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Estratti da: Marco Orioles, Khatami in Italia. Dialogo con stretta di mano Pasian di Prato, Campanotto 2009. Il festival che volle il dialogo con Khatami e Ramadan Per le ambizioni culturali di una città vivace come Udine, il mese di maggio 2007 doveva essere un periodo di festa. Il giorno 10 sarebbe iniziata infatti la terza edizione di "Vicino/lontano", la scintillante kermesse organizzata dall'omonima associazione col qualificante sottotitolo "Identità e differenze al tempo dei conflitti". A dispetto della giovane età, l'iniziativa gode oramai di ampio prestigio e risonanza, al punto da essere considerata -­‐ scontando l'enfasi del cronista -­‐ un «punto di riferimento della primavera culturale friulana». Le copiose anticipazioni uscite sulla stampa, a partire dal ricco carnet di ospiti, confermano quest'immagine sontuosa. Per il “Messaggero Veneto”, Vicino/lontano «anche quest'anno, promette di trasformare la città nella capitale delle culture a confronto». Una promessa impegnativa e non priva di rischi, dato che -­‐ come dichiara alla stampa il direttore culturale, Marco Pacini, alla vigilia -­‐ il leit-­‐motiv del dialogo, biglietto da visita dell'intera manifestazione, sarebbe stato applicato questa volta ai «temi connessi all'islam». Vicino/lontano decide dunque di gettarsi a capofitto in uno dei topoi più roventi della storia contemporanea, almeno da quando, l'11 settembre 2001, diciannove seguaci di Maometto hanno evidenziato, non senza enfasi, le difficoltà del dialogo con la seconda fede del pianeta. Dedicare all'islam e ai suoi rapporti con l'Occidente la propria terza edizione è davvero una scelta indovinata. «Le due civiltà infatti», come sottolinea Enzo Pace, «possono essere viste come grandi narrazioni collettive nelle quali l'una si è sforzata di rappresentare l'altra come l'antagonista irriducibile e viceversa», da cui un necessario sforzo, auspicato da molti ormai, di rilettura e ritessitura dei rapporti. La scelta appare tanto più sensata alla luce dell'ormai robusta presenza musulmana insediata nel Vecchio Continente. Venti milioni di soggetti ormai, secondo alcune stime, una parte non insignificante dei quali è alle prese con le contraddizioni della doppia appartenenza, con le apparenti incompatibilità tra i valori e gli stili di vita autoctoni e quelli caldeggiati dal Corano o dai suoi odierni interpreti e, soprattutto, è esposta alla temibile calamita del fondamentalismo. Una convivenza, quella tra europei e islamici, segnata insomma da alcune stringenti ambivalenze e da, fortunatamente rare, fiammate di incomprensione o di violenza, come il celeberrimo caso delle "vignette di Maometto" in Danimarca ha tristemente evidenziato. Argomenti di cui parlare, insomma, ce ne sono parecchi. Ben fatto, Vicino/lontano. Peccato però che, per affrontare l'ostico argomento, gli organizzatori abbiano scelto di affidarsi a due sorprendenti atout. Come dichiara ancora Pacini alla stampa, Vicino/lontano ha deciso infatti di penetrare nel groviglio dei rapporti con l'Oriente, e delle intricate questioni dell'islam in Occidente, «portando a Udine due protagonisti indiscutibili della scena europea e mondiale della cultura e della politica islamica: l'intellettuale Tariq Ramadan e l'ex presidente dell'Iran Mohammad Khatami». Due personaggi che lo stesso quotidiano, di fatto portavoce ufficioso della manifestazione, inquadrerà così al pubblico udinese: [M. Khatami] è un intellettuale iraniano e filosofo della politica che ha rivestito la carica di presidente dell'Iran per due mandati dal 1997 al 2005. Ricordato come primo presidente riformatore del paese dopo la rivoluzione islamica del '79 si è scontrato con la linea dura del clero conservatore, promuovendo una politica fondata sul diritto, la tolleranza, la democrazia, il liberismo. Ha inaugurato una politica estera improntata alla teoria del "dialogo fra le culture". [T. Ramadan è] docente di filosofia e islamologia a Oxford: personaggio