Appunti dal cassetto

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Appunti dal cassetto
Roberto Soldati
Appunti dal cassetto
Mi sono spesso chiesto, per quale motivo alcuni eventi apparentemente banali e senza importanza, si ostinano, di tanto in tanto, a
riaffiorare nella mente. In certi momenti, per qualche oscuro fenomeno e senza un motivo logico, qualche ricordo si stacca dal fondo
della memoria e te lo vedi riemergere in superficie come per dire: "Hei! Sono qui. Eccomi di nuovo. Perchè m’ ignori?". Nel
mettere insieme questo libro, mi sono semplicemente preso la briga di annotare tutti quegli aneddoti, fantasie, riflessioni e storielle
ascoltate da qualcuno, poste a macerare nel cassetto e solo di recente recuperate e pubblicate. A che scopo o conseguenza poco
importa . Vi sono situazioni fantastiche che assumono connotati di vita reale e situazioni reali che per certi aspetti assurdi, grotteschi e
incredibili, sembrano sconfinare nella pura fantasia.
RIFLESSIONI IN UN
MUSEO DEL CINEMA
L’arte del cinema nel Medioevo
Articolo per Messaggero cultura, R.S.
Peccato, veramente peccato, che la macchina da presa
non sia stata inventata nel Medioevo. Non per avere un
documento filmato delle crociate, oppure un'intervista di Dante e
di Leonardo, o un servizio su Michelangelo mentre scolpisce. No,
non sarebbe stata questa la cosa più importante. La cosa
veramente importante sarebbe stata quella di avere anche per il
cinema, una tradizione storica, delle regole e dei canoni estetici
ben consolidati, dei criteri di giudizio, per meglio valutare il
valore artistico di un'opera. Forse oggi esisterebbe un modello
unico di "strumento da presa", come per esempio il violino; uno
strumento da presa universale, sia per piccoli dilettanti che per
grandi professionisti.
Se il cinema fosse nato nel medioevo sarebbero esistiti storici
maestri, nell'arte del costruire strumenti da presa. Modelli
identici che solo un esperto sarebbe in grado distinguere la
differenza tra uno di serie e uno artigianale, da certe sfumature
del colore o da una particolare pastosità dell'immagine.
Il pubblico applaudirebbe i virtuosismi visivi del Maestro
cineasta e ne fischierebbe le stecche ottiche. Riconoscerebbe al
volo un'immagine strimpellata da una ben eseguita.
Sfortunatamente, il cinema ha appena cento anni, ed essendo
figlio della tecnologia, la qualità artistica di un'opera, troppo
spesso viene misurata secondo livelli di definizione d'immagine
o di costi, applicando la formula:
.HI TECH + HI BUDGET = HI QUALITY
Se la pittura, come il cinema, fosse nata nel novecento, se
Caravaggio e Monet fossero nostri contemporanei, si direbbe
forse che Caravaggio dipingeva ad alta definizione rispetto alle
sommarie pennellate di Monet? Si direbbe forse che il valore
delle loro opere sia direttamente proporzionale alla quantità di
superficie dipinta o al costo dei materiali impiegati?
CARAMELLAI
Ogni abitante del distretto di Lucoli, un comune vicino
L'Aquila, conosceva Fortunato e Serena, una anziana coppia che
negli anni cinquanta arrivavano puntualissimi con il loro somaro
carico di caramelle e bruscolini ad ogni festa paesana. Un
mattino di parecchi anni fa, ad una delle tante feste c'èra anche
la banda. Fortunato e la moglie pensarono di mettere in bella
mostra la loro merce proprio sulla piazzetta principale dove
sarebbe arrivata la banda per fare colazione all'aperto con
panini e vino locale. La bancarella consisteva in due valigie,
caricate ai fianchi del somaro, dentro le quali, Fortunato con un
certo ingegno, vi ricavò degli scompartimenti che contenevano la
merce. Bastava aprire i coperchi, lasciando il tutto in groppa
all'asino e . . . hop là, i bambini avevano l'imbarazzo della scelta.
Dentro uno scompartimento vuoto, Fortunato vi teneva un ferro
di cavallo come portafortuna. Siccome all'epoca non capivo niente
di magia, conclusi che quell'amuleto serviva come ferro di scorta
per l'asino. Tutte le caramelle erano sfuse. Fortunato le vendeva
dentro dei coni di carta paglia che faceva al momento con molta
destrezza.
Quella mattina gli affari andavano bene e il
pomeriggio prometteva ancora meglio, ma a rovinare tutto fu il
trombonista della banda che finito il panino si era messo a
fumare. Siccome era ora di attaccare il prossimo pezzo, per un
senso di civile creanza, non gettò per terra la cicca, bensì la ficcò
dentro l'orecchio dell'asino. Allora era d'uso denigrare un
somaro, lo si studiava anche sui libri di scuola. Il dieci per cento
dei racconti sul libro di testo erano dedicati alla testardaggine, la
stupidità e le angherie subite dal somaro. Vi si leggevano storie
di asini cattivi sbolognati dai loro padroni per farne mortadella.
Asini bastonati anche da morti, poichè la pelle serviva a fare
tamburi. Altri ancora, bruciati vivi o morti per fame e come se
questo non bastasse, tutte le ricette punitive di scuola erano a
base di somaro, basti pensare alle orecchie d'asino messe in testa
ai scolari più somari, appunto. Il cerbero musicante, che da
piccolo doveva averne subite parecchie di ingiurie asinine,
pensò che finalmente era arrivato il momento di vendicarsi.
Il povero animale cominciò a correre e scalciare furiosamente,
lastricando la piazza di caramelle. Tutti i bambini, io compreso,
ci gettammo a capofitto per raccoglierle. Riempite le tasche, la
maggior parte scapparono, solo io e qualcun'altro pensammo di
restituire il malloppo al legittimo proprietario che nel frattempo
si era lanciato all'inseguimento per riacciuffare l'asino.
La moglie Serena intanto aveva intrapreso un parapiglia con i
bambini per riprendere la merce agli ultimi fuggitivi. La vidi
disperata. Mi fece pietà e decisi di aiutarla a raccogliere. Dopo
aver riempito anche il mio cappello di caramelle, le andai
incontro per restituirgliele. Ma lei, senza discriminare i ladri
dagli onesti, mi assestò una poderosa pizza in faccia, proprio
sull'occhio destro. Non vidi più nulla, solo un vortice di lucciole
che dai margini
del campo visivo andavano a confluire verso il centro come una
folla che sgomita appena apre un negozio di saldi.
Potevo sentire solo la voce di Fortunato e della moglie che
sbraitava come un'aquila. Man mano che le lucciole si
dissipavano, cominciai ad intravedere Serena con la lunga
gonna nera, alzata con le mani a formare un sacco, lasciando
scoperta una ricamatissima sottana bianca mentre racimolava
le ultime caramelle. Il resto della giornata, Fortunato e Serena
la passarono recuperando caramelle e bruscolini casa per casa,
anche con l'aiuto dei genitori e persino del musicante ormai
pentito. Mia nonna mi mise uno straccio umido sull'occhio
nero. Quel giorno mi sentii come un ferito di guerra, forse
anche un poco eroe.
IL PESCIOLINO NERO
R. S. Articolo per “Itinerari Arte”
Nel 1976, fui invitato presso una sala del Centro
sperimentale di cinematografia di Roma a proiettare un mio film
animato, ispirato ad una favola scritta da un patriota iraniano,
trucidato durante il regime dello Scià. Nel filmato vi si
narravano le vicende di un coraggioso pesciolino nero che alla
fine del film diventa rosso. Quando si accesero le luci, una foresta
di braccia alzate a pugno chiuso esultavano accogliendo quel
cambiamento cromatico al grido di:
Viva il comunismo! mentre un mio amico iraniano, pregava a
fatica i ragazzi di fare silenzio. Quando l'ultimo pugno a stento
si abbassò e ogni voce si spense, l'iraniano spiegò, con non poco
imbarazzo, che il colore rosso nel suo paese era simbolo di
speranza e non proprio di comunismo, provocando un silenzio
tombale che durò alcuni interminabili secondi. Poi, come si
impara nelle esercitazioni antisismiche, con calma e senza
panico la sala fu evacuata fino a svuotarsi del tutto.
HO CONOSCIUTO
LA STREGA LISABETTA
La strega Lisabetta abitava dentro una porticina che
conduceva direttamente in cantina, attraverso uno scalone di
legno. I due fratelli l'avevano segregata nel sotterraneo di casa
per impedirle di condividere un'eredità familiare piuttosto
consistente. Tutti gli abitanti del comune la consideravano una
poco di buono. Siccome non potevano definirla una puttana, in
quanto non fu mai vista in compagnia di uomini, la chiamavano
strega. Tutti dicevano che se la faceva con Satana nell'angolo più
profondo della sua cantina. Nessuno si curava di lei, nessuno le
chiedeva se stava bene o stava male, anzi spesso la denigravano e
di conseguenza anche i bambini si sentivano autorizzati a tirare i
sassi contro la sua porta o a mettere i botti di capodanno dentro
il chiavistello. I paesani la invitavano in casa solo per togliere il
malocchio quando qualcuno stava male e i medicinali non
funzionavano.
Ricordo come fosse ieri, una contadina che aveva un marito
sempre con mal di testa e capogiri, bussare forte sulla porta
della strega; e quando Lisabetta si affacciò, la contadina le
gridò forte: "Tu! Sei stata tu che hai messo il malocchio a mio
marito. Tu lo hai messo e tu devi toglierlo".
E così dicendo, cominciò a strattonare la strega verso casa. Una
volta Lisabetta sparse in giro la voce che sarebbe venuta la fine
del mondo una certa notte del 1960, probabilmente per
vendicarsi di un torto subito. Giunto il giorno del giudizio, nel
paese aleggiava un clima di catastrofe incombente. Anch'io fui
preso dall'angoscia, allora avevo dieci anni. Ricordo un gruppo
di vecchiette che parlavano come se quello fosse il loro ultimo
incontro. "Beati quelli che sono già morti!", disse una di loro,
rafforzando inevitabilmente la mia angoscia.
Una ragazza, mia vicina di casa di nome Giuliana, aveva
incollato l'orecchio alla radio, e saltando da una stazione
all'altra, cercava di carpire qualche notizia su quell'apocalisse.
Il padre se ne stava silenzioso accanto al fuoco aspettando con
cristiana rassegnazione la fine imminente. Il fratello si era
rannicchiato in un angolo con le orecchie tappate, mentre la
madre, dalla finestra, scrutava per l'ultima volta l'orizzonte con
lo sguardo perso nel nulla. Io non ci feci molto caso, quella è
sempre stata una famiglia di nevrotici. Ad un certo punto,
Giuliana captò Radio Praga in lingua italiana (una specie di
emittente pirata comunista). Una voce diceva: "Uomini, donne e
bambini di tutte le età chiedono acqua. Posso sentire i lamenti di
persone malate…Il treno viene subito fatto ripartire attraverso il
fuoco che ha già invaso il binario". Mentre Giuliana ascoltava
queste parole con gli occhi pieni di terrore, la trasmissione si
interruppe con un forte sibilo. Giuliana terrorizzata, prese
alcune riviste di Grand Hotel, corse nella sua camera e dopo aver
oscurato con le riviste i vetri delle finestre, ficcò la testa sotto le
coperte per non vedere il fuoco cadere dal cielo durante la notte,
come aveva previsto Lisabetta. Tornai subito a casa, accesi la
radio su radio Praga e mi resi conto che quel comunicato, che
tanto aveva spaventato Giuliana, non era altro che la
testimonianza di una deportazione, scritta durante l'ultima
guerra.
Siccome vidi i miei genitori abbastanza scettici riguardo la fine
del mondo, mi rassicurai abbastanza da andare a letto. Quella
notte non suonarono le trombe del giudizio, si sentivano
nient'altro che grilli. Il mattino seguente era terso e lucente.
Quando andai a scuola, Giuliana stava lavando i panni alla
fontana, assaporando la nuova vita. Non posso negare che
cominciai a provare una certa simpatia per quella strega
dall'età avanzata ma indefinibile. Avrei voluto conoscerla
meglio, ma la cosa non era facile, era un tipo scontroso e inoltre
odiava i bambini. Eppure potevo intuire una umanità ed una
fine intelligenza nascosta in lei. Era alta e affascinante. Viveva
dentro quella cantina, con una certa dignità e non da disperata.
