Un succo naturale, grazie \- Anteprima

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Un succo naturale, grazie \- Anteprima
MATTEO GENNARI
Un succo naturale,
grazie - Anteprima
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Q u e s t o l i b r o è s t a t o r e a l i z z a t o c o n B a c kTy p o
( h t t p : // b a c k t y p o . c o m )
un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
IL BAR
2
L'ARRIVO
5
IL TRAUMA INFANTILE
15
RIO
20
IL BAR
Sono seduto in questo bar, da 10 anni. Non
ricordo la prima volta. Le cameriere sono
cambiate. Ce n´era una.. che importanza ha?
Il tempo non è cambiato. Tendenzialmente
caldo. Con qualche giorno piovoso. E vento,
molto vento. Siamo a Barra da Tijuca, Rio de
Janeiro. E io sono un professore di italiano. A
questo tavolo, segnato dal numero 13, mi
raggiungono i miei alunni. Sono tavoli all
´aperto. Mentre io gli spiego la grammatica
(ormai a memoria e senza più guardarli in
faccia) fisso gli avventori, mia vera attrazione.
Questo è un centro imprenditoriale.. Mi è già
venuto a noia, quello che sto scrivendo.
Meglio erano i sette romanzi che ho già scritto
in questo bar, 6 in italiano, 1 in portoghese.
Adesso ve li racconto.. No, adesso vi presento
Marilia, l´attuale cameriera, la più simpatica.
Un
viso
piccolo,
capelli
corti,
è
bianca,
maglietta chiara, con lo stemma del bar sopra,
grembiale marrone, con lo stesso stemma.
Vive in un gruppo di favelas qui vicino. Oggi
non sono più favelas, ma quartieri poveri.
Meno malfamati di un tempo, controllati dalla
polizia, spesso corrotta. La violenza però è
diminuita e Marilia è più tranquilla. Non so se
è sposata. Con me è sempre gentile, quando ha
saputo che mi piace cantare e che avevo
inciso, amatorialmente, due canzoni, le ha
volute ascoltare e mi ha fatto i complimenti.
Oggi
mi
chiama
per
nome,
prima
mi
chiamava professore. Quasi tutti mi chiamano
professore, qui. Sono rispettato ed io mi sento
un po´ un imbecille, ma è il mio lavoro. Sono
un professore. Da più di 20 anni. Lezioni
private,
principalmente,
ho
avuto
anche
qualche classe, ma preferisco le lezioni private,
mi coinvolgono meno. E mi lasciano più
tempo per pensare e per scrivere. E se vi
raccontassi,
dettagliatamente,
i
miei
7
romanzi?
In questo bar ho avuto diverse crisi di
diarrea. Anzi forse è il cibo qui mangiato e i
troppi
caffè
che
´infiammazione
mi
hanno
cronica
causato
intestinale
un
che,
spesso, mi fa stare male. Tante, troppe volte
mi sono alzato dal tavolo 13 e sono corso verso
il bagno (che è dall´altra parte del centro). Le
crisi mi lasciano un po´ depresso e sognante. E
fatalista, è stata la diarrea a trasformarmi in un
fatalista. Oggi non ho più paura di niente, e la
morte è l´ultimo dei miei problemi.
L'ARRIVO
Chiesi al tassista di portarci dove stavano
festeggiando. Quello mi intese e si diresse
verso
il Pelourinho,
il
centro
storico.
In
macchina girava lo sguardo verso me e verso
Fabio, seduto dietro. Parcheggiò davanti a un
mini market; ci chiese uno sproposito e noi
pagammo senza battere ciglio. Lui uscì dall
´abitacolo
gridando
di
felicità.
Entrò
nel
mercato, poi riapparve con la spesa fatta;
ricordo che comprò vari cartoni di latte
Parmalat per i figli.
Ed eccoci io e Fabio Savoldelli, davanti all
´ostello. Pousada Jô. C´era una luce strana, forti
odori. Il vento muoveva le cime delle palme.
Molta gente ci guardava, era pieno di neri ed io
non ci ero abituato.. era il 2003 e l´Italia era
diversa, meno meticcia di quella attuale.
Io non avevo la carta di credito, era il primo
viaggio intercontinentale. Tenevo una busta
con mille dollari, sopra alle mutande. Non mi
fidai della proprietaria che ci indicò delle
piccole
casseforti,
in
fila
sulle
scale.