carismatico e controverso, si è formato in Svizzera e al Cairo, ed è stato al centro di feroci polemiche per il suo essere un intellettuale di cultura interamente europea e moderna, ma che rivendica con forza un ruolo per l'identità islamica anche sul suolo europeo. È considerato l'intellettuale musulmano europeo più noto e autorevole e più ascoltato dalle seconde generazioni dei giovani musulmani d'Europa. Consulente di Prodi e Blair sui temi del terrorismo islamico, è stato definito uno dei cento protagonisti del dibattito politico internazionale. Tariq Ramadan e Mohammad Khatami, dunque, verranno e parleranno a Udine. Il primo, come recita il programma di Vicino/lontano, animerà l'evento di apertura: il confronto intitolato "In nome di chi? Quando i conflitti invocano le religioni" previsto per la serata del giovedì 10 maggio. A fargli compagnia, il sociologo delle religioni Stefano Allievi nel ruolo di gran cerimoniere e il ben noto storico italiano Franco Cardini. L'ex presidente iraniano sarà invece protagonista della conferenza "Nemici per forza?", la mattina del sabato 12 maggio, sostenuto dal giornalista Valerio Pellizzari nel ruolo di intervistatore. La scelta dei due interlocutori vuole essere, immaginiamo, la dimostrazione dell'alto profilo ormai raggiunto dalla manifestazione. Ambedue i personaggi, in effetti, godono di notevole visibilità e di riconoscibilità. Per un festival che ambisce ad attirare l'attenzione su di sé, l'invito è sicuramente azzeccato. Peccato, tuttavia, che le reputazioni dei due personaggi siano caratterizzate da un certo numero di note stonate. Note ignorate nelle pillole di presentazione del Messaggero Veneto ma che altri, meno distratti, non si sono fatti certo scrupolo di riportare a galla. Gli organizzatori, naturalmente, non potevano non esserne consapevoli. Due inviti così, poi, sarebbero stati considerati la dimostrazione dell'orientamento politico della manifestazione, orientamento sfuggito a pochi dei partecipanti delle precedenti edizioni. Su questo fronte però, Vicino/lontano gioca d'anticipo. Nella già richiamata intervista, Pacini si vede rivolgere questa domanda: «Alcuni inseriscono vicino/lontano nel novero delle manifestazioni "di sinistra"», chiede il giornalista. «Sottoscrive?». La risposta di Pacini, ovvio, è: «No. Cerchiamo di affrontare i temi sempre con un'ottica alta. Chiamando esperti della materia, non partigiani di una tesi, accogliendo voci dal pensiero di sinistra come da quello di destra». Pacini ovviamente nega l'evidenza, ma lo ringraziamo lo stesso per il chiarimento. Veniamo allora al primo degli amici che Vicino/lontano ha deciso di proporre al proprio pubblico: Tariq Ramadan. Intellettuale di grido, ma anche controverso, scrivono. Le controversie che riguardano Tariq Ramadan non sono in effetti poche e vanno in un certo senso al di là dello spessore del personaggio. Persino un suo acerrimo avversario come Magdi Allam è stato costretto ad ammetterne le qualità. «Se la rivista americana "Time" nel 2003 l'ha designata – scrive Allam rivolgendosi direttamente a Ramadan -­‐ come uno dei cento pensatori che hanno "modellato" il mondo, se ha raccolto attestati di stima e ammirazione di diversi ambienti non solo musulmani, se è corteggiato e osannato da molte comunità islamiche europee, è evidente che lei è una personalità carismatica, ha uno spessore ideale, religioso e culturale, dispone di una eccellente capacità comunicativa e di manipolazione dei media». Il fatto è che questa popolarità si iscrive nel contesto di una discussione molto accesa sull'effettivo ruolo giocato dall'intellettuale ginevrino nell'islam europeo, o nell'islam tout court. Centra bene il bersaglio secondo noi Jocelyn Cesari quando colloca Ramadan tra le emergenti e inedite «forme dell'autorità» musulmana che si vanno formando soprattutto nell'Islam della diaspora. Storicamente, l'autorità tradizionale era depositaria di un sapere e di una metodologia che le davano la capacità di interpretare: la differenza tra