Portava abiti variopinti che faceva da se, modificando vecchi
vestiti, al contrario delle altre donne eternamente vestite a lutto
in un monocromo nero dalla testa ai piedi. Andava ad attingere
acqua con una botticella sulla carriola per annaffiare il suo
rigoglioso orto, senza curarsi di ancheggiare elegantemente con
una pesante conca sulla testa, come le compaesane. Aveva una
innata eleganza che nemmeno il suo dimesso modo di vestire
poteva nascondere. I capelli sommariamente raccolti sul capo,
erano tenuti da un foulard oppure coperti da un cappello da
uomo che metteva durante la stagione calda per ripararsi dal
sole, incurante del ridicolo.
Nell'estate del 66, per sfuggire al caldo, mi riparai dentro la
chiesa del paese. Salii fin sopra l'orologio del seicento che si era
rotto una quarantina di anni prima.
Osservandolo con
attenzione, mi resi conto che, per qualche motivo, un piccolo
ingranaggio si era spaccato, ma il resto era abbastanza in ordine.
Si poteva riparare. Mi procurai un peso di ottone per bilancia
da un chilo, lo portai al laboratorio di scuola e con molta
pazienza riuscii a ricostruire il pezzo. Dopo aver oliato e
riassestato il meccanismo, l'orologio ripartì. La notte stessa
decisi di collegare i martelli e far funzionare l'orologio a
mezzanotte precisa, inaugurandolo.
Appena rintoccata la
mezzanotte, mi appostai sopra il campanile per vedere la
reazione degli abitanti, ma niente! Silenzio totale.
Ad un certo punto, venne fuori Lisabetta, aspettando incredula il
prossimo quarto. Rintoccate le 24 e 15 se ne rientrò in casa. Il
giorno seguente, tutti si complimentarono con me per aver
resuscitato l'orologio.
Anche i vecchi erano contenti e specialmente quelli soli, che
sentivano i rintocchi come una compagnia, un ritorno al passato.
Lisabetta ne fu così entusiasta da recarsi in municipio per
chiedere un piccolo contributo per me, che dovevo tirare sopra
ogni sera tre grossi pesi, uno per le ore e gli altri due per i
martelli. Ma il segretario comunale, con logica da burocrate,
rispose che quel pezzo d'antiquariato si poteva anche fermare,
tanto oggi tutti hanno un orologio per guardare l'ora.
Indignatissima Lisabetta venne a riferirmi l'accaduto e
testimoniarmi la sua solidarietà. Io le assicurai di dare la carica
gratis, anche per fare un po’ di esercizio muscolare. Ad un certo
punto decise di mostrarmi una pendola con un carillon
incorporato, regalatale da suo zio. Fu l'occasione per andare
finalmente a casa sua.
Aspettavo una topaia, invece vi trovai un posto pulito, ordinato
e stimolante, pieno di oggetti di ogni sorta: corna di cervo, un
grappolo di campanelli, un grande vassoio di legno ripieno di
sapone fatto in casa, in attesa di essere tagliato a quadratini,
conserve di ogni tipo, ampolle piene di intrugli magici, mazzi di
varie erbe appesi a seccare, pestelli, un libro di ricette erboriste,
un ritratto di Galeno, e una sua foto da giovane incorniciata
dentro un attestato di merito che attirò la mia curiosità.
Lisabetta si avvicinò e lo prese con cura lasciando sulla parete
un riquadro più chiaro, segno che era appeso li da tanti e tanti
anni. Indicando l'attestato con il dito storto dall'artrite, mi
disse: "Questo l' ho vinto nel 1919 in un corso per l'ammissione
alla scuola secondaria. Volevo arrivare all'università, e fare
medicina", affermò con voce un po' amara, e seguitò. "Mio zio
che era in America mi manteneva agli studi. Mandava persino
una retta al dormitorio delle Agostiniane all'Aquila. Allora non
era facile fare avanti e dietro come adesso. Non c'erano
neanche corriere e la strada era scomoda. Purtroppo", disse
malinconicamente riappendendo l'attestato al muro, "finito il
liceo sarei dovuta andare a studiare a Roma, però il mio fratello
maggiore, quello che lavora al dazio, si rifiutò, dicendo che la
città corrompe e poi la medicina non è cosa per donne, e mi
impedì di continuare gli studi". Cercava chiaramente di
nascondere una profonda tristezza dietro un'espressione della
faccia maldestramente spavalda. Prima ancora che riuscissi ad
argomentare una risposta, lei seguitò: "Non ho mai smesso di
comprare libri di medicina. Ho sempre sperato di rimettermi a
studiare un giorno; ma poi mio fratello scrisse allo zio di non
mandarmi neanche più i soldi per comprare i libri, dicendo che
ero diventata una fissata, che per studiare trascuravo le
faccende di casa e che ancora non prendevo marito".
Un giorno mi ammalai, vomitavo ogni cosa che assaggiavo.
Neanche i medici ci capivano niente. Ero diventata uno
scheletro. Una volta scacciai il medico in malomodo, gli tirai
appresso il clistere che si frantumò in mille pezzi", disse
sghignazzando di gusto. "Fu quel giorno che trovai la forza di
alzarmi e studiando alcuni testi di medicina antica riuscii a
curarmi da sola, con somma meraviglia di tutti. Decisi di
rompere con la famiglia e di sistemarmi dove sono adesso. Mio
fratello, per la rabbia, mi fece murare la porta interna per non
farmi entrare nel palazzo", disse con stizza. Le chiesi se le
capitava spesso di curare persone. "Si", mi rispose. "Spesso,
molto più di quanto sembra, non con le medicine però ma con le
erbe o sostanze naturali. Le persone bene non vogliono farlo
sapere in giro e per questo pagano spesso un supplemento per la
riservatezza. Di solito ai paesani non chiedo neanche i soldi,
faccio a offerta. Spesso ho guarito persone con sostanze senza
nessun effetto curativo, ma non per dare una fregatura. Si
aspetta il beneficio e il beneficio arriva. C'è chi la chiama
suggestione e chi magia, questa cosa. Una volta mi è capitato un
tizio che si era convinto di avere un
tumore alla testa. Aveva visto morire un vicino di quella
malattia e pensava di averla presa anche lui. Ne aveva assunto
così bene i sintomi, che i medici gli avevano dato solo pochi mesi
di vita. Gli preparai un bell'infuso di valeriana, ma non gli
dissi che era solo un calmante, gli dissi che era un rimedio
contro il tumore. Lo bevve e giorno dopo giorno cominciò a
migliorare. Oggi e ancora li, che scoppia di salute. Porta
sempre uno zucchetto di lana in testa estate e inverno per non
beccarsi un'altro tumore. Questo è un lavoro serio, bisogna
saper discernere la malattia vera da quella falsa, quella metà e
metà, o quella seria che abbisogna del chirurgo". A questo
punto non potevo fare a meno di chiederle conferma a proposito
dei suoi dialoghi con il diavolo. A questa domanda lei mi
rispose con sguardo luciferino: "Il demonio non è all'inferno, il
demonio è l'uomo stesso che raggira sottomette sevizia e
tortura. Non c'è demonio peggiore del bigotto, secondo me.
Satana invita l'umano a guardarsi dal fanatismo religioso che
può essere pericoloso quanto e forse più di una guerra, perchè il
fanatismo è più subdolo, ingannevole e nascosto.
Lisabetta passò i suoi ultimi anni di vita, distrutta dall'alcool,
ospite al ritiro per anziani di Collemaggio a L'Aquila.
Nonostante avesse dei seri problemi reumatici, Lisabetta
scappava spesso dal ritiro, e se ne tornava al paese in corriera,
ignorata come sempre da tutti. Un giorno del 1974 a L'Aquila, in
attesa della corriera mi recai a vedere la basilica di Collemaggio,
appena restaurata, dove mi affiancò un vecchio barbone col il
palmo della mano mollemente teso che mi chiese: "Qualche
soldo, non è per me, è per la masseria. La vedi quella? si
nasconde dietro la colonna non è capace, si vergogna, non mi
rende, devo pensare anche a lei". Voltandomi verso la colonna
vidi un volto imbacuccato che si affacciava con uno sdentato
sorriso per poi ritrarsi vergognoso, era Lisabetta. Da allora non
ne seppi più nulla finchè al cimitero del paese non notai una
lapide che chiudeva un loculo, senza fotoceramica. Una scritta in
lettere di bronzo appiccicate alla meglio diceva:
Elisabetta Seneca
N. 26.6.1898 M. 22.2.1976
Non sei assente, sei solo invisibile.
una prece
Sostai per parecchio tempo davanti a quel grottesco epitaffio a
riflettere del giorno che la intravidi dietro quella colonna. Mi
tormenta ancora oggi il pensiero se feci bene o male a far finta di
non riconoscerla. Al momento pensai di salutarla, ma poi, un po’
per timore un po’ per discrezione non lo feci. Quando mi voltai
vidi la mano del suo compagno ancora in attesa con un sorrisetto
birbone e maldestramente pietogeno. Gli abbozzai un sorriso, gli
misi una banconota in mano e gli dissi: Beh!, tu pensa alla
masseria ed abbi cura della tua amica, tanti auguri, e me ne
andai. Dentro quella tomba giaceva una strega. Chi dice che le
streghe non esistono si sbaglia.
Io o avuto il grosso privilegio di conoscerne una vera, in carne e
ossa, il corpo giaceva lì, di fronte a me dentro il loculo. In fondo
se esistono le streghe esistono anche folletti e gnomi. Sicuro!
gente che per disgrazia o fortuna nascono piccoli e deformi o
semplicemente diversi come Lisabetta. Il bosco era il loro
rifugio, un posto tranquillo assieme ai funghi e gli animali, tra
le fronde e al riparo dai sguardi indiscreti e denigratori dei
normali e dai loro scherni. Poteva capitare al viandante che si
avventurasse nel bosco di imbattersi, prima o poi in quelle
entità silvestri, sfuggenti e furtive con i loro cappucci rossi a
punta messi in testa per non essere impallinati da qualche
cacciatore orbo o distratto, venuto dal mondo malato dei
normali.
CANTAMI O PORCO
Il sabato, per gli scolari di quinta elementare era il giorno
della poesia. "Ragazzi tutti in terrazza!", diceva la maestra.
"Tutti in terrazza a guardare la campagna per mezz'ora, poi
tutti in aula a scrivere una poesia su quello che avete visto".
Devo dire che per qualche motivo ero proprio stufo delle solite
leziose frasi del tipo:
Verde è la campagna,
cinguetta l'uccellino,
ara la terra il contadino
mentre la mucca
dagli occhi grandi e belli
ha le corna al posto dei capelli,
ecc. . . ecc. . .
Mi dava l'idea che frasi del genere fossero roba per femminucce;
per cui, decisi di comporre qualcosa di più maschile e brutale.
Ecco il testo:
croof-croof fa il porco nella stalla,
croof-croof fa il porco mentre balla,
croof-croof canta il porco,
mentre copre il corpo
con chiazze di sporco
scavando lo sterco.
Si pulisce col fieno
per andare a San Remo,
croof-croof canta fino a Gennaio,
poi verrà il macellaio
ti farà a salcicce
e la festa finisce.
Finite le composizioni, ogni scolaro si alzava e leggeva la
propria poesiola. Giunto il mio turno, non feci in tempo ad
arrivare a metà poesia che la maestra, tra le risate dei miei
compagni, mi scippò il foglio di mano.
Con gli occhi rivolti verso il soffitto in segno di sopportazione,
senza neppure guardarlo, strappò il foglio a metà, poi unì uno
sull'altro i due pezzi e li strappò ancora a metà, poi unì uno
sull'altro i quattro pezzi, e li strappò ancora a metà, fino a
ridurre la mia poesia in una manciata di coriandoli che buttò
nel cestino, decretando così la fine della mia carriera di poeta.
Mah, chissà, oggi i tempi sono cambiati . .
SCHIZZO AL SAMBUCO
Un tempo, quando tutti i bambini usavano costruire i
giocattoli con le proprie mani, secondo tecniche tradizionali, tra i
diversi tipi di gioco, c'èra anche lo schizzo al sambuco. Si
tagliava un rametto di sambuco più o meno lungo, lo si svuotava
del tenerissimo midollo, in modo da ottenere un tubo di legno,
all'interno del quale vi si faceva scorrere uno stantuffo.