Se
avessimo voluto, lei ci avrebbe dato un
lucchetto.. Fabio era il mio specchio, io ero lo
specchio di Fabio. Famelici, pieni di vita, di
ansie, di desideri ma anche di tensioni,
venivamo da situazioni definitive, “eravamo
alla frutta”. Lui s´era separato dopo anni di
convivenza, io facevo l´insegnante in una
scuola privata in centro Milano, mi ubriacavo
quasi tutti i giorni, prima di entrare in classe
mi facevo uno o due bicchieri di rosso... Il
Pelourinho è un quartiere di casette colorate,
in stile coloniale, circondato da favelas. Molti
turisti, poliziotti e povera gente.. in lontananza
il mare maestoso e un ascensore, l´Elevador
Lacerda che permette di accedere al Mercato,
con gli odori di acarajé, di olio di cocco, di olio
d i dendê e le grida, le donne vestite di bianco
con i foulard attorcigliati attorno alla testa;
bambini, mocciosi dappertutto.. il mio primo
approccio si chiamava Icaro, aveva nove anni,
parlava italiano, la faccia da scugnizzo.
- Zio, vuoi che ti vado a comprare dei
sandali?
Beh, in effetti, pensai, avrei proprio bisogno
di un bel paio di..
- Ho solo una banconota da 50, quanto ti
serve?
- Non ti preoccupare, te li vado a cambiare.
Mi fidai, gli porsi il denaro e lui sparì tra i
vicoli.
Io nemmeno mi arrabbiai. Ero intontito dal
viaggio, dagli odori, dai neri, dalle nere, c´era
una certa agitazione e Jô, la proprietaria della
pousada, ci aveva detto che eravamo arrivati
nel giorno della festa di San Giovanni. Ed
eravamo nel Pelourinho, il centro di Salvador,
dove venivano portati gli schiavi e, dopo
essere stati esaminati, erano venduti. Alle volte
venivano frustati e uccisi in piazza, in quella
stessa piazza che adesso ci riconosceva come
turisti in cerca di emozioni. Molti baracchini
che vendevano bibite e io volevo provare la
caipirinha. Ne bevvi quattro o cinque di
seguito. Il sole tramontò e noi seduti ai tavolini
ci stavamo ubriacando come facevamo in
Italia. Dopo il settimo bicchiere, io mi alzai,
raggiunsi un baracchino colorato, pieno di
frutta, lessi i nomi delle bibite e decisi che
avrei sperimentato il Capeta, che allora non
sapevo significasse Demonio. Ma non avevo
più soldi in tasca, allora misi la mano sotto alla
maglietta, estrassi una banconota da dieci
dollari e, veloce come il vento, una bambina si
intromise e mi portò via i soldi. Anche questa
volta non me la presi.
Adesso era buio e l´oscurità in Brasile è più
nera che in Europa.. quando mi accorsi che
Fabio stava comprando dell´erba, era troppo
tardi. Il mio collega di viaggio, il bel Savoldelli
dai capelli neri, figlio unico come me, viziato,
coccolato,
come
me
al
limite
della
tossicodipendenza o della psicosi, aveva fatto
amicizia con Junior e Puma.
- Io faccio capoeira e sono buono – affermò
Junior (dopo tutta quella caipirinha, ormai
capivo il portoghese!) – Lui invece è cattivo..
Parevano usciti da un fumetto. Puma col
berrettino di lana, la barba, i pantaloni sporchi
della tuta dell´Adidas; Junior grassottello, in
bermuda. – Non vogliamo niente, grazie.
- Niente, un cazz.. – Fabio parlava in dialetto
– io voglio sballare! – e allora sballiamo!,
pensai io e cominciò una lunga trattativa tra il
mio collega e i due. Eravamo nella piazza
centrale, quella con la casa di Jorge Amado e il
museo, tra i baracchini, i negri festanti, le
donne con i foulard bianchi, i mocciosi, gli
odori di spezie.. Fabio entrò in una via laterale,
era sorvegliata dalla polizia ma forse c´era un
accordo tra le parti; quando tornò, credo che
ci sedemmo in un tavolino e fumammo
assieme ai nostri due amici.