conoscenza e ignoranza era fondamentale e solo i depositari del sapere, attraverso una catena di autorità o una serie di maestri, erano legittimati a interpretare la legge. […] Queste forme tradizionali dell'autorità subiscono ormai la concorrenza dei musulmani che, "al di fuori delle catene di autorità" si attribuiscono il diritto di interpretare il messaggio religioso. Le figure dello sceicco di al-­‐Azhar o di Medina, o dell'imam accreditato sono sempre più sorpassate dall'ingegnere, dallo studente, dall'uomo di affari autodidatta che mobilita le folle e che parla a nome dell'islam negli stadi o alla radio. Cesari rubrica Ramadan nella classe dei «predicatori e conferenzieri». Caratterizzati dalla «dimensione carismatica della loro personalità», questi sono di norma «intellettuali, universitari e specialisti che parlano dell'Islam [pur non appartenendo] ad una catena del sapere tradizionale. Ma appena prendono in mano un microfono o una penna, o aprono una pagina di internet, l'audience che riescono a fidelizzare durante i loro discorsi è uno dei principali criteri della loro legittimità». Tariq Ramadan è figura emblematica di questa nuova categoria e, secondo Cesari, «si è imposto come il più popolare predicatore negli ambienti musulmani europei» nonché «come la principale figura intellettuale dell'islam europeo, soprattutto presso le popolazioni di origine magrebina». Ramadan inoltre è «uno dei protagonisti più ascoltati e più rispettati del mondo musulmano francofono: basta contare il numero di giovani che assistono alle sue conferenze e ricordare la grande mobilitazione in suo favore all'epoca in cui, tra novembre 1995 e maggio 1996, gli era stato vietato l'ingresso nel territorio francese. Il suo successo deriva da un linguaggio adeguato alle aspirazioni e ai bisogni di questi giovani. Il discorso è severo, ma illuminato e spinge al rispetto e alla conciliazione dei valori fondamentali del paese in cui si vive con i valori dell'Islam». Figura carismatica, dunque. Ma che dire delle idee con cui prende forma il suo «discorso severo ma illuminato»? Spingono davvero all'incontro e alla conciliazione tra i valori europei e quelli islamici? Il dibattito su questo punto genera un'estrema polarizzazione di opinioni. «Per i suoi ammiratori», ha riassunto Ian Buruma, Tariq Ramadan «è un coraggioso riformatore che lavora sodo per colmare il divario tra l'ortodossia musulmana e la democrazia secolare. […] I suoi critici la pensano diversamente: lo accusano di antisemitismo, bigottismo religioso, di promuovere l'oppressione delle donne e di essere impegnato in una guerra santa coperta contro l'Occidente liberale». Insomma, diavolo o acqua santa? Proviamo a riassumere le ragioni di questa diatriba. Prendiamo anzitutto in considerazione i sospetti dei detrattori di Ramadan. Questi si concentrano su alcuni punti focali. L'accusa più pesante di tutte coincide con la speciale identità del nonno materno. Egiziano, insegnante, Hasan al-­‐Banna è effettivamente figura di spicco nella storia contemporanea dell'islam, per il suo ruolo di fondatore nel 1928 del noto movimento della Fratellanza Musulmana (Ikhwan al Muslimun). Che non è una formazione qualsiasi, ma il più antico nonché il «più forte portavoce dell'islam politico», ovvero del fondamentalismo, ma anche «la base dalla quale è nata la maggior parte dei gruppi radicali di cui tanto si parla». Un nome per tutte le piantine germogliate da questo seme: Hamas, l'organizzazione terroristica palestinese che, tra le altre cose (tra cui segnaliamo la predilezione per il "martirio" delle bombe umane), ha recentemente preso manu militari tutto il potere nella striscia di Gaza (che oggi non a caso è chiamato Hamastan) a scapito dei fratelli residenti in Cisgiordania e che da quel dì si diletta a lanciare razzi su Israele. Altra nota dolente nel fascicolo Ramadan: il padre. Meglio noto come «il piccolo Hassan al Banna», il padre di Tariq sfugge alla repressione della Fratellanza da parte del presidente egiziano Nasser nel 