Dipanando uno spago, si costruiva una pallina di stoppa
impastata in bocca con la saliva, poi la si spingeva con lo
stantuffo verso il foro di uscita e se ne poneva un'altra
all'estremità opposta. Un colpo secco contro lo stantuffo faceva
partire la prima pallina come un proiettile. Un mio compagno di
giochi, che io odiavo tanto quanto gli abitanti del villaggio lo
amavano perchè sapeva intonare il
rosario, un giorno mi chiese istruzioni per costruire anche lui lo
schizzo al sambuco. Quando gli dissi di impastare la stoppa con
la saliva, il meschino mi chiese cosa fosse la saliva. Deciso a
vendicarmi del suo successo popolare, lo mandai a comprare la
saliva dal droghiere. Quello che avvenne dal droghiere non lo
so. Di sicuro qualcosa di tremendo dev'essere accaduto se
ancora oggi, lui, tranquillo impiegato comunale con moglie e
prole, si limita a rispondere al mio: "Ciao! come va?", con uno
striminzito: "Eh . . . come vuoi che vada".
Non manderò mai più nessuno per il resto della mia vita a
comprare la saliva dal droghiere. Se proprio necessario, meglio
il vecchio e salutare cazzottone in faccia contro l'invidia, fa
meno male.
LA MINIERA DEL GHIACCIO
Dal racconto di un vecchio montanaro abruzzese
Abruzzo 1850. Valerio era quel che si dice un bravo
cristiano: leale, laborioso, ingegnoso, e onesto, troppo onesto si
diceva di lui, un fesso insomma, almeno secondo il parere degli
stolti. A lui piaceva vivere così, in pace e in armonia con se
stesso e tutte le cose del creato. Aveva una moglie e tre figli, due
maschi e una femmina. A causa della sua onestà, era il più
povero di altri due fratelli che facevano i contadini. Furono
proprio loro, tramite qualche fregoleria legale che solo i furbi
conoscono, a mischiare le carte, espropriando il povero Valerio
di ben tre ettari di terreno avuto in eredità dai suoi genitori. I
fratelli lasciarono a Valerio solo un pietroso e incolto pezzo di
terra, quasi in cima ad una montagna, sul quale, nel periodo
invernale, cadevano intere valanghe di neve, rendendolo
inutilizzabile, sia come terreno agricolo che come pascolo. Un
giorno di Luglio, Valerio decise di salire su a visitare quel posto.
Da ragazzo, lo ricordava come un luogo aspro ma affascinante,
pieno di insenature rocciose sempre ricolme di neve, anche in
estate, con rivoli e sorgenti che formavano pozze d'acqua
limpidissime, dove il bestiame andava a dissetarsi. Il resto solo
massi, grandi e piccoli, caduti dalla cima di monte Capocroce.
Valerio si guardò intorno sconsolato. Dopo quasi venti anni era
tutto come allora; non riusciva a intravedere neanche una
piccola radura per seminarvi un po' di grano. Cosa me ne faccio
di tutto questo, vendo ghiaccio, pensò tra se. "Correte gente!
Qui c'é aria e fresco a volontà! Ghiaccio, ghiaccio per tutti e a
pochi soldi!", gridò con rabbia rivolto verso la città dell'Aquila,
giù nella valle, lontana, immersa nella caligine estiva. L'eco
riportò indietro quelle parole. Valerio le riafferrò e come nel
barbiere di Siviglia, prima sussurrandole, poi con un crescendo
che culminò in un colpo di cannone gridò ancora: "Ghiaccio,
ghiaccio a volontà per tutti!". Questa volta però gridò con
entusiasmo e con tutto il fiato che aveva in corpo. Correndo giù
per il pendio, simile ad un masso rotolante, si diresse verso
l'Aquila, deciso a mettere a frutto la sua brillante idea.
Bisogna dire che nell'ottocento non vi erano ancora, almeno in
Abruzzo, sistemi conosciuti che permettessero di produrre
ghiaccio artificiale. Infatti, il metodo della salamoia fu portato in
quella regione dai veneti nei primi anni del novecento. Quindi,
l'idea di Valerio di rifornire con ghiaccio naturale tutte le
pescherie, i locali e i caffè aquilani, fu senza dubbio una trovata
geniale. I gestori dei caffè di zona facevano a gara per
accaparrarsi il ghiaccio e inventare specialità gelate di ogni tipo,
per lo più granite d'orzo, menta, fragola e frappè che deliziavano
i clienti. Era ormai consuetudine della borghesia cittadina
recarsi a prendere un sorbetto, seduti a tavolo, sotto gli alberi del
parco. E potete immaginare con quale profitto per Valerio e con
quanta invidia per i due fratelli, che vedevano sfilare attraverso
il paese, la processione dei muli ogni volta più lunga, carichi di
blocchi di ghiaccio avvolti da un sacco di juta, foderato di foglie
che ne impedivano lo scioglimento. I due fratelli ficcavano la
testa sotto il cuscino, per non sentire lo scalpitio degli zoccoli
quando passavano i muli alle cinque di mattino. Tutti i paesani
erano abituati a quel rumore ma l'invidia dei due fratelli
amplificava quel suono a livelli insopportabili.
ATTERRAGGIO FUORI CAMPO
Articolo per la rivista nazionale “Volare”
La prima volta che mi capitò di vedere un aliante fu nel
66, mentre tornavo a casa dal liceo. Proprio in cima una
montagna a ridosso del paese, un velivolo silenzioso dalle ali
lunghe e sottili, faceva avanti e dietro il pendio senza perdere
quota, inseguito da una dozzina di cornacchie che difendevano il
loro territorio da quell'intruso. Ad un certo punto, con un lieve
sibilo, si spostò più a valle. Arrivato sotto una nube, cominciò a
girarci sotto, salendo rapidamente fino alla base piatta e scura.
Infine si allontanò verso est e sparì dietro la montagna. Siccome
non avevo mai sentito parlare di un aereo senza motore, mi
convinsi che si trattava di un aquilone sfuggito al proprietario.
Per cui, finito il pranzo, pensai di salire, in Vespa, fin sopra alla
montagna per recuperare quel coso, nel caso fosse caduto da
qualche parte. Mentre attraversavo la valle, un contadino mi
disse di aver visto un aliante molto basso in quella zona. Io
trovai la parola aliante estremamente suggestiva. Mi dava l'idea
di qualcosa leggero come una piuma; una parola che a
pronunciarla non impaccia minimamente la lingua e che calza
giusto con quel velivolo, esile ed elegante come nessun altro
aereo. Il contadino mi spiegò che l'aliante è un aereo con pilota e
senza motore e con le ali piene di un gas leggerissimo, come
quello dei palloni, che permette al velivolo di stare in aria.
Finita la spiegazione, ripresi il viaggio lungo il sentiero che
portava alla montagna; ma non feci neanche un chilometro che
nel bel mezzo di un prato vidi l'aliante a terra con un'ala
poggiata sull'erba e un tettuccio trasparente aperto. Con un
certo timore, mi avvicinai e vidi il pilota sdraiato in cabina che
dormiva con la visiera del cappello calata sul viso. Mi fermai
ad una certa distanza, almeno per dieci minuti, indeciso di cosa
fare. Poi il pilota con un dito tirò su la visiera, mi guardò e mi
disse: "Vieni pure avanti, puoi guardarlo da vicino, non morde
mica". Vinsi il timore e mi avvicinai.
Era un signore sulla cinquantina. Uscì dall'abitacolo, si
sgranchì un po’ i muscoli, poi mi chiese: "Come si chiama
questo posto?". "Campo Felice di Lucoli", gli risposi.
Dopodichè, preso il microfono della radio di bordo, comunicò
con un'altro pilota ancora in volo, specificando la zona di
atterraggio per facilitare alla squadra di recupero l'arrivo sul
posto. Poi, chiusa la comunicazione, mi spiegò praticamente
tutto sull'aliante e sulla navigazione aerea. Quando chiesi
conferma sul gas leggero dentro le ali, come mi aveva spiegato il
contadino, si mise a sghignazzare di vero gusto, dicendo che mai
aveva sentito una fesseria del genere.
Appena dopo il tramonto arrivò la squadra di recupero. A dire
il vero, erano solo due persone con una macchina e un carrello a
rimorchio simile a quelli per trasportare le barche. Uno dei due
uscì agitando minacciosamente una bottiglia di spumante. Il
pilota indietreggiò, dandosi poi alla fuga inseguito dall'amico,
deciso a punirlo con un bagno di Asti per non essere rientrato al
campo base.
Finito il bagno, dopo aver smontato e
impacchettato l'aliante sul carrello, brindammo insieme con il
poco spumante che rimaneva.
"Brindiamo a cosa?", disse uno di loro. "Mah... qui c'è un
nuovo volovelista, brindiamo per lui". Non passò un mese che
mi arrivò per posta il modulo d’ iscrizione all'aeroclub di Rieti,
incluse le modalità di come ottenere un forte sconto per prendere
il brevetto di volo a vela, riservato agli studenti.
Conscio di non potermi sottrarre a quell'invitante invito, mi
cercai un lavoro per pagarmi il brevetto e due anni dopo ero in
volo anch'io. In meno di otto anni collezionai più di duemila
ore di volo, portando a spasso i turisti sopra le valli e le
montagne abruzzesi. Navigando dentro le correnti termiche
ascensionali, il volo poteva anche durare sei o sette ore, il che
corrispondeva a circa ottocento chilometri di distanza e senza
consumare una sola goccia di benzina, se si esclude quella per
l'aereo trainatore. Il volo a vela è uno sport spirituale vicino
all'ascetismo. Il fatto che sia così poco praticato non dipende
tanto dai costi, quanto dal fatto che lo sport in generale è
esibizione. Di solito, l'atleta gareggia oltre che per se anche per
un pubblico. Il volovelista invece, è sempre solo tra il silenzio
delle nuvole e qualche parente a terra un po’ annoiato o in
ansiosa attesa.
INTERVISTA A GIORGIO
DE CHIRICO
Articolo per la rivista “Itinerari Arte” R.S.
Nel Giugno 1976, mi recai con un gruppetto di studenti
del liceo artistico di Roma e un giornalista della RAI TV a
filmare una intervista a casa di Giorgio De Chirico. Io facevo il
cineoperatore di una piccola troupe televisiva. De Chirico mi
apparve al quanto invecchiato e anche un pochino infastidito da
quella improvvisa irruzione. Il giornalista invitò il maestro ad
alzarsi dal divano e sedersi in una poltrona sistemata in un punto
più luminoso della casa. Il maestro non sentì o non volle sentire.
Il giornalista ripetè ancora l'invito, ma anche questa volta, niente
da fare. "Non si muove . . .", disse con un sorrisetto imbarazzato
il giornalista. De Chirico sembrava, seduto su quel divano,
simile ad una delle sue muse, candido e immobile. Il giornalista
gli si avvicinò di nuovo, deciso a non fallire ancora. Gli poggiò le
mani sulle spalle, il maestro si alzò e senza tante storie si fece
guidare alla poltrona. Finalmente cominciai a girare. De
Chirico liquidava ogni domanda del giornalista con pochissime
battute, efficaci ed essenziali. Dopo il giornalista, fu il turno
degli studenti. Iniziò per prima la loro professoressa di storia
dell'arte, cercando il suo momento di gloria nell'interpretare un
dipinto appeso nella stanza, sperando di avere in seguito
l'approvazione della sua analisi dal maestro in persona e
conseguente figurone con i suoi studenti, colleghi e qualche
milione di telespettatori. "Maestro!", esordì l'insegnante con
una certa enfasi. "Questo cielo grigio viola, pervaso di un
sentore di morte, questo cielo che come una cappa plumbea
grava su questa piazza, sulla quale il portico disegna ombre nella
luce lunare, la finestra illuminata sembra celare nel suo interno
una camera ardente, che c'è, si sente, ma non si vede.
Ecco maestro, ora le chiedo: Cosa rappresentano per lei queste
due entità, in attesa di chi, in attesa di cosa?
Quale
inquietudine ha guidato la sua mano nel tracciare queste due
figure e nel riempirle di colore?". De Chirico esitò qualche
istante, che fece rabbrividire l'insegnante. Infine, con la sua
voce sorniona, scuotendosi leggermente rispose: "Mah, per me
sono soltanto due persone che parlano". "Che parlano di chi, di
cosa, Maestro?", continuò l'insegnante con la forza di rullo
compressore, sperando in una risposta un po’ più argomentata.
"Ma signora! Come mai le interessano così tanto i fatti loro?",
concluse il maestro abbozzando un pallido sorriso.
L'insegnante invece, era diventata rossa come un peperone.
Meno male che la TV era ancora in bianco e nero a quei tempi.
LINO
Ci sono eventi, che magari ti hanno occupato quasi
l'intera esistenza e via via sbiadiscono nella memoria, fino a
dissolversi del tutto. Altri che invece ti hanno rubato solo pochi
minuti o addirittura attimi della tua vita, li vedi riaffiorare di
continuo nella mente, talvolta in modo ossessivo. Lino, per
esempio. Lino era un mio coetaneo di sei anni, che viveva sopra
uno di quei palazzoni di periferia, edificati in certe borgate
romane. Mi ci portarono tanti anni fa per circa una settimana.
