Appunti dal cassetto
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Appunti dal cassetto
Roberto Soldati Appunti dal cassetto Mi sono spesso chiesto, per quale motivo alcuni eventi apparentemente banali e senza importanza, si ostinano, di tanto in tanto, a riaffiorare nella mente. In certi momenti, per qualche oscuro fenomeno e senza un motivo logico, qualche ricordo si stacca dal fondo della memoria e te lo vedi riemergere in superficie come per dire: "Hei! Sono qui. Eccomi di nuovo. Perchè m’ ignori?". Nel mettere insieme questo libro, mi sono semplicemente preso la briga di annotare tutti quegli aneddoti, fantasie, riflessioni e storielle ascoltate da qualcuno, poste a macerare nel cassetto e solo di recente recuperate e pubblicate. A che scopo o conseguenza poco importa . Vi sono situazioni fantastiche che assumono connotati di vita reale e situazioni reali che per certi aspetti assurdi, grotteschi e incredibili, sembrano sconfinare nella pura fantasia. RIFLESSIONI IN UN MUSEO DEL CINEMA L’arte del cinema nel Medioevo Articolo per Messaggero cultura, R.S. Peccato, veramente peccato, che la macchina da presa non sia stata inventata nel Medioevo. Non per avere un documento filmato delle crociate, oppure un'intervista di Dante e di Leonardo, o un servizio su Michelangelo mentre scolpisce. No, non sarebbe stata questa la cosa più importante. La cosa veramente importante sarebbe stata quella di avere anche per il cinema, una tradizione storica, delle regole e dei canoni estetici ben consolidati, dei criteri di giudizio, per meglio valutare il valore artistico di un'opera. Forse oggi esisterebbe un modello unico di "strumento da presa", come per esempio il violino; uno strumento da presa universale, sia per piccoli dilettanti che per grandi professionisti. Se il cinema fosse nato nel medioevo sarebbero esistiti storici maestri, nell'arte del costruire strumenti da presa. Modelli identici che solo un esperto sarebbe in grado distinguere la differenza tra uno di serie e uno artigianale, da certe sfumature del colore o da una particolare pastosità dell'immagine. Il pubblico applaudirebbe i virtuosismi visivi del Maestro cineasta e ne fischierebbe le stecche ottiche. Riconoscerebbe al volo un'immagine strimpellata da una ben eseguita. Sfortunatamente, il cinema ha appena cento anni, ed essendo figlio della tecnologia, la qualità artistica di un'opera, troppo spesso viene misurata secondo livelli di definizione d'immagine o di costi, applicando la formula: .HI TECH + HI BUDGET = HI QUALITY Se la pittura, come il cinema, fosse nata nel novecento, se Caravaggio e Monet fossero nostri contemporanei, si direbbe forse che Caravaggio dipingeva ad alta definizione rispetto alle sommarie pennellate di Monet? Si direbbe forse che il valore delle loro opere sia direttamente proporzionale alla quantità di superficie dipinta o al costo dei materiali impiegati? CARAMELLAI Ogni abitante del distretto di Lucoli, un comune vicino L'Aquila, conosceva Fortunato e Serena, una anziana coppia che negli anni cinquanta arrivavano puntualissimi con il loro somaro carico di caramelle e bruscolini ad ogni festa paesana. Un mattino di parecchi anni fa, ad una delle tante feste c'èra anche la banda. Fortunato e la moglie pensarono di mettere in bella mostra la loro merce proprio sulla piazzetta principale dove sarebbe arrivata la banda per fare colazione all'aperto con panini e vino locale. La bancarella consisteva in due valigie, caricate ai fianchi del somaro, dentro le quali, Fortunato con un certo ingegno, vi ricavò degli scompartimenti che contenevano la merce. Bastava aprire i coperchi, lasciando il tutto in groppa all'asino e . . . hop là, i bambini avevano l'imbarazzo della scelta. Dentro uno scompartimento vuoto, Fortunato vi teneva un ferro di cavallo come portafortuna. Siccome all'epoca non capivo niente di magia, conclusi che quell'amuleto serviva come ferro di scorta per l'asino. Tutte le caramelle erano sfuse. Fortunato le vendeva dentro dei coni di carta paglia che faceva al momento con molta destrezza. Quella mattina gli affari andavano bene e il pomeriggio prometteva ancora meglio, ma a rovinare tutto fu il trombonista della banda che finito il panino si era messo a fumare. Siccome era ora di attaccare il prossimo pezzo, per un senso di civile creanza, non gettò per terra la cicca, bensì la ficcò dentro l'orecchio dell'asino. Allora era d'uso denigrare un somaro, lo si studiava anche sui libri di scuola. Il dieci per cento dei racconti sul libro di testo erano dedicati alla testardaggine, la stupidità e le angherie subite dal somaro. Vi si leggevano storie di asini cattivi sbolognati dai loro padroni per farne mortadella. Asini bastonati anche da morti, poichè la pelle serviva a fare tamburi. Altri ancora, bruciati vivi o morti per fame e come se questo non bastasse, tutte le ricette punitive di scuola erano a base di somaro, basti pensare alle orecchie d'asino messe in testa ai scolari più somari, appunto. Il cerbero musicante, che da piccolo doveva averne subite parecchie di ingiurie asinine, pensò che finalmente era arrivato il momento di vendicarsi. Il povero animale cominciò a correre e scalciare furiosamente, lastricando la piazza di caramelle. Tutti i bambini, io compreso, ci gettammo a capofitto per raccoglierle. Riempite le tasche, la maggior parte scapparono, solo io e qualcun'altro pensammo di restituire il malloppo al legittimo proprietario che nel frattempo si era lanciato all'inseguimento per riacciuffare l'asino. La moglie Serena intanto aveva intrapreso un parapiglia con i bambini per riprendere la merce agli ultimi fuggitivi. La vidi disperata. Mi fece pietà e decisi di aiutarla a raccogliere. Dopo aver riempito anche il mio cappello di caramelle, le andai incontro per restituirgliele. Ma lei, senza discriminare i ladri dagli onesti, mi assestò una poderosa pizza in faccia, proprio sull'occhio destro. Non vidi più nulla, solo un vortice di lucciole che dai margini del campo visivo andavano a confluire verso il centro come una folla che sgomita appena apre un negozio di saldi. Potevo sentire solo la voce di Fortunato e della moglie che sbraitava come un'aquila. Man mano che le lucciole si dissipavano, cominciai ad intravedere Serena con la lunga gonna nera, alzata con le mani a formare un sacco, lasciando scoperta una ricamatissima sottana bianca mentre racimolava le ultime caramelle. Il resto della giornata, Fortunato e Serena la passarono recuperando caramelle e bruscolini casa per casa, anche con l'aiuto dei genitori e persino del musicante ormai pentito. Mia nonna mi mise uno straccio umido sull'occhio nero. Quel giorno mi sentii come un ferito di guerra, forse anche un poco eroe. IL PESCIOLINO NERO R. S. Articolo per “Itinerari