- Io sono buono, faccio capoeira – gli offrii
da bere perché mi stava simpatico; Puma
invece non diceva niente, ci fissava, chi
eravamo, cosa eravamo per lui? In quel
momento non ci pensavo, eravamo appena
sbarcati e stavamo “sballando” da matti..
ricordo io e lui in macchina, a Pesaro;
passando sotto il cavalcavia Fabio disse “dopo
questo viaggio, non saremo più gli stessi” e io
non sapevo che pensare.. Stessa reazione
quando un comune amico, Bolo, in spiaggia,
aveva profetizzato “per me, tu non torni”.. e
poi i numerosi amici, conoscenti di Fabio e
Bolo, quando avevano saputo che andavamo
in Brasile, ci avevano preso in disparte tra i
lettini
e
ci
avevano
raccontato
le
loro
esperienze a Copacabana con le puttane.
Non ricordo quando ci separammo da
Junior e Puma. Quello con la tuta però aveva
cominciato a infastidirci chiedendoci altri
soldi per l´erba che Fabio gli aveva già pagato.
E io mi innervosivo e invitavo il mio amico ad
andarcene. Alle tre entrammo in una discoteca
con musica reggae, vicino al Pelourinho e
bevemmo ancora, stavolta della birra. C´erano
delle ragazzine con le borsette, parevano
prostituirsi. Fabio trovò una donna e le chiese
di venire con lui nell´ostello, ma Jô gli proibì
di portarla in stanza.
Al mattino, con un mal di testa terrificante,
stavamo
mangiando
frutta
e
pane
e
osservando la luce, i colori; tutto pareva
strano, un´incredibile energia nell´aria, una
forza spirituale fatta di lacrime, sesso, poesia e
istinti di morte, grida disperate piene di vita,
canzoni, un´impossibile leggerezza.. - Avrete
dei
problemi
-
affermò
Jô,
la
bella
Jô,
amorevole come una mamma. Fuori dall
´ostello ci aspettavano Puma e Junior, vestiti
come la sera precedente (e forse avevano
dormito per terra). “Te l´avevo detto, cazzo!”,
imprecai
perché
alcolizzato,
ma
io
ero
un
mantenevo
drogato,
sempre
un
una
candela accesa, un filo diretto col mio angelo
custode..
- Puma vuole che gli paghiate l´erba
- E tu digli di non romperci i coglioni! –
Fabio s´era innervosito.
- Io sono buono, ma lui.. – replicò Junior.
Eravamo in strada, in mezzo ai rifiuti, ai
camion della spazzatura e Jô ci osservava. Era
una donna sulla trentina, capelli corvini, corpo
da ballerina.. - Se volete, vi faccio da guida
turistica, voi mi pagate quello che potete –
questa fu la proposta di Junior, quasi un
compromesso.
Andammo così in spiaggia, al Forte, io, Fabio
e Junior. Puma a cinquanta metri, seduto, con
la tuta, sulla sabbia, ci fissava. – Finché resterò
con voi, non vi succederà niente.. -. Provai a
rilassarmi, a non pensarci. Il mare era bello,
calmo, si vedevano gli scogli sotto. C´erano
delle famiglie come a Pesaro, persone che
correvano, in molti mangiavano piatti di pesce
appena pescato e fritto sul posto.. Ma Puma,
senza
mangiare,
senza
bere,
impassibile,
voleva i suoi soldi. Prendemmo l´autobus e lui
si sedette dietro, negli ultimi posti. Ricordo dei
ragazzi, forse drogati, che battevano sulle
sedie e gli usciva la bava dalla bocca mentre
cantavano. Ricordo una piazza, un mercato,
strapieno di gente, molte grida, gli odori e la
luce erano diversi, erano strani, a Rio de
Janeiro non trovai quegli odori, quella luce e
nemmeno quell´energia. Pareva che tutto il
male e tutto il bene del mondo potessero
realizzarsi
in
quella
piazza
a
qualsiasi
momento. Mangiammo del pesce, del riso e
dei fagioli. Junior ci ringraziò per il pranzo, io
ogni tanto lo guardavo indicandogli l´amico
seduto a pochi metri da noi, muto, senza sete,
senza fame, che aspettava il resto dell´erba. –
Fabio, dagli i soldi e mandalo affanculo.
- Poi ce ne chiederebbe degli altri!
