Ars nova». Musica e poesia nei dintorni di
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Ars nova». Musica e poesia nei dintorni di
PERCORSI DIDATTICI «Ars nova» Musica e poesia nei dintorni di Dante e Boccaccio Cesarino Ruini L’ARTICOLO APPROFONDISCE IL TEMA DELLA PRODUZIONE MUSICALE E ALLO STESSO TEMPO POETICA DEL TRECENTO ITALIANO, ANALIZZANDONE LE ASCENDENZE E GLI SVILUPPI. I l Trecento italiano, oltre ad essere ravvivato dalla rigogliosa fioritura del Dolce stil novo, vide emergere un’attività artistica altrettanto illustre e con esso quasi imparentata: a questo secolo risalgono infatti le più antiche testimonianze scritte di composizioni musicali su testi lirici in volgare italiano, per di più elaborate in forme polifoniche raffinate e complesse. Tale produzione musicale è stata etichettata dai musicologi come «Ars nova italiana», per analogia con quanto nello stesso periodo avveniva in Francia, dove il termine ars nova fu coniato per definire le tecniche compositive del secolo XIV in contrapposizione dialettica con l’ars vetus del secolo precedente, dalla quale avevano tratto origine attraverso uno sviluppo fatto sia di elaborazioni teoriche sia di sperimentazioni pratiche. Però, a differenza di quella francese, l’ars nova italiana, come Venere, sembra sia nata già adulta, perché per essa non è possibile ricostruire un percorso di formazione incubazione altrettanto documentato come per la musica d’oltralpe. formali sperimentati nell’Aquitania dei secoli XI e XII, patria della poesia trobadorica, donde germinarono le tradizioni poetiche delle varie lingue nazionali; dall’altro, discende dalla creazione della polifonia d’arte, sorta ai primi del Duecento in Notre Dame di Parigi; da qui prese avvio la laboriosa gestazione teorica e pratica del mensuralismo, cioè del sistema che consente di definire e rappresentare la durata delle note, indispensabile nel canto a più voci. Per tutto il Duecento in Italia scarsegUna tradizione sommersa L’arte musicale europea del Trecento ha giano le testimonianze della pratica pouna doppia ascendenza: da un lato si lifonica, reperibili solo nel repertorio rifà alla varietà degli schemi metrici e liturgico in latino e orientate a una Miniatura delle Cantigas de Santa María di Alfonso X il Savio, codice dell’Escorial (ca. 1221-1284). 58 Nuova Secondaria - n. 9 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI prassi polivocale di tipo improvvisativo. D’altro canto, le esperienze poetiche della Scuola siciliana alla corte di Federico II di Svevia (1230-1250), che rielaborarono in modo originale temi e stilemi dei trovatori, si manifestarono ignorando – così parrebbe – il connubio musica-poesia che aveva contraddistinto i loro modelli. L’unico genere in cui è documentata in Italia la convivenza tra musica e poesia su testi in volgare è la lauda, nella quale, dalla seconda metà del secolo, si espresse la sensibilità religiosa popolare promossa dalla predicazione degli ordini mendicanti. Ma si tratta di un repertorio sostanzialmente estraneo a quello cortese che privilegiò la poesia lirica. È per questa situazione delle fonti che da decenni si dibatte sull’apparente «divorzio» tra poesia e musica nel Duecento italiano, nel senso che la poesia provenzale, giunta nelle mani dei notai della Scuola siciliana, avrebbe abbandonato la veste musicale, forse per la centralità del ruolo che venne acquisendo il testo verbale in relazione con l’evoluzione delle peculiarità tecniche della musica del tempo. Occorre tuttavia ricordare che al silenzio delle fonti musicali dirette si contrappone una serie di indizi e testimonianze indirette affidati alle carte letterarie, per cui è problematico accettare la tesi, estremistica, del divorzio. Innanzitutto il celebre incontro di Dante con Casella nel Purgatorio (II, vv. 106 ss.), nel quale il poeta prega l’amico musicista di intonare la sua canzone Amor che nella mente mi ragiona. L’episodio ci restituisce un’immagine emblematica di come la musica doveva essere praticata in Italia e altrove