Arte” Nel 1976, fui invitato presso una sala del Centro sperimentale di cinematografia di Roma a proiettare un mio film animato, ispirato ad una favola scritta da un patriota iraniano, trucidato durante il regime dello Scià. Nel filmato vi si narravano le vicende di un coraggioso pesciolino nero che alla fine del film diventa rosso. Quando si accesero le luci, una foresta di braccia alzate a pugno chiuso esultavano accogliendo quel cambiamento cromatico al grido di: Viva il comunismo! mentre un mio amico iraniano, pregava a fatica i ragazzi di fare silenzio. Quando l'ultimo pugno a stento si abbassò e ogni voce si spense, l'iraniano spiegò, con non poco imbarazzo, che il colore rosso nel suo paese era simbolo di speranza e non proprio di comunismo, provocando un silenzio tombale che durò alcuni interminabili secondi. Poi, come si impara nelle esercitazioni antisismiche, con calma e senza panico la sala fu evacuata fino a svuotarsi del tutto. HO CONOSCIUTO LA STREGA LISABETTA La strega Lisabetta abitava dentro una porticina che conduceva direttamente in cantina, attraverso uno scalone di legno. I due fratelli l'avevano segregata nel sotterraneo di casa per impedirle di condividere un'eredità familiare piuttosto consistente. Tutti gli abitanti del comune la consideravano una poco di buono. Siccome non potevano definirla una puttana, in quanto non fu mai vista in compagnia di uomini, la chiamavano strega. Tutti dicevano che se la faceva con Satana nell'angolo più profondo della sua cantina. Nessuno si curava di lei, nessuno le chiedeva se stava bene o stava male, anzi spesso la denigravano e di conseguenza anche i bambini si sentivano autorizzati a tirare i sassi contro la sua porta o a mettere i botti di capodanno dentro il chiavistello. I paesani la invitavano in casa solo per togliere il malocchio quando qualcuno stava male e i medicinali non funzionavano. Ricordo come fosse ieri, una contadina che aveva un marito sempre con mal di testa e capogiri, bussare forte sulla porta della strega; e quando Lisabetta si affacciò, la contadina le gridò forte: "Tu! Sei stata tu che hai messo il malocchio a mio marito. Tu lo hai messo e tu devi toglierlo". E così dicendo, cominciò a strattonare la strega verso casa. Una volta Lisabetta sparse in giro la voce che sarebbe venuta la fine del mondo una certa notte del 1960, probabilmente per vendicarsi di un torto subito. Giunto il giorno del giudizio, nel paese aleggiava un clima di catastrofe incombente. Anch'io fui preso dall'angoscia, allora avevo dieci anni. Ricordo un gruppo di vecchiette che parlavano come se quello fosse il loro ultimo incontro. "Beati quelli che sono già morti!", disse una di loro, rafforzando inevitabilmente la mia angoscia. Una ragazza, mia vicina di casa di nome Giuliana, aveva incollato l'orecchio alla radio, e saltando da una stazione all'altra, cercava di carpire qualche notizia su quell'apocalisse. Il padre se ne stava silenzioso accanto al fuoco aspettando con cristiana rassegnazione la fine imminente. Il fratello si era rannicchiato in un angolo con le orecchie tappate, mentre la madre, dalla finestra, scrutava per l'ultima volta l'orizzonte con lo sguardo perso nel nulla. Io non ci feci molto caso, quella è sempre stata una famiglia di nevrotici. Ad un certo punto, Giuliana captò Radio Praga in lingua italiana (una specie di emittente pirata comunista). Una voce diceva: "Uomini, donne e bambini di tutte le età chiedono acqua. Posso sentire i lamenti di persone malate…Il treno viene subito fatto ripartire attraverso il fuoco che ha già invaso il binario". Mentre Giuliana ascoltava queste parole con gli occhi pieni di terrore, la trasmissione si interruppe con un forte sibilo. Giuliana terrorizzata, prese alcune riviste di Grand Hotel, corse nella sua camera e dopo aver oscurato con le riviste i vetri delle finestre, ficcò la testa sotto le coperte per non vedere il fuoco cadere dal cielo durante la notte, come aveva previsto Lisabetta. Tornai subito a casa, accesi la radio su radio Praga e mi resi conto che quel comunicato, che tanto aveva spaventato Giuliana, non era altro che la testimonianza di una deportazione, scritta durante l'ultima guerra. Siccome vidi i miei genitori abbastanza scettici riguardo la fine del mondo, mi rassicurai abbastanza da andare a letto. Quella notte non suonarono le trombe del giudizio, si sentivano nient'altro che grilli. Il mattino seguente era terso e lucente. Quando andai a scuola, Giuliana stava lavando i panni alla fontana, assaporando la nuova vita. Non posso negare che cominciai a provare una certa simpatia per quella strega dall'età avanzata ma indefinibile. Avrei voluto conoscerla meglio, ma la cosa non era facile, era un tipo scontroso e inoltre odiava i bambini. Eppure potevo intuire una umanità ed una fine intelligenza nascosta in lei. Era alta e affascinante. Viveva dentro quella cantina, con una certa dignità e non da disperata. Portava abiti variopinti che faceva da se, modificando vecchi vestiti, al contrario delle altre donne eternamente vestite a lutto in un monocromo nero dalla testa ai piedi. Andava ad attingere acqua con una botticella sulla carriola per annaffiare il suo rigoglioso orto, senza curarsi di ancheggiare elegantemente con una pesante conca sulla testa, come le compaesane. Aveva una innata eleganza che nemmeno il suo dimesso modo di vestire poteva nascondere. I capelli sommariamente raccolti sul capo, erano tenuti da un foulard oppure coperti da un cappello da uomo che metteva durante la stagione calda per ripararsi dal sole, incurante del ridicolo. Nell'estate del 66, per sfuggire al caldo, mi riparai dentro la chiesa del paese. Salii fin sopra l'orologio del seicento che si era rotto una quarantina di anni prima. Osservandolo con attenzione, mi resi conto che, per qualche motivo, un piccolo ingranaggio si era spaccato, ma il resto era abbastanza in ordine. Si poteva riparare. Mi procurai un peso di ottone per bilancia da un chilo, lo portai al laboratorio di scuola e con molta pazienza riuscii a ricostruire il pezzo. Dopo aver oliato e riassestato il meccanismo, l'orologio ripartì. La notte stessa decisi di collegare i martelli e far funzionare l'orologio a mezzanotte precisa, inaugurandolo. Appena rintoccata la mezzanotte, mi appostai sopra il campanile per vedere la reazione degli abitanti, ma niente! Silenzio totale. Ad un certo punto, venne fuori Lisabetta, aspettando incredula il prossimo quarto. Rintoccate le 24 e 15 se ne rientrò in casa. Il giorno seguente, tutti si complimentarono con me per aver resuscitato l'orologio. Anche i vecchi erano contenti e specialmente quelli soli, che sentivano i rintocchi come una compagnia, un ritorno al passato. Lisabetta ne fu così entusiasta da recarsi in municipio