La sera non uscimmo dall´ostello e io
cominciai a sentire nostalgia dell´Italia, pensai
che il Brasile non era fatto per me e ipotizzai
di telefonare a mia madre. “Ero alla frutta”, di
nuovo. “Sono sempre al capolinea, in Italia
come in Brasile”.. lo spettro della depressione
divenne realtà quando, la mattina, dopo aver
bevuto
il
caffè
ed
esserci
preparati
per
incontrarci con Junior che ci avrebbe mostrato
le chiese della città, scorgemmo Jô con il viso
preoccupato. Fuori dalla porta della pousada,
davanti alla scalinata piena di bambini che
giocavano
con
delle
specie
di
biglie
e
gridavano e parevano aver dormito per strada
tanto erano sporchi, vidi Puma e Junior. Io ero
ansioso e pieno di rabbia verso Fabio che
aveva provocato quell´inconveniente e non era
capace di risolverlo e verso Puma che avrei
voluto affrontare. Ma la candela della ragione
(il
filo
diretto
col
mio
angelo
custode)
consigliava di rimanere calmo, almeno di
fingermi calmo. Non volli parlare nemmeno
con Junior perché era chiaro che anche lui non
era buono, nonostante la capoeira, i valori del
maestro e tutte quelle stronzate. Credo che nel
tragitto verso l´ascensore Lacerda, vidi anche
Icaro, il bambino dei sandali, che mi salutò,
senza preoccuparsi di avermi fottuto 50 reais.
In prossimità dell´ascensore Fabio il pesarese
si avvicinò all´edicolante (poi scoprii che a
Salvador come a Rio la maggior parte dei
proprietari di un´edicola sono discendenti di
italiani) e gli chiese un pacchetto di Marlboro.
Quello, magro coi baffi, ci fissò, capì al volo
che eravamo italiani e disse qualche parola sull
´Italia. Io non replicai, anzi lo scrutai. Lui notò,
dietro di noi, gli individui. – Sono vostri
amici? – chiese e io rimasi muto, con lo
sguardo da cane bastonato. L´uomo mise la
mano vicino alla cassa, estrasse una P38 e la
puntò verso i due mulatti. – Andate via, figli di
puttana! – gridò e i due compari finalmente ci
lasciarono in pace.
Ritornammo a Salvador un mese dopo
perché
dovevamo
prendere
il
volo
per
Bologna. Io avevo rotto la spalla a Rio, mi ero
innamorato di una carioca che pensavo non
avrei più rivisto e Fabio aveva incontrato una
baiana, Gisele, con la quale anni dopo avrebbe
convissuto a Pesaro. Dormimmo nella stessa
pousada e, durante la colazione a base di
mango, papaia, prosciutto, pane, burro e caffè,
chiesi a Jô notizie dei nostri amici. Lei disse
che Puma non l´aveva più rivisto e Junior,
quello buono, che seguiva i consigli del
maestro di capoeira, era in prigione perché
aveva tentato di uccidere la madre.
IL TRAUMA INFANTILE
Ero un bambino biondo, coi riccioli d´oro,
sembravo
un
angelo;
mia
madre,
tutta
orgogliosa, diceva che assomigliavo ai maschi
della sua famiglia. Durante il primo anno di
asilo, la maestra si chiamava Mavi, mi faceva
disegnare e un giorno disse ai miei genitori
che ero intuitivo perché avevo espresso il
“presagio” della pioggia. Avevo fatto intendere
che avrebbe piovuto, anche se, di fatto, nel
disegno non avevo fatto piovere (io mi sentivo
un dio). Poi lei rimase incinta e venne
sostituita da due signore, una delle quali,
mentre l´altra stava in classe, abusava di me,
del mio compagno Jacopo e di Michela.