nel Medio Evo: l’intonazione musicale era solo una delle possibili modalità di esecuzione della poesia; la musica, costituita da una sola linea melodica e priva di ritmo autoNuova Secondaria - n. 9 2014 - Anno XXXI nomo non necessitava di un supporto scritto poiché nella sua creazione e trasmissione prevaleva il dominio della memoria. Dante stesso nel De vulgari eloquentia (II, 9, 4), riprendendo una concezione risalente almeno a Boezio, ci informa che il poeta nel comporre una canzone concepisce la struttura strofica in base alle proporzioni della melodia con la quale verrà eseguita. Del resto, le forme poetiche in uso nel volgare italiano conservano nelle loro denominazioni – canzone, sonetto, ballata, cantare – un preciso riferimento alla musica, che comprova la perdurante intima connessione tra le due arti. Da circa una decina d’anni questo panorama si è poi arricchito con un paio di testimonianze dirette, una «carta ravennate» (Ravenna, Archivio storico arcivescovile, 15118ter) e un «frammento piacentino» (Piacenza, Archivio Capitolare di Sant’Antonino, cass. C. 49, fr. 10), nei quali due testi lirici (Quando eu stava in le tu’ catene e O bella bella bella madona), ritenuti i più antichi della letteratura italiana, sono accompagnati dalle rispettive intonazioni musicali. Poiché sono datati tra la fine del secolo XII e la prima metà del successivo, questi due reperti rappresentano il primo caso documentato in Europa di poesia in volgare per musica, sennonché la natura avventizia della loro registrazione all’interno di supporti destinati a tutt’altro uso e le circostanze fortuite della loro conservazione confermano che all’epoca raramente la musica veniva scritta in quanto le melodie di questi componimenti erano affidate al supporto labile e variabile della memoria. D’altronde, per ridurre lo sforzo mnemonico, era consuetudine fare ricorso a una melodia nota per intonare testi diversi, purché dotati della medesima struttura strofica e metrica (è la prassi del «cantasi come», nota anche col nome tecnico di contrafactum). Di conseguenza la stessa musica migrava da un testo all’altro e testi laudistici potevano essere rivestiti con melodie profane e viceversa. Madrigali e cacce per i signori di Lombardia In questo contesto risulta meno sorprendente la meteora della polifonia artistica applicata ai testi poetici del Trecento italiano. È una parabola che ha le sue prime manifestazioni concentrate nell’Italia nord orientale, dove, fin dall’epoca della diaspora trobadorica, la forte influenza della cultura francese è presente sul piano linguistico e musicale. In particolare a Padova, sede di un’università frequentata da studenti francesi, si ebbero le condizioni più favorevoli al manifestarsi della polifonia mensurale agli inizi del Trecento. In questa città, tra il 1305 e il 1308, fu attivo come maestro di cappella nella cattedrale il compositore Marchetto da Padova, autore di due trattati musicali: il Lucidarium, riservato al canto monodico, e il Pomerium, alla musica mensurale. Proprio quest’ultima opera, che s’inserisce nel coevo dibattito europeo sui problemi connessi con la misura del tempo musicale, è una delle prove più evidenti che, nonostante il quasi totale silenzio delle fonti, in Italia la polifonia doveva essere praticata da tempo e a livelli di notevole maestria. Una sua peculiarità consiste nell’esporre un sistema che mescola elementi tipici della notazione italiana con procedimenti derivati dalla coeva notazione francese. Questa commistione, che fa della musica un codice bilingue (come tanta poesia franco-veneta, tipica dell’ambiente in cui Marchetto si era formato), è un tratto caratteristico dell’unica fonte (il codice Rossiano 215 della Biblioteca Vaticana), nella quale, verso la metà del 59 PERCORSI DIDATTICI Trecento, venne ricopiato quanto ci resta della produzione polifonica su testi italiani della prima metà del secolo. L’ambiente in cui proliferò era quello delle piccole ma potenti corti dell’Italia settentrionale, i cui signori amavano