Fuori la porta di mia zia, sul pianerottolo delle scale, era seduto
Lino, che giocava dal mattino alla sera con la sua automobilina
di celluloide, usando come strada il contorno bianco tra una
mattonella e l'altra. Per me che ero venuto dalla campagna dove
potevo scorrazzare senza limiti di spazio, quel bambino confinato
sul pianerottolo delle scale mi riempiva di una tristezza e di una
angoscia indescrivibili, anche se i miei parenti lo consideravano
nato con la camicia, avendo un padre che faceva il capo ufficio in
qualche banca. Ancora adesso non riesco ad attraversare uno di
quei quartieri o semplicemente vederli in TV senza pensare a
Lino. Non molto tempo fa, un tizio sotto la metro mi gridò pieno
di entusiasmo: "Ciao! Come stai? Dopo quanto tempo ci si
rivede". Io cercai di ricordare chi fosse, poi risposi: "Ma si,
Lino! Tu sei Lino!". Quando dal suo volto si spense tutto
l'entusiasmo di prima, capii che non era lui. Infatti era Emerico,
uno che fu mio amichetto d'infanzia per tanti anni e che dopo
aver assolto con solerzia quel compito, scaduto il mandato, sparì
per sempre dai miei ricordi. Lino invece è sempre qui presente
dentro la mia testa.
CHI!! HA PAURA
DEL LUPO CATTIVO?
Intervista per “Linea d’orizzonte
Ebbene si! un pastore abruzzese che si chiamava Quinto
decise di catturare un lupo, forse perchè in paese tutti lo
sfottevano che aveva paura dei lupi. Quindi, una sera si fece
coraggio e partì con una doppietta a pallettoni e un capretto vivo
che doveva servire da esca. Arrivato ad una casetta costruita sul
suo terreno, legò il capretto ad un palo, si chiuse a chiave dentro
la casetta, infilò il fucile attraverso una gattaiola e si mise ad
aspettare l'arrivo del lupo, richiamato dai belati e dall'odore del
capretto. Quinto sosteneva la tesi che se il lupo fiuta l'odore del
piombo dentro le cartucce, non si avvicina; ma siccome la puzza
del capretto copre l'odore del piombo, la trappola sarebbe stata
perfetta. Infatti, aveva proprio ragione, perchè di lupi ne
arrivarono due.
Prima di azzannare il capretto, le belve fecero un giro d'ispezione
al chiaro di luna, ma quando furono a tiro, Quinto si rese conto
di non aver tolto la sicura al fucile. Al clik della sicura, i lupi si
bloccarono all'improvviso, fissando la casetta con occhi come
tizzoni. Preso dall'emozione, le mani di Quinto cominciarono a
tremare e non ebbe il coraggio di sparare.
Fatto un profondo respiro, si fece coraggio e riprese la mira.
Ma proprio quando decise di premere il grilletto, i lupi
azzannarono la preda e la straziarono con due tremendi
strattoni. Spaventato da tanta ferocia, le mani ricominciarono
a tremare. Intanto, i lupi si erano allontanati con la preda.
Mezzo morto di paura, Quinto non ebbe il coraggio di
tornarsene a casa. Pensò che quelle belve potevano ancora
essere nei paraggi e quindi decise di starsene accucciato li fino
al mattino. Ma per fortuna, sentì la voce del fratello che era
venuto a cercarlo. Al che, Quinto spalancò la porta della
casetta urlando al fratello: "Non potevi sta’ zitto, che m'ai fatto
scappare i lupi con tutto il capretto!"
INCONTRO CON L'ASSESSORE
ALLA CULTURA
Testo per Radiotrè “Il terzo orecchio” R.S.
Va da lui e digli che ti mando io.
L'ente regione ha
intenzione di realizzare un documentario sulla transumanza, e
lui ti darà un finanziamento di parecchi soldini", mi disse il mio
amico pittore. "Però prima vuole conoscerti di persona, vuole
sapere chi sei, come lavori"."Cosa vuol dire come lavoro? Tu
conosci bene il mio lavoro. Dovresti essere tu a garantire per me.
Accidenti! È come tornare a scuola e sostenere un esame, e
magari essere bocciato da uno che di cinema non capisce un fico
secco!", gli risposi irritato. "Si, si lo so, ma, hem…visto che sarà
lui a darti i soldi…insomma non vorrei scavalcare nessuno. Sai,
sono persone che vivono dietro una scrivania, sono frustrati e
non possono fare a meno di dominare, è la natura del politico,
ma allo stesso tempo pensano che un regista sia qualcuno molto
importante con il quale fare amicizia, farsi vedere in giro per la
città, magari al bar". Infatti, quando andai a trovare il mio
assessore, mi fece prima accomodare nel suo ufficio, come per
dire: "Questo é il mio territorio! I cani il loro territorio lo
marcano con la pipì, io lo marco con il fumo del mio sigaro
puzzolente che ammorba la mia segretaria e i miei subalterni.
Anzi, adesso te lo sbuffo dritto in faccia come per dirti che qui
comando io!". "Eh, rinascessi un'altra volta, farei anch'io il suo
lavoro. Mi piace scrivere soggetti per film, sa", mi disse. "Ne ho
scritti sett'otto, li ho anche fatti leggere a un regista che lavora
alla RAI, ma poi venne un direttore PSI, lui era DC e allora, sa
come vanno le cose . . . e così non se ne fece più niente".
Dopodiche, si alzò e venne verso di me. Fu allora che mi ricordai
d'averlo già visto. Quando era ancora bambino, veniva spesso
nella mia casa di campagna con i suoi genitori per comprare dei
polli. Allora aveva circa otto anni, più o meno come me.
Era piuttosto grassottello, calzoni corti fino alle ginocchia, con
tre bottoni ai lati solo ornamentali e una coppola in testa dello
stesso colore del vestito, che me lo facevano apparire piuttosto
antipatico. Una volta, senza neanche notare la mia presenza,
saltò fuori dalla macchina con un aereo di latta, e correndo
goffamente a zig-zag, gridava: "Rroannn rroannn, navi da
guerra, siluri! siluri! Rroannn rroannn, aerei in picchiata,
siluri! siluri!". Alla fine, inciampò sfracellandosi a terra con
tutto il suo aereo. Mia madre corse a prendere lo spirito per
medicargli alcune escoriazioni, ma lui rifiutò. "La mia mamma
lo deve fare!", gridava e strepitava. Alla fine, sua madre
irritata, lo prese per un braccio e con un energico strattone, lo
ficcò in macchina e se lo portò via.
Dopo venticinque anni, non era cambiato gran che. Una testa a
pera direttamente poggiata sopra un imponente busto portato a
spasso da gambe che iniziavano con due enormi cosce rastremate
verso il basso per finire con due piedini piccoli piccoli che
tenevano in bilico la massa corporea, spostandola con insolita
leggerezza. Il tutto contenuto dentro il solito vestito grigio blu,
camicia e cravatta. Si tolse il sigaro dalla bocca e tenendolo tra
l'indice e il medio, poggiandomi gentilmente la mano dietro la
schiena mi disse: "Prego! Le faccio strada. Posso invitarla al
bar? Le questioni d'arte vanno discusse in un ambiente più
adatto di un ufficio in mezzo alle scartoffie". Arrivati al bar,
quattro uomini seduti a tavolo, probabilmente colleghi,
scattarono in piedi come avessero una molla sotto il culo al suo
apparire, in un coro di: "Buongiorno dottore!". Tanto ossequio
mi fece capire che il mio mancato amichetto d'infanzia era stato
sistemato da qualche stretto parente a ricoprire quell'incarico.
Infatti, venni a sapere che suo padre era anche il suo direttore.
"Vi presento un bravissimo operatore, facendo intendere con
operatore che sarebbe stato lui a giocare al regista. Faremo un
film insieme, sulla transumanza", disse ai quattro, obbligandoli
a stringermi la mano. Infine, congedata la corte, ci sedemmo
anche noi. Bevuto il caffè, tirò fuori dalla borsa quello che
secondo lui sarebbe stato il commento del film e cominciò a
leggermelo. Eccone il testo:
La, dove i romiti colli declinano dolcemente a formare la valle,
che vide D'Annunzio fanciullo sedetti in contemplazione a
rimirare il lanuginoso fiume che il pastore menava da tempi
immemorabili verso le apule terre . . .
Il resto non lo ricordo; ricordo solo che la mia mente stava
disperatamente cercando una soluzione per svicolare da quella
scomoda situazione.
RIFLESSIONI AL MUSEO
DEL LOUVRE
Racconto per “Appunti di Viaggio” Radiotrè. R.S.
Monnalisa si era alzata di buon'ora quella mattina, ed
aveva pensato di svegliare la serva Camilla per farsi
accompagnare al pollaio con la lanterna, dato che alle sei di
mattina era ancora scuro. Scelse le ova più belle e rotonde
personalmente, e per essere sicura che fossero fresche prese
quelle ancora calde. Poi andò a prepararsi con molta cura,
poichè alle sette avrebbe dovuto portare quelle ova a mastro
Leonardo, che ne avrebbe fatto dei colori. Di solito mandava la
serva per queste commissioni, ma siccome il maestro le aveva
palesato l'idea di farle un ritratto, lei non voleva perdere
l'occasione di farsi ammirare dai visitatori del Louvre. Fu così
che sfidando le chiacchiere e le malignità dei vicini, andò tutta
sola da mastro Leonardo. Ma aimè, arrivata sotto la casa, trovò
il portone chiuso. "Questo non ci voleva", pensò. "Quello
sbadato si è dimenticato di lasciare aperto il catenaccio". Prima
provò a bussare piano piano, in modo che i vicini non si
accorgessero e magari andassero a pensare chissà cosa, visto che
la moglie del maestro era andata dal padre, malato a causa di
uno spiffero. Ma, aimè, Monnalisa bussò troppo piano, perchè il
maestro potesse sentire.
La seconda volta lo fece più forte, sempre più forte, ma niente da
fare. Ormai tutto il vicinato era li a sbirciare attraverso gli scuri
semichiusi. Alla fine, presa da un momento di rabbia, tirò
un'ovo verso la finestra di mastro Leonardo, che dopo aver rotto
il vetro, andò a spiaccicarsi sul vestito blu cobalto del quadro
dell'immacolata concetta, macolandolo. Adirato, il maestro corse
giù per acchiappare il vandalo, correndo e strepitando tra i vicoli
alla vana ricerca del mascalzone, senza accorgersi della presenza
di Monnalisa fuori il portone.
Approfittando della momentanea distrazione dei curiosi,
attirati da tutto quel parapiglia, Monnalisa sgattaiolò dentro la
casa del maestro. Curiosando per la stanza, notò alcune ova
sode, dentro un piatto, che mastro Leonardo aveva cotto per se.
Siccome quella mattina non aveva ancora fatto colazione,
Monnalisa ne prese uno e se lo cacciò in bocca. Stava quasi per
ingurgitarlo quando uno scalpitio per le scale annunciava il
ritorno del maestro, senza che Monnalisa trovasse il tempo ne di
sputare ne di ingurgitare l'ovo. Lo tenne nascosto in bocca, un
po’ da una parte un po’ dall'altra. Quando il maestro apparve
sulla porta con un diavolo per capello, compresi i peli della
barba, la poveretta non ebbe il coraggio di dire la verità. Del
resto, come poteva con quel boccone? Mastro Leonardo rimase
pietrificato nel vedere l'inattesa ospite con quelle guance
rigonfie, come fossero piene di una dolce frase, che la bocca
chiusa in un caldo sorriso tratteneva dal venir fuori. Con un
gesto e in punta di piedi per non rompere tutta quell'armonia,
fece capire a Monnalisa di sedersi e di non muoversi da quella
posizione. Poi, preso un grosso pennello, ricoprì di biacca la
irrimediabilmente macolata concetta, la quale dovette
rassegnarsi a vivere sotto Monnalisa, per i secoli dei secoli.
PATENTE EQUINA
Passare dall’asino alla macchina per Isaia non fu facile. Il
giorno dell’esame pratico di guida l’esaminatore pregò l’allievo
Isaia di tenere i giri del motore dentro “quel campo verde a
sinistra”. Isaia rispose che dentro quel campo verde non si poteva
andare per non rovinare il granturco. Quando gli venne spiegato
che l’esaminatore si riferiva al settore verde disegnato sopra il
contagiri, Isaia era già stato bocciato!!