per chiedere un piccolo contributo per me, che dovevo tirare sopra ogni sera tre grossi pesi, uno per le ore e gli altri due per i martelli. Ma il segretario comunale, con logica da burocrate, rispose che quel pezzo d'antiquariato si poteva anche fermare, tanto oggi tutti hanno un orologio per guardare l'ora. Indignatissima Lisabetta venne a riferirmi l'accaduto e testimoniarmi la sua solidarietà. Io le assicurai di dare la carica gratis, anche per fare un po’ di esercizio muscolare. Ad un certo punto decise di mostrarmi una pendola con un carillon incorporato, regalatale da suo zio. Fu l'occasione per andare finalmente a casa sua. Aspettavo una topaia, invece vi trovai un posto pulito, ordinato e stimolante, pieno di oggetti di ogni sorta: corna di cervo, un grappolo di campanelli, un grande vassoio di legno ripieno di sapone fatto in casa, in attesa di essere tagliato a quadratini, conserve di ogni tipo, ampolle piene di intrugli magici, mazzi di varie erbe appesi a seccare, pestelli, un libro di ricette erboriste, un ritratto di Galeno, e una sua foto da giovane incorniciata dentro un attestato di merito che attirò la mia curiosità. Lisabetta si avvicinò e lo prese con cura lasciando sulla parete un riquadro più chiaro, segno che era appeso li da tanti e tanti anni. Indicando l'attestato con il dito storto dall'artrite, mi disse: "Questo l' ho vinto nel 1919 in un corso per l'ammissione alla scuola secondaria. Volevo arrivare all'università, e fare medicina", affermò con voce un po' amara, e seguitò. "Mio zio che era in America mi manteneva agli studi. Mandava persino una retta al dormitorio delle Agostiniane all'Aquila. Allora non era facile fare avanti e dietro come adesso. Non c'erano neanche corriere e la strada era scomoda. Purtroppo", disse malinconicamente riappendendo l'attestato al muro, "finito il liceo sarei dovuta andare a studiare a Roma, però il mio fratello maggiore, quello che lavora al dazio, si rifiutò, dicendo che la città corrompe e poi la medicina non è cosa per donne, e mi impedì di continuare gli studi". Cercava chiaramente di nascondere una profonda tristezza dietro un'espressione della faccia maldestramente spavalda. Prima ancora che riuscissi ad argomentare una risposta, lei seguitò: "Non ho mai smesso di comprare libri di medicina. Ho sempre sperato di rimettermi a studiare un giorno; ma poi mio fratello scrisse allo zio di non mandarmi neanche più i soldi per comprare i libri, dicendo che ero diventata una fissata, che per studiare trascuravo le faccende di casa e che ancora non prendevo marito". Un giorno mi ammalai, vomitavo ogni cosa che assaggiavo. Neanche i medici ci capivano niente. Ero diventata uno scheletro. Una volta scacciai il medico in malomodo, gli tirai appresso il clistere che si frantumò in mille pezzi", disse sghignazzando di gusto. "Fu quel giorno che trovai la forza di alzarmi e studiando alcuni testi di medicina antica riuscii a curarmi da sola, con somma meraviglia di tutti. Decisi di rompere con la famiglia e di sistemarmi dove sono adesso. Mio fratello, per la rabbia, mi fece murare la porta interna per non farmi entrare nel palazzo", disse con stizza. Le chiesi se le capitava spesso di curare persone. "Si", mi rispose. "Spesso, molto più di quanto sembra, non con le medicine però ma con le erbe o sostanze naturali. Le persone bene non vogliono farlo sapere in giro e per questo pagano spesso un supplemento per la riservatezza. Di solito ai paesani non chiedo neanche i soldi, faccio a offerta. Spesso ho guarito persone con sostanze senza nessun effetto curativo, ma non per dare una fregatura. Si aspetta il beneficio e il beneficio arriva. C'è chi la chiama suggestione e chi magia, questa cosa. Una volta mi è capitato un tizio che si era convinto di avere un tumore alla testa. Aveva visto morire un vicino di quella malattia e pensava di averla presa anche lui. Ne aveva assunto così bene i sintomi, che i medici gli avevano dato solo pochi mesi di vita. Gli preparai un bell'infuso di valeriana, ma non gli dissi che era solo un calmante, gli dissi che era un rimedio contro il tumore. Lo bevve e giorno dopo giorno cominciò a migliorare. Oggi e ancora li, che scoppia di salute. Porta sempre uno zucchetto di lana in testa estate e inverno per non beccarsi un'altro tumore. Questo è un lavoro serio, bisogna saper discernere la malattia vera da quella falsa, quella metà e metà, o quella seria che abbisogna del chirurgo". A questo punto non potevo fare a meno di chiederle conferma a proposito dei suoi dialoghi con il diavolo. A questa domanda lei mi rispose con sguardo luciferino: "Il demonio non è all'inferno, il demonio è l'uomo stesso che raggira sottomette sevizia e tortura. Non c'è demonio peggiore del bigotto, secondo me. Satana invita l'umano a guardarsi dal fanatismo religioso che può essere pericoloso quanto e forse più di una guerra, perchè il fanatismo è più subdolo, ingannevole e nascosto. Lisabetta passò i suoi ultimi anni di vita, distrutta dall'alcool, ospite al ritiro per anziani di Collemaggio a L'Aquila. Nonostante avesse dei seri problemi reumatici, Lisabetta scappava spesso dal ritiro, e se ne tornava al paese in corriera, ignorata come sempre da tutti. Un giorno del 1974 a L'Aquila, in attesa della corriera mi recai a vedere la basilica di Collemaggio, appena restaurata, dove mi affiancò un vecchio barbone col il palmo della mano mollemente teso che mi chiese: "Qualche soldo, non è per me, è per la masseria. La vedi quella? si nasconde dietro la colonna non è capace, si vergogna, non mi rende, devo pensare anche a lei". Voltandomi verso la colonna vidi un volto imbacuccato che si affacciava con uno sdentato sorriso per poi ritrarsi vergognoso, era Lisabetta. Da allora non ne seppi più nulla finchè al cimitero del paese non notai una lapide che chiudeva un loculo, senza fotoceramica. Una scritta in lettere di bronzo appiccicate alla meglio diceva: Elisabetta Seneca N. 26.6.1898 M. 22.2.1976 Non sei assente, sei solo invisibile. una prece Sostai per parecchio tempo davanti a quel grottesco epitaffio a riflettere del giorno che la intravidi dietro quella colonna. Mi tormenta ancora oggi il pensiero se feci bene o male a far finta di non riconoscerla. Al momento pensai di salutarla, ma poi, un po’ per timore un po’ per discrezione non lo feci. Quando mi voltai vidi la mano del suo compagno ancora in attesa con un sorrisetto birbone e maldestramente pietogeno. Gli abbozzai un sorriso, gli misi una banconota in mano e gli dissi: Beh!, tu pensa alla masseria ed abbi cura della tua amica, tanti auguri, e me ne andai. Dentro quella tomba giaceva una strega. Chi dice che le streghe non esistono si sbaglia. Io o avuto il grosso privilegio di conoscerne una vera, in carne e ossa, il corpo