circondarsi di artisti e musicisti che rallegrassero le feste di palazzo o celebrassero i fasti di famiglia. Le loro opere riflettono pertanto un clima galante e raffinato e, in qualche caso, sono frutto dell’incontro di poeti del calibro di Francesco Petrarca con musicisti come Jacopo da Bologna, che alla corte veronese di Mastino II della Scala, intorno al 1350, intonò polifonicamente il madrigale Non al suo amante più Diana piacque del grande cantore di Laura. Inoltre, secondo quanto ci riferisce la cronaca fiorentina di Filippo Villani (1325c.1405c.), alla corte scaligera, Jacopo da Bologna «gareggiava in eccellenza artistica» con Giovanni da Cascia perché «il signore li stimolava con donativi». Questo tipo di produzione artistica, alimentato dal mecenatismo delle signorie lombarde (gli Scaligeri a Verona, i Visconti a Pavia, i Carrara a Padova), determinò la fortuna delle tre particolari forme poetiche coltivate dai musicisti: il madrigale, la ballata e la caccia, che furono anche oggetto di dotte classificazioni in un trattatello di metrica, la Summa artis rithmici vulgaris dictamins, dedicato nel 1332 da Antonio da Tempo ad Alberto II della Scala, e in altri due manuali tecnici di poco posteriori: il Trattato dei ritmi volgari di Gidino da Sommacampagna (ca. 1381-1384) e l’anonimo Capitulum de vocibus applicatis verbis. Si tratta di forme che con i loro nomi rinviano all’espressione spontanea, alla musica d’intrattenimento oppure ad ambientazioni venatorie, cioè alle componenti privilegiate dello svago nelle corti. Tuttavia l’eccellenza artistica raggiunta dai polifonisti 60 con la messa a punto di elaborate tecniche compositive fece sì che una di queste forme, il madrigale, venisse frequentemente piegato a fini celebrativi, fino ad assumere un ruolo di propaganda politica. Tali sono l’anonimo madrigale a tre voci La nobil scala del signor lombardo, che decanta l’emblema degli scaligeri signori di Verona, e il bilingue (italiano e latino) Lo lume vostro, dolce mio signore, che Jacopo da Bologna dedicò a Luchino Visconti, signore di Milano. Lo stesso compositore col madrigale a due voci O in Italia felice Liguria celebrò anche la nascita di Luca e Giovanni (1346), i due figli gemelli di Luchino. In realtà, secondo la tradizione, il madrigale polifonico doveva essere un componimento in lingua volgare (da matricalis = poema in lingua materna) di argomento pastorale-amoroso, destinato a riproporre i temi convenzionali dell’amor cortese in ambientazioni agresti. Lo si percepisce anche solo scorrendo qualche incipit, dagli anonimi Abrazami, cor mio, Quando i oselli canta, Lucente stella, che ’l mio cordes fai e O crudel donna, o falsa mia serena, ai due di Giovanni da Cascia De soto ’l verde vidi i ochi vaghi e Nascoso el viso, stava fra le fronde, o ancora a Sovra un fiume regale di Maestro Piero e Un bel perlaro vive sulla riva di Jacopo da Bologna. Quanto all’impianto formale, il madrigale rientra nella categoria delle formes fixes, nelle quali la struttura metrica del componimento determina anche la forma musicale: si compone infatti di due o tre strofe di tre versi (terzine di endecasillabi), con lo stesso schema di rime, chiuse da un distico a rima baciata, detto ritornello; una sezione musicale che riveste la prima terzina viene ripetuta sulle successive, mentre una seconda sezione intona il ritornello. In entrambe le sezioni è sempre piuttosto sviluppata l’ornamentazione con ampi Miniatura delle Cantigas de Santa María. vocalizzi sulle sillabe toniche iniziali e finali dei versi intonati. Una pratica ricreativa tipica della vita di corte, l’attività venatoria, fornì lo spunto all’altra specie di composizione polifonica che, insieme al madrigale, è propria della fase iniziale dell’Ars nova italiana: la caccia. Esemplare, a questo proposito, il testo Con brachi assai e con molti sparveri, messo in musica a tre voci sia da Maestro Piero sia da Giovanni da Cascia, che descrive una concitata partita di caccia, probabilmente in territorio visconteo, poiché si