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GIUSEPPE LIGATO L’ORDALIA DELLA FEDE Il mito della crociata nel frammento di mosaico pavimentale recuperato dalla basilica di S. Maria Maggiore a Vercelli FONDAZION E C E NTR O I TALI ANO DI STUDI SU LL’ALTO ME DIOE VO SPOLE TO 2011 FONDAZIONE CENTRO ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOEVO INDICE Dedica ............................................................. pag. VII FRANCO CARDINI, Presentazione ............................ » IX L’opera ............................................................. » 1 I protagonisti .................................................... » 11 La figura di Fol: le mode del XII secolo e la morale » 27 La figura di Fel: un’idea del nemico ................... » 77 Le facce ........................................................... » 117 I nomi ............................................................. » 133 Le armi ............................................................ » 163 Conclusioni ...................................................... » 189 Bibliografia ....................................................... » 201 PRESENTAZIONE Piacenza, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera del 1095. Qui, dove la Via Francigena varcava il Po, papa Urbano II che viaggiava alla volta della Francia sotto l’alta protezione della magna comitissa Matilde di Toscana e che si trovava anche in quel momento inter ipsos scismaticos – come si esprime il cronista Bernoldo di Costanza – vale a dire circondato dai partigiani dell’antipapa Clemente III, cioè di Guiberto arcivescovo di Ravenna, tenne un concilio durante il quale si presero nuove misure contro la simonia e si procedette a una nuova condanna delle tesi eucaristiche di Berengario di Tours 1. In margine ai lavori conciliari, pare che il pontefice desse udienza anche agli ambasciatori del basileus Alessio Comneno, che erano presumibilmente in cerca di mercenari « franchi » da arruolare per le guerre che l’impero conduceva nella penisola anatolica per contenere la pressione dei turchi selgiuchidi e danishmenditi. È probabile che di quel problema si fosse già parlato in un precedente concilio, a Guastalla, nel gennaio del 1094; ma la questione che nel mondo latino si configurava come « l’aiuto alla Chiesa d’Oriente » stava divenendo sempre più urgente, non foss’altro come tema di propaganda, ora che, fin dall’autunno del 1094, Urbano si era accinto a un lungo viaggio tra Italia e Oltralpe al fine di rafforzare direttamente la sua autorità dov’essa era debole e di tutelarla dov’era minacciata. Fu, quello, uno strano viaggio, simile in parte a un itinerario trionfale e in 1. Cfr. Piacenza e la prima crociata, a cura di P. RACINE, Piacenza, 1995; R. SOMERPope Urban II’s Council of Piacenza, Oxford, 2011 (in corso in stampa mentre scriviamo). VILLE, X PRESENTAZIONE parte a una continua fuga sotto l’assillo dei residui partigiani dell’imperatore Enrico IV e del suo antipapa. Quel viaggio avrebbe conosciuto momenti molto significativi, come il concilio di Clermont del novembre 1095, la consacrazione dell’altare nella chiesa di Saint-Sernin di Tolosa nella primavera dell’anno successivo 2, l’incontro con Matilde a Lucca alla fine di ottobre e il ritorno a Roma, con il nuovo concilio celebrato in Laterano nel gennaio del 1097. Fu l’avvìo di quella strana e per molti versi ancor oggi incomprensibile avventura che conosciamo ormai con la definizione di « prima crociata ». Le profonde scaturigini della quale stanno evidentemente proprio qui, nel Nordovest italico attraversato dalla Francigena, tra quella Piacenza nella quale si ergeva un sacrario ad instar Sancti Sepulchri e le prestigiose abbazie di Bobbio, di Lucedio, della Novalesa e di S. Michele della Chiusa: qui, sulla strada di pellegrinaggio