1954. Troverà rifugio a Ginevra, dove resterà sino alla morte nel 1995 a fare «opera di proselitismo tra i musulmani dell'Europa occidentale». Sarà lui a introdurre il giovane Tariq nei circoli che contano, quelli della Fratellanza Musulmana naturalmente come quelli più vari dell'islam che milita, si organizza, alza la voce e poi, a volte, agisce. La posizione di Ramadan nei confronti dei Fratelli Musulmani non è assolutamente chiara. A volte l'intellettuale nega ogni aderenza, ma nella prefazione di un suo libro si legge che «ne rivendica apertamente l'eredità dottrinale e spirituale». Secondo Paul Berman, il legame tra Fratelli Musulmani e Ramadan sarebbe stretto e palese. Bastano a provarla l’ammirazione nutrita da Ramadan per i fondatori e leader del movimento: non solo il nonno Hasan-­‐al Banna, per intendersi, ma anche Sayyd Qutb, teorico dal valore cultuale per i Fratelli Musulmani e tanto amato dai radicali di tutto il pianeta, a partire dai seguaci di al Qaida (il fratello di Qutb, per inciso, è stato professore di Osama bin Laden in Arabia Saudita nonché suo sodale nell'avventura afgana degli anni '80). Nelle sue opere Ramadan si spende diffusamente nel commento al lavoro di Qutb, mostrando come minimo che non lo ignora, e semmai che ne tiene conto. Insomma, è la conclusione di Berman, il retaggio familiare di Ramadan «informa specialmente quel che scrive e fa, o almeno la percezione di quel che dice e fa». Ma oltre a questi fattori, ideologici e dottrinari, motivi che rendono ostica una presentazione di Tariq Ramadan in veste di dialogatore non mancano davvero. A cominciare dal suo antisemitismo e ancor di più dal suo «feroce antisionismo». Sul primo fronte, a dire il vero, l'intellettuale ginevrino si è mosso con estrema prudenza, dichiarandosi ripetutamente «un oppositore assoluto dell'antisemitismo». Ma non sono mancati episodi e dichiarazione dubbie. Ha assurto grande visibilità ad esempio la polemica iniziata di suo pugno con il gotha degli intellettuali francesi ebrei come Henry-­‐Bernard Levy o André Glucksmann, accusati di «comunitarismo», durante la guerra in Iraq del 2003. La fiducia tra Ramadan ed il popolo di Sion, d'altronde, è incrinata a priori dalla posizione del primo sullo Stato di Israele. La lotta contro il cosiddetto nemico «sionista» è, si sa, materiale altamente infiammabile; Ramadan ne è certamente consapevole e proprio per questo, dobbiamo desumerne, ne fa un uso smodato. Si pensi alla sua vibrante adesione all'infame boicottaggio della Fiera del Libro di Torino del maggio 2008, che ha celebrato Israele come ospite d'onore per il suo Sessantesimo anniversario: un'altra occasione per evidenziare il suo originale concetto di pace. Dulcis in fundo, non si dimentichino le dichiarazioni ambigue sui cosiddetti «martiri di Allah», si immolino essi in Palestina o in Iraq e al prezzo di vite occidentali o islamiche. Per queste ambivalenze, che lo spingono ad appoggiare sia pur obliquamente cause violente, Tariq Ramadan ha pagato di persona: vedendosi interdire l'ingresso in Francia prima (nel 1995) e negli Stati Uniti poi. È comunque il Ramadan-­‐pensiero, la sua visione complessiva dell'islam in Occidente, a generare una attenzione e preoccupazione particolari. Esattamente come la sua personalità, la «riforma salafita» proposta da Ramadan ha ricevuto un'accoglienza quanto meno strabica. «Per alcuni» ad esempio, sintetizza Fürstenberg, «è un simbolo di speranza. [Che confermerebbe] la sua professione di cultura democratica, intrecciata con un'ispirazione di matrice religiosa». Altri, però, si dicono convinti che Ramadan sia in realtà «un cavallo di Troia dell'islamizzazione del Vecchio Continente». Che il suo cosiddetto «riformismo» sia in realtà un'operazione di facciata, concepita con l'obiettivo di muovere in prospettiva un deciso affondo al secolarismo europeo. Per dirla con Denis MacShane, Ramadan mirerebbe ad affondare «quei principi centrali universali che si sono sviluppati da Galileo al matrimonio gay». E a piantare