Rifatto l’esame e ottenuta la patente, si comprò una bella 600
usata. Durante la risalita verso il paese, in una calda giornata
estiva, Isaia si fermò presso una fontanella per bere. Riempito un
secchio d’acqua fredda, aprì il cofano e la buttò addosso al motore,
come si faceva ai ciclisti del giro d’Italia, ma la 600 non gradì il
cortese gesto e dopo aver sbuffato via una densa nube di vapore, il
motore cominciò a tossire e i cilindri si spaccarono crepitando per
la repentina reazione. Dopo aver assistito sconsolato all’evento con
il secchio in mano, scosse la testa recitando il vecchio proverbio che
dice: “fai bene all’asino? Ti tira calci”.
UNA STORIA A 4 RUOTE
Il famoso cantante lirico degli anni sessanta, Mario
del Monaco, quando partiva per le sue tournée operistiche,
lasciava al maggiordomo il prestigioso compito di sgranchire
le ruote alla sua Rolls Royce con brevi tragitti nei pressi
della villa di Roma. Fu lo stesso maggiordomo, ormai in
pensione, a raccontarmi di non essere riuscito a resistere alla
tentazione di far colpo con gli amici e le ragazze di Ostia
dove abitava.
Un giorno, anziché fare il solito giro, si diresse in Rolls
Royce
verso il suo quartiere con la scusa di compare un pezzo di
pizza. Piazzò il regale macchinone davanti la rosticceria e
con assoluta noncuranza per gli amici seduti ai tavoli, entrò
ed usci con la pizza rificcandosi in macchina sotto gli
sguardi invidiosi dei presenti. Accende il motore, ingrana la
marcia e . . . sorpresa!!! . . . Il pomo d’oro massiccio sulla
barra del cambio era sparito. Che non l’abbia rubato
l’amico cuoco per metterlo sopra la pizza?
ANGELI
Andare al catechismo non è come andare a scuola. State
attenti voi che andate al catechismo, se avete delle opinioni sulla
anatomia degli angeli tenetevele per voi, o per lo meno dite quello
che volete dire, solo se siete sicuri di avere come catechista un
prete intelligente e di larghe vedute. Altrimenti rischierete di
beccarvi due sonori schiaffoni, come successe a me da ragazzo.
Mi chiederete, “ma che razza di domanda ai fatto al prete per
meritare una così severa punizione?”
Avevo forse chiesto se anche gli angeli scoreggiano?
No! Peggio!
Avevo forse chiesto se gli angeli hanno le tette?
No! Peggio!
Avevo forse chiesto se gli angeli hanno il"coso?"
No! Peggio!
Ebbi nientemeno che l'ardire di avanzare la seguente tesi.
Sedetevi che è meglio: "Padre io ho letto su di un libro che le ali
degli uccelli non sono altro che le loro mani trasformate in
organi per il volo, munite di penne e potentissimi muscoli
pettorali. Quindi, un angelo per volare non solo dovrebbe avere
mani ed ali fuse in un unico blocco ma anche bicipiti da
Maciste…Accidenti ai libri!!
INCIDENTE DI VOLO
Articolo per la rivista nazionale “Volare” R.S.
Un mio amico aviatore un giorno mi disse, con dei freddi
dati statistici alla mano, che un pilota subisce potenzialmente un
incidente ogni seicento ore di volo. Io che già avevo collezionato
più di 1500 ore, da quando presi il brevetto, senza neppure un
graffio, cominciai a preoccuparmi sul serio. Infatti, un giorno
mentre veleggiavo ad una quota di 600 metri con il mio aliante
comprato usato in Svizzera, a causa di un difetto strutturale,
all'uscita di un vortice il velivolo si inclinò pesantemente di ala
destra, senza che potessi agire in alcun modo sui comandi. Il
velivolo entrò in una virata strettissima, che si trasformò ben
presto in una vorticosa spirale picchiata.
Provai immediatamente un forte panico, ma dopo, avvertii come
una puntura di anestetico che in qualche secondo agì,
inducendomi una calma insolita. Dissi a me stesso: “Non ti devi
preoccupare, anche se dovessi schiantarti non sentiresti nulla.
Nel frattempo fai quello che ti ha insegnato l'istruttore:
Con calma, afferra la maniglia del paracadute, apri il tettuccio,
sgancia le cinture di sicurezza, cerca di uscire tirandoti fuori con
tutta la forza per vincere la centrifugazione che ti tiene incollato
dentro. Ok, ora sei fuori, conta 1, 2, 3 prima di tirare la
maniglia per non impigliare il paracadute all'aliante, TIRA!!"
In un attimo mi sentii risucchiare verso l'alto, ma era solo una
sensazione. Il fragore del vento, che non era mai cessato, si
attenuò fino a smettere del tutto. Il paracadute si era aperto a
meno di 200 metri da terra. Vidi l'aliante che, perso il mio peso,
si impennava verso l'alto, si fermò un attimo in aria per poi
ricadere a foglia morta proprio in direzione della strada statale.
Al fianco della strada, un gruppo di operai che stavano
allacciando un tubo all’ acquedotto, sospeso il lavoro,
si recavano a pranzo sotto una casa in costruzione. Ancora
appeso al paracadute, mi misi a gridare: "Attenzione laggiù, un
aereo vi sta cadendo addosso!". Vidi uno di loro fermarsi ad
ascoltare finchè l'aliante si schiantò sul fianco della strada, a
pochi metri da lui. Qualche minuto dopo mi disse di aver
sentito il mio richiamo e di aver scrutato l'orizzonte in ogni
direzione, ma senza riuscire a vedermi. Del resto, come poteva
immaginare che quella voce veniva dall'alto dei cieli? Ancora
in discesa con il mio paracadute, sentii, insieme allo schianto
dell'aliante, anche lo stridio di frenata di un camion che
transitava li vicino in quel momento. Non appena toccai terra
in mezzo ad alcuni cespugli, abbandonai il paracadute e mi
accodai agli operai che correvano in direzione dei rottami del
velivolo, i quali non si accorsero, ne del paracadute, ne della
mia presenza.
Uno di loro non vedendo il pilota tra i resti, si voltò verso di me
gridando: "Tu, che cacchio fai li impalato, va dall'altra parte
della strada a cercare il pilota, perchè io non ho il coraggio".
"Ma guardi che il pil . . . il pil . . . ", cercai di rispondere, ma
per lo shock mi si era seccata la saliva che non potevo neanche
parlare. "Humm humm", dissi indicando me stesso. "Il pil-l-llota, il pilota sono io", dissi, spiccicando finalmente la lingua
dal palato. Non fui creduto subito. Vedendomi con occhiali
scuri e un cappellaccio da spiaggia, calato sulla faccia e rimasto
miracolosamente incollato in testa, probabilmente pensavano
che io fossi uno di quei fissati che vagano a piedi da un paese
all'altro. Fu una vecchietta ad avallare la mia versione dei fatti,
dicendo in dialetto abruzzese: "Si si, era lui che e scisu co nu
pallone entro ‘nu cistu, locaddietro". Aveva scambiato il mio
paracadute per un aerostato, ma questo è bastato.
Gli altri piloti, che dall' Aeroclub di L’Aquila avevano visto
tutto, non tardarono ad arrivare. Con loro c'éra anche un ex
pilota militare tedesco che si mise a scattare foto. Mi confidò che
neanche in guerra aveva visto nulla di simile. Il camionista che
aveva assistito all’impatto ci offrì gentilmente di caricare i
rottami sul suo camion per portarli fino all'aeroporto, dove la
salma dell'aliante fu cremata per non impressionare i turisti.
Foto di Heinz Peltz, 8 agosto 82
Poi, caricate le ceneri su di un aereo, le disperdemmo sopra al
Gran Sasso. Mi costrinsero a tornare in volo la sera stessa con
un aliante del club, per un volo turistico. Tornai sulla zona
dell'incidente, ci feci un giro simbolico sopra, poi il passeggero,
ignaro di quanto accaduto, mi chiese: "Senta un po', ma se lei si
dovesse buttare con il paracadute si butterebbe?".
L'ECLISSI DI SOLE DEL 1960
Ricordo come fosse ieri quella esperienza di notte in
pieno giorno, con abbondanza di particolari. La corriera delle
10 con i fari accesi, i polli che andavano a nanna, i cani che
abbaiavano, titaniche onde di luce che spazzavano la campagna,
il sole che prima di sparire dietro la luna disegnò uno
spettacolare anello diamantato nel cielo, un’anziana contadina
che ignara dell'evento credeva di avere uno svenimento
imminente, dato che tutto si stava oscurando alla sua vista, i
primi tele-dipendenti che preferivano guardare l'eclissi in
diretta, tappati in casa davanti ai loro televisori, e per finire i
ricchi locali che erano andati in massa ad osservare il fenomeno
nel pescarese, poichè la radio aveva detto che nella nostra zona
l'eclissi sarebbe stata solo parziale, invece divenne buio come
pece e così i ricchi locali dovettero accontentarsi di una misera
penombra. Giusta punizione! Allora frequentavo la quinta
elementare. Andammo tutti a scuola quel giorno per non
perderci la spiegazione scientifica che ci avrebbe fatto il direttore
didattico in persona. Le istruzioni di come annerire un vetro per
guardare il Sole senza danno agli occhi, furono, a dire il vero,
molto utili. Mi lasciò invece perplesso la sua spiegazione
scientifica dell'eclissi. Secondo lui, quella mattina la Luna non
era visibile perchè si era nascosta dietro al Sole. Un mio
compagno lo interruppe, sostenendo di aver letto che sarebbe
stata invece la Luna a nascondere il Sole. Il direttore replicò, più
per salvare la faccia che per convinzione, che la Luna non
potrebbe mai nascondere il Sole che è grande come mille lune.
Non convinto, il mio compagno tentò di precisare meglio la sua
osservazione ma la maestra lo interruppe esclamando: "Il solito
testone!“Il direttore, calmo e paziente, continuò con un esempio
talmente bislacco che fece sorgere in noi dubbi molto seri
riguardo la sua preparazione scientifica:
"Vedete bambini, se io prendo il cancellino e lo illumino da
questa parte e poi taglio questo pezzo di ombra con un coltello e
la metto sotto il mio cappello, dove sta l'ombra?". "Sotto il
cappello, Professore", rispondemmo tutti in coro.
A quel
punto tentai di intervenire con un mio esempio che forse
avrebbe spiegato tutto. "Non interrompere il professore!",
ringhiò ancora la maestra ricacciandomi le parole in gola. Il
direttore, lasciando intendere con una smorfia che era inutile
cercare di spiegare un fenomeno così complicato ad una classe
di cafoncelli, tagliò corto e disse: "Be ragazzi! Su, su, è tempo
di andare fuori a constatare quanto ho detto con i vostri occhi.
Niente è meglio dell'esperienza diretta per capire un fenomeno
scientifico". Quel giorno, oltre ad osservare un evento
eccezionale, scoprii anche che era meglio verificare,
enciclopedia alla mano, quanto gli adulti insegnavano. Non si sa
mai.
TEMPO ALLO SPECCHIO
Realizzando un film su De Chirico, Guelfo e i suoi
personaggi volanti. RAI “Artisti D’oggi” R.S.
Ho ascoltato fino alla consunzione, il disco di Milhaud.
Posso immaginare il film scena per scena, prima ancora d'averlo
iniziato. In principio, ho dovuto spingere a forza la cinecamera
attraverso i titoli e le foto di De Chirico e Guelfo. Questa
operazione mi è costata una fatica notevole, ma non si vede. Ora,
in mezzo alla gente che popola la piazza del monumento mai
realizzato, avviene il tanto atteso evento. Il clima festaiolo, il
suono dell'arpa, il tellurismo ritmico delle percussioni,
imprimono alla cinecamera la forza necessaria per salire in senso
verticale sulla folla. Le grida di gaudio ne alimentano la forza
ascendente verso la finestra, e poi dentro la casa.
Nell'attraversare il vetro, non sento più le voci della folla ma solo
una specie di ronzio continuo proveniente dal fondo di un
corridoio mal illuminato. Passando in una stanza, mi ha attirato
il tictio di un orologio ed altri ancora, fermi da tempi
immemorabili, alcuni hanno lancette e numeri fusi tutt'uno a
segnare un'ora decisa e lasciata lì per sempre. Nell'andare, ho
passato un dito sul vetro di un quadro pieno di polvere. Sono
pentito d'aver lasciato quel segno.La macchina ispeziona, indaga
fra gli oggetti, i disegni, i segni e le tracce di segni. Una inerzia
residua fa cozzare la cinecamera contro la cornice dove il
Volficano è stato messo a riposare. L'urto con esso e il suono
prodotto, rivelano una certa consistenza fisica di questa
creatura. Tale caratteristica rende il Volficano più familiare a
me, ma la sua sorprendente mobilità mi impedisce di scoprirne
la natura reale. Le Fenilene rendono il mio lavoro assai
difficile. I contorni scuri si rivelano solo per "effetto eclissi",
cioè, quando passano davanti un fondo luminoso o illuminato.