che collegava Santiago de Compostela a Roma e all’altro grande centro della devozione michelita, S. Michele del Gargano 3. L’attenzione accordata al concilio di Clermont ha forse messo un po’ troppo in ombra – per quel che riguarda la genesi della crociata – questa regione così importante per il pellegrinaggio e per le stesse memorie epiche, com’è provato ad esempio dall’importanza di Mortara in rapporto alla chanson di Amico ed Amelio. In uno studio dedicato ai vercellesi nell’epoca delle crociate, Alessandro Barbero ha messo in luce con finezza l’importanza di un angolo dell’Italia settentrionale dal quale partirono personaggi che – come i marchesi di Monferrato – erano destinati a giocare un ruolo di straordinaria importanza tra Costantinopoli, Gerusalemme e Antiochia 4. Non è quindi per nulla casuale che proprio in quest’area si situino due straordinarie fonti musive, testimoni entrambi della crociata, delle lotte tra cristiani e musulmani e dell’idea di sanctum bellum tra XI e XII secolo. Entrambe sono state studiate da Giu2. Q. CAZES, Saint-Sernin de Toulouse y la questión de los tímpanos esculpidos, in Compostela y Europa. La historia de Diego Gelmirez, Milano, 2002, pp. 232-249. 3. Fondamentale al riguardo Luoghi di strada nel medioevo. Fra il Po, il mare e le Alpi occidentali, a cura di G. SERGI, Torino, 1996. 4. A. BARBERO, Terre d’acqua. I vercellesi all’epoca delle crociate, Bari, 2007. PRESENTAZIONE XI seppe Ligato, che è senza dubbio attualmente uno dei massimi specialisti europei di storia del movimento crociato. Si tratta del mosaico pavimentale della chiesa abbaziale di S. Colombano di Bobbio 5 e di quello di S. Maria Maggiore a Vercelli, un frammento del quale – ora al Museo Leone della medesima città – ci ha conservato l’enigmatico e per tanti versi esemplare duello a piedi e alla spada tra due guerrieri, un europeo dalla lunga barba fluente e dal grande scudo « a mandorla » e un « pagano » nero, dall’aspetto inequivocabilmente africano e dallo scudo rotondo. A differenza del pavimento bobbiese, quello vercellese ha un aspetto meno marcatamente policromo: in realtà, si limita ai due « opposti » colori bianco e nero, con alcuni ritocchi in tessere rossastre. Bianco e nero in duello. Una pubblicità dei nostri tempi, una delle più serie ed equilibrate, rappresenta una scacchiera nei riquadri della quale due immaginari giocatori pongono, come pedine, le loro rispettive ragioni per essere « pro » o « contro » l’energia nucleare. Dalla polarizzazione bianco-nero, sentiti come colori opposti, si potrebbe a prima vista dedurre che quella pubblicità sia tendenziosa, in quanto i pareri « pro » sono riassunti in brevissime frasi scritte in favore del « nucleare italiano » in campo bianco, mentre quelli « contro » sono scritti sul campo nero. Ma non è detto: anzitutto perché l’alternanza-opposizione potrebbe voler sottolineare semplicemente che chi pensa « bianco » sia ottimista e chi « vede nero » (lo dice l’espressione stessa) sia invece semplicemente pessimista; e poi perché nelle scritte i colori s’invertono, e non è detto per nulla che il pessimismo sia considerato ipso facto migliore dell’ottimismo. Il problema dell’alternanza bianco-nero, sotto il profilo etocromatico e antropocromatico, rinvia all’alternanza-opposizione luce-tenebra e giorno-notte: ma è così automatico il collegarla a una che sia sic et simpliciter Bene-Male o magari Vita-Morte, dove il bianco giochi il ruolo positivo e il nero il negativo. È, appunto, una questione di codici cromatici, che possono essere anche molto personali e addirittura intimi. Le posizioni politiche, per esempio, li influenzano: a un anarchico, o a un fasci5. G. LIGATO, La prima crociata nel mosaico di S. Colombano a Bobbio: ideologia e iconografia di una celebrazione, in Archivum Bobiense, XXIII (2001), pp. 243-364; ivi, XXIV (2002), pp. 343-410. XII PRESENTAZIONE sta, il nero parrà positivo o comunque resterà simpatico. C’è poi il fascino di certi aspetti della vita privata e sensoriale: il nero – che, notoriamente, « si addice a Elettra » – piacerà a chi ami il dark, i « bei tenebrosi », le femmes fatales. Il nero è più sexy del bianco. Ma piano, prima di considerarlo colore demoniaco: è anche quello principale dell’ascesi monastica. La stessa positività del bianco, colore di purezza e di vittoria, va corretta tenendo presente che, per gli antichi romani come per i cinesi, si tratta di un colore luttuoso; mentre, per entrambi, il colore festivo e gioioso è semmai il rosso. E nel mondo musulmano il nero è colore califfale, prediletto dal Profeta. Bianco-nero, bianco-rosso, più raramente quel rosso-nero che era comunque già a sua volta fatidico molti secoli prima di Stendhal e della roulette. Quelli che parrebbero i tre colori-base dell’immaginario umano sono stati scelti come qualificanti del più bel gioco del mondo: quello che, già noto ad assiri e babilonesi, si perfezionò in India e da lì passò in Persia dove ricevette il nome con il quale è ancor noto, gli « scacchi », da shah, forma persiana della parola romana Caesar. Gli scacchi, dunque, « gioco dei re », nel quale si simula una battaglia e dove i singoli pezzi (re, regine, torri, araldi, cavalli) rinviano all’esperienza guerriera 6. Ma guerra non già come espressione di furore e di violenza, bensì come gioco di abilità e d’intelligenza. La scacchiera, una tavola di sessantaquattro caselle dai colori opposti sistemati in alternanza, è da allora simbolo dell’intelligenza che regge il mutare delle cose umane e del contrasto fra opposti che le qualifica. Non stupisce che nel medioevo il gioco degli scacchi fosse preso a simbolo della lotta sia spirituale sia politica e che come tale appaia sovente nell’architettura romanica. Anche la vita è una partita a scacchi: ricordate Il settimo sigillo di Ingmar Bergman? I problemi posti dal mosaico vercellese, e che Ligato affronta con vasta dottrina e straordinaria esperienza, sono molti. Cominciamo comunque dal più evidente. Tutte le culture elaborano la loro rispettiva sintassi cromatica, oggetto d’una disciplina che ormai è conosciuta come cromoantropolo6. N. GIFFARD-A. BIÉNABE, Le Guide des Échecs. Traité complet, Paris, 1993; J.L. CAPetite histoire des échecs, Paris, 2009. ZAUX, PRESENTAZIONE XIII gia e che, nel suo versante propriamente storico, conta specialisti affermati quali lo studioso che ne è il capofila, Michel Pastoureau. Nella tradizione occidentale, ci sono colori che sono considerati propri anche di creature spirituali o di esseri umani: per esempio gli angeli, che hanno colori diversi nelle loro rispettive gerarchie, o gli uomini, distinti in « razze » cui si attribuiscono differenti colori posti in rapporto con caratteristiche non soltanto fisiche. In quest’ambito, un ruolo speciale viene attribuito al colore nero 7. Bisogna tuttavia distinguere, in prima istanza, tra la simbolica applicata al valore strettamente cromatico dei colori e quella relativa invece al senso più propriamente cromoantropologico. Sul piano propriamente cromatico, si possono forse seguire le indicazioni fornite da Gilbert Durand e parlare di un « regime diurno » e di un « regime notturno » dell’immagine, sulla base del quale, nelle culture che si affacciano sul Mediterraneo, emerge ben presto la dialettica tra una coppia d’opposti, il bianco e il nero, che però conosce con significati diversi anche quelle bianco-rosso e rosso-nero; come si noterà anche nella simbolica d’origine alchemica a proposito delle tre funzioni-base dell’Ars Magna, cioè albedo, rubedo e nigredo, il colore rosso ha una funzione mediana tra le altre due. Ma sul piano cromoantropologico, il