giaceva lì, di fronte a me dentro il loculo. In fondo se esistono le streghe esistono anche folletti e gnomi. Sicuro! gente che per disgrazia o fortuna nascono piccoli e deformi o semplicemente diversi come Lisabetta. Il bosco era il loro rifugio, un posto tranquillo assieme ai funghi e gli animali, tra le fronde e al riparo dai sguardi indiscreti e denigratori dei normali e dai loro scherni. Poteva capitare al viandante che si avventurasse nel bosco di imbattersi, prima o poi in quelle entità silvestri, sfuggenti e furtive con i loro cappucci rossi a punta messi in testa per non essere impallinati da qualche cacciatore orbo o distratto, venuto dal mondo malato dei normali. CANTAMI O PORCO Il sabato, per gli scolari di quinta elementare era il giorno della poesia. "Ragazzi tutti in terrazza!", diceva la maestra. "Tutti in terrazza a guardare la campagna per mezz'ora, poi tutti in aula a scrivere una poesia su quello che avete visto". Devo dire che per qualche motivo ero proprio stufo delle solite leziose frasi del tipo: Verde è la campagna, cinguetta l'uccellino, ara la terra il contadino mentre la mucca dagli occhi grandi e belli ha le corna al posto dei capelli, ecc. . . ecc. . . Mi dava l'idea che frasi del genere fossero roba per femminucce; per cui, decisi di comporre qualcosa di più maschile e brutale. Ecco il testo: croof-croof fa il porco nella stalla, croof-croof fa il porco mentre balla, croof-croof canta il porco, mentre copre il corpo con chiazze di sporco scavando lo sterco. Si pulisce col fieno per andare a San Remo, croof-croof canta fino a Gennaio, poi verrà il macellaio ti farà a salcicce e la festa finisce. Finite le composizioni, ogni scolaro si alzava e leggeva la propria poesiola. Giunto il mio turno, non feci in tempo ad arrivare a metà poesia che la maestra, tra le risate dei miei compagni, mi scippò il foglio di mano. Con gli occhi rivolti verso il soffitto in segno di sopportazione, senza neppure guardarlo, strappò il foglio a metà, poi unì uno sull'altro i due pezzi e li strappò ancora a metà, poi unì uno sull'altro i quattro pezzi, e li strappò ancora a metà, fino a ridurre la mia poesia in una manciata di coriandoli che buttò nel cestino, decretando così la fine della mia carriera di poeta. Mah, chissà, oggi i tempi sono cambiati . . SCHIZZO AL SAMBUCO Un tempo, quando tutti i bambini usavano costruire i giocattoli con le proprie mani, secondo tecniche tradizionali, tra i diversi tipi di gioco, c'èra anche lo schizzo al sambuco. Si tagliava un rametto di sambuco più o meno lungo, lo si svuotava del tenerissimo midollo, in modo da ottenere un tubo di legno, all'interno del quale vi si faceva scorrere uno stantuffo. Dipanando uno spago, si costruiva una pallina di stoppa impastata in bocca con la saliva, poi la si spingeva con lo stantuffo verso il foro di uscita e se ne poneva un'altra all'estremità opposta. Un colpo secco contro lo stantuffo faceva partire la prima pallina come un proiettile. Un mio compagno di giochi, che io odiavo tanto quanto gli abitanti del villaggio lo amavano perchè sapeva intonare il rosario, un giorno mi chiese istruzioni per costruire anche lui lo schizzo al sambuco. Quando gli dissi di impastare la stoppa con la saliva, il meschino mi chiese cosa fosse la saliva. Deciso a vendicarmi del suo successo popolare, lo mandai a comprare la saliva dal droghiere. Quello che avvenne dal droghiere non lo so. Di sicuro qualcosa di tremendo dev'essere accaduto se ancora oggi, lui, tranquillo impiegato comunale con moglie e prole, si limita a rispondere al mio: "Ciao! come va?", con uno striminzito: "Eh . . . come vuoi che vada". Non manderò mai più nessuno per il resto della mia vita a comprare la saliva dal droghiere. Se proprio necessario, meglio il vecchio e salutare cazzottone in faccia contro l'invidia, fa meno male. LA MINIERA DEL GHIACCIO Dal racconto di un vecchio montanaro abruzzese Abruzzo 1850. Valerio era quel che si dice un bravo cristiano: leale, laborioso, ingegnoso, e onesto, troppo onesto si diceva di lui, un fesso insomma, almeno secondo il parere degli stolti. A lui piaceva vivere così, in pace e in armonia con se stesso e tutte le cose del creato. Aveva una moglie e tre figli, due maschi e una femmina. A causa della sua onestà, era il più povero di altri due fratelli che facevano i contadini. Furono proprio loro, tramite qualche fregoleria legale che solo i furbi conoscono, a mischiare le carte, espropriando il povero Valerio di ben tre ettari di terreno avuto in eredità dai suoi genitori. I fratelli lasciarono a Valerio solo un pietroso e incolto pezzo di terra, quasi in cima ad una montagna, sul quale, nel periodo invernale, cadevano intere valanghe di neve, rendendolo inutilizzabile, sia come terreno agricolo che come pascolo. Un giorno di Luglio, Valerio decise di salire su a visitare quel posto. Da ragazzo, lo ricordava come un luogo aspro ma affascinante, pieno di insenature rocciose sempre ricolme di neve, anche in estate, con rivoli e sorgenti che formavano pozze d'acqua limpidissime, dove il bestiame andava a dissetarsi. Il resto solo massi, grandi e piccoli, caduti dalla cima di monte Capocroce. Valerio si guardò intorno sconsolato. Dopo quasi venti anni era tutto come allora; non riusciva a intravedere neanche una piccola radura per seminarvi un po' di grano. Cosa me ne faccio di tutto questo, vendo ghiaccio, pensò tra se. "Correte gente! Qui c'é aria e fresco a volontà! Ghiaccio, ghiaccio per tutti e a pochi soldi!", gridò con rabbia rivolto verso la città dell'Aquila, giù nella valle, lontana, immersa nella caligine estiva. L'eco riportò indietro quelle parole. Valerio le riafferrò e come nel barbiere di Siviglia, prima sussurrandole, poi con un crescendo che culminò in un colpo di cannone gridò ancora: "Ghiaccio, ghiaccio a volontà per tutti!". Questa volta però gridò con entusiasmo e con tutto il fiato che aveva in corpo. Correndo giù per il pendio, simile ad un masso rotolante, si diresse verso l'Aquila, deciso a mettere a frutto la sua brillante idea. Bisogna dire che nell'ottocento non vi erano ancora, almeno in Abruzzo, sistemi conosciuti che permettessero di produrre ghiaccio artificiale. Infatti, il metodo della salamoia fu portato in quella regione dai veneti nei primi anni del novecento. Quindi, l'idea di Valerio di rifornire con ghiaccio naturale tutte le pescherie, i locali e i caffè aquilani, fu senza dubbio una trovata geniale. I gestori dei caffè di zona facevano a gara per accaparrarsi il ghiaccio e inventare specialità gelate di ogni tipo, per lo più granite d'orzo, menta, fragola e frappè che deliziavano i clienti. Era ormai consuetudine della borghesia cittadina recarsi a prendere un sorbetto, seduti a tavolo, sotto gli alberi del parco. E potete