In tali condizioni, l'occhio può percepire i tratti essenziali di
queste creature, al punto da poterne descrivere la forma. Un
osservatore poco attento e superficiale scambierebbe facilmente
le Fenilene per amebe, se alcune di esse non avessero uno o due
occhi, a seconda che siano di faccia o di profilo. Filmare una
Fenilena è quasi impossibile, poi che non appena provi ad
aumentare la sorgente luminosa, i loro esili contorni si
dissolvono completamente. E questo il motivo per cui nel film
non si vedono Fenilene. I Folleni sembrano esseri diffidenti, ma
la forte vanità li porta a rivelarsi di tanto in tanto.
Stanco delle difficoltà, decido di abbandonare la stanza, attirato
dalla granitica maestosità di forme oltre uno specchio. Non ho
esitato un attimo ad entrarvi. Solo al momento di attraversare lo
specchio, ho avuto un breve indugio, ho avuto la sensazione
rivelatasi infondata che ci fosse una specie di scalino, ma poi ho
seguitato. Ho qualche difficoltà a valutare le dimensioni delle
statue. Potrebbero comunque essere di misura notevole se posso
entrare nelle pieghe dei loro vestiti. In mezzo a tanta maestosità,
la sibilla mi appare alquanto esile e diafana. Il canto del disco di
Milhaud, che ho ben in mente, calza giusto con la Sibilla, anzi,
sul corpo lucente di lei si fa suono udibile all'orecchio.Neppure le
mura del castello e il vento possono trattenere il canto della
Sibilla. La luce dell'alba comincia ad impressionare bene la
pellicola. Le ultime creature notturne svaniscono, assorbite dal
fondo verderame intenso della lupe sulla quale tutta la notte ho
tenuto l'occhio in attesa di cogliere strani eventi. Poi vedo
comparire l'orologio che segna le sei e trentasei. Il mio lavoro è
terminato, necessariamente.
Il folleno, le fenilene, il volficano, sono personaggi del pittore
Guelfo Bianchini, a destra
L'ASINO SACRIPANTE
Una storia per dormire
L’asino Sacripante non si rassegnava. Era molto triste
fin dal giorno in cui scoprì di avere una bella voce da tenore così
limpida e penetrante, che al do di petto poteva rompere qualsiasi
oggetto di vetro nel raggio di un chilometro. Ma non era questo
a renderlo infelice, anzi, ma il fatto che aveva un padrone così
stupido e ignorante che non sapeva apprezzare le sue qualità
canore. Un inverno nevoso e rigido, per ingannare la noia,
Sacripante lo passò nella stalla affinando il suo talento. Nei
momenti di pausa, pensava:
"Sono un asino molto fortunato, a primavera quando dimostrerò
al padrone cosa so fare, di sicuro mi porterà a tutte le fiere e le
feste a dare spettacolo. Forse girerò il mondo con un circo, il
padrone diventerà ricco e famoso e io non dovrò più lavorare ed
essere frustato di continuo".
Preso da un entusiasmo
incontenibile, fece un acuto così acuto che infranse tutti i vetri
della camera da letto sopra la stalla. Il padrone si svegliò e
riempì di botte il povero somaro. L'asino non si perse d'animo,
pensò, "Non ha capito l'importanza di ciò che ho fatto, adesso lo
rifaccio e capirà". E giù, un'altro possente acuto che spaccò una
damigiana piena di vino, e giù ancora botte dal padrone.
Svegliata dal trambusto, scese anche la moglie. "Bene!", pensò
l'asino. "Forse lei capirà. In quanto alla damigiana, potranno
comprare tutto il vino che vorranno ai primi incassi".
E giù un'altro acuto che spaccò un'altra damigiana piena di
vino, e giù botte da orbi, sia dal padrone che dalla moglie. Da
allora, ogni tentativo fu peggio dell'altro, al punto, che quando
venne primavera, l'asino era così malconcio che non poteva
neanche più lavorare. I due contadini decisero, quindi, di
portare Sacripante a Bologna per farne mortadella e così fu. In
attesa dell'esecuzione, il povero asino venne lasciato in un
recinto isolato in modo che i suoi ultimi disperati do di petto
non potessero far danno. Fortuna volle che in un hotel vicino,
venne ad alloggiare il famoso cantante Luciano Pavarotti, il
quale, aprendo la finestra una mattina, udì quella voce.
Esperto com'era, ne capì subito le qualità canore, ne fu
addirittura stupito. Lo stupore divenne meraviglia quando si
rese conto che era un asino il proprietario di quella voce. Il
famoso tenore acquistò l'asino per pochi soldi, dato che la pelle
era troppo rovinata dalle bastonate per ricavarne tamburi. Lo
presentò al suo impresario discografico, il quale propose, dopo
averlo ascoltato e apprezzato, di fargli interpretare l'opera, I
Pagliacci. Alle prime, Sacripante rifiutò sdegnosamente di
lavorare per "La voce del padrone", ma poi resosi conto che
quella non era la voce del suo ex-padrone, accettò, soprattutto
quando Luciano gli confidò che l'autore di quell'opera era un
mezzo parente dell'asino che si chiamava Leoncavallo.
Da quel giorno, per Sacripante ci furono solo trionfi e gloria. I
due ex-padroni dovettero accontentarsi di guardare il loro
Sacripante in TV, accusandosi a vicenda di quella occasione
persa, tra un boccone e l'altro di pane e mortadella, ma non
quella di Sacripante.
ARTICOLO 128
Per chi dovesse trovare questo CD nei secoli a venire,
sepolto in mezzo qualche mucchio di robaccia, spiegherò che
l'articolo 128, altro non era che una specie di mutuo soccorso, o
meglio, un aiuto economico che lo stato metteva a disposizione
agli artisti del cinema o per essere più chiari, era una
considerevole somma in denaro appesa sopra un albero della
cuccagna solitamente eretto in piazza socialista. L'iscrizione in
gara consisteva nel possedere una semplice tessera PSI. Un
giorno incontrai un mio compagno d' istituto, diplomato assieme
a me due anni prima, che aveva tra le mani un suo soggetto ed
era deciso a trascinarmi con se e presentarmi alla commissione
dell'articolo 128 per propormi cineoperatore ufficiale del suo
film previa iscrizione al Partito Socialista. Dopo un tortuoso
viaggio in autobus, arrivammo con moltissimo ritardo in una
sala piena di aspiranti registi ed un branco di “volpi grigie”
sedute lungo un tavolo del tutto simile all'ultima cena di
Leonardo, se si escludono i microfoni e l'acqua minerale. La
riunione era ormai terminata. Colui che rappresentava il Cristo
della situazione, dopo aver riposto le sue scartoffie dentro una
cartella, si alzò e stava per uscire. Il mio amico lo bloccò appena
in tempo, deciso a presentarmi a lui. Il Cristo riaprì di nuovo la
cartella e poggiandola sopra il termosifone, prima aggiunse il
mio nome sopra una lista, poi mi consegnò un bigliettino da
visita con un indirizzo, al quale mi sarei dovuto recare il giorno
dopo per tesserarmi al partito. In fine, dopo avermi stritolato la
mano, si avviò lungo il corridoio continuando a parlare al mio
amico che era costretto ad inseguirlo. "Bisogna ovviamente
ringraziare Lui", disse al mio amico continuando a tirarselo
dietro. "Si, ringraziare, ma come? Forse posso telefonargli, e
invitarlo al bar più vicino in modo da non dare nell'occhio", gli
rispose il mio amico. "No!", interruppe il Cristo.
Non è sicuro. La cosa migliore è di contattare Lui in sezione per
concordare il lavoro, poi non appena arrivano i soldi, la sera
stessa, vai all'indirizzo di casa con una busta chiusa senza
nessuna scritta sopra e . . swiisss . . . sotto la porta. Lui capirà".
"E se non riuscissi ad infilarla sotto la porta? Lei capisce, è una
bella sommetta", chiese preoccupato il mio amico. "Entrerà,
stia tranquillo entrerà", rispose il Cristo allontanandosi fino a
sparire. Voi giudici di tangentopoli!, avete mai pensato di
misurare le fessure sotto le porte per stanare i corrotti?
Preoccupato di perdere qualche grossa opportunità, il giorno
seguente mi recai al partito come concordato. Nella sala d'attesa
c'era un gruppetto di ragazzi aspiranti cineasti con il loro tutore
sulla cinquantina che impartiva le ultime istruzioni di come
salire sopra l'albero della cuccagna, probabilmente in cambio di
una lauta percentuale. Aspettando l'uomo chiave, cominciai a
provare un certo disagio. In quel posto c'èra una gran puzza di
merda di cane. Anche il tutore interruppe il discorsetto per
sniffare.
"Voi non sentite una puzza tremenda?", disse
provocando una risata generale, poi seguitò ad impartire
istruzioni. Io me ne stavo li, seduto buono buono nel mio
angolino ad osservare le facce un po' tese ma piene di sicurezza
di quei ragazzi. Avevano la sicurezza di chi ha alle spalle il papà
che conta, un papà che può, un papà "in" e non importa se quel
papà è morto da un pezzo, o magari è scappato con un'altra
lasciando la famiglia sul lastrico. Quell'atteggiamento io posso,
dunque sono, quindi voglio era comunque intatto in loro.
Talento o no, la loro vita era quella, nel cinema. Ebbi la
sensazione che erano nati predestinati per essere introdotti nel
mondo dello spettacolo. Io invece, che avevo un papà di mestiere
cassamortaro in un paesino in mezzo le montagne, pieno di aria
pura e cibi genuini e quindi anche pochi decessi per nostra
disgrazia, io che ero andato a scuola d'arte con il preciso fine di
diventare decoratore di bare, che chance potevo avere di entrare
nel loro mondo?" pensai sconsolato guardando le mie scarpe di
camoscio consunto. Fu a quel punto che notai una folta laniccia
e qualche cartaccia attaccata sotto le mie scarpe. La colla che
teneva il tutto appiccicato alla suola era pura merda di cane.
Non sapevo che fare. Le impronte maleodoranti dalla porta
conducevano proprio verso di me. Per qualche minuto rimasi
come impietrito, cercando di capire dove poteva essere ubicato il
bagno in modo da precipitarmi dentro a pulirmi. Ma proprio in
quel momento, sentii arrivare l'uomo chiave mentre urlava al
portiere:
"Io vorrei proprio sapere chi è stato quel porco che ha
smerdato dappertutto. Guarda, guarda che schifo! Anche qui!
Proprio ieri ho fatto cambiare la moquette. Buttano cicche per
terra, gomme americane e adesso anche la merda!".
Continuava a sbraitare, seguendo le orme che conducevano
inesorabilmente verso di me. Mi fissò un attimo, dopodichè,
molto seccato e senza parole, l'uomo chiave si infilò nella porta
del suo ufficio e dopo averci fatto aspettare tutti qualche
minuto, allo scopo di rimarcare il suo potere, dalla sua scrivania
gridò: "Chi è il primo!". Fortuna volle che non ero io. Questo
mi diede il tempo di darmi alla fuga e dire ciao ciao per sempre
e senza troppi rimpianti al famoso articolo 128 . . . Grazie cane!
LA RIVOLTA DEI NERDS
38 Anni all’ Uneversità “La Sapienza”
Nel 1972 frequentavo ancora quello che alcuni anni più tardi
sarebbe divenuto il prestigioso Istituto Europeo di Design, quando durante
la lezione di estetica fece irruzione il segretario d'Istituto che mi tirò fuori al
corridoio dicendomi: “Corri giù in segreteria c'é Enrico Medi che ti vuole
parlare”. Enrico Medi, per chi non lo sapesse, era una via di mezzo tra il
Piero Angela e il Zichichi di allora. Un vero mistico alla costante ricerca di
una verità che conciliasse la scienza con la fede. Persona di grande carisma,
ma anche di grande modestia e bontà. Predicava la scienza in RAI come un
prete predica la parola di Dio in chiesa. Nonostante io fossi del tutto ateo
assunsi Enrico Medi come la mia guida spirituale che mi conduceva per
mano tra i misteri della scienza. Non persi nemmeno una delle sue
trasmissioni in TV, anzi no: Per via della scarsa elettricità che arrivava nel
mio paesino in Abruzzo, una delle puntate la persi e come, il che mi fece
arrabbiare a tal punto che con vernice e pennello convertii, ogni scritta sui
pali “Chi tocca i fili muore” in “Chi tocca i fili si ammala” perche al
massimo ti potevi ammalare, altro che morte, con quella miseria di luce
elettrica elargita dall‘ ENEL.
