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no proclamati di continuo gli obiettivi
nel settore petrolifero: restare il secondo produttore OPEC con il 7% della
produzione petrolifera mondiale; diventare il terzo produttore mondiale
di gas con il 10% circa del commercio
di gas. Sul piano della politica diplomatica il paese punta a Est verso la
Cina e l’India; su quello economicosociale vuole creare un milione di posti di lavoro all’anno. Ma sarà in grado di gestire con efficienza e adeguatamente le proprie enormi risorse e
sfruttare la sua posizione strategica?
In quest’ultimo periodo non è raro
imbattersi in personalità anche del
mondo islamico, che avanzano critiche nei confronti del khomeinismo,
paragonato al populismo latinoamericano, con il quale agli inizi aveva in
comune il ritorno alle radici nazionali
e la ricerca di una terza via né capitalista né comunista per lo sviluppo del
paese. Khomeini diffidava di qualsiasi
forma di pluralismo politico, del liberalismo, della democrazia di base. Intendeva difendere, da un lato, la clas-
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se media e le sue proprietà, dall’altro,
voleva rafforzare lo stato, allargandone la sfera d’influenza all’intero corpo
sociale, dando priorità alle classi più
povere.
La parabola dei pasdaran
La fine della guerra con l’Iraq
(1988) aveva dato origine a una nuova
casta, quella dei veterani della lunga
guerra, alla quale la teocrazia elargiva
privilegi consistenti. Sia i pasdaran o
«guardiani della rivoluzione» (un corpo militare di volontari delle milizie
islamiche) sia il basij (un corpo paramilitare di volontari) aveva negli anni
novanta, con i governi di Rafsanjani,
le porte aperte nella gestione dell’economia del paese: strade, porti, aeroporti, interi quartieri residenziali in
diverse città del paese; mettevano le
mani sulle industrie petrolifere e su
quelle del gas. Con il riformista Khatami avevano incontrato ostacoli ed
erano dovuti uscire allo scoperto, facendo la voce grossa per non soccombere. I pasdaran passavano così a un
ruolo politico attivo (luglio 1999). Riuscivano a eliminare fisicamente i più
influenti personaggi riformisti della
società civile e attaccavano con durezza le manifestazioni studentesche e
universitarie, mettendo in carcere gli
attivisti. L’elezione di Ahmadinejad
(24.6.2005), veterano del corpo dei
pasdaran e sua espressione politica
come sindaco di Teheran, segnava il
punto di arrivo di una lunga lotta sotterranea. I pasdaran, usciti dalle caserme e appoggiati dal clero conservatore, sono oggi protagonisti politici
della Repubblica islamica. Secondo
gli analisti, si presentano come una
sorta di stato nello stato (cf. Regno-att.
22,2005,725ss).
Ma chi comanda veramente in
Iran? L’interrogativo corre sulla bocca
della gente della strada e riceve risposte diverse, dovendo il paese fare i
conti con la proliferazione delle fazioni e il fallimento del riformismo. Khomeini aveva voluto una leadership religiosa e un esecutivo con poteri limitati. Dal 1979 al 1989 Khomeini eser-
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Il personaggio Khamenei
K
arim Sadjadpour del Carnegie Endowment for International Peace, nel volume Reading Khamenei: the world view
of Iran’s most powerful leader (Washington 2008), ha studiato bene il «personaggio Khamenei»: non è né un dittatore né
un democratico, ma ha i tratti di entrambi. Nessuna decisione
può essere presa senza il suo consenso, ma lui costruisce le decisioni in base più al consenso che attraverso decreti. Di profonda
religiosità, ideologicamente rigido e antiamericano viscerale è
stato presidente dell’Iran dal 1981 al 1989 con Khomeini. Eletto
guida suprema nel 1989 si mostra con il turbante nero, grandi occhiali, kaffiyh palestinese, barba grigia. Non è considerato corrotto. Con lui si sono succeduti tre presidenti: Rafsanjani (1989-97),
Khatami (1997-2005) e Ahmadinejad (dal 2005). Ha consolidato il
suo potere mettendo i suoi nei posti chiave, indebolendo il Parlamento, rafforzando il ruolo del Consiglio dei guardiani, attirando le simpatie dei giovani, riducendo il potere del presidente. Evidenti le caratteristiche dei tre periodi presidenziali. Con Rafsanjani, finita la disastrosa guerra con l’Iraq, dominavano i tecnocrati;
con Khatami si era tentato, senza successo, di avviare le riforme
strutturali nel clima del dialogo delle civiltà; con Ahmadinejad i
«guardiani della rivoluzione», pasdaran, si sono ripresi il potere,
facendo leva sul ritorno al radicalismo islamico.