immaginare con quale profitto per Valerio e con quanta invidia per i due fratelli, che vedevano sfilare attraverso il paese, la processione dei muli ogni volta più lunga, carichi di blocchi di ghiaccio avvolti da un sacco di juta, foderato di foglie che ne impedivano lo scioglimento. I due fratelli ficcavano la testa sotto il cuscino, per non sentire lo scalpitio degli zoccoli quando passavano i muli alle cinque di mattino. Tutti i paesani erano abituati a quel rumore ma l'invidia dei due fratelli amplificava quel suono a livelli insopportabili. ATTERRAGGIO FUORI CAMPO Articolo per la rivista nazionale “Volare” La prima volta che mi capitò di vedere un aliante fu nel 66, mentre tornavo a casa dal liceo. Proprio in cima una montagna a ridosso del paese, un velivolo silenzioso dalle ali lunghe e sottili, faceva avanti e dietro il pendio senza perdere quota, inseguito da una dozzina di cornacchie che difendevano il loro territorio da quell'intruso. Ad un certo punto, con un lieve sibilo, si spostò più a valle. Arrivato sotto una nube, cominciò a girarci sotto, salendo rapidamente fino alla base piatta e scura. Infine si allontanò verso est e sparì dietro la montagna. Siccome non avevo mai sentito parlare di un aereo senza motore, mi convinsi che si trattava di un aquilone sfuggito al proprietario. Per cui, finito il pranzo, pensai di salire, in Vespa, fin sopra alla montagna per recuperare quel coso, nel caso fosse caduto da qualche parte. Mentre attraversavo la valle, un contadino mi disse di aver visto un aliante molto basso in quella zona. Io trovai la parola aliante estremamente suggestiva. Mi dava l'idea di qualcosa leggero come una piuma; una parola che a pronunciarla non impaccia minimamente la lingua e che calza giusto con quel velivolo, esile ed elegante come nessun altro aereo. Il contadino mi spiegò che l'aliante è un aereo con pilota e senza motore e con le ali piene di un gas leggerissimo, come quello dei palloni, che permette al velivolo di stare in aria. Finita la spiegazione, ripresi il viaggio lungo il sentiero che portava alla montagna; ma non feci neanche un chilometro che nel bel mezzo di un prato vidi l'aliante a terra con un'ala poggiata sull'erba e un tettuccio trasparente aperto. Con un certo timore, mi avvicinai e vidi il pilota sdraiato in cabina che dormiva con la visiera del cappello calata sul viso. Mi fermai ad una certa distanza, almeno per dieci minuti, indeciso di cosa fare. Poi il pilota con un dito tirò su la visiera, mi guardò e mi disse: "Vieni pure avanti, puoi guardarlo da vicino, non morde mica". Vinsi il timore e mi avvicinai. Era un signore sulla cinquantina. Uscì dall'abitacolo, si sgranchì un po’ i muscoli, poi mi chiese: "Come si chiama questo posto?". "Campo Felice di Lucoli", gli risposi. Dopodichè, preso il microfono della radio di bordo, comunicò con un'altro pilota ancora in volo, specificando la zona di atterraggio per facilitare alla squadra di recupero l'arrivo sul posto. Poi, chiusa la comunicazione, mi spiegò praticamente tutto sull'aliante e sulla navigazione aerea. Quando chiesi conferma sul gas leggero dentro le ali, come mi aveva spiegato il contadino, si mise a sghignazzare di vero gusto, dicendo che mai aveva sentito una fesseria del genere. Appena dopo il tramonto arrivò la squadra di recupero. A dire il vero, erano solo due persone con una macchina e un carrello a rimorchio simile a quelli per trasportare le barche. Uno dei due uscì agitando minacciosamente una bottiglia di spumante. Il pilota indietreggiò, dandosi poi alla fuga inseguito dall'amico, deciso a punirlo con un bagno di Asti per non essere rientrato al campo base. Finito il bagno, dopo aver smontato e impacchettato l'aliante sul carrello, brindammo insieme con il poco spumante che rimaneva. "Brindiamo a cosa?", disse uno di loro. "Mah... qui c'è un nuovo volovelista, brindiamo per lui". Non passò un mese che mi arrivò per posta il modulo d’ iscrizione all'aeroclub di Rieti, incluse le modalità di come ottenere un forte sconto per prendere il brevetto di volo a vela, riservato agli studenti. Conscio di non potermi sottrarre a quell'invitante invito, mi cercai un lavoro per pagarmi il brevetto e due anni dopo ero in volo anch'io. In meno di otto anni collezionai più di duemila ore di volo, portando a spasso i turisti sopra le valli e le montagne abruzzesi. Navigando dentro le correnti termiche ascensionali, il volo poteva anche durare sei o sette ore, il che corrispondeva a circa ottocento chilometri di distanza e senza consumare una sola goccia di benzina, se si esclude quella per l'aereo trainatore. Il volo a vela è uno sport spirituale vicino all'ascetismo. Il fatto che sia così poco praticato non dipende tanto dai costi, quanto dal fatto che lo sport in generale è esibizione. Di solito, l'atleta gareggia oltre che per se anche per un pubblico. Il volovelista invece, è sempre solo tra il silenzio delle nuvole e qualche parente a terra un po’ annoiato o in ansiosa attesa. INTERVISTA A GIORGIO DE CHIRICO Articolo per la rivista “Itinerari Arte” R.S. Nel Giugno 1976, mi recai con un gruppetto di studenti del liceo artistico di Roma e un giornalista della RAI TV a filmare una intervista a casa di Giorgio De Chirico. Io facevo il cineoperatore di una piccola troupe televisiva. De Chirico mi apparve al quanto invecchiato e anche un pochino infastidito da quella improvvisa irruzione. Il giornalista invitò il maestro ad alzarsi dal divano e sedersi in una poltrona sistemata in un punto più luminoso della casa. Il maestro non sentì o non volle sentire. Il giornalista ripetè ancora l'invito, ma anche questa volta, niente da fare. "Non si muove . . .", disse con un sorrisetto imbarazzato il giornalista. De Chirico sembrava, seduto su quel divano, simile ad una delle sue muse, candido e immobile. Il giornalista gli si avvicinò di nuovo, deciso a non fallire ancora. Gli poggiò le mani sulle spalle, il maestro si alzò e senza tante storie si fece guidare alla poltrona. Finalmente cominciai a girare. De Chirico liquidava ogni domanda del giornalista con pochissime battute, efficaci ed essenziali. Dopo il giornalista, fu il turno degli studenti. Iniziò per prima la loro professoressa di storia dell'arte, cercando il suo momento di gloria nell'interpretare un dipinto appeso nella stanza, sperando di avere in seguito l'approvazione della sua analisi dal maestro in persona e conseguente figurone con i suoi studenti, colleghi e qualche milione di telespettatori. "Maestro!", esordì l'insegnante con una certa enfasi. "Questo cielo grigio viola, pervaso di un sentore di morte, questo cielo che come una cappa plumbea grava su questa piazza, sulla quale il portico disegna ombre nella luce lunare, la finestra illuminata sembra celare nel