svolge sulle rive del fiume Adda. La caratteristica più appariscente di questo genere sta nel fatto che alla realistica descrizione del movimento nonché dell’inseguimento della preda, peculiare delle scene venatorie, sul piano musicale corrisponde un analogo inseguimento delle due voci superiori realizzato con la tecnica dell’imitazione a canone: il secondo cantore sembra inseguire il primo che ha cominciato ad eseguire la stessa melodia con qualche misura di anticipo. Inoltre, l’inserzione nel tesNuova Secondaria - n. 9 2014 - Anno XXXI PERCORSI DIDATTICI suto polifonico di episodi concepiti secondo la tecnica dell’hoquetus (letteralmente singhiozzo, generato dall’uso ripetuto di sincopi) conferisce particolare vivacità al brano, perché con esso il compositore intende riprodurre con effetto quasi onomatopeico i richiami dei cacciatori e l’abbaiare dei cani. Per questa specie di naturalismo il genere della caccia, che sul piano poetico non ha uno schema regolare (per lo più versi sciolti chiusi da un distico a rima baciata), venne anche impiegato per mettere in musica scene di pesca, di gioco o di mercato, cioè di situazioni in cui la natura stessa sembra suggerire l’idea del movimento polifonico indipendente delle parti. Canti e danze a Firenze Nella seconda metà del Trecento Firenze acquisì un ruolo politico preminente nell’Italia centrale. Questo spostamento degli equilibri, unito all’emergere dei ceti borghesi nei centri urbani, ebbe dei riflessi sui modi di produzione e fruizione della polifonia mi- Miniatura del Codice Manessiano, Biblioteca dell’Università di Heidelberg, Cod. Pal. germ. 848 (ca. 1305-1340). Nuova Secondaria - n. 9 2014 - Anno XXXI dini (ca. 1325–1397), detto Francesco degli Organi, perché rinomato organista, o anche Cieco degli Organi, perché rimasto privo della vista in tenera età. Ancora vivente, Filippo Villani nelle sue biografie dei fiorentini illustri gli dedicò un capitolo, mettendolo allo stesso livello di poeti come Dante e Petrarca o pittori come Giotto. Dotato di talento letterario non comune, stese di proprio pugno la maggior parte dei testi delle sue composizioni, diede nuova dignità artistica alla ballata e la trasformò da popolare canzone a ballo in un genere polifonico come il madrigale e la caccia, aprendola a una maggiore varietà di contenuti. Formalmente costituita da una strofa, suddivisa in due piedi e una volta, e da una ripresa (formata da uno a quattro versi, a seconda che si tratti di una ballata minore, mezzana o maggiore) ripetuta al termine di ogni strofa (una sezione melodica intona ripresa e volta, un’altra riveste il primo piede e viene ripetuta sul secondo), essa divenne l’espressione musicale in cui si riconosceva la nuova classe al potere, desiderosa di emulare la nobiltà nella ricerca di raffinati svaghi e nel sostegno alle arti. Emblematica a questo proposito è la descrizione, riportata da Giovanni Gherardi nel Paradiso degli Alberti (1425), di una giornata trascorsa da Landini, nel 1389, in compagnia dei più insigni intellettuali fiorentini nella villa di Antonio Alberti. Tra passeggiate, degustazioni di delizie, dispute dotte, trova spazio anche l’esecuzione da parte di due fanciulle della sua ballata Or sù gentili spirti ad amar pronti, che letteralmente rapisce gli uditori. Delle oltre 150 opere che fanno di LanFrancesco Landini dini il compositore italiano più proliChi superò tutti, tanto da essere consi- fico del Medio Evo, ben 140 sono ballate derato il più celebre compositore ita- a due o tre voci. Il tema dell’amor corliano del Medio Evo, fu Francesco Lan- tese è beninteso il più frequentato, col surata su testi in volgare. I dieci giovani allontanatisi da Firenze a causa della peste del 1348, che Giovanni Boccaccio fa cantare e danzare tra una giornata e l’altra del Decameron, prefigurano in un certo modo quell’ambiente colto in cui, a partire dagli anni ’60, letterati e musicisti collaboreranno, come avevano fatto mezzo secolo prima Dante e Casella. Di questa seconda stagione dell’Ars nova italiana