mondo medievale occidentale ha visto molto ridotte, rispetto all’Antichità romana, le sue frequentazioni con l’Africa profonda e quindi con i popoli dotati di quei caratteri che, fino a poco tempo fa, si definivano con l’aggettivo « negroide », oggi divenuto decisamente non politically correct. Una certa familiarità rimaneva tuttavia con popoli dell’Africa soprattutto nordorientale che, pur non essendo portatori di alcuni caratteri cosiddetti « negroidi », presentavano una pigmentazione più o meno profondamente bruna: gli yemeniti, i nubiani, i somali, gli eritrei, gli etiopi. In particolare questi ultimi, che dovevano il loro etnonimo greco proprio a questa caratteristica, e che fino dall’Antichità greca e romana erano famosi per un loro statuto di uomini speciali, abitanti una parte della terra di arduo o impossibile raggiungimento come quella degli iperborei e in speciale rapporto con gli dèi. 7. Cfr. J. DEVISSE, From the early Christian era to the « Age of Discovery », in The Image of the Black in the Western Art, ed. J. DEVISSE et al., II, Lausanne, 1979. XIV PRESENTAZIONE Già nel mondo classico, il colore nero della pigmentazione cutanea, associato magari ad alcuni segnali fisici e in modo speciale somatici, era stato indizio di provenienza dal continente africano: il che aveva dato luogo allo svilupparsi di una serie di ipotesi eziologiche a carattere geofisico sulle quali in questa sede non ci soffermiamo. Le più note sono quella astrologica, che attribuiva a ciascuna costellazione, tra l’altro, un influsso sull’aspetto fisico di chi vi nasceva: ciò ostava però, per evidenti motivi, a comprendere perché in un dato continente tutti, e non solo i nati sotto un certo segno, potessero essere bruni o neri. Più convincente e difatti più diffusa era l’ipotesi fisico-climatica: nascevano neri o comunque intensamente pigmentati coloro che appartenevano ai popoli che vivevano a basse latitudini, dove il sole era più vicino e più bruciante. Per i cristiani, dal momento che l’unità del genere umano derivata dalla Creazione non poteva essere posta in dubbio, si apriva la problematica delle ragioni di quel particolare segnale. Il monaco Melezio vi vedeva un segno della sollecitudine di Dio per l’uomo, che si esprimeva nella moltiplicazione dei caratteri distintivi dei gruppi e delle persone 8; Atanasio d’Alessandria, considerando che il colore della pelle come l’altezza e altri segni esteriori sono ypotaktikà, cioè caratteri secondari e subordinati della natura umana, argomentava che essi sarebbero scomparsi con la resurrezione, allorché ciascuno avrebbe assunto un corpo glorioso nel pieno della sua bellezza e armonia, oltre che nell’età perfetta di trent’anni: il che implicava che gli etiopi sarebbero divenuti bianchi, e sottintendeva che tale tipo di pigmentazione cutanea era quello concepito da Dio come perfetto per l’uomo 9. Ma chi ci mette forse su una traccia più chiara è Arnobio il quale, mettendo da parte le considerazioni antropologiche, torna a un tema che ben si conosceva già nel mondo greco e romano e che d’altronde era presente anche in altre culture – quella persiana mazdea, per esempio – vale a dire la dialettica giorno-notte e luce-tenebra associata a valori, rispettivamente, positivo e negativo: difatti il colore bianco, la dimensione dell’alto e il lato destro erano attributi degli dèi sùperi e delle vittime loro gradite, mentre 8. MELETIUS, De natura hominis, P.G., LXIV, coll. 1279-1282. 