Quello che io ricordo è che lei mi mise in
castigo in una stanzetta buia perché io avevo
mostrato il mio pistolino a Jacopo e Michela e
forse avevo toccato le loro parti intime. Ma
quello che sognai 34 anni dopo è che lei ci
chiese di spogliarci e di toccarci perché le
piaceva osservare; poi ci puniva. L´asilo era
quello di Via Martiri di Cefalonia a San
Donato Milanese; io ero nelle classi dipinte di
rosso; era il 1980. A quei tempi non si parlava
dei problemi dell´infanzia, dei casi di pedofilia
negli ambienti cattolici e gli adulti avevano
sempre ragione. Difatti, quando mi rifiutai di
tornarci, Marco e Giusi (mio padre e mia
madre) andarono a chiedere spiegazioni e
quelli dissero che era tutto normale; i miei
genitori
ci
credettero
perché
non
erano
abituati a mettere in discussione l´autorità. Chi
aveva torto ero io che mi buttavo per terra
davanti al sentierino, all´erbetta tagliata fina, ai
giochi,
all´altalena
di
quel
campo
di
concentramento.. quando visitai Auschwitz –
Birkenau e entrai nello stanzone nel quale
dormivano i prigionieri, appoggiai la mano
sulla sponda del letto e mi ricordai di me e dei
miei amici in fila che dovevamo andare in
bagno a lavarci i denti perché poi avremmo
fatto un riposino.. per me l´asilo era diventato
un campo nazista! Decisi che non ci sarei più
tornato e Marco mi incastrò nella vasca da
bagno a pancia in giù, estrasse la cintura dai
pantaloni e me le diede di santa ragione (fu la
prima e ultima volta in cui mi picchiò). Io
ricordo la sua faccia disgustata per quello che
stava facendo, mia madre però aveva il
terrore.. cosa avrebbero detto i vicini, gli
amici, i conoscenti quando avrebbero saputo
che Matteo non era andato all´asilo perché s
´era rifiutato? Giusi aveva paura che io potessi
diventare come suo fratello, ricoverato in
manicomio e mai più recuperatosi anche per
colpa dei farmaci e dell´elettroshock. Matteo
non
voleva
andare
all´asilo,
esponeva
la
famiglia al giudizio popolare, quindi aveva dei
problemi, forse un disturbo psicotico! Non
riuscirono a capire che, di fatto, a una delle
maestre
piaceva
guardarci
mentre
ci
toccavamo e poi ci puniva chiudendoci in una
stanza buia, a turno.. Quelle donne, per il solo
fatto di lavorare nella cittadina di San Donato
Milanese,
feudo
dell´Ente
Nazionale
Idrocarburi, l´ENI, che dava da vivere a tutti
noi, nonni compresi, che da Pesaro si facevano
mandare i soldi da mio padre, erano della
brave
persone
e
io
avevo
sbagliato
a
ribellarmi.
Per fortuna, Marco decise di portarmi in
ufficio con lui e al mattino mi comprava una
pizzettina rossa che io mangiavo lentamente,
osservandolo; poi mi lasciarono dalla signora
del secondo piano (noi abitavamo al primo di
Via Europa al 7), che si chiamava Marianna.
Era una donna friulana, con un tono di voce
aristocratico. Capelli corti castani, un bel
corpo.. il marito invece era remissivo e pareva
così buono.. avevano due figli, uno dei quali,
Filippo, divenne mio amico e io più avanti lo
difesi davanti a quelli del condominio che lo
accusavano di essere omosessuale.. ma lui era
omosessuale e non si sentiva in colpa, anzi!
La signora Marianna al mattino arieggiava l
´appartamento e, prima di cominciare con le
pulizie, metteva nel giradischi “Quadri di un
´esposizione” di Modest Mussorskiy; il disco
comprendeva anche “Una notte sul Monte
Calvo”; grande era il piacere che mi davano i
violini
che
descrivevano
l´incontro
delle
streghe per il sabbah notturno, l´impeto, la
paura, il terrore e, all´alba, il rintocco delle
campane e poi la calma.. sarò sempre grato
alla
Marianna
che
mi
fece
ascoltare
Mussorskiy rivelandomi il mio amore per l
´arte! Una volta, mentre lei puliva la sala, io
rimasi da solo in cucina, aprii una rivista dove
scorsi il viso di una bella donna, forse nella
pubblicità di un rossetto, ricordo che baciai
quelle labbra di carta e avevo voglia di infilarci
la lingua. Poi, quando Marco mi venne a
prendere, mi preoccupai dell´opinione della
padrona di casa quando si sarebbe accorta che
avevo sporcato la rivista di saliva.