ben dentro Bruxelles la bandiera dell'islam, assieme ai suoi ferrei comandamenti e prescrizioni. Del resto, suscitano almeno qualche sospetto le sue vendutissime audio e videocassette «in cui Ramadan consiglia ai musulmani praticanti – anche ai ragazzi – di non frequentare le piscine miste e li invita ad astenersi dai corsi di biologia, "perché le teorie di Darwin non sono nel Corano"». Chi ha ragione e chi torto, insomma? Noi sappiamo solo che è un bel groviglio, dal quale sarà difficile districarsi, almeno in questa sede. Quanto a Khatami, beh, le ragioni per storcere il naso sono anche qui più di una. Seyyed Mohammad Khatami ama introdursi oggi come il presidente di una fondazione che porta un nome ammaliante: International Institute for Dialogue among Cultures and Civilizations. Benissimo: il dialogo tra le civiltà, di qualunque cosa si tratti, appare impresa lodevole. Belli e condivisibili anche gli obiettivi e valori attribuiti all'Istituto. «Il dialogo tra le culture e le civiltà», leggiamo nel sito web dell'organismo, «ha diversi obiettivi chiave: creare le basi per un dibattito pacifico e costruttivo tra le nazioni, realizzare un contesto in cui le civiltà possano imparare le une dalle altre i rispettivi punti di forza e di debolezza, rimpiazzare la fame, il biasimo e il pregiudizio con la ragione, l'equità e la tolleranza, e facilitando uno scambio dinamico di esperienze tra le culture, le religioni e le civiltà». Sì, il programma sembra convincente. Peccato per il curriculum del proponente. Ricordiamolo, almeno brevemente. Attivo sin dalle prime luci dell'«ultima e più grande rivoluzione del XX secolo», che nel 1979 portò al potere l'imam Khomeini e i suoi mullah, Khatami ha fatto tutto il suo cursus honorum in un regime, quello iraniano, che si è reso universalmente noto per «la forzata imbracatura dello Stato moderno dentro le regole immutabili stabilite dagli autentici interpreti della Parola rivelata». Uno Stato, quello messo in piedi dall'Ayatollah dalla fatwa facile – una per tutti: quella emanata contro lo scrittore Salman Rushdie -­‐ e dai suoi sodali e successori, che non si è certo distinto per una scrupolosa tutela dei diritti umani o nella lotta al terrorismo internazionale, ma se è per questo nemmeno per la cura dell'economia. Un regime che nel 2001, cioè nel corso del duplice mandato presidenziale di Khatami, Newsweek definì «peggior paese al mondo per i giornalisti» e che oggi e per ottime ragioni, sia pur sotto una dirigenza diversa, è considerato un rogue state [stanato canaglia]. Basti pensare al programma nucleare, vero incubo diplomatico delle cancellerie europee e grande dilemma per l'amministrazione americana. Non dimentichiamo infine che i maggiori esponenti di questo regime si sono specializzati nella reiterazione di affermazioni al vetriolo da cui Khatami, a quanto pare, fatica a distanziarsi, soprattutto quando le invettive vertono sul Piccolo Satana (Israele) e su quello Grande (gli Stati Uniti). Anche per questi motivi, non tutti sono d'accordo nel vedere gli aggettivi «moderato» e «riformista» accostati al nome dell'ex presidente. È questa un'abitudine risalente sin dagli albori della sua reggenza (1997/2005) e rilevata soprattutto presso certi ambienti politici e culturali di casa nostra. Anzitutto, se qualcuno accetterà mai l'ossimoro, Khatami è al più un «fondamentalista moderato». E da questo punto di vista molti tendono ad essere d'accordo con Chahdortt Djavann, al cui pensiero daremo spazio più avanti: un ibrido del genere «non esiste». Quanto al leggendario riformismo di Khatami, che gli è valso la nomea di possibile uomo dell'apertura, non servirà dilungarsi troppo. Ognuno sa che Khatami non è riuscito a cambiare di una virgola il temibile Leviatano disegnato da Khomeini e dai suoi collaboratori. Che Khatami si è, al più, reso protagonista di una brevissima stagione di distensione, presto stroncata però dalle fazioni che contano davvero. Insomma, nella più benevola delle versioni, Khatami è stato un