Ruolo della donna nello sviluppo rurale
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Ruolo della donna nello sviluppo rurale
Il Ruolo della donna nei processi di sviluppo delle comunità locali Stefania Gandolfi UMMI, Verona, 14/12/2013 L’affermazione “La donna è l’avvenire dell’uomo” diceva Louis Aragon, è ancora attualissima oggi in cui vediamo come le donne sono il nucleo della famiglia e delle comunità, sono la forza dei legami sociali, dell’economia e del piccolo commercio in genere anche se a livello di statistiche nazionali esse risultano spesso invisibili. Nei paesi del Sud le donne sono responsabili della metà della produzione mondiale di cibo, con un'oscillazione che va dal 60% all'80%, con un picco del 79% in Rwanda rispetto alla produzione agricola. Notevole è il loro contributo alla sicurezza alimentare, provvedono per il 90% alla produzione di mais, riso, frumento, si occupano della semina, irrigano, applicano fertilizzanti e pesticidi, mietono e trebbiano. Creano e gestiscono gli orti domestici e gli ortaggi che spesso sono l'unico alimento disponibile se il raccolto principale è andato male. Dal loro lavoro intere comunità traggono benefici, sia sociali che economici soprattutto quando riescono ad avere accesso alla terra, all’acqua, all’istruzione, alla formazione, al microcredito. In questi casi le donne diventano imprenditrici, creano piccole unità di produzione, di conservazione, di commercializzazione che aiutano un’intera comunità. Lo stesso accade per i piccoli atelier di tessitura, di fabbricazione di sapone o di mattoni per l’edilizia, di gestione dei pozzi e dei mulini che partono dalle donne e coinvolgono interi villaggi. Stimolare la capacità di guadagno delle donne è un importante passo avanti per migliorare il loro status in genere. La maggiore autonomia e l’auto-stima vanno di pari passo con autonomia sociale ed economica. Le donne hanno compreso che il lavoro di squadra, sia sottoforma di gruppo o di rete, rappresenta il modo più efficace per guadagnare accesso alle attività e ai servizi di cui necessitano e per ampliare le loro opportunità. Gli studi della Banca Mondiale rivelano che in molti paesi dell’Africa sub-Sahariana, la produzione alimentare potrebbe aumentare dal 10 al 20%, se le donne avessero meno ostacoli da superare, soprattutto culturali che poi diventano burocratici e di relazione. Nelle Ande peruviane, ad esempio, si è sperimentato uno schema di risparmio e di microcredito per promuovere l’autonomia finanziaria delle donne e questo ha incoraggiato oltre 7.000 donne ad aprire un conto di risparmio. La domanda per questo servizio è aumentata, quando le donne si sono rese conto che i risparmi davano loro accesso al credito e offrivano sicurezza per la famiglia. 1 Gli studi della FAO dimostrano come, in molti Paesi del Sud, se è vero che le donne sono le leve principali dell'agricoltura, è anche vero che esse sono le ultime a godere dei benefici della crescita economica e dei processi di sviluppo. Gli agricoltori sono generalmente considerati 'maschi' dalla pubblica opinione così come nelle analisi dei piani strategici di sviluppo, e ciò riduce la possibilità delle donne di accedere alle terre, ai finanziamenti, ai servizi agricoli di base, possibilità che potrebbero dare notevoli input alla capacità di produzione. Anche se le donne sono le principali produttrici di cibo del mondo, restano partners invisibili dello sviluppo perché il loro contributo all'agricoltura è scarsamente sottolineato e altrettanto scarsamente compreso, cosa che le rende le grandi assenti dai piani di sviluppo. Anche i cambiamenti significativi del settore rurale hanno spesso colpito il ruolo della donna, hanno penalizzato il suo agire a cominciare dall’accesso e dal controllo delle risorse, dalla terra perchè in media hanno appezzamenti più piccoli e di minore qualità, hanno meno input tecnologici moderni (sementi migliorate, fertilizzanti ecc.), meno credito e servizi finanziari Per la FAO la chiave per il miglioramento della produzione e della distribuzione del cibo e dei prodotti agricoli, per sconfiggere la