gli Autori, con una approfondita
indagine analitica ed organica, si occu‑
pano dello studio di tutti i possibili ri‑
svolti teorico‑pratici relativi e connessi
alle procedure di aumento e/o riduzione
del capitale, per gli specifici casi nei
quali, contemporaneamente ad esse, sia
già stata deliberata una operazione
straordinaria di “mutamento” dell’as‑
setto societario.
Codesta trattazione è affrontata
all’interno della costante evoluzione del
diritto delle società: la Riforma del
2003, contraddistinta per l’incremento
dell’autonomia privata e per la valoriz‑
zazione dell’elemento personale nelle
società a responsabilità limitata, e gli
interventi del legislatore circa l’inseri‑
mento nel nostro ordinamento della
società semplificata a responsabilità li‑
mitata (decreto legge 24 gennaio 2012,
n. 1 che ha introdotto nel codice civile
l’articolo 2463 bis) e della società a re‑
sponsabilità limitata a capitale ridotto
(decreto legge 22 giugno 2012, n. 83).
Per l’esame dell’argomento, data la
limitatezza del corpus normativo e le
numerose questioni interpretative, è
stato fondamentale l’ausilio delle mas‑
sime notarili. Indispensabile è stato
anche il ricorso alla scienza contabile,
poiché la struttura societaria “è divenu‑
ta via via strumento ineludibile della
produzione, intesa come luogo dell’
organizzazione amministrativa da una
parte, e di valutazione omogenea dei
valori aziendali e delle prospettive pro‑
duttive dall’altra”.
m aggio • giug n o
2 0 1 3
La materia, di rilevante interesse
notarile, presenta molti aspetti di criti‑
cità, gli Autori, al fine di adiuvare il
lettore nella comprensione e per offrire
spunti di riflessione, si sono avvalsi di
numerosi grafici e di una copiosa esem‑
plificazione.
In particolare, ad una preliminare
introduzione attinente, in linea genera‑
le, gli ambiti definitori delle tematiche
affrontate, con specifico riferimento
alla nozione di “operazione straordina‑
ria” e di “operazione sul capitale” (in
rapporto ai differenti modelli societari
allo stato vigenti e disciplinati nel no‑
stro ordinamento), fa seguito una det‑
tagliata ed esaustiva disamina delle
problematiche circa tutte le possibili
varianti del capitale sociale durante
l’operazione di trasformazione. Ed in‑
vero, gli Autori prendono in considera‑
zione, con raro rigore dogmatico, l’au‑
mento del capitale sociale a titolo gra‑
tuito, operazione considerata di mero
carattere contabile nella trasformazio‑
ne omogenea progressiva e regressiva,
e ritenuta, al contrario, rilevante sul
profilo operativo in tre casi: se non
proporzionale prodromico ad una tra‑
sformazione regressiva, nella s.r.l. in
previsione della trasformazione pro‑
gressiva in s.p.a. ed infine, nel caso di
aumento gratuito diretto all’adegua‑
mento del valore nominale minimo
delle partecipazioni in vista di una
trasformazione da società di persone
ovvero da società di capitali in società
cooperativa. La lettura dell’Opera pro‑
segue con lo studio analitico dell’au‑
mento del capitale sociale a titolo one‑
roso, operazione di carattere reale e
non meramente contabile, che mostra
molteplici problematiche nelle ipotesi
di trasformazione omogenea progressi‑
va e di trasformazione da s.r.l. a s.p.a.,
esaminate dettagliatamente in conside‑
razione della presenza di particolari
posizioni soggettive (socio assente, so‑
cio presente favorevole all’operazione
trasformativa ma contrario al versa‑
mento di quanto di sua spettanza per
l’integrazione del capitale sociale “di
arrivo”, ingresso del terzo, socio d’ope‑
ra…). Segue una stimolante descrizione
della riduzione nominale e reale del
capitale contestuale alla trasformazio‑
ne. Con grande tecnica di approfondi‑
mento circa la riduzione nominale del
capitale sociale, gli Autori esaminano
la particolare situazione della riduzione
149
“a zero” e “sottozero” (differente in
base alla tipologia societaria “di arri‑
vo”), la riduzione del capitale sociale in
pendenza dello stato di liquidazione
(c.d. trasformazione liquidativa, cioè
“quell’ipotesi di trasformazione volta
semplicemente ad agevolare il compi‑
mento della liquidazione, mediante
l’adozione di strutture organizzative
più semplici e meno onerose”), e l’ipo‑
tesi della riduzione nominale del capi‑
tale posteriore alla trasformazione ma
da essa dipendente. La riduzione reale,
a seguito della Riforma, ha carattere
facoltativo e volontario, nel rispetto dei
limiti ex art. 2445 c.c. e di quelli elabo‑
rati dalla dottrina per esigenze di coor‑
dinamento con altre norme codicisti‑
che. Infatti, oltre ai limiti espressamen‑
te previsti dall’art. 2445 c.c., ulteriori
sono stati desunti da altre disposizioni
del codice, tra cui quelli connessi alla
necessità di mantenere il rapporto pro‑
porzionale tra capitale sociale e catego‑
rie di azioni con voto limitato (art. 2351
secondo comma c.c.) oppure tra patri‑
monio netto e patrimoni destinati
(art. 2447 bis secondo comma c.c.).