Uno sguardo all’interno del paese mette in luce che vi è più
islam che democrazia. I grandi ayatollah hanno largo seguito tra la
gente. Khamenei continua a dare prova di grande equilibrio: a Raf-
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sanjani concedeva di aprire qualche timido spiraglio con gli USA; a
Khatami permetteva più di dire che di fare; di Ahmadinejad smorza i toni più accesi e arroganti. La sua visione politico-religiosa
poggia sulle classiche quattro virtù della rivoluzione khomeinista:
la giustizia, l’indipendenza, l’autosufficienza, l’islam. I nemici sono
l’«identità sionista» (Israele) e l’«arroganza globale» (USA).
È interessante la sua biografia. Secondo di otto figli, è nato
nel 1939 nella città di Mashhad, nell’Iran orientale, città sacra degli sciiti perché l’ottavo imam sciita e diretto discendente del
profeta Maometto, Emam Reza, vi morì nell’817 d.C. A cinque anni entra nel seminario della città e intraprende gli studi di formazione. Passa brevi periodi nei centri sciiti di Najaf e Qom. Non ha
una formazione teologica completa, tanto da essere reputato un
chierico di secondo rango. A Qom è discepolo di Khomeini e ne
continua il pensiero, anche quando questi viene mandato in esilio in Iraq (1963). Khamenei si unisce all’azione di Rafsanjani e dell’ayatollah Yazdi, noto per le sue idee intransigenti, contro lo
scià Reza Pahlavi. Viene arrestato sei volte dalla polizia segreta fra
il 1960 e il 1970. Passa alcuni anni in prigione. È torturato ed esiliato in una parte remota del paese fino al 1979. Diviene ministro
della Difesa nel 1980 e più tardi sovrintendente dei pasdaran.
Nel giugno del 1981 sfugge a un attentato, perdendo l’uso del
braccio destro. A 42 anni, nel 1981, viene chiamato alla presidenza dalle élites rivoluzionarie e vi resta in carica fino alla morte di
Khomeini (1989).
citava un potere pressoché assoluto. Il
khomeinismo era un movimento di
classe radicale e pragmatico con qualche assonanza col marxismo. Alla
morte di Khomeini, Ali Khamenei,
un candidato allora ritenuto «debole»
e un chierico di «secondo profilo», diventava guida religiosa suprema, una
sorta di entità super partes a tutela dell’integrità istituzionale del paese.
Rafsanjani, divenuto presidente,
governava con pragmatismo, riuscendo a conciliare le diverse anime del
potente clero sciita. Ne emergeva un
sistema fortemente dominato da fazioni politiche e centri d’interesse. Con
Khatami (1997-2005) nasceva una
sorta di sodalizio tra lui, riformista, e i
potentissimi pasdaran. Il suo riformismo – osserva Nicola Pedde (Aspenia
n. 39, 2007) – era dunque più di facciata che di sostanza, tanto da crollare
sotto gli attacchi dei conservatori. Ahmadinejad, invece, si è imposto con il
populismo radicale e la retorica imperniata sul ritorno del Mahdi,
l’«imam occulto». Infatti, mentre il
clero ha in proposito una posizione
prudente, il presidente ha una posizione attivista, che gli consente di assumere un’aura di religiosità, molto al di
là del puro aspetto politico.
A trent’anni dalla rivoluzione khomeinista, l’Iran è un paese non facile
da interpretare. Alla strana miscela
tra laici e rappresentanti del clero,
non eletti dal popolo, che controllano
i centri del potere economico e politico si aggiunge l’emergere di nuove dinamiche politiche e nuovi scenari.
Khatami ha fallito e Ahmadinejad è
alle prese con un programma, che
non riesce a realizzare: la giustizia sociale, la lotta alla corruzione, lo stile di
vita radicato nell’islam sine glossa, un
governo efficiente. L’Iran è un paese
potenzialmente in crescita e, se ben
governato, potrebbe candidarsi a far
parte delle prime venti nazioni più ricche del mondo. Ma la sua economia è
malata. È ostacolata da normative religiose passatiste e da un eccessivo intervento dello stato. La produttività è
scarsa; gli sprechi sono enormi; l’infla-
Secondo la Costituzione, la guida suprema deve essere un
grande ayatollah (ayatollah al-ozma). Le carte in regola le aveva
l’ayatollah Montazeri, che però non appariva affidabile (da anni
è agli arresti domiciliari a Qom). Khomeini aveva apportato un
emendamento alla Costituzione e legittimato la nomina di Khamenei sulla base della reputazione di buon politico.