povertà e la fame, per promuovere lo sviluppo sta nell'empowerment delle donne. Proprio questo è stato il tema prioritario della Commission on the Status of Women, (CSW) del 2012. Quando sono economicamente e socialmente autonome le donne diventano un potente vettore di cambiamento. Nelle aree rurali dei paesi del Sud del mondo assumono un ruolo chiave nella gestione della famiglia e della comunità con un carico di lavoro eccessivo che costituisce un enorme peso (in termini di mobilità e di energia) il cui effetto si fa sentire sul loro stato di salute, sul benessere e sulla loro produttività. Inoltre la mancanza di possibilità di formazione, di informazione, di accompagnamento destinati alle donne in diversi settori quali l’alfabetizzazione funzionale, la contabilità, la tenuta di libri contabili, la gestione di imprese, le tecniche agricole incidono sull’ efficacia e sui risultati del loro lavoro. Questo è un tratto comune che interessa certamente i paesi del Sud ma - con le dovute differenti proporzioni e gravità – anche paesi con economie a reddito più elevato e conferma che la nuova realtà dello sviluppo, nell'epoca della globalizzazione in cui viviamo, significa anzitutto lotta alla discriminazione, per la parità, significa chiamare tutti ad affrontare sfide comuni, a mobilitarsi per elaborare progetti e diritti per tutti. E questo perché la sfera economica non è separabile dalle condizioni sociali, educative e valoriali di una comunità alle quali il lavoro delle donne imprime un significato importantissimo anche rispetto alle nuove generazioni. 2 Ogni donna, oltre a farsi carico del lavoro, ha un ruolo comunitario importantissimo che parte dalla famiglia per allargarsi alla comunità in cui crea e rafforza il tessuto connettivo, la coesione, la responsabilità dei singoli membri, la produzione, l’organizzazione per assicurare un consumo collettivo, il mantenimento e la gestione di risorse. Potremmo dire che le donne sono il perno di due solidarietà: sincronica, con le persone che le circondano e diacronica per la loro costante attenzione nei confronti delle generazioni future anche se, troppo spesso, le guerre, la migrazione degli uomini verso la città in cerca di lavoro retribuito, il dilagarsi dell'AIDS, le porta a rivestire anche il ruolo di 'capofamiglia', con una conseguente quasi totale femminilizzazione dell'agricoltura, che significa un di più nella capacità di produrre, provvedere e preparare cibo cercando di superare ogni forma di ostacolo. Il tema del ruolo della donna può essere affrontato da due prospettive: quella dello sviluppo della loro condizione in ambito rurale (lotta alla povertà, sicurezza alimentare, accesso ai servizi sanitari, accesso al microcredito, accesso ai mercati,) e quella della promozione dei loro diritti (lotta alla discriminazione, partecipazione ai processi decisionali, diritto all’educazione, alla formazione e all’informazione)”. Le due prospettive sono complementari e devono essere tenute insieme in quanto costituiscono un binomio: non c’è sviluppo senza progresso sul piano dei diritti”. 1. Le Conferenze Il ruolo delle donne nei processi di sviluppo è diventato il nucleo della nuova strategia contro le discriminazioni e per l'uguaglianza di genere. Esse, infatti, risultavano doppiamente penalizzate per il fatto di vivere in contesti di povertà e di essere donne: le loro condizioni nelle comunità di appartenenza, nello sviluppo rurale, nel lavoro agricolo, nella pianificazione familiare e in conseguenza delle innovazioni scientifiche e tecnologiche sono state al centro del lavoro della CSW. Nel 1980, a metà percorso del decennio in favore delle donne, fu convocata la Conferenza di Copenaghen, per valutare i progressi conseguiti e aggiornare il Piano d'azione. Occupazione, salute e istruzione furono identificati come i tre assi prioritari d'intervento. Nel 1985 la terza Conferenza mondiale delle Donne organizzata dall’ONU a Nairobi con la presenza di 157 Stati il cui documento conclusivo fissava le misure per raggiungere l'uguaglianza di genere a livello nazionale e per promuovere la partecipazione