La cinepresa ricavata nel
coperchio di una gavetta
militare come curriculum
Enrico Medi
Inutile dire che presi come scherzo le parole del
segretario, e invece no! entrato in segreteria mi
trovai al cospetto del mio idolo in carne ed ossa.
Per un attimo mi parve di svenire dall'emozione.
Ero talmente frastornato da non accorgermi che mi
tendeva la mano in attesa che a mia volta colmassi
la distanza residua per la stretta, cosa che rimediai
alla bell'e meglio li per li. Dopo di che esclamò con
la consueta voce carezzevole che tanto mi era
familiare attraverso lo schermo:
“Salve giovanotto! da quel che si dice, lei è una
specie di fenomeno” “Chi lui?” Risposi indicando
scherzosamente il segretario alle mie spalle per
scrollarmi di dosso l'imbarazzo, il quale replicò con
un buffetto dietro la mia nuca.
“Venga a trovarmi a Geofisica” esclamò il Prof. Medi: “Se
dopo una settimana le piacerà l'ambiente ed io troverò utile il
suo lavoro sarà senz'altro collocato, senza impegno però”.
Poco prima di sparire oltre la porta si voltò e aggiunse: “E
faccia in modo di stupire quelli del dipartimento come ha
stupito me con questi suoi arcani”.
Fu a quel punto che mi resi conto che la segreteria era stata
trasformata in una specie d'improvvisato museo allestito con
alcuni miei lavori poggiati qua e la, e realizzati in quei quattro
anni di scuola che alcuni dei miei insegnanti, bontà loro, vi
avevano posto in mostra.
Fu così che venni assunto a “La Sapienza” il 4 marzo 1972.
Uno dei rari casi di ingaggio meritocratico. Purtroppo il Prof.
Medi colpito da un male se ne andò due anni dopo, ma non
prima d' avermi riciclato presso la Facoltà di Medicina. Era
ancora l’epoca di quei dirigenti che amavano cucirsi addosso
uno staff di collaboratori efficienti e competenti nelle rispettive
mansioni, dal portiere al vice.
al fine di completare, in questo libro, la sfilata di protagonisti
che da sempre colorano lo scenario della “provincia Italia” in
tutte le variegate sfaccettature, grottesche, tragiche ma anche
divertenti e persino esaltanti dell'universo “La Sapienza”,
eviterò di specificare l'esatto dipartimento per non destare
possibili asti e risentimenti per via di quanto racconterò.
Il primo giorno di servizio a medicina in attesa di essere
presentato al così detto barone, mi imbattei in un pezzo classico
tanto caro agli accademici ma in particolar modo alla classe
medica cioè, il culto del titolo. Appena giunto in facoltà mi
presentai alla segretaria del barone esclamando: “Buon giorno!
ho un appuntamento col Dottor La Gatt/...“professor!,
professor La Gattolla!! ha capito? professore e non dottore!!”
urlò qualche galoppino dalla stanza attigua mozzando in due
quel nome dalla mia bocca. Era uno dei solerti assistenti del
Prof. che chiameremo in modo fittizio La Gattolla.
Se almeno si fosse scomodato di scollare il culo dalla sedia e
presentarsi ben in vista sull'uscio gli avrei replicato: E io allora
che ho studiato arte per 10 anni perche non ho mai potuto
esibire il mio bel titolo di “Maestro d'Arte” senza provocare
ilarità e scherno persino da parte dei miei genitori?
Se lo immagina lei, caro il mio galoppino, un ragazzo fresco
fresco di Accademia di Belle Arti che tutti devono chiamare
Maestro?
Come mi confidò il Dott. Baldoni, il famoso cardiochirurgo durante
una mia intervista, l'attaccamento pernicioso al titolo è una delle
caratteristiche che ci rendono ridicoli all'estero e che gli italiani di
buon senso cercano con imbarazzo di scopare sotto al tappeto.
L'attaccamento al titolo soprattutto nella classe medica è ben
incarnato da quel roboante bolognese chiamato Dott. Balanzone,
maschera del teatro dell'arte italiana che soleva schivare le domande
troppo forbite e imbarazzanti, farfugliando risposte in latino.
Il mio lavoro consisteva nel documentare a tutto campo ogni sorta di
attività ed eventi scientifici da stipare in archivio sotto forma di
documentari, disegni anatomici e materiale vario, utilizzabile per
pubblicazioni o semplicemente video didattici che ogni docente poteva
farsi confezionare da me per svolgere le sue lezioni in aula.
Prima dell'avvento del computer il mio era considerato un mestiere
prestigioso ed indispensabile. Chi è nato assieme al computer non
potrebbe nemmeno concepire quanto fosse difficile per un docente o
un medico di allora realizzare un semplice lucido per lavagna
luminosa o peggio le tabelle, le diapositive o la documentazione
filmata dei casi clinici da proiettare in aula o stampare sulle riviste.
In seno al dipartimento di medicina inventai dal nulla il
“Servizio di Documentazione Scientifica” con un
archivio che, in 38 anni di lavoro, annovera ben 200
Giga di materiale senza contare quello disperso prima
del digitale almeno dieci volte tanto.
Il modo più vicino per realizzare un testo come quello
tipografico era il così detto normografo cioè un patetico
attrezzo con le lettere traforate che permetteva,
passandoci dentro una penna, di fare una pallida
imitazione dello stampatello tipografico. C'erano anche i
famosi trasferelli o lettere a ricalco che si potevano
incollare su di un foglio staccandole con una matita che
però richiedevano molta pratica ed un lungo lavoro
anche nel comporre un breve testo. Non potrete mai
immaginare l'andirivieni del personale e dei medici che
venivano a farsi fare la striscetta con il proprio nome da
attaccare sul campanello di casa il che era considerata
una vera sciccheria, addirittura uno status simbol ve lo
assicuro, per non parlare dei complicatissimi disegni
anatomici e i filmati in pellicola da processare a
Cinecittà, il che richiedeva un lungo e complicato ciclo di
lavorazione e le spese di noleggio di una costosa moviola
per il montaggio audio-video.
L'arrivo del computer da un lato ha reso il mio lavoro
infinitamente più agile e meno gravoso ma dall'altro
ha fatto a pezzi il mio mestiere consegnando al
pubblico flagello l'arte grafica. Ricordo con sconcerto
quando il capo dipartimento mi convocò esclamando:
“Senta, visto che oggi tutti hanno un computer per
disegnare, realizzare le slide ed impaginare i testi, e
quindi il suo mestiere è meno richiesto, che ne direbbe
di occuparsi soprattutto della gestione didattica?” Al
che replicai con altrettanta faccia di culo: “E lei che
ne direbbe se anziché gestire la didattica mi mettessi a
fare interventi chirurgici?” Affermazioni come queste
spiegano molto bene come mai le nuove meraviglie
tecnologiche le chiamano democratiche.
Le chiamano democratiche perche offrono a qualsiasi
praticone di passaggio, smanettando il mouse nel
paradiso del fai da te, la dolce illusione di credersi un
navigato professionista.
Di solito eravamo io ed il secchione di turno, in veste di
consulente scientifico, per esempio, a curare il lungo e
paziente lavoro di edizione di un film didattico
solitamente destinato alle lezioni, alle pubblicazioni o
alla rete RAI dell'ormai defunto dipartimento “Scuola
educazione”. Ma la situazione più grottesca e
complicata si presentava al momento di apporre i titoli
di testa e coda. Era a quel punto che si materializzava
intorno all'editor l'equipe medica al gran completo per
accaparrarsi le varie priorità di apparizione in ordine
d'importanza, lasciando al secchione, se gli andava
bene, il solito e misero “Un particolare ringraziamento
a...”
Come non bastasse, io e il mio collaboratore secchione,
trafelati davanti all'editor dopo ore ed ore di duro
lavoro, dovevamo persino sciropparci le imbarazzanti
avventure congressuali vissute nelle camere di esotici hotel, con la solita
Lolita inclusa, che quelli l'equipe, si raccontavano addosso, con
assoluta impudenza, e senza lasciarsi sfiorare dall'idea che io ed il
secchione potevamo anche trasformarci in pericolosi delatori.
Mostravano il tipico atteggiamento strafottente di chi ha alle spalle il
papà “in” il papà che conta e sempre pronto a tirarli fuori dei guai.
Inutile aggiungere che venivamo sempre e puntualmente dimenticati
nella lista degli invitati alla cena di presentazione del nostro stesso
filmato, cosa che non succedeva mai lavorando con i veri luminari della
scienza con i quali si instaurava sempre un clima di stima ed amicizia
reciproca. Sappiate che secchione in inglese si traduce nerd, un
appellativo offensivo che un vero nerd accetta anche con un certo
orgoglio ma sono guai seri se dai del nerd al fichetto della classe, quello
conteso da tutte le compagne di scuola per intenderci.
Se ti va bene minimo ti becchi una coltellata, perche il nerd
è sinonimo di primo della classe quindi foriero d'invidie,
non guarda le ragazze, e non pratica sport, perché sempre
disprezzato e considerato nullità da tutti i coach del mondo.
Il nerd è il bersaglio preferito dai bulletti che gli pestano gli
occhiali sotto le scarpe, sperando in un qualche accenno di
reazione del poveretto che di solito non arriva, dunque
niente rissa, quindi niente figurone che il bullo possa offrire
in pasto alle sue pupe. Il nerd è l'eterno perdente: Se non
reagisce gli danno del vigliacco, se reagisce te lo gonfiano
come una zampogna; insomma uno che ci rimette sempre.
Il nerd è il classico genietto occhialuto, il topo di biblioteca
senza uno straccio d'appeal sulle ragazze, neanche durante
l'inevitabile e brillante carriera post laurea quando il
barone di turno se lo cucca e se lo alleva nel suo stabulario
per mungergli le idee sempre brillanti e sempre utili a
rinnovarci l'assegno di ricerca e...chissà un giorno al barone
potrebbero anche fruttargli un bel Nobel, alla faccia del suo
nerd personale. Mi viene in mente l'emblematica situazione
di quando venne a farci la conferenza quel santo patrono di
tutti i nerd che si chiama, Bill Gate, come noto un non
laureato.
Sul manifesto del convegno vi era una lunga sfilza di nomi,
nessuno escluso, affiancati dai soliti: Dott. Prof. Ing. Avv.
On. Pres. Con l'unica eccezione di Bill Gate, senza uno
straccio di titolo, liscio come un Martini.
Un giorno, arrivato da Vicenza, mi si presentò un giovane
chirurgo acchittato di tutto punto e dai modi gentili e
garbati, deciso a farmi documentare il suo primo intervento
in sala operatoria: “Eccolo qui l'incosciente di turno che si
crede il Dott. Barnard” pensai: “Uno di quelli che da casa
sognano di stare in sala operatoria ma che una volta in sala
operatoria sognano che era meglio starsene a casa”;
ma poi l'occhio mi cadde sul colletto della sua camicia pulita e ben
stirata ma dai bordi consunti fino a mostrare il feltro inamidato
interno, indizio inequivocabile di genialità, di chi sa il fatto suo e
considera l'aspetto esteriore un dettaglio del tutto secondario,
infatti quell'intervento fu il primo di una lunga serie di successi tra
l'invidia dei Prof. mezze calzette che lo accusavano di eccessiva
spregiudicatezza, aspettandolo al varco per farlo a pezzi al primo
errore chirurgico.
Il secchione è quello sempre preso a “poisson
dans le visage” che volgarmente sarebbe, a
pesci in faccia, prima dagli amichetti di scuola
e poi dai colleghi. I nerds, pur di soddisfare la
loro sete di ricerca o di lenire la febbre che li
spinge ad esplorare tra i più intricati anfratti
dell'universo, si aggirano come topi nei
meandri degli scantinati dell'ateneo romano,
sempre a caccia di vecchi e polverosi apparati
da laboratorio, che qualcuno ha fatto
acquistare dietro mazzetta e poi accantonato.