Quando mi iscrissero alla prima elementare,
Marco e Giusi avevano paura che la reazione
sarebbe stata la stessa dell´asilo e che io avrei
seguito le gesta di mio zio Paolo, il pazzo di
Pesaro, nemico giurato dei preti e seduttore
fallito delle cassiere del supermercato. Non
immaginavano lo stupore e il piacere del
giorno in cui la maestra ci spiegò l´alfabeto;
non presentivano l´amore che avrei provato
per le parole con le quali già potevo costruire
delle frasi e cercare di esprimere la confusione
e la bellezza che mi tormentavano.
RIO
Arrivammo a Rio che era mezzanotte, il
tassista ci lasciò davanti al mare, nell´Avenida
Atlantica, all´inizio di Copacabana. Poi tornò
indietro e ci chiese se avevamo bisogno di un
appartamento, noi accettammo e pagammo
uno sproposito per un bilocale nella Prado
Junior. Per toglierci il cruccio, caricammo due
puttane con le quali passammo la serata,
bevendo, in stanza. La mia, ricordo che aveva i
capelli di false trecce tipo rasta, era nera..
quando uscirono io lessi sui cuscini la scritta
“Abas Rio” e credetti che significasse “Abbasso
Rio” e che la ragazza l´avesse fatta col rossetto
per manifestare l´indignazione verso quella
vita. Invece era il logo dell´agenzia di affitti.
Cercammo
una
guida
turistica
che
ci
portasse al Maracanã, al Cristo e trovammo
Marta la quale, di notte, ci levava nei locali
notturni. Dove io conobbi Márcia, bianca coi
lineamenti da nera, riccioli fino alle spalle,
sorriso perfetto.. abitava a Ipanema, lavorava a
Barra
da
Tijuca,
era
fidanzata
con
un
americano della CNN e, mentre aspettava il
visto di permanenza per trasferirsi negli Stati
Uniti, lo tradiva. Io divenni uno degli amanti,
il più povero. Márcia infatti mi pagava da
bere, mi chiamava “italiano romantico” o
“bebè”
ed
io,
sorseggiando
caipirinha,
la
fissavo. Fabio e altri italiani cercarono di
avvisarmi: “Non la guardare così, in Brasile
non puoi innamorarti..”.
Frequentavamo
discoteche
per
turisti
e
prostitute, ma anche ristoranti o il centro della
città, coi suoi locali, il samba, il pagode; lei di
giorno lavorava, di notte usciva con noi.
Ricordo che quando decideva di ballare si
sfilava il fermacapelli di legno e lasciava che i
riccioli le sfiorassero le spalle.. di notte era
mia, solo mia, nella sua stanzetta di Ipanema.
Mi riceveva con un bicchierino di non so
quale liquore, poi si spargeva sul corpo degli
oli profumati e si concedeva come nessuna
donna aveva fatto prima, con me. Sarà stata l
´aria di Ipanema, il viaggio, l´esotismo, il
pericolo, il fatto d´esserne solo l´amante o gli
spari che si sentivano dalle vicine favelas;
saranno stati i racconti circa il marito della
sorella,
un
poliziotto
morto
ammazzato
perché corrotto o perché troppo onesto, la
voglia di Márcia di lasciare il Brasile, il suo
falso amore per l´americano o il mio desiderio,
la
speranza
di
cambiare,
la
prolungata
astinenza italiana e la perdita di inibizioni, di
fatto erano ore e ore di sesso. Lei diceva che
mi amava, io sapevo che mentiva ma volevo
che continuasse, fino al mattino. Ascoltavamo
i Radio Head, tutta la notte. Verso le quattro ci
addormentavamo, alle sette suonava il suo
cellulare, lei si preparava per andare al lavoro
e io tornavo a casa a piedi, per il lungomare.