Inoltre, è stato motivo di dibattito in
dottrina, l’individuazione di altri limi‑
ti alla riduzione volontaria in relazioni
a particolari circostanze sociali, come
lo stato di liquidazione o la presenza di
perdite. Dopo avere analizzato le con‑
seguenze di tale riduzione nella trasfor‑
mazione progressiva delle società di
persone, il testo si concentra puntual‑
mente sulla trasformazione regressiva
da s.p.a. a s.r.l. e sulla trasformazione
da s.p.a. in società cooperativa. Succes‑
sivamente gli Autori approfondiscono,
mediante una eccellente analisi, le mo‑
difiche del capitale in funzione della
fusione o della scissione, affrontando
anche le principali novità introdotte
con il decreto legislativo 22 giugno
2012, n. 123, diretto a semplificare gli
adempimenti richiesti in tali operazioni
straordinarie. A seguito di una attenta
descrizione circa l’importanza del rap‑
porto di cambio, è esaminato l’aumen‑
to di capitale a servizio e “non a servi‑
zio” di tale rapporto. Di particolare
interesse è lo studio degli effetti gene‑
rati dalla presenza di perdite rilevate
prima dell’avvio del procedimento di
fusione/scissione, nel caso in cui la
perdita sia di oltre un terzo del capitale
sociale senza, però, ridurlo al di sotto
del minimo legale (art. 2446 c.c. per le
recensioni
Gazzetta
150
s.p.a., e art. 2482 bis c.c. per le s.r.l.),
e nel caso in cui la perdita superi il
terzo del capitale sociale e questo si
riduca al di sotto del minimo legale
(art. 2247 c.c. per le s.p.a., e art. 2482
ter c.c. per le s.r.l.). Un intero capitolo
è dedicato alla fondamentale importan‑
za della relazione di stima richiesta
nelle operazioni di fusione e scissione
(art. 2501 sexies, settimo comma c.c.,
per la fusione di società di persone con
società di capitali, disposizione alla
quale rinvia per la scissione l’art. 2506
ter, terzo comma c.c.) tale relazione è
volta a garantire l’indispensabile prin‑
cipio di effettività del capitale sociale,
“tale principio trova la sua espressione
più significativa nella disciplina dei
conferimenti, diretta a garantire la
re c ens i on i
corretta valorizzazione dei beni appor‑
tati dai soci e la loro effettiva acquisi‑
zione da parte della società, sia in sede
di costituzione che di aumento di capi‑
tale”. Per completezza, gli Autori sot‑
tolineano che a seguito di recenti inter‑
venti legislativi sono state indicate al‑
cune ipotesi in cui la relazione di stima
può essere esclusa (decreto legislativo 4
agosto 2008, n. 142 che ha introdotto
gli articoli 2343 ter e 2343 quater c.c.
e modificato l’art. 2440 c.c. e il decreto
legislativo 29 novembre 2010 che ha
recato alcuni cambiamenti alle dispo‑
sizioni in precedenza introdotte e agli
articoli 2440 e 2443 c.c.). Dopo aver
analizzato analiticamente le operazioni
sul capitale sociale che assumono ca‑
rattere funzionale all’operazione di
Gazzetta
F O R E N S E
fusione o scissione, il testo si conclude
dedicandosi alle operazioni di carattere
“occasionale” in pendenza di tali ope‑
razioni straordinarie, analizzando:
l’operazione di aumento, di riduzione e
l’emissione di prestiti obbligazionari.
L’Opera di rilevante spessore scien‑
tifico ed attualità, mediante una note‑
vole disamina degli istituti in esame,
permette al lettore di orientarsi con
abilità nel cuore di una macchinosa
branca del diritto societario, quale
quella attinente agli esiti del capitale
sociale in relazione alle operazioni stra‑
ordinarie di trasformazione, fusione e
scissione. Come supra anticipato, tale
percorso è agevolato dal costante utiliz‑
zo di grafici ed esempi inseriti all’inter‑
no del testo.