suo interno una camera ardente, che c'è, si sente, ma non si vede. Ecco maestro, ora le chiedo: Cosa rappresentano per lei queste due entità, in attesa di chi, in attesa di cosa? Quale inquietudine ha guidato la sua mano nel tracciare queste due figure e nel riempirle di colore?". De Chirico esitò qualche istante, che fece rabbrividire l'insegnante. Infine, con la sua voce sorniona, scuotendosi leggermente rispose: "Mah, per me sono soltanto due persone che parlano". "Che parlano di chi, di cosa, Maestro?", continuò l'insegnante con la forza di rullo compressore, sperando in una risposta un po’ più argomentata. "Ma signora! Come mai le interessano così tanto i fatti loro?", concluse il maestro abbozzando un pallido sorriso. L'insegnante invece, era diventata rossa come un peperone. Meno male che la TV era ancora in bianco e nero a quei tempi. LINO Ci sono eventi, che magari ti hanno occupato quasi l'intera esistenza e via via sbiadiscono nella memoria, fino a dissolversi del tutto. Altri che invece ti hanno rubato solo pochi minuti o addirittura attimi della tua vita, li vedi riaffiorare di continuo nella mente, talvolta in modo ossessivo. Lino, per esempio. Lino era un mio coetaneo di sei anni, che viveva sopra uno di quei palazzoni di periferia, edificati in certe borgate romane. Mi ci portarono tanti anni fa per circa una settimana. Fuori la porta di mia zia, sul pianerottolo delle scale, era seduto Lino, che giocava dal mattino alla sera con la sua automobilina di celluloide, usando come strada il contorno bianco tra una mattonella e l'altra. Per me che ero venuto dalla campagna dove potevo scorrazzare senza limiti di spazio, quel bambino confinato sul pianerottolo delle scale mi riempiva di una tristezza e di una angoscia indescrivibili, anche se i miei parenti lo consideravano nato con la camicia, avendo un padre che faceva il capo ufficio in qualche banca. Ancora adesso non riesco ad attraversare uno di quei quartieri o semplicemente vederli in TV senza pensare a Lino. Non molto tempo fa, un tizio sotto la metro mi gridò pieno di entusiasmo: "Ciao! Come stai? Dopo quanto tempo ci si rivede". Io cercai di ricordare chi fosse, poi risposi: "Ma si, Lino! Tu sei Lino!". Quando dal suo volto si spense tutto l'entusiasmo di prima, capii che non era lui. Infatti era Emerico, uno che fu mio amichetto d'infanzia per tanti anni e che dopo aver assolto con solerzia quel compito, scaduto il mandato, sparì per sempre dai miei ricordi. Lino invece è sempre qui presente dentro la mia testa. CHI!! HA PAURA DEL LUPO CATTIVO? Intervista per “Linea d’orizzonte Ebbene si! un pastore abruzzese che si chiamava Quinto decise di catturare un lupo, forse perchè in paese tutti lo sfottevano che aveva paura dei lupi. Quindi, una sera si fece coraggio e partì con una doppietta a pallettoni e un capretto vivo che doveva servire da esca. Arrivato ad una casetta costruita sul suo terreno, legò il capretto ad un palo, si chiuse a chiave dentro la casetta, infilò il fucile attraverso una gattaiola e si mise ad aspettare l'arrivo del lupo, richiamato dai belati e dall'odore del capretto. Quinto sosteneva la tesi che se il lupo fiuta l'odore del piombo dentro le cartucce, non si avvicina; ma siccome la puzza del capretto copre l'odore del piombo, la trappola sarebbe stata perfetta. Infatti, aveva proprio ragione, perchè di lupi ne arrivarono due. Prima di azzannare il capretto, le belve fecero un giro d'ispezione al chiaro di luna, ma quando furono a tiro, Quinto si rese conto di non aver tolto la sicura al fucile. Al clik della sicura, i lupi si bloccarono all'improvviso, fissando la casetta con occhi come tizzoni. Preso dall'emozione, le mani di Quinto cominciarono a tremare e non ebbe il coraggio di sparare. Fatto un profondo respiro, si fece coraggio e riprese la mira. Ma proprio quando decise di premere il grilletto, i lupi azzannarono la preda e la straziarono con due tremendi strattoni. Spaventato da tanta ferocia, le mani ricominciarono a tremare. Intanto, i lupi si erano allontanati con la preda. Mezzo morto di paura, Quinto non ebbe il coraggio di tornarsene a casa. Pensò che quelle belve potevano ancora essere nei paraggi e quindi decise di starsene accucciato li fino al mattino. Ma per fortuna, sentì la voce del fratello che era venuto a cercarlo. Al che, Quinto spalancò la porta della casetta urlando al fratello: "Non potevi sta’ zitto, che m'ai fatto scappare i lupi con tutto il capretto!" INCONTRO CON L'ASSESSORE ALLA CULTURA Testo per Radiotrè “Il terzo orecchio” R.S. Va da lui e digli che ti mando io. L'ente regione ha intenzione di realizzare un documentario sulla transumanza, e lui ti darà un finanziamento di parecchi soldini", mi disse il mio amico pittore. "Però prima vuole conoscerti di persona, vuole sapere chi sei, come lavori"."Cosa vuol dire come lavoro? Tu conosci bene il mio lavoro. Dovresti essere tu a garantire per me. Accidenti! È come tornare a scuola e sostenere un esame, e magari essere bocciato da uno che di cinema non capisce un fico secco!", gli risposi irritato. "Si, si lo so, ma, hem…visto che sarà lui a darti i soldi…insomma non vorrei scavalcare nessuno. Sai, sono persone che vivono dietro una scrivania, sono frustrati e non possono fare a meno di dominare, è la natura del politico, ma allo stesso tempo pensano che un regista sia qualcuno molto importante con il quale fare amicizia, farsi vedere in giro per la città, magari al bar". Infatti, quando andai a trovare il mio assessore, mi fece prima accomodare nel suo ufficio, come per dire: "Questo é il mio territorio! I cani il loro territorio lo marcano con la pipì, io lo marco con il fumo del mio sigaro puzzolente che ammorba la mia segretaria e i miei subalterni. Anzi, adesso te lo sbuffo dritto in faccia come per dirti che qui comando io!". "Eh, rinascessi un'altra volta, farei anch'io il suo lavoro. Mi piace scrivere soggetti per film, sa", mi disse. "Ne ho scritti sett'otto, li ho anche fatti leggere a un regista che lavora alla RAI, ma poi venne un direttore PSI, lui era DC e allora, sa come vanno le cose . . . e così non se ne fece più niente". Dopodiche, si alzò e venne verso di me. Fu allora che mi ricordai d'averlo già visto. Quando era ancora bambino, veniva spesso nella mia casa di campagna con i suoi genitori per comprare dei polli. Allora aveva circa otto anni, più o meno come me. Era piuttosto grassottello, calzoni corti fino alle ginocchia, con tre bottoni ai lati solo ornamentali e una coppola in testa dello stesso colore del vestito, che me lo facevano apparire piuttosto antipatico. Una volta, senza neanche notare la mia presenza, saltò fuori dalla macchina con un aereo di latta, e correndo goffamente a zig-zag, gridava: "Rroannn rroannn, navi da