Facevo
colazione
sonnolento
la
in
un
linea
bar,
osservavo
dell´orizzonte
canticchiavo Olha que coisa mais linda,
e
la
canzone della Ragazza di Ipanema.. Finché
Iemanjá, in un bel giorno di luglio, mi avvisò –
era solo un´illusione. Io stavo pensando che, se
avessi potuto, avrei continuato a vivere così
per sempre, non mi importava d´esserne l
´amante se, quando lei andava a lavorare,
potevo
camminare
meravigliosa,
bere
in
quella
un´acqua
di
spiaggia
cocco,
ammirare le isole all´orizzonte.. entrai nell
´oceano, c´erano delle belle onde, decisi che
avrei provato a fare surf col corpo, mi sarei
tuffato cioè non “contro” le onde, ma nella
direzione
della
spiaggia,
assecondando
il
movimento del mare, cercando di prendere
velocità.. al primo tentativo sbattei contro il
fondale e mi ruppi una spalla. Quella sera
tornai
nella
stanza
´appartamento
che
di
Márcia,
divideva
con
nell
un´altra
ragazza e con la padrona di casa e, con l´osso
rotto, ci feci all´amore fino al mattino. Il dolore
poteva
trasformarsi
cominciavo
a
capire
in
piacere
come
ed
vivevano
io
i
brasiliani. Ma non ero brasiliano e la sera
successiva le chiesi di lasciare il ricco della
CNN per stare con me, a Milano o a Rio, avrei
lavorato come professore e saremmo stati
felici, facendo l´amore tutte le notti per dieci,
forse venti anni. Lei quasi mi scoppiò a ridere
in faccia, io però sentivo che era lusingata da
quella ingenuità che sconfinava nella poesia.
Gli altri amanti erano cinici; un direttore del
Banco do Brasil, sposato con figli, la portava
nei motel e le pagava un fisso mensile, c´era un
tipo dell´Uruguai che la faceva bere e adorava
vederla pazza mentre ballava (quando era
ubriaca, lei era capace di tutto); poi un collega
di lavoro con cui faceva all´amore quando non
c´era proprio nessun altro e adesso io, l´italiano
con pochi dollari cuciti sotto alla maglietta. Ci
salutammo alla stazione degli autobus, io, con
la spalla rotta, partii per Salvador dove mi
aspettava Fabio (nel frattempo c´eravamo
divisi); fu un viaggio massacrante e venne
interrotto dai Sem Terra che bloccarono la
strada
e
bruciarono
pneumatici.
Ma
io
pensavo solo alla mia segretaria e reggevo una
foto di noi due che ci baciavamo. Mi pareva
impossibile che tutto sarebbe finito così.. A
Bahia incontrai il mio amico inserito nel clima
locale con una donna, Gisele, che ci portò a
visitare un Terreiro di Candomblê; era chiuso
perché la Mãe de Santo era morta da poco, ma
io ricordo la casa bianca e un nero con gli
occhi azzurri sulla porta. Gisele chiese a Fabio
di pagarle il viaggio per cominciare una nuova
vita insieme, ma il pesarese non ne volle
sapere. Così tornammo in Italia da soli, a metà
agosto. Ci separammo a Bologna, io presi il
treno per Milano. Quando rientrai nel mio
appartamento a San Giuliano Milanese e
osservai fuori dalla finestra la Via Emilia, il
campo di calcio della Sangiulianese e i drogati
che compravano la cocaina dai nigeriani sotto
casa, pensai che il pesarese aveva avuto
ragione: non ero più lo stesso. Ci impiegai del
tempo per capire cosa davvero fosse cambiato.
Ero innamorato sì, ma non ero pazzo e sapevo
che non c´era nessuna speranza di soffiare
Márcia all´americano e poi chiunque l´avesse
sposata avrebbe dovuto accettare d´essere
cornuto. Il Brasile però mi aveva lasciato una
sensazione di libertà e forse la possibilità di
ricominciare, a Rio. Ma cosa avrei fatto? Il
professore.. intensificai le lezioni private per
mettere da parte più soldi possibili. Uscii poco,
credo che nemmeno mi ubriacai. Volevo
andarmene,
l´avevo
deciso.
Telefonai
alla
brasiliana una volta sola, a Capodanno, e ci
parlai per pochi istanti. Scambiammo qualche
email nelle quali le dissi che avevo intenzione
di tornare, lei mi rispose che era una buona
idea ma non mostrò nessuna effusione. Studiai
portoghese, ascoltai musica brasiliana, lessi
romanzi
Rubem
e
poesie.