9. ATHANASIUS, Liber de definitionibus, 3, P.G., XXVIII, col. 541. PRESENTAZIONE XV invece quello nero, la dimensione del basso e il lato sinistro caratterizzavano gli dèi inferi e le vittime che si sacrificavano loro 10. Del resto, secondo la Prima Lettera di Giovanni, « Dio è luce e niente in Lui è tenebra » 11: e il Cantico dei cantici, oggetto com’è noto di un famoso commento di Origene, specifica con chiarezza che l’essere nigra della Sposa, che pur è formosa, dipende solo dal calore naturale del sole 12. Il colore nero, esaminato alla luce della Scrittura, acquisiva comunque una polivalenza sconcertante di cui erano modello gli etiopi, ora rappresentati come del resto nell’Antichità classica sotto una luce positiva e anzi mostrati come saggi e giusti per eccellenza, ora come figli del demonio che solo la redenzione avrebbe potuto salvare: lo vediamo ancora in Ambrogio e infine in Gregorio Magno il quale nel proprio commento al passo delle Lamentazioni di Geremia in cui si dice che i principi, che erano d’aspetto luminoso e candido come il latte, sono divenuti più oscuri del nero, interpreta tale colore come simbolo della caduta nel peccato 13. È forse a partire dall’Egitto che si irradia la tradizione del « demonio nero »: la troviamo in alcuni testi già protocristiani, come in alcune Passiones di martiri, come quella di Perpetua redatta a quel che sembra dallo stesso Tertulliano alla fine del II secolo d.C.: ma già da allora, e sempre a partire dall’area egiziana, un elemento in controtendenza è rappresentato da santi che hanno chiari connotati nubiani se non addirittura africani, come san Menas protettore di Alessandria. La presenza di neri, in cui i connotati demoniaci, quelli mostruosi e quelli etnici africani si incontrano e si mischiano, si trova nella tradizione epica: e, nella correlativa epigrafia, la « testa di moro » è un caratteristico emblema che sta a indicare gli « infedeli », i « saraceni ». Nell’epica più antica, l’aggettivo che di solito indica la religione di quelli che secondo i casi (e con molte varianti) sono detti 10. ARNOBIUS, Adversus nationes, IV, 7, 19-20, ed. A. REIFFERSCHEID, in Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, IV, Vindobonae, 1875, pp. 253-254. 11. 1 Io 1, 5, ripreso anche da Origene nel Perì Arkon. 12. Canticus Canticorum 1, 5-6. 13. Lamentationes, 4, 7-8; S. GREGORIUS MAGNUS, Moralium libri, 32, 22, P.L., LXXVI, col. 663. XVI PRESENTAZIONE saraceni, arabi, mori, berberi, turchi, persiani, azopard (etiopi), o designati con nomi più fantasiosi, è « pagano ». I nomi degli eroi « pagani » manifestano di solito una certa parentela con il magicodemoniaco: Loquifer, Agrapart, Noiron, Orgueilleux. Il loro aspetto raramente è connotato come soltanto umano, sia pure di un’umanità feroce e stravolta: prevalgono i connotati sovrumanidisumani-antiumani. Sovente il pagano è un gigante, il che richiama la tradizione antica nota attraverso i classici latini ma anche quella scritturale di Golia (va tuttavia ricordato che il gigantismo è di solito un tratto demoniaco, e comunque collegato alla superbia e alla riottosità). Quando non sono giganti, i saraceni hanno tratti diabolici: sono neri, cornuti, digrignano i denti (atteggiamenti che resteranno a lungo anche attestati a livello iconico). Il « catalogo » dei principi dell’armata musulmana nel Roland è un’autentica rassegna teratologica che può esser confrontata con le immagini scolpite nelle cattedrali romaniche: la loro deformità oscilla costantemente tra il ridicolo e il mostruoso 14. La Chanson de Aliscans descrive i saraceni senza remissione: analoghi toni quelli usati in altre chansons, come il Fierabras e il Gormond et Isembart. Diversa la descrizione dello spagnolo Poema de Alfonso XI, dove il ritratto dei saraceni è del tutto ferino, scevro però di caratteristiche grottesche e pregno invece di fiabesca terribilità: sono orsi di montagna, il loro capo è un cinghiale dalle setole d’oro e dalle zanne d’acciaio. È importante il colore nero della pelle dei « pagani ». Può essere senza dubbio frutto dell’osservazione di quegli africani che erano comunemente diffusi come schiavi o che affollavano