guerra, siluri! siluri! Rroannn rroannn, aerei in picchiata, siluri! siluri!". Alla fine, inciampò sfracellandosi a terra con tutto il suo aereo. Mia madre corse a prendere lo spirito per medicargli alcune escoriazioni, ma lui rifiutò. "La mia mamma lo deve fare!", gridava e strepitava. Alla fine, sua madre irritata, lo prese per un braccio e con un energico strattone, lo ficcò in macchina e se lo portò via. Dopo venticinque anni, non era cambiato gran che. Una testa a pera direttamente poggiata sopra un imponente busto portato a spasso da gambe che iniziavano con due enormi cosce rastremate verso il basso per finire con due piedini piccoli piccoli che tenevano in bilico la massa corporea, spostandola con insolita leggerezza. Il tutto contenuto dentro il solito vestito grigio blu, camicia e cravatta. Si tolse il sigaro dalla bocca e tenendolo tra l'indice e il medio, poggiandomi gentilmente la mano dietro la schiena mi disse: "Prego! Le faccio strada. Posso invitarla al bar? Le questioni d'arte vanno discusse in un ambiente più adatto di un ufficio in mezzo alle scartoffie". Arrivati al bar, quattro uomini seduti a tavolo, probabilmente colleghi, scattarono in piedi come avessero una molla sotto il culo al suo apparire, in un coro di: "Buongiorno dottore!". Tanto ossequio mi fece capire che il mio mancato amichetto d'infanzia era stato sistemato da qualche stretto parente a ricoprire quell'incarico. Infatti, venni a sapere che suo padre era anche il suo direttore. "Vi presento un bravissimo operatore, facendo intendere con operatore che sarebbe stato lui a giocare al regista. Faremo un film insieme, sulla transumanza", disse ai quattro, obbligandoli a stringermi la mano. Infine, congedata la corte, ci sedemmo anche noi. Bevuto il caffè, tirò fuori dalla borsa quello che secondo lui sarebbe stato il commento del film e cominciò a leggermelo. Eccone il testo: La, dove i romiti colli declinano dolcemente a formare la valle, che vide D'Annunzio fanciullo sedetti in contemplazione a rimirare il lanuginoso fiume che il pastore menava da tempi immemorabili verso le apule terre . . . Il resto non lo ricordo; ricordo solo che la mia mente stava disperatamente cercando una soluzione per svicolare da quella scomoda situazione. RIFLESSIONI AL MUSEO DEL LOUVRE Racconto per “Appunti di Viaggio” Radiotrè. R.S. Monnalisa si era alzata di buon'ora quella mattina, ed aveva pensato di svegliare la serva Camilla per farsi accompagnare al pollaio con la lanterna, dato che alle sei di mattina era ancora scuro. Scelse le ova più belle e rotonde personalmente, e per essere sicura che fossero fresche prese quelle ancora calde. Poi andò a prepararsi con molta cura, poichè alle sette avrebbe dovuto portare quelle ova a mastro Leonardo, che ne avrebbe fatto dei colori. Di solito mandava la serva per queste commissioni, ma siccome il maestro le aveva palesato l'idea di farle un ritratto, lei non voleva perdere l'occasione di farsi ammirare dai visitatori del Louvre. Fu così che sfidando le chiacchiere e le malignità dei vicini, andò tutta sola da mastro Leonardo. Ma aimè, arrivata sotto la casa, trovò il portone chiuso. "Questo non ci voleva", pensò. "Quello sbadato si è dimenticato di lasciare aperto il catenaccio". Prima provò a bussare piano piano, in modo che i vicini non si accorgessero e magari andassero a pensare chissà cosa, visto che la moglie del maestro era andata dal padre, malato a causa di uno spiffero. Ma, aimè, Monnalisa bussò troppo piano, perchè il maestro potesse sentire. La seconda volta lo fece più forte, sempre più forte, ma niente da fare. Ormai tutto il vicinato era li a sbirciare attraverso gli scuri semichiusi. Alla fine, presa da un momento di rabbia, tirò un'ovo verso la finestra di mastro Leonardo, che dopo aver rotto il vetro, andò a spiaccicarsi sul vestito blu cobalto del quadro dell'immacolata concetta, macolandolo. Adirato, il maestro corse giù per acchiappare il vandalo, correndo e strepitando tra i vicoli alla vana ricerca del mascalzone, senza accorgersi della presenza di Monnalisa fuori il portone. Approfittando della momentanea distrazione dei curiosi, attirati da tutto quel parapiglia, Monnalisa sgattaiolò dentro la casa del maestro. Curiosando per la stanza, notò alcune ova sode, dentro un piatto, che mastro Leonardo aveva cotto per se. Siccome quella mattina non aveva ancora fatto colazione, Monnalisa ne prese uno e se lo cacciò in bocca. Stava quasi per ingurgitarlo quando uno scalpitio per le scale annunciava il ritorno del maestro, senza che Monnalisa trovasse il tempo ne di sputare ne di ingurgitare l'ovo. Lo tenne nascosto in bocca, un po’ da una parte un po’ dall'altra. Quando il maestro apparve sulla porta con un diavolo per capello, compresi i peli della barba, la poveretta non ebbe il coraggio di dire la verità. Del resto, come poteva con quel boccone? Mastro Leonardo rimase pietrificato nel vedere l'inattesa ospite con quelle guance rigonfie, come fossero piene di una dolce frase, che la bocca chiusa in un caldo sorriso tratteneva dal venir fuori. Con un gesto e in punta di piedi per non rompere tutta quell'armonia, fece capire a Monnalisa di sedersi e di non muoversi da quella posizione. Poi, preso un grosso pennello, ricoprì di biacca la irrimediabilmente macolata concetta, la quale dovette rassegnarsi a vivere sotto Monnalisa, per i secoli dei secoli. PATENTE EQUINA Passare dall’asino alla macchina per Isaia non fu facile. Il giorno dell’esame pratico di guida l’esaminatore pregò l’allievo Isaia di tenere i giri del motore dentro “quel campo verde a sinistra”. Isaia rispose che dentro quel campo verde non si poteva andare per non rovinare il granturco. Quando gli venne spiegato che l’esaminatore si riferiva al settore verde disegnato sopra il contagiri, Isaia era già stato bocciato!! Rifatto l’esame e ottenuta la patente, si comprò una bella 600 usata. Durante la risalita verso il paese, in una calda giornata estiva, Isaia si fermò presso una fontanella per bere. Riempito un secchio d’acqua fredda, aprì il cofano e la buttò addosso al motore, come si faceva ai ciclisti del giro d’Italia, ma la 600 non gradì il cortese gesto e dopo aver sbuffato via una densa nube di vapore, il motore cominciò a tossire e i cilindri si spaccarono crepitando per la repentina reazione. Dopo aver assistito sconsolato all’evento con il secchio in mano, scosse la testa recitando il vecchio proverbio che dice: “fai bene all’asino? Ti tira calci”. UNA STORIA A 4 RUOTE Il famoso cantante lirico degli anni sessanta, Mario del Monaco, quando partiva per le sue tournée operistiche, lasciava al maggiordomo il prestigioso compito di sgranchire le ruote alla sua Rolls Royce con brevi tragitti nei pressi della villa di Roma. Fu lo stesso maggiordomo, ormai in