chierico e un intellettuale che sarà ricordato per aver offerto ai cittadini dell'antico Impero di Persia una brevissima parentesi di serenità, salvo passare il resto dei suoi giorni a palazzo a vedere il suo programma di governo «smembrato da arresti di massa, torture e uccisioni». Non lo dimenticheranno sicuramente tutti quei giovani, studenti, donne, e i tanti moderati che lo hanno votato per ben due volte, plebiscitariamente, salvo poi rimanere a bocca asciutta e poi pagarne le conseguenze. Alcuni col carcere, altri con la morte. No: Khatami non è stato, come molti speravano, il Gorbaciov iraniano. Allo scadere del suo mandato nel 2005 ha consegnato, intatta, la vecchia macchina khomeinista nelle mani del «sindaco netturbino» (uno dei graziosi epiteti dell'attuale presidente iraniano) Mahmoud Ahmadinejad. Che non ha atteso molto per schiacciare l'acceleratore infierendo su donne, dissidenti ed omosessuali. Basterebbero queste ragioni per non essere ansiosi di sprecare una mattinata ad ascoltare Khatami, o tanto meno per creargli un salotto attorno. Ci sarebbero invero tanti altri motivi, sui quali ci dirà qualcosa, più avanti, Carlo Panella: dall'antisionismo sfrenato, alla difficoltà di percepire qualche differenza tra la linea nucleare dell'attuale regime e le sue personali posizioni, fino al sostegno sin troppo caloroso al terrorismo. Decisamente un curioso curriculum, insomma, per l'aspirante promotore di un dialogo tra le civiltà. (…) Khatami in Italia stringe le mani alle donne Come ogni commedia all’italiana, anche Vicino/lontano ha offerto un susseguirsi di colpi di scena e capitomboli. Il capitombolo di Khatami che ci apprestiamo a raccontare, però, è stato davvero sensazionale. La storia delle “strette di mano proibite” dell’ex presidente iraniano a Udine potrebbe essere definita in tanti modi. Come la manifestazione perfetta dello “YouTube effect”, ovvero poco più che un suicidio politico davanti ad una telecamera. Come un crisis management a dir poco demenziale da parte di un uomo incapace di tenere sotto controllo lo scandalo che lo ha preso di mira. O come una enorme bolla giornalistica e soprattutto telematica, dove i nuovi riti dell’era di internet hanno trovato una definitiva consacrazione. O infine, come l’improvviso incrociarsi tra due visioni del mondo, quella reazionaria dell’islam che bandisce strenuamente i contatti impuri tra uomini e donne e quella di una politica islamica moderna in cui un leader di statura mondiale non può che finire ripreso dalle televisioni o dai videofonini con una bella donna al proprio fianco. In qualunque modo la si voglia classificare, questa storia regala un bel paradosso a quel Vicino/lontano che, nato per promuovere l’incontro tra culture, si è trovato nel bel mezzo di una conflagrazione culturale di respiro globale. Questo libro è stato concepito anzitutto come un riepilogo dei fatti, cui aggiungere qua e là dei commenti. Partiamo allora dai fatti. Subito dopo la partenza di Khatami da Udine, il 12 maggio, il nostro blog, la Casbah di Udine, aveva cominciato a immettere sulle proprie pagine e su YouTube tutto il materiale girato durante il festival. Com’è noto, YouTube accetta filmati della durata massima di dieci minuti; regola ferrea che ci ha costretto a realizzare uno spezzatino. Le oltre due ore di registrazione della conferenza di Khatami sono diventate così parecchie clip, ciascuna dotata di un titolo ed un indirizzo. Per agevolare la comunicazione internazionale, abbiamo optato per dei titoli in lingua inglese. Ecco così entrare in scena “Khatami’s speech part I”, “Khatami Questions & Answers”, “Khatami’s public” ecc. Tenete a mente due particolari. Anzitutto, è capitato in certi casi di non visionare in anticipo i materiali pubblicati. Li abbiamo in pratica messi subito on line, dopo aver fatto gli opportuni tagli. In secondo luogo, ricordate bene questi due nomi: Khatami Exit-­‐2 e Enter Khatami. Il primo filmato registra il tripudio ottenuto da Khatami dopo la conferenza. Il secondo