Fonseca,
Scoprii
Carlos
Jorge Amado,
Drummond
de
Andrade (era stata lei a regalarmi una raccolta
di poesie intitolata “Amar se aprende amando ”) e
poi
Machado
de
Assis,
Caetano
Veloso,
Gilberto Gil e Chico Buarque de Hollanda. Mi
ricordo di me, in mezzo alla nebbia, cantando
Chega de Saudade; la realtà non mi toccava più,
ero diventato impermeabile a tutto perché
avevo un sogno. La solitudine metropolitana,
la tristezza della periferia di Milano, le droghe
e l´Italia berlusconiana per me non esistevano,
avevano cessato di esistere dal momento in cui
ero sbarcato dall´aereo; il cambiamento era
stato radicale perché non voluto, non cercato
(io sarei andato in Messico, fu Fabio a decidere
per il Brasile). In Brasile però non avevo
contatti, a parte un amore che non sarebbe
durato, ma finalmente possedevo una carta di
credito e misi in affitto l´appartamento (nel
caso, potevo contare con l´aiuto di mio padre e
mia madre). Come diceva la mia amica Paola,
il rum e coca bevuti in aereo avevano un
sapore speciale ed in quel secondo viaggio, in
cui atterrai l´8 marzo, a Rio ci arrivai ubriaco.
A prendermi venne la guida turistica che ci
aveva portati al Maracanã. Lei poi riuscì a
farmi ospitare da un ragazzo che diceva di
essere evangelico, voleva aiutare il prossimo e
non mi avrebbe chiesto dei soldi. Dopo una
settimana però lui mi disse che era meglio se
contribuivo alle spese e io non eccepii. Dopo
un´altra
settimana
ci
fu
la
finale
del
Campionato Carioca di calcio, il Flamengo
vinse, lui si ubriacò, trasgredendo i principi in
cui credeva. Io intanto giravo per le scuole di
lingue, per le università, avevo stampato dei
volantini, cercavo qualche lezione privata di
italiano.
E
telefonavo
a
Márcia,
volevo
rivederla, ma lei mi aveva detto che la sorella
stava male, doveva operarsi al cuore, Márcia
sarebbe rimasta in ospedale. Io e il padrone di
casa
dormivamo
nella
stessa
stanza
a
Copacabana, via Prado Junior, un monolocale
che la madre del ragazzo veniva a pulire; in
quelle occasioni mi chiedeva di stare attento al
figlio, di aiutarlo a non ricadere nel vizio (la
donna aveva un´espressione sfinita, ma dolce);
lui la sera ascoltava musica gospel e alle volte
la lasciava per tutta la notte, diceva che gli
faceva bene. Un giorno tornò a casa stralunato,
nervoso (poi la guida mi disse che aveva
ricominciato con la cocaina), così al mattino ci
prendemmo a botte perché io volevo dormire
e lui ancora ascoltava la radio. Allora mi
trasferii da Marta e dal suo fidanzato cileno..
intanto cercavo un appartamento a un prezzo
ragionevole e telefonavo a Márcia. Telefonai
anche a un´italiana di San Donato Milanese
che avevo saputo abitava nella favela Rocinha
e lei mi diede appuntamento a mezzogiorno
davanti
all´hotel
Meridien.
Si
stava
avvicinando la Pasqua ed io assistii a un litigio
furibondo tra la guida turistica e il cileno. Lei,
una nera muscolosa, aveva rubato il suo
passaporto per impedirgli di partire. Lui aveva
minacciato di andarsene comunque, allora lei l
´aveva preso a schiaffi e l´avrebbe riempito di
botte se non fosse arrivata la polizia (chiamata
da lui) a separarli. La donna fu poi intimata a
rimanere a un chilometro di distanza dal
cileno. In quello stesso pomeriggio arrivai all
´appuntamento con Barbara, l´italiana, con
mezz´ora di anticipo. Camminai davanti all
´albergo, fissai il mare, l´orizzonte, i baracchini
sulla spiaggia (ricordo un caldo soffocante per
me che venivo dall´inverno di Milano) quando
sbattei contro due persone, alzai la testa per
chiedere scusa e riconobbi Márcia con quello
che doveva essere l´americano. – Matteo, il
mio amico italiano – la mia amante non fece
una piega.
- Piacere
- Piacere
Ci
presentammo
saremmo
visti
una
e
decidemmo
di
quelle
che
sere
ci
per
conoscerci meglio. Dieci minuti dopo arrivò l
´italiana piena di energie e di parole, ma io la
interruppi per raccontargli del mio primo
viaggio a Rio, della ragazza di Ipanema, della
sorella malata e dell´incontro con lei e col
fidanzato americano.
- Sai una cosa? – Barbara era bionda, viso
volitivo – Sei un coglione!