sono noti più di trenta componimenti poetici (ballate, madrigali e cacce) di autori come il Boccaccio, Franco Sacchetti, Nicolò Soldanieri, Cino Rinuccini, Antonio Alberti, messi in musica a due o tre voci da una schiera di musicisti di ambiente fiorentino. Di alcuni di questi, come Donato da Cascia e Nicolò del Preposto da Perugia, oggi conosciamo poco più del nome, mentre di Nicolò di Francesco, detto ser Gherardello, si sa che fu cappellano dell’allora cattedrale fiorentina di S. Reparata (1345-51) e priore della chiesa di S. Remigio (136062). Lorenzo Masini, figlio di un mercante, oltre che compositore e insegnate di musica, fu canonico a Firenze nella chiesa di S. Lorenzo (1348-72). Andrea da Firenze, dell’ordine dei Servi di Maria, fu priore del convento fiorentino della SS. Annunziata (1380-97), poi a Pistoia (1393) e infine generale dei Serviti in Toscana (1407-10). Paolo da Firenze, benedettino, divenne prima abate di S. Martino del Pino (1401) poi, tra il 1417 e il 1427, rettore di S. Maria dell’Annunziata (notevole il suo madrigale d’argomento politico Godi, Firenze, poiché se’ sì grande, scritto nel 1406 per celebrare la conquista di Pisa da parte dei fiorentini). 61 PERCORSI DIDATTICI Miniature delle Cantigas de Santa María. ricorso a tutte le convenzioni e l’esibizione degli stilemi tipici della sua tradizione, come il senhal (presente nelle ballate Ma’ non S’ANDRÀ per questa donna altera, A LE’ S’ANDRÀ lo spirto e l’alma mia e S’ANDRÀ sanza mercé di tempo in tempo, che contengono nel verso iniziale il nome della donna, «monna Sandra», per cui furono composte) o l’ambientazione primaverile propiziatrice degli amori nella ballata Ecco la primavera. Non mancano tuttavia registri più intimi, come nelle ballate I’ piango, lasso! ’l tempo ch’è passato e Nessun ponga la speranza, che riguardano la vecchiaia, oppure Se la nimica mia Fortuna more, concernente l’imprevedibilità delle vicende umane. Alcune infine sviluppano argomenti morali, come Se pronto non sarà l’uomo a ben fare, e persino filosofici di ispirazione occamista: Contemplar le gran cose c’è onesto. Il repertorio dell’Ars nova era tenuto in grande considerazione: lo conferma la sua contenuta ma significativa diffusione manoscritta. L’interesse nell’ambiente 62 fiorentino per madrigali, cacce e ballate è testimoniato in particolare da due raccolte: il codice Panciatichi 26 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, di valore unico perché redatto ancor vivente il Landini, e il celebre manoscritto Mediceo palatino 87 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, il cosiddetto «Codice Squarcialupi», confezionato intorno al 1415 con l’intento di erigere una specie di monumento alla stagione arsnovistica ormai tramontata. I suoi autori vi sono idealmente ritratti secondo i più sontuosi canoni dell’arte figurativa del tempo, ciascuno in apertura della sezione del libro nella quale sono raccolte le sue opere. Cesarino Ruini Università di Bologna BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE G. Corsi, Poesie musicali del Trecento, Commissione testi di lingua, Bologna 1970. A. Roncaglia, Sul «divorzio fra musica e poesia» nel Duecento italiano, in A. Ziino (a cura di), L’Ars nova italiana del Trecento, IV, Centro di Studi sull’Ars nova italiana del Trecento, Certaldo 1978, pp. 365-397. F.A. Gallo, Dal Duecento al Quattrocento, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Teatro, musica, tradizione dei classici, VI Einaudi, Torino 1986, pp. 245-263. A. Ziino, Rime per musica e danza, in E. Malato (a cura di), Storia della letteratura italiana. Il Trecento, II, Salerno, Roma 1995, pp. 455-529. G. Di Bacco, «Cosa sottile in canto poco muta». Petrarca, Sacchetti e la poesia per musica nel Due e Trecento, in C. Assenza - B. Passannanti (a cura di), Musica, storia, cultura ed educazione, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 99-108. A. Fiori, Francesco Landini, L’Epos, Palermo 2004. M.S. Lannutti - M. 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