delle donne nei processi di pace. Tra gli anni Ottanta e Novanta si è realizzato un passaggio terminologico importante, dall'approccio centrato sul "ruolo delle donne nello sviluppo" a quello focalizzato sul nesso tra 3 "genere e sviluppo", Women in Development (WID) che partiva dalla constatazione dell’esclusione delle donne dai processi di sviluppo ritenendo che esse non avrebbero potuto trarre alcun beneficio dalla crescita economica fino a quando non si fossero migliorate la loro condizione e la loro integrazione nelle dinamiche dello sviluppo economico, politico e sociale. Per la cooperazione allo sviluppo ciò significava garantire alle donne maggiore accesso ai servizi, più opportunità occupazionali e la possibilità di accedere a posizioni di comando e di guida politica. Recuperare una risorsa esclusa dallo sviluppo significava anche poter aumentare l’efficacia degli aiuti, semplicemente trattando le donne alla pari degli uomini. A partire dagli anni novanta si sviluppò un approccio alternativo, definito Gender and Development (GAD), secondo cui le donne devono essere considerate come soggetti attivi dei processi sociali. Operativamente, significa dare meno peso a interventi di assistenza e dare, invece, maggiore rilievo allo sforzo di contrastare sistemi, strutture e processi che creano svantaggi e disuguaglianze sociali. Non si tratta semplicemente di “aggiungere” le donne nei processi di sviluppo, ma di ripensare alla radice obiettivi e strategie di sviluppo, in una prospettiva di genere L'evento più importante per l'agenda politica relativa alle donne è stata la Conferenza di Pechino del 1995 che ha identificato 12 aree di crisi su cui concentrare le azioni. ▪ L’accesso disuguale, la disparità e l’inadeguatezza nell’assistenza sanitaria e nei servizi; ▪ La violenza contro le donne; ▪ Le conseguenze dei conflitti armati o di altro genere sulle donne, incluse quelle che vivono sotto occupazione straniera; ▪ La disuguaglianza nelle strutture economiche e politiche in tutte le forme di attività produttive e nell’accesso alle risorse; ▪ La disuguaglianza tra donne e uomini nella distribuzione del potere decisionale a ogni livello; ▪ I meccanismi inadeguati a ogni livello per promuovere il progresso delle donne; ▪ Il mancato rispetto dei diritti fondamentali delle donne e la loro inadeguata promozione e protezione; ▪ La stereotipizzazione delle immagini delle donne e la disuguaglianza nel loro accesso e partecipazione a tutti i sistemi di comunicazione, e in particolare ai mezzi di comunicazione di massa; 4 ▪ Le disuguaglianze di genere nella gestione delle risorse naturali e nella salvaguardia La Conferenza mondiale di Pechino ha dimostrato che le donne, a livello mondiale, stanno costruendo un linguaggio universale con il quale affermare che i diritti umani sono tali e sono universali se si riferiscono alla realtà concreta delle donne e degli uomini, se affermano la pari dignità di libertà, di condizione, di partecipazione sociale e politica di donne e di uomini, se tutelano il valore dell'integrità, dell'inviolabilità del corpo. La Dichiarazione conclusiva ha focalizzato l’empowerment femminile, inteso come processo multidimensionale di mutamento nelle relazioni di potere a livello individuale, famigliare, comunitario, istituzionale e di mercato e come partecipazione al processo decisionale e acquisizione di potere da parte delle donne in particolare: ▪ ▪ ▪ potere su” ”: si riferisce al potere di dominazione e subordinazione esercitato dagli altri; potere di”: riguarda l’accesso e il controllo sulle risorse materiali e immateriali che consentono di essere parte attiva nei processi di decisionepotere con ” : il potere politico e sociale di definire, raggiungere e/o difendere collettivamente obiettivi comuni. Per misurare l’empowerment tre sono le dimensioni, distinte ma tra loro, ma interconnesse: • le risorse, materiali, sociali ed umane, il cui controllo rappresenta la pre-condizione della crescita e dello sviluppo delle donne • • la libertà di scegliere e agire secondo i propri obiettivi il riconoscimento dei Diritti dell’uomo Considerare le persone come unità di base delle politiche di sviluppo sottende la visione kantiana, secondo cui ciascun essere umano deve essere trattato come un fine in sé e non come un mezzo per soddisfare gli obiettivi altrui. Dato che il motore dello sviluppo è la libertà degli esseri umani, ogni individuo, nei limiti delle sue possibilità, è chiamato ad agire sulla base di questi principi. 