documenta l’intervista concessa da Khatami ad una sventola bionda, presumibilmente con la tessera di giornalista. Sono i filmati che entreranno nella black list fondamentalista e di cui parleremo diffusamente nel libro. Dal momento in cui sono apparse su YouTube, le clip che raccontano le visita di Khatami hanno accumulato un certo numero di visualizzazioni. Qualche migliaio, sufficienti diciamo per affermare di aver centrato il nostro obiettivo: continuare il, anzi, avviare un vero dibattito sulla presenza di Khatami e Ramadan a Udine. Ricevevamo pure qualche commento, giusto un paio al giorno. Questo ritmo è proseguito, costante, per circa un mese. Fino a quando, il 9 giugno, abbiamo captato degli strani movimenti. Era domenica, lo ricordo benissimo. In città, non si muoveva una foglia e anche il sottoscritto aveva deciso di rimanere pigramente nel suo domicilio, al riparo dalla calura estiva, davanti – sob! – ad uno schermo di computer. Ad un certo punto, un rapido sguardo alla pagina “casbahudine” di YouTube restituisce una verità sconcertante: il video denominato Khatami Exit-­‐2 ha decuplicato i suoi click. Da poche centinaia, avevano oltrepassato le mille unità. Un limite ampiamente sorpassato nelle ore successive. Che cosa stava succedendo? Perché quei cinquanta, quasi sessanta click ogni ora per Khatami Exit-­‐2? Nella confusione generale, nessuno di noi ha pensato di riguardare attentamente il filmato. Chi del resto poteva immaginare che il mistero che stavamo cercando potesse trovarsi in sei minuti di applausi e convenevoli scambiati tra Khatami e il pubblico assiepato fuori e dentro la ex Chiesa di San Francesco? Certo, ci sono numerosi primi piani dell’ex presidente, si odono da vicino i saluti e le conversazioni di Khatami con vari avventori, e la voce di Khatami si distingue nitidamente. Ma simili amenità non potevano attrarre così tanta attenzione, e soprattutto contemporaneamente. Di primo acchito, abbiamo pensato che fosse uscita qualche notizia importante su Khatami e che, gira e rigira, degli avidi internauti alla ricerca di approfondimenti si fossero ritrovati per puro caso tra gli zero e gli uno di Khatami Exit-­‐2. I misteri dei motori di ricerca, si sa, sono infiniti. Ma l’ipotesi si rivela presto fasulla: dalle agenzie nessuna notizia su Khatami. Mentre i numeri di Khatami Exit-­‐2 continuavano a salire, a Udine brancolavamo letteralmente nel buio. Nemmeno alcuni amici giornalisti sono riusciti ad esserci d’aiuto. Per tre lunghi giorni, la nebbia non riuscì a dissiparsi, mentre i click di Khatami Exit-­‐2 continuavano la loro incessante ascesa verso l’ormai prossima quota diecimila. Ci avrebbe pensato Agence France Press, la mattina dell’11 giugno, a squarciare finalmente il velo. Alla mattina, il sito dall’agenzia giornalistica internazionale dirama questo comunicato: Un giornale iraniano questo lunedì [10 giugno] ha lanciato un attacco all’ex presidente riformista Mohammad Khatami di cui si dice avrebbe stretto le mani a delle donne durante una visita in Italia lo scorso mese. “Recentemente è circolato su internet un video che mostra un ex alta carica dello stato in visita in Italia, mentre stringe le mani a diverse donne e giovani fanciulle”, ha dichiarato il quotidiano Siasat-­‐e Rouz, uno dei giornali più ultra-­‐conservatori dell’Iran. “Non vogliamo pubblicare l’indirizzo del sito internet dove questo film può essere visionato, per evitare di propagare la corruzione nella società”, ha aggiunto. Il giornale ha accuratamente evitato di nominare Khatami sebbene sia l’unica “ex alta carica di stato” ad aver visitato l’Italia negli ultimi mesi. [….] In base alla legge della sharia, è proibito per un uomo avere alcun contatto fisico con una donna a cui non sia imparentato. […] In patria o nei viaggi all’estero, i funzionari iraniani evitano accuratamente di stringere le mani alle diplomatiche straniere e, al più, piazzano la loro mano destra sul cuore per esprimere gratitudine. Il comunicato sarà, per noi, come uno squarcio