in gran numero soprattutto gli eserciti, specie in Egitto e in Spagna; solo relativamente tardi saranno associati al colore nero della pelle dei tratti negroidi – capelli ricci, labbra tumide, naso schiacciato –: il nero degli « agareni » è piuttosto quello degli yemeniti, dei nubiani, dei sahariani. Ma esso ha soprattutto un connotato diabolico che proviene dalla tradizione apologetica e patristica, la quale raffigurava i demonî come egizi o etiopi. Da questa immagine, presto radicatasi, la parola Maurus, indicante gli abitanti della Mauritania, che era in origine paraetnica (i « mori », los moros), finì anche con l’indicare – con piccole varianti 14. La Canzone di Orlando, ed. M. BENSI, seconda edizione, Milano, 1993, pp. 194 ss., vv. 860-989. PRESENTAZIONE XVII nelle lingue neolatine e in tedesco – il bruno scuro dell’epidermide e dei capelli. Anche le insegne che la fantasia cristiana attribuisce ai musulmani sono terribili e magico-diaboliche: costoro inalberano infatti teste di moro, serpenti, draghi, scorpioni. Raro invece il crescente lunare, che pure era presente tra gli emblemi saraceni – lo hilal – ma che non aveva ancora colpito l’immaginazione occidentale e che comunque nello stesso Islam non avrebbe avuto impiego diffuso prima dell’età ottomana. L’idea del saraceno come idolatra e dell’insegna della mezzaluna come tipica dei turchi è rimasta a lungo nell’immaginario folkloristico: si pensi difatti alla cultura tradizionale delle coste della Campania, dove le immagini del « saraceno » (che è in qualche modo collegata alla memoria del corsaro barbaresco) e del « turco » sono rimaste molto vive nelle feste religiose come nei racconti, nella musica e nella toponomastica fino alla prima metà del XX secolo. Si tratta comunque, beninteso, di una memoria folklorica che non risale alle incursioni del IX-X secolo, bensì soprattutto a quelle del XV-XVIII. Episodicamente, nelle schiere pagane compaiono anche amazzoni (se ne sarebbero ricordati ancora l’Ariosto e il Tasso) e sagittarii, centauri. Nella Chanson de Roland l’emiro è aiutato da giganti: nel Coronemenz Loois – una chanson databile tra la prima e la seconda crociata – l’eroe cristiano Guglielmo deve battersi contro l’emiro Corsolt, un gigante il cui principato è sito al di là del Mar Rosso; amico e « fratello d’armi » di Guglielmo è un altro gigante, Renoardo, che naturalmente è buono e cristiano ma anche figlio del re saraceno Deramé, il che ne spiega le dimensioni smisurate. Che il saraceno sia adepto del diavolo è provato dai fattori prodigiosi che accompagnano la sua morte: i demonî accorrono spesso a rapire la sua anima quando egli cade nella mischia. Se i cristiani hanno armi protette dalla forza delle reliquie e delle benedizioni, i saraceni debbono il potere delle loro alle arti magiche, alle pietre preziose e alle erbe dotate di influssi arcani 15. È evidente che siamo nell’ambito della lotta tra due opposte 15. Si è qui fatto in generale riferimento a Chansons de Aliscans, ed. F. GUESSARD-A. DE MONTAIGLON, Paris, 1870, p. 4; Gormond e Isembart, ed. B. PANVINI, Parma, 1990; Chansons de Fierabras, éd. A. KROEBER-G. SERVOIS, Paris, 1860, p. 147; Poema de Alfonso xi, in Il Cid e i cantari di Spagna, ed. C. GUERRIERI CROCETTI, Firenze, 1957, p. 471. Rimandiamo per brevità, riguardo a tutte queste descrizioni, a W.W. CONFORT, The Literary Rôle of the Saracens in the French Epic, in Publications of the Modern Language Association of America, LV (1940), pp. XVIII PRESENTAZIONE forze, il Bene e il Male, concepite sulla base dello schema proposto da Prudenzio nella Psychomachia. Ma qualcosa andava cambiando proprio nel corso del XII secolo: e, forse proprio attraverso il « meraviglioso » e il rispetto che s’insinuava fra i cristiani nei confronti dei cavalieri pagani di cui si ammirava