2. La povertà delle donne La povertà non è una fatalità, è una povertà di diritti. Lo dimostrano le molteplici esperienze che si riscontrano ovunque nel mondo e non è solo dovuta alla mancanza di reddito per soddisfare i bisogni essenziali. E’ anche l’incapacità di alcuni, nello specifico delle donne, di trarre profitto dalle risorse disponibili per vivere degnamente; è la negazione dei diritti e in particolare di quel diritto umano fondamentale che è il diritto alla vita. E’, secondo Anna Arent, l’essere privati del diritto ad avere diritti. Non dobbiamo accorgerci di questo solo di fronte a persone che i diritti li hanno persi, come è il caso delle donne soprattutto in alcuni paesi. Essere private dei diritti significa non avere un posto nel mondo, non appartenere a nessuna comunità, non avere legami sociali e politici, non poter 5 esprimere la propria opinione. Le persone “private dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovano ad essere senza alcun diritto, schiuma della terra”1. La definizione, molto diffusa, che considera la povertà come assenza o insufficienza di mezzi che permettono di soddisfare i bisogni primari pone principalmente due problemi: uno epistemologico, legato alla stessa definizione di povertà, e uno etico relativo al legame che esiste fra ineguaglianza e ingiustizia. I bisogni primari non sono solo quelli che soddisfano le nostre necessità fisiche ma sono libertà, ossia risorse da spendere e, secondo Sen, capacità di cui ciascuno si può avvalere per impostare la propria vita. L’insoddisfazione dei bisogni primari si traduce spesso in un conflitto fra ‘pane e libertà’: le libertà aumentano se i diritti vengono garantiti a tutti anche se senza pane le libertà di espressione, di associazione, di religione, di coscienza, di partecipazione attiva potrebbero essere indebolite. A partire da una prospettiva indiana Upenda Baxi sostiene che i problemi “non sono pane e/o libertà in astratto ma piuttosto si riferiscono a quanto se ne possiede, per quanto tempo, a quale prezzo e perché. Alcuni hanno sia l’uno che l’altra, altri hanno la libertà ma poco pane o addirittura ne sono privi; altri hanno un mezzo pane ma senza libertà; altri ancora hanno un mélange precario in cui il pane è assicurato se alcune libertà vengono barattate. Il problema dei diritti dell’uomo, nelle situazioni di povertà di massa, è un problema di redistribuzione. In altri termini è un problema di sviluppo”2. E questa è la condizione in cui vivono le donne oggi nei paesi del Sud. Esse non riescono più ad uscirne da sole. Il problema è che la società nel suo insieme non si dà i mezzi per cogliere questa sfida e continua a trattare la povertà in termini di bisogni da colmare. Ciò spiega in parte l’incoerenza e l’inefficacia degli obiettivi del Millennio e delle campagne di lotta alla povertà. Un approccio basato sui diritti dell’uomo non consiste nel ridurre o nel tamponare i bisogni ma nel rendere effettivi i diritti in quanto ogni diritto crea e aumenta le capacità. I bisogni si sommano, le capacità si moltiplicano valorizzandosi reciprocamente nella loro struttura intima costituita da diritti, libertà e responsabilità”3. La povertà delle donne è multidimensionale e può essere spiegata come la risultante di una doppia difficoltà di integrazione economica, politica e socio-culturale in cui la dipendenza, l’esclusione sociale, la negazione dei diritti rappresentano i fattori che influiscono sulla produzione e riproduzione della povertà. Per le donne c’è una povertà economica che include consumo, reddito e produzione, c’è la dimensione protettiva riferita alla sicurezza e alla vulnerabilità, quella umana relativa alla salute, all’istruzione e alla nutrizione, quella