di luce. Eccolo spiegato il mistero: sono le strette di mano tra Khatami e alcune donne del pubblico, gesto che non avevamo per nulla notato in precedenza. No, proprio non ci avevamo fatto caso, tanto naturale quell’atto è per noi. comuni occidentali. A proposito, il servizio dell’AFP non parla in verità di Udine, ma il mistero si chiarirà presto e un controllo sull’esistenza di eventuali filmati romani, risultato negativo, confermerà che il video da cui tenersi alla larga «per evitare di propagare la corruzione nella società» è proprio il nostro. E contiene non uno, ma cinque atti proibiti. Di cui tre particolarmente visibili. L’11 giugno è dunque la data in cui accadono almeno due cose. La prima: la Casbah di Udine scopre che in uno dei suoi video un alto rappresentante del clero iraniano compie per ben cinque volte un atto più o meno bandito dalla sua religione ma soprattutto illegale nel suo paese, stringere le mani a donne sconosciute. Due, che questo era il fatto che aveva attirato l’attenzione generale, fino al punto di diventare notizia, e scandalo, sui giornali iraniani prima e su una delle più note agenzie di stampa internazionali dopo. Non insistiamo troppo sulla data dell’11 giugno. Almeno tra le pieghe di internet, la voce stava evidentemente circolando già da un po’. Questo, peraltro, ci esorta a evidenziare le difficoltà incontrate nel nostro lavoro. Nell’era della grande ragnatela telematica, ripercorrere a ritroso il filo di una storia può rivelarsi impresa ostica. Perdonateci dunque sin d’ora qualche eventuale svista. Siamo in ogni caso nelle condizioni di potervi offrire una guida sicura: Ahmad Rafat. In una serie di scambi telematici, il vice-­‐direttore di Adnkronos ci ha fornito informazioni utilissime per ricostruire lo sviluppo della storia. O, per dirla con le parole di Rafat, per seguire le diverse «esplosioni» prodotte dallo scandalo delle strette di mano proibite di Khatami. Ce ne saranno quattro, di esplosioni. Di varia intensità, cadenzate tra giugno e agosto 2007. La prima risale al 10 giugno, quando – spiega Rafat -­‐ «un giornale di Teheran ha scritto che su YouTube circolavano certe immagini di Khatami che stringeva la mano a due donne non parenti sue, due sconosciute». In realtà, se di esplosione si deve parlare, la miccia non si accende né qui né in questo momento. La storiella dei filmati con Khatami che tresca con delle donzelle italiane ha circolato anzitutto sulla rete delle reti. Il 7 giugno l’animato sito iraniano Ettelaat aveva ad esempio copiato e riproposto il video, mettendo in primo piano alcuni fotogrammi, presto riprodotti in altri siti. Poche ore dopo, il link al video era disponibile anche sul portale iraniano Balatarin dove «centinaia di persone hanno lasciato notevoli commenti e continuano a maledire, applaudire e disputare il diritto di Khatami di stingere le mani alle donne» Sono stati necessari, in ogni caso, almeno tre giorni perché, dopo il flusso on line, scorresse dell’inchiostro. E i bazar di Teheran fossero messi al corrente della polemiche che stavano impazzando su internet. Mentre nella capitale iraniana si distribuiscono le copie del giornale Siasat-­‐e Rouz e comincia la prima esplosione, anche sulla scena internazionale si produce un certo fermento. Dopo il comunicato AFP, le agenzie di stampa e gli organi di informazione di numerosi paesi riprenderanno e approfondiranno il fatto, in una corsa che continuerà per parecchie settimane. In Occidente ne parleranno tutti i grandi: da “La Repubblica” al “Corriere della Sera”, fino a “Der Standard”, “The Independent”, “The Economist”, “The New York Times”, “National Review”. In Italia, un servizio del Tg1 racconterà ai telespettatori distratti dall’arsura estiva come Khatami rischi di essere spogliato dell’abito talare per aver stretto delle mani a delle donne a Udine. Negli Stati Uniti, Fox News racconterà i principali sviluppi dello “Handshakegate”. Su internet, frattanto, proseguirà la baldoria a colpi di click e commenti di ogni tipo.