il coraggio e si temeva il valore, il colore nero acquisì una sorta di « rivalutazione cavalleresca ». Nel mosaico di Vercelli, che dovrebbe datarsi agli Anni Quaranta circa del XII secolo, il cristiano Fol – bianco e armato di scudo a mandorla crociato – si contrappone all’infedele Fel, semisvestito a parte una gonna – un connotato che potrebbe rinviare per certi versi al tema dell’homo salvaticus –, con scudo rotondo, pelle nera e connotati somatici africani. L’affrontamento è evidente, i dati antropologici precisi anche se non propriamente realistici, ma nell’immagine mancano evidenti dati negativi intrinseci alla figura dell’infedele; lo stesso accade in fondo nella miniatura del trecentesco Salterio Luttrell della British Library di Londra, immagine nella quale un cavaliere che a giudicare dalle insegne reali è Riccardo Cuor di Leone batte in una scena di giostra un Saladino che ha scudo con testa di moro e che è egli stesso di carnagione nero-blu nonché dotato di un profilo che potrebbe essere latamente « diabolico », ma dove gli elementi antropologici di rilievo farebbero pensare an628-659; F. CARDINI, Psicomachia e guerra santa. A proposito di un trattato allegorico-morale duecentesco, in ID., Gerusalemme d’oro, di rame, di luce, Milano, 1991, spec. pp. 397-398; P. SÉNAC, L’image de l’autre. Histoire de l’Occident médiéval face à l’Islam, Paris, 1983. Più in generale: D. POIRON, Il meraviglioso nella letteratura francese del medioevo, Torino, 1988 (orig.: Le merveilleux dans la littérature française du Moyen Age, Paris 1982), passim e spec. pp. 20-26. Sulla rappresentazione degli infedeli nell’epica, ci limitiamo a qualche indicazione: D.C. MUNRO, The Western attitude toward Islam during the crusades, « Speculum », VI (1931), pp. 329-43; COMFORT, The Saracens cit., pp. 628-59; P. ROUSSET, Les origines et les caractères de la première croisade, Neuchâtel, 1945; H.-J. KISSLING, Islam und Kreuzfahrer, in Probleme des 12. Jahrhunderts, Konstanz-Stuttgart, 1968, pp. 243-253; R. HILL, The Christian view of the Muslims at the time of the First Crusade, in The Eastern Mediterraneans lands in the period of the Crusades, ed. P.M. HOLT, Warminster, 1978; P. BANCOURT, Les intérieurs sarrasins des chansons de geste du XIIe siècle et l’art islamique, in Mélanges de langue et littérature fraçaises du Moyen Age (« Senefiance », 7), Aix-enProvence-Paris, 1979, pp. 62-88; ID., Les musulmans dans les chansons de geste du cycle au roi, Aix en Provence, 1982; Images et signes de l’Orient dans l’Occident médiéval, Aix-en-Provence, 1982; A. SERPER, Sarrasins et chansons de geste, in Essor et fortune de la chanson de geste dans l’Europe et l’Orient latin, Actes du IXe congrès international de la Societé Rencesvals pour l’Étude des Épopées Romanes (Padoue-Venise, 29 août-4 septembre 1982), I, Modena, 1984, pp. 179-183. PRESENTAZIONE XIX che all’allusione « realistica » a un nubiano o a un etiope (naso sottile aquilino, dentatura sporgente). Quando quest’immagine fu rappresentata, la « leggenda cavalleresca del Saladino » era già radicata in Occidente; ma già nel Parzival di Wolfram von Eschenbach la figura del « pagano » Feirefiz, avvolta in un alone di affascinante magia – tanto che si è parlato, al riguardo, di una delle prime manifestazioni di vero e proprio esotismo nella nostra cultura medievale – e circondata al tempo stesso da una forte luce positiva (se ne ammirano la bellezza, il coraggio, la magnanimità), è quella di un eroe per metà bianco e per metà nero, a chiazze. Questa compresenza del bianco e del nero, luce e tenebra e spirito e materia come nel beausseant templare, mostra una complementarità più che non un’opposizione. È la medesima che troviamo per esempio nel simbolo del Tao e che riscontriamo nel gioco degli scacchi, nel quale si presenta una