Un topo di biblioteca
mentre rosicchia cultura
Non sempre i nurds sono bruttini e occhialuti
come si evince da questa foto
Quando non riescono a volare all'estero come cervelli in fuga verso gli orizzonti
di gloria, finiscono la carriera da limoni spremuti in pensione, per poi portarsi
nella tomba il recondito sogno di rivendicare il Nobel che frattempo si è pappato
il suo barone.
Se tutti i nerds decidessero di ribellarsi agli stolti metterebbero il mondo in
ginocchio. Sarebbe come provocare un black out tecnologico di dimensioni
titaniche. Niente più automobili, ne televisori, ne computers, ne viaggi in aereo,
in treno e in nave. Le città finirebbero nella morsa del caos, le nostre civiltà che
gli stessi nerds, antichi e moderni, hanno creato regredirebbero al neolitico e gli
uomini tornerebbero a guerreggiarsi con pietre e bastoni, come disse una volta il
vecchio Einstein. E' assieme ai i nerd che popolano gli scantinati della
“Sapienza” che, come tecnico scientifico ho condiviso momenti entusiasmanti,
soddisfazioni e tanti riconoscimenti di sincera gratitudine. Un grazie a tutti loro
che mi hanno reso piacevole la mia quasi quarantennale collaborazione in seno
alla grande università romana. Continuare a parlare di questi oscuri martiri
della scienza che da sempre hanno spianato la strada ai Nobel e hanno formato
i cervelli in fuga, mi è penoso e difficile. In loro omaggio altro non posso che
invitare i miei lettori ad osservare un mesto minuto di raccolto silenzio.
L'ARROTINO DI
CIVITA RETENCA
Arrivò un giorno d'autunno del 1958 con una specie di
carriola spinta a mano. Allora avevo otto anni, tornavo da
scuola e decisi di saltare il pranzo pur di scoprire a cosa servisse
quell'ordigno a forma di cubo di legno pieno di cassetti e
cassettini. Due aste inchiodate ai lati e una ruota di legno
davanti, lo facevano somigliare ad una di quelle lettighe per
portare a spasso re e regine. L'anziano forestiero spinse il coso
attraverso la strada principale fino alla piazzetta centrale, in
mezzo alla quale si fermò. Le case intorno, con le piccole finestre
sopra e le porte sotto, somigliavano a tante facce perplesse che
osservavano incuriosite il forestiero e la carriola, in attesa di
chissà quale strano evento. La piazza era deserta per l'ora di
pranzo. Attraverso le finestre, si sentiva qualche voce tra un
boccone e l'altro e il rumore delle posate contro i piatti, segno che
non si può bussare alle porte a quell'ora. Il forestiero lo sapeva,
si guardò intorno, riflettè un attimo e infine fece un largo
sbadiglio che contagiò anche me, solo che il mio sbadiglio rimase
mozzato a metà quando dentro la bocca divaricata del vecchio i
denti superiori si staccarono in blocco, cadendo rumorosamente
su quelli di sotto. Era la prima volta che vedevo una dentiera e
non mi augurai certo di averne una anch'io.
Riassestata alla meglio la dentiera, riprese di nuovo a spingere la
carriola fino alla fontanella, qualche metro più in là. Seduto sul
margine della vasca, con la carriola tra le gambe come fosse un
tavolino, aprì uno dei cassetti dal quale ne cavò fuori un
bicchiere di metallo smaltato, pieno di ammaccaturine
rugginose e un coltello. Poi aprì una porticina sul fondo della
carriola dove vi era riposto il vino e un tozzo di pane che
ammollò ben bene sotto la cannella. Poi aprì ancora un'altro
cassetto dal quale ne tirò fuori un pezzo di formaggio. Riempito
il bicchiere, metà vino e metà acqua, cominciò a mangiare con
un tale gusto da indurmi a considerare l'idea di correre a
pranzo anch'io, ma la curiosità era troppo forte. Quel coso non
poteva essere solo un portavivande. L'intuito mi diceva che
dentro vi si celava qualcosa di ben più magico e arcano del
semplice cibo, quindi, decisi di aspettare ancora. Infatti, dopo
aver riposto con cura nei loro cassetti, il bicchiere, il coltello e
quel che restava di pane, vino e formaggio, spinse verso terra i
bracci della carriola, in modo da sollevare la ruota in alto, aprì
una botola posta sopra la cassa, estrasse una ruota di pietra con
una puleggia a fianco, aprì un'altro cassetto, prese una cinghia,
la mise in tiro tra la ruota di legno e la puleggia, collegò un
pedale alla ruota di legno, una breve prova per essere sicuro che
tutto funzionasse, prese la cornetta riposta dentro un'altro
cassetto e suonò come per dire “Signori il pranzo è finito.
Jamme arrutine ueee!", gridò in dialetto teramano.
Donne e uomini, vennero fuori con ogni sorta di utensili a taglio.
Pigiando sul pedale, l'arrotino cominciò ad affilare gli attrezzi
mentre parlava alla gente dei suoi viaggi e delle sue avventure,
dentro e fuori regione, spingendo la sua scatola magica dalla
pietra tonda e sfavillante.
Poi finito il lavoro, rimise tutto a posto, unì i soldi ricavati ad un
discreto mucchietto che teneva legato con un elastico per
mutande e se ne andò al prossimo villaggio a ripetere lo
spettacolo e cercare un pagliaio per dormire.
LA FAINA
C’èra
ancora l'ultima guerra mondiale
quando, in un tranquillo paesino in Abruzzo, mai
toccato dalle bombe e dagli invasori, sparirono alcune
galline. A quei tempi le galline erano un bene prezioso.
Se ne bolliva una si e no a Natale e forse a Pasqua e in
gran segreto, per non invitare altre bocche. Di ladri
neanche a pensarlo, tutta gente onestissima in paese,
anzi prodiga di offrire aiuto a chi ne avesse bisogno. La
colpa di quelle sparizioni non poteva che essere
addossata a qualche faina o volpe. Chiunque fosse, era
di sicuro un animale furbo e intelligente. Mai un
indizio, mai una penna fu trovata in giro. Le sparizioni
durarono un paio d'anni, dopo di che non vi furono mai
più episodi del genere.
Passati una decina d'anni, nel giorno di Natale del 1954,
tornò in paese dalla Germania, un emigrante di nome
Benito. Benito era il maggiore di cinque fratelli di una
famiglia poverissima. Per questo motivo decise di
emigrare, fare un po’ di fortuna e mandare soldi a casa.
Infatti, si presentò ben vestito e quasi irriconoscibile ai
paesani, con una discreta macchina, che aveva il
bagagliaio pieno di polli spennati e impacchettati, con
l'aggiunta di un regalino, un rametto di vischio e un
biglietto d'auguri con tante scuse per aver rubato i polli
dieci anni prima, spinto dalla miseria e dalla fame,
avendo cura di rubare non più di una gallina a pollaio e
di annotare con scrupolo il nome di ogni creditore sopra
un quaderno.
UN NATALE VISSUTO
PERICOLOSAMENTE
Alle vacanze di Natale del 2010, il piccolo Luca, cronista in erba,
figlio di una nostra vicina; deciso a svolgere con solerzia il compito a casa:
“Il Natale di tuo nonno bambino” che la sua maestra gli aveva assegnato
per le vacanze natalizie, venne a trovarmi per farsi raccontare da me, visto
che i suoi nonni erano tutti morti o dispersi, un vero Natale di tanti anni
fa. Un Natale di quelli romantici quando con papà, sfangando la neve ci si
recava nel bosco a scegliere l'albero di natale per poi tornare all'imbrunire
verso il tepore del focolare domestico, dove l'alberello poteva essere
decorato tirando fuori dal ripostiglio gli addobbi. Proprio come si vede in
certe cartoline natalizie, mentre la mamma preparava la garrula cena
aspettando la notte santa. Un alberello vero! mica uno quelli di plastica
comprato al supermercato che i suoi gli avevano appena arrangiato a casa
tanto per farlo contento, in attesa che ci arrivi sotto la play station in
regalo che Luca aveva richiesto via e-mail al babbo natale della cocacola
direttamente dal polo nord.
Superato lo shock di essere stato eletto nonno così, su due piedi, iniziai il
racconto del mio bucolico natale di tanti, tanti anni fa, mentre il bimbo
con fare da vero cronista preparava penna e tacquino per non perdersi
nemmeno una virgola.
Caro il mio Luca! il Natale d'una volta era povero. Mancava l'abbondanza
di oggi ma allora i regali erano pochi ma veri e venivano sempre
apprezzati da noi bambini. Allora non c'erano tanti soldi da spendere. Se
sotto l'albero ci trovavi una pistola ad acqua e una confezione di carracini
era già tanto. Ai miei tempi gli alberi di plastica non c'erano, erano alberi
veri di pino o abete che fregavamo alla pineta. La forestale piantava a
maggio e i paesani segavano a dicembre e così la pineta non cresceva mai.
Passato Natale gli alberelli erano belli e secchi che si dovevano buttare via.
Una volta dei fiorai aquilani disonesti non potendo arrivare al vischio
segarono due bei mandorli di mio zio pur di fregarlo, il vischio costava
parecchio e mio zio passò quel natale smadonnando come come un bifolco.
Come addobbo si usavano palle di vetro e non di plastica come
adesso, che spesso si rompevano ed erano molto taglienti. La
vedi questa cicatrice sul dito? ancora ce l'ho. Per fare la neve sui
rami si usava la lana di vetro che era bianca e lucente. Lana di
vetro capisci? Era fatta di pagliuzze volanti che ti entravano alle
dita, gli occhi, le narici e dentro i vestiti come ortiche e aghi di
cactus, ti rendi conto. E dove vendevano la lana di vetro per
fare la neve? La vendevano persino ai magazzini Standa!!, roba
che oggi ti arrestano subito, perchè la lana di vetro penetra nei
polmoni e non la levi mai più, può anche causare il cancro.
Sull'albero ci si mettevano le candeline di cera perchè le lucette
costavano. Dopo le feste, se ti facevi un giro nelle case spesso si
vedevano larghe chiazze nere sui soffitti, segno lasciato dagli
alberi natalizi andati a fuoco. Sono anche bruciate un paio di
case da queste parti. Oggi con le luminarie elettriche non
succede più per fortuna. Adesso ci sono leggi severe. Le palle
sono per legge tutte di plastica ed ogni pezzo deve essere
conforme elle norme CEE per fortuna. Persino l'albero deve
essere certificato di plastica ignifuga. Anzi, sei sicuro che quello
che avete appena fatto a casa tua non sia un albero di plastica
cinese?
Solo a quel punto del racconto realizzai che Luca mi guardava
con un sorrisetto tra imbarazzo e delusione; come gli avessi
tracannato la merendina senza chiederla. Accidenti a me, gli
avevo fatto a pezzi il mito del bianco Natale del panettone Bauli.
Se ne uscì con gli appunti scritti a metà ed una espressione sulla
faccia della serie: “E mo' cosa gli racconto alla maestra?” Che
gaffe ragazzi. Ma che ci posso fare. Che colpa ne ho se al mio
interlocutore gli fanno sempre vedere quelle melenze cartoline
natalizie.
FAGIOLI NELLA TESTA
ovvero: la filosofia di Bastiano
Un contadino mi invitò a scendere nella sua cantina per
offrirmi un bicchiere di vino preso fresco fresco dalla botte.
Mentre parlavamo del più e del meno, l'occhio mi capitò su di un
lenzuolo di juta umido e cosparso di fagioli. Quando chiesi a
cosa servissero tutti quei fagioli, il contadino mi rispose di averli
messi li a germogliare per decidere quali seminare e quali no.
Giustamente, quelli germogliati li avrebbe seminati, tutti gli altri
li avrebbe cotti e mangiati, in modo tale d’ avere, non solo un
orto folto e rigoglioso ma anche parecchie zuppe a cena.
Tornando a casa, mi venne in mente che quella regola elementare
dei fagioli, si poteva applicare anche su scala universale. Ad
esempio per scegliere le idee migliori. Se le idee che affollano la
testa fossero come fagioli, non sarebbe molto saggio aver fretta di
scegliere quelle apparentemente più belle e produttive; con il
tempo potrebbero anche risultare sterili e banali. Meglio aver
pazienza di aspettare alcuni giorni, o forse mesi, per dare modo
alle idee di germogliare come fagioli e, quindi, metterle in
pratica, scartando quelle sterili che produrrebbero solo tempo
perso.
Sicuramente, un filosofo potrebbe meditare in modo più
professionale e argomentato su questa teoria, che non un
ragazzino mezzo ubriaco. Ma un fatto è certo, fin dal giorno
che decisi di applicare alla mia vita la teoria dei fagioli, le cose
andarono indiscutibilmente meglio di prima.
Roberto Soldati
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