L’Assemblea degli esperti lo eleggeva quindi guida suprema
con 60 voti a favore e 14 contrari, motivando così la scelta: era
sempre stato vicino a Khomeini; aveva giocato un ruolo importante durante la rivoluzione e nella guerra contro l’Iraq; era uno
strenuo difensore dell’islam nel mondo. Assunto al rango di ayatollah, iniziava a muovere i primi passi lentamente e con cautela
con una strategia di consolidamento del potere, ponendo i suoi
commissari in posti chiave e strategici. Appoggiava Rafsanjani
nella politica verso i paesi arabi ed europei, restando inflessibile
nei confronti degli USA.
Per un’egemonia iraniana
Per lui l’islam è strettamente legato alla giustizia, per cui si
può parlare di «socialismo religioso» da mettere in atto subito e
dovunque per contrastare il modello di sviluppo occidentale. L’islam non è un’ideologia come il marxismo, è la religione del popolo che predica e attua la giustizia. Khamenei ha la visione di un
Iran economicamente indipendente perché politicamente indipendente. Il suo progresso scientifico e tecnologico non teme le
sanzioni che, al contrario, rafforzano lo spirito d’indipendenza.
L’idea fissa di Khamenei è un Iran che sia all’avanguardia del
mondo islamico nel Medio Oriente. Il suo piano può essere così
zione e la disoccupazione galoppano;
il bilancio è in deficit e la sperequazione sociale è una piaga. La guida religiosa continua a tuonare contro i
«mali supremi»: la povertà, la corruzione, la discriminazione.
Le prospettive economiche sono
rese incerte dall’instabilità del futuro
mercato petrolifero e dalla stagnazione della produttività. La struttura economica è fortemente sclerotizzata e
manca la capacità di attrarre investimenti e innovazioni tecnologiche. Il
malcontento dei lavoratori è palese e
l’insoddisfazione nei confronti del governo è sempre sul punto di esplodere.
Al presidente Ahmadinejad si rimproverano azioni populiste al limite
della razionalità, provvedimenti monetari e fiscali inefficaci e una posizione
altalenante sul nucleare. In questi anni
il paese ha visto fuggire cervelli e capitali e ridursi gli investimenti privati. Ma
ciò che più inquieta – a detta degli osservatori – sono la mancanza di un
concreto programma economico, lo
stop alle riforme, l’allontanamento di
sintetizzato: l’Iran e il mondo islamico condividono gli stessi interessi e obiettivi; l’Iran è un esempio di democrazia e di rinascita
islamica; con l’Iran il mondo islamico vince. Da guida suprema
dell’Iran, Khamenei mira a diventare la guida suprema dell’islam. Il
programma nucleare è parte di questo progetto politico-religioso. Per questo le resistenze non vengono solo dagli USA e dall’Occidente, ma anche dai paesi arabi che temono la forza crescente degli sciiti (10% dell’islam).
Il «dopo Khamenei» è oggetto di analisi e supposizioni. Chi
sarà la guida suprema dopo di lui? La sua salute è malferma e tenuta costantemente sotto osservazione: soffre fra l’altro dei postumi dell’attentato del 1981. I candidati alla successione sono diversi. È ormai fuori gioco l’ayatollah Montazeri sia per l’età (85
anni) sia per la sua critica all’indirizzo della Rivoluzione khomeinista. Sono in corsa: l’ayatollah Mesbah Yazdi, non molto amato
ed eminenza grigia di Khamenei; Rafsanjani (74 anni), raffinato politico, ma non discendente dal profeta e considerato corrotto; si
fa anche il nome dell’ayatollah Mahmoud Hashemi Shahroudi,
un conservatore moderato, magistrato. Ha esperienza politica ed
è fedele alla Costituzione islamica. A suo sfavore gioca il fatto
che è nato in Iraq e che parla il persiano con accento arabo. C’è
chi ipotizza la soluzione di un triumvirato. I riformisti propongono Rafsanjani, Khatami e Mehdi Karroubi, già presidente del Parlamento, sconfitto nel 2005 da Ahmadinejad. I conservatori sostengono gli ayatollah Meshab Yazdi, Shahroudi e Jannati, membro del Consiglio dei guardiani. La lotta è appena partita.
F. S.
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