Indice delle sentenze
Diritto e procedura civile
CORTE DI CASSAZIONE
Cass. civ., sez. III, 30.08.2013, n. 19963 s.m.
Cass. civ., sez. III, 22.08.2013, n. 19405 s.m.
Cass. civ., sez. II, ord. 09.08.2013, n. 19148 s.m.
Cass. civ., sez. I, 04.08.2013, n. 16751 s.m.
Cass. civ., sez. I, 01.08.2013, n. 18443 s.m.
Cass. civ., sez. Un., 29.07.2013, n.18184 s.m.
Cass. civ., sez. Un., 24.07.2013, n. 17931 s.m.
Cass. civ., sez. Un., 22.07.2013, n. 17781 s.m.
TRIBUNALE
Trib. Nola, coll. B), 17.07.2013, n. 1782 s.m.
Trib. Nola, coll. B), 03.07.2013, n.1708 s.m.
Trib. Nola, coll. A), 02.07.2013, n.1703 s.m.
G.i.p / G.u.p.
Napoli, 26.06.2013, n. 1569 s.m.
Napoli, 21.06.2013, n. 1524 s.m.
Napoli, 03.06.2013, n. 1330 s.m.
Napoli, 04.07.2013, n. 1642 s.m.
Napoli, 04.07.2013, n. 1653 s.m.
Napoli, 02.07.2013, n. 1604 s.m.
Cass. civ., sez. I, 17.07.2013, n. 17467 s.m.
Cass. civ., sez. II, 09.05.2013, n.10989 (con nota di Valletta)
Cass. civ., sez. III, 22.03.2013, n. 7273 (con di Scuotto)
Diritto amministrativo
TRIBUNALE
CONSIGLIO DI STATO
Cons. Stato, sez. V, 30.08.2013, n. 4328 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 27.08.2013, n. 4278 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4193 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4191 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 25.07.2013, n. 3966 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 25.07.2013, n. 03963 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3811 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3802 s.m.
Trib. Napoli, sez. II Lav., ord. 04.07.2013, Giud. U. Lauro s.m.
Trib. Nola, sez. II, 01.07.2013, Giud. R. De Luca (con nota di Restucci)
Trib. Napoli, 27.06.2013, Giud. U. Macrì s.m.
Trib. Napoli, sez. dist. Portici, ord. 12.06.2013.Giud. E. Quaranta s.m.
Trib. Napoli, sez. X, 22.05.2013, Giud. C. d’Ambrosio s.m.
Trib. Napoli, sez. X, 13.05.2013, n. 6114 (con nota di Sabbatini)
Diritto e procedura penale
CORTE DI CASSAZIONE
Cass. pen., sez. IV, 18.06.2013, n. 29246 s.m.
Cass. pen., sez. V, 29.05.2013, n. 27246 s,m,
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
T.a.r. Campania‑Napoli, sez. I, 26.07.2013, n. 3964 s.m.
T.a.r. Campania‑Napoli, sez. I, 10.07.2013, n. 3579 s.m.
T.a.r. Lazio‑Roma, sez. II, 20.05.2013, n. 5021 (con nota di Barbieri)
Cass. pen., sez. III, 21.05.2013, n. 28356 s.m.
Cass. pen., sez. IV, 15.05.2013, n. 28184 s.m.
Cass. pen., sez. Un., 28.03.2013, n. 28243 s.m.
Cass. pen., sez. VI, 27.03.2013, n. 26285 s.m.
Cass. pen., sez. Un., 28.02.2013, n. 27343 (con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez. VI, 20.02.2013, n. 29037 s.m.
Cass. pen., sez. Un., 31.01. 2013, n. 25401 (con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez. I, 11.01.2013, n. 6324 (con nota di Falato)
Cass. pen., sez. IV, 10.01.2013, n. 27591 s.m.
Diritto internazionale
C.E.D.U., sez. II, 03.09.2013, ricorso n. 5376/11, M.C. e altri c/ Italia (con nota di
Romanelli)
Corte Distr. Stati Uniti, Distr. meridionale di N.Y., 20.08.2013, M. et al. c/C. inc. (con
nota di Romanelli)
C.G.U.E., 18.07.2013, Causa C‑412/12, Comm. europea/Rep.Cipro (con nota di
Romanelli)