dialettica che prevede un intermedio, il rosso, che può giocare da colore oscuro nella dialettica bianco-rosso e da colore luminoso nella dialettica rosso-nero, alternative entrambe a quella, più comune, bianco-nero. Se quindi nella scultura e nella pittura gotiche si continuano a trovare personaggi neri (nel senso di africani) in posizioni servili o infamanti – per esempio, e sovente, nei carnefici o anche tra gli armigeri che accompagnano Gesù nell’ascesa al Calvario o nella crocifissione (due scene che resteranno a lungo privilegiate per la parata dei personaggi e dei costumi esotici: non solo musulmani e africani, ma anche tartari) – a partire dal XII secolo si fa strada una crescente presenza positiva di personaggi neri: tali la regina di Saba, come si vede nella placca smaltata d’ambone oggi nel museo del monastero di Klosterneuburg, che risale al 1181 16; o san Maurizio, capo leggendario della Legione Tebana (che essendo reclutata fra i nubiani doveva esser costituita da legionari neri), il cui nome è in realtà un etnonimo derivato da Maurus 17. Ma il capitolo fondamentale e in certo senso conclusivo di questa storia sta nella vicenda rivelatrice del « re mago nero », avviata alla fine del XII secolo. Finché aveva prevalso la versione dei Magi provenienti « dall’Oriente » o addirittura specificamente « dalla Persia », un nero non avrebbe mai potuto avervi spazio. Ma presto, nell’esegesi 16. The Image cit. 17. Ivi, pp. 149 ss. XX PRESENTAZIONE del Vangelo di Matteo, si era andata facendo strada la versione secondo la quale i Magi erano già stati annunziati dei passi veterotestamentari di Isaia e dei Salmi, dove si parla dei « re di Saba e delle isole »; e qui potevano già entrare dei neri. Quando poi ci s’imbatte nell’esegesi monarchico-feudale della pagina evangelica, con forza sostenuta dal Barbarossa e dal suo cancelliere Rinaldo di Dassel, allora va da sé che un re mago nero deve essere presente fra i tre. I Magi sono difatti i re dei tre continenti, cioè delle tre razze nate dai figli di Noè che hanno ripopolato la terra dopo il Diluvio; a Cam è stata affidata l’Africa; egli è nero. Vi sono naturalmente molte oscillazioni nell’attribuzione del nome dei tre Magi in merito al loro aspetto, alle loro rispettive età, al colore delle loro vesti, al riferimento al continente o alla gente sui quali ciascuno di essi regna: una delle prime immagini in cui abbiamo un mago dal volto nero stava in un manoscritto catalano del XII secolo, purtroppo distrutto 18. Naturalmente, inservienti e cammellieri neri entrano nel corteggio dei Magi, come si vede in molte immagini (nel pulpito della cattedrale di Siena opera di Nicola Pisano, per esempio): ma l’elemento qualificante è il comparire di un mago nero, i cui connotati somatici possono variare dal nubianoetiope al negroide e nei quali, in molti casi, sono evidenti ritratti realistici dei diversi tipi africani, molto diversi tra loro. Il mosaico vercellese esprime bene l’idea di sanctum bellum e di lotta fra opposti e inconciliabili princìpi, secondo un sentire che collegava, in pieno XII secolo, gli eventi di Siria-Palestina a quelli della penisola iberica; testimonia di una fase importante nella dinamica della rappresentazione del « nero » come « Altro »; nello stesso tempo mostra un’immagine della cavalleria come militia huius saeculi, dai capelli curati e dalle vesti eleganti, che è esattamente quella condannata con rigore da Bernardo di Clairvaux nel Liber de laude novae militiae. Temi « crociati », temi « cortesi », demonizzazione del nemico e stilizzazione etico-etnologica s’incontrano in modo mirabilmente chiaro e al tempo stesso estremamente complesso in quest’opera musiva, alla quale lo studio di Giuseppe Ligato sa restituire appieno la sua significativa pregnanza. FRANCO CARDINI 18. The Image cit..