socioculturale relativa alla dignità e allo status ed infine quella politica connessa ai diritti dell’uomo, alla capacità di prendere decisioni e alle libertà. Sono cinque dimensioni che si intrecciano fra di loro e fanno sistema. E’ una povertà che sottolinea, da 1 ARENT Anna, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996, p. 372 BAXI Upenda, From Human Right to be Human: Some heresies, 1991, pp.152-153, in C. EBERHARD, La pauvreté comme violation des droits de l’homme, Enjeux et perspectives d’une dynamique émancipatrice. Contribution à la journée Internationale pour l’élimination de la pauvreté, Unesco, Paris, 2004 3 Haut Commissariat des Droits de l’Homme, Les droits de l’homme et la lutte contre la pauvreté, Cadre conceptuel, Genève, 2004, p. 12 2 6 un lato, i legami fra il giuridico, il politico, l’economico e il culturale e, dall’altro fa vedere il fossato che si crea fra teoria e pratica dei diritti dell’uomo. La povertà delle donne impedisce loro di diventare ‘attori collettivi e rappresentativi di costituire un soggetto per l’azione sociale. Se parliamo di povertà sia in termini assoluti che in termini relativi si vede che la forbice fra ‘coloro che hanno diritti’ e ‘coloro che non ne hanno’, fra i pochi che possono e i tanti che non possono si ingrandisce sempre di più e ci fa assistere all’esclusione crescente di un numero di persone, in particolare di donne che abitano il nostro ‘villaggio globale’. Di fronte a questa realtà siamo poveri tutti. Non solo quelli che vivono, toccano con mano e soffrono la povertà ma anche coloro che “avvertono non solo il disagio personale, ma anche l’inaccettabilità sociale di un mondo nel quale attraverso la povertà, vengono privati della dignità e dell’umanità stessa delle persone”4. Come assicurare la tutela dei loro diritti? Se si riconosce la povertà come violazione dei diritti non si devono dimenticare i meccanismi di protezione dei diritti che richiedono risorse importanti e non sempre disponibili in tutti i contesti, e, per questo, spesso ci si limita a dichiarare ed affermare i diritti senza pensare alla loro effettività e applicabilità. La povertà non è uno status ma una violenza, è il risultato di una ingiustizia e di una indifferenza politiche continue. E in questo caso la violenza è doppia in quanto si viene meno a un dovere che tutta la società ha nei confronti delle donne. Come allora arrivare al riconoscimento e alla dignità per tutti, alla pertinenza dell’educazione soprattutto per le donne rurali senza cadere nel rischio di una ‘sotto-educazione’, di un’educazione al ribasso, o, meglio ancora, di un’educazione a due velocità che costituisce la prima condizione di chiusura, di povertà e di predestinazione sociale di cui le donne sono vittime? Se osserviamo le offerte formative presenti nelle zone rurali i maggiori ostacoli non solo riflettono la fragilità delle capacità istituzionali che attraversa tutto il settore educativo ma si accentuano soprattutto a livello di accessibilità e di dotazione in quanto i problemi legati al contesto rurale richiedono soluzioni appropriate e non risposte standardizzate. Educazione e sviluppo sono due facce della stessa medaglia. Mettere l’educazione al centro delle preoccupazioni significa che lo sviluppo va costruito partendo dalle conoscenze, dai bisogni, dalle condizioni, dalle possibilità effettive, dalla partecipazione di ogni persona e collettività. Ed è solo l’educazione che può costruire le fondamenta di questo sviluppo; essa è chiamata a rispondere alle sfide del futuro, a stabilire nuove relazioni che rafforzino le basi del sapere e del saper fare, a costruire legami di interconnessione fra la situazione socio-economica di un paese, i suoi bisogni e i suoi limiti sociali, a creare legami più stretti fra economia e cultura, a costruire nuove sinergie per disegnare un destino collettivo, per coltivare un quadro democratico e di giustizia sociale basato su uno spirito di equità e di uguaglianza, su nuove competenze e profonde spiritualità. 4 RODOTA’ S., Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari, 2012, p. 234 7 8