pensione, a raccontarmi di non essere riuscito a resistere alla tentazione di far colpo con gli amici e le ragazze di Ostia dove abitava. Un giorno, anziché fare il solito giro, si diresse in Rolls Royce verso il suo quartiere con la scusa di compare un pezzo di pizza. Piazzò il regale macchinone davanti la rosticceria e con assoluta noncuranza per gli amici seduti ai tavoli, entrò ed usci con la pizza rificcandosi in macchina sotto gli sguardi invidiosi dei presenti. Accende il motore, ingrana la marcia e . . . sorpresa!!! . . . Il pomo d’oro massiccio sulla barra del cambio era sparito. Che non l’abbia rubato l’amico cuoco per metterlo sopra la pizza? ANGELI Andare al catechismo non è come andare a scuola. State attenti voi che andate al catechismo, se avete delle opinioni sulla anatomia degli angeli tenetevele per voi, o per lo meno dite quello che volete dire, solo se siete sicuri di avere come catechista un prete intelligente e di larghe vedute. Altrimenti rischierete di beccarvi due sonori schiaffoni, come successe a me da ragazzo. Mi chiederete, “ma che razza di domanda ai fatto al prete per meritare una così severa punizione?” Avevo forse chiesto se anche gli angeli scoreggiano? No! Peggio! Avevo forse chiesto se gli angeli hanno le tette? No! Peggio! Avevo forse chiesto se gli angeli hanno il"coso?" No! Peggio! Ebbi nientemeno che l'ardire di avanzare la seguente tesi. Sedetevi che è meglio: "Padre io ho letto su di un libro che le ali degli uccelli non sono altro che le loro mani trasformate in organi per il volo, munite di penne e potentissimi muscoli pettorali. Quindi, un angelo per volare non solo dovrebbe avere mani ed ali fuse in un unico blocco ma anche bicipiti da Maciste…Accidenti ai libri!! INCIDENTE DI VOLO Articolo per la rivista nazionale “Volare” R.S. Un mio amico aviatore un giorno mi disse, con dei freddi dati statistici alla mano, che un pilota subisce potenzialmente un incidente ogni seicento ore di volo. Io che già avevo collezionato più di 1500 ore, da quando presi il brevetto, senza neppure un graffio, cominciai a preoccuparmi sul serio. Infatti, un giorno mentre veleggiavo ad una quota di 600 metri con il mio aliante comprato usato in Svizzera, a causa di un difetto strutturale, all'uscita di un vortice il velivolo si inclinò pesantemente di ala destra, senza che potessi agire in alcun modo sui comandi. Il velivolo entrò in una virata strettissima, che si trasformò ben presto in una vorticosa spirale picchiata. Provai immediatamente un forte panico, ma dopo, avvertii come una puntura di anestetico che in qualche secondo agì, inducendomi una calma insolita. Dissi a me stesso: “Non ti devi preoccupare, anche se dovessi schiantarti non sentiresti nulla. Nel frattempo fai quello che ti ha insegnato l'istruttore: Con calma, afferra la maniglia del paracadute, apri il tettuccio, sgancia le cinture di sicurezza, cerca di uscire tirandoti fuori con tutta la forza per vincere la centrifugazione che ti tiene incollato dentro. Ok, ora sei fuori, conta 1, 2, 3 prima di tirare la maniglia per non impigliare il paracadute all'aliante, TIRA!!" In un attimo mi sentii risucchiare verso l'alto, ma era solo una sensazione. Il fragore del vento, che non era mai cessato, si attenuò fino a smettere del tutto. Il paracadute si era aperto a meno di 200 metri da terra. Vidi l'aliante che, perso il mio peso, si impennava verso l'alto, si fermò un attimo in aria per poi ricadere a foglia morta proprio in direzione della strada statale. Al fianco della strada, un gruppo di operai che stavano allacciando un tubo all’ acquedotto, sospeso il lavoro, si recavano a pranzo sotto una casa in costruzione. Ancora appeso al paracadute, mi misi a gridare: "Attenzione laggiù, un aereo vi sta cadendo addosso!". Vidi uno di loro fermarsi ad ascoltare finchè l'aliante si schiantò sul fianco della strada, a pochi metri da lui. Qualche minuto dopo mi disse di aver sentito il mio richiamo e di aver scrutato l'orizzonte in ogni direzione, ma senza riuscire a vedermi. Del resto, come poteva immaginare che quella voce veniva dall'alto dei cieli? Ancora in discesa con il mio paracadute, sentii, insieme allo schianto dell'aliante, anche lo stridio di frenata di un camion che transitava li vicino in quel momento. Non appena toccai terra in mezzo ad alcuni cespugli, abbandonai il paracadute e mi accodai agli operai che correvano in direzione dei rottami del velivolo, i quali non si accorsero, ne del paracadute, ne della mia presenza. Uno di loro non vedendo il pilota tra i resti, si voltò verso di me gridando: "Tu, che cacchio fai li impalato, va dall'altra parte della strada a cercare il pilota, perchè io non ho il coraggio". "Ma guardi che il pil . . . il pil . . . ", cercai di rispondere, ma per lo shock mi si era seccata la saliva che non potevo neanche parlare. "Humm humm", dissi indicando me stesso. "Il pil-l-llota, il pilota sono io", dissi, spiccicando finalmente la lingua dal palato. Non fui creduto subito. Vedendomi con occhiali scuri e un cappellaccio da spiaggia, calato sulla faccia e rimasto miracolosamente incollato in testa, probabilmente pensavano che io fossi uno di quei fissati che vagano a piedi da un paese all'altro. Fu una vecchietta ad avallare la mia versione dei fatti, dicendo in dialetto abruzzese: "Si si, era lui che e scisu co nu pallone entro ‘nu cistu, locaddietro". Aveva scambiato il mio paracadute per un aerostato, ma questo è bastato. Gli altri piloti, che dall' Aeroclub di L’Aquila avevano visto tutto, non tardarono ad arrivare. Con loro c'éra anche un ex pilota militare tedesco che si mise a scattare foto. Mi confidò che neanche in guerra aveva visto nulla di simile. Il camionista che aveva assistito all’impatto ci offrì gentilmente di caricare i rottami sul suo camion per portarli fino all'aeroporto, dove la salma dell'aliante fu cremata per non impressionare i turisti. Foto di Heinz Peltz, 8 agosto 82 Poi, caricate le ceneri su di un aereo, le disperdemmo sopra al Gran Sasso. Mi costrinsero a tornare in volo la sera stessa con un aliante del club, per un volo turistico. Tornai sulla zona dell'incidente, ci feci un giro simbolico sopra, poi il passeggero, ignaro di quanto accaduto, mi chiese: "Senta un po', ma se lei si dovesse buttare con il paracadute si butterebbe?". L'ECLISSI DI SOLE DEL 1960 Ricordo come fosse ieri quella esperienza di notte in pieno giorno, con abbondanza di particolari. La corriera delle 10 con i fari accesi, i polli che andavano a nanna, i cani che abbaiavano, titaniche onde di luce che spazzavano la campagna, il sole che prima di sparire dietro la luna disegnò uno spettacolare anello diamantato nel cielo, un’anziana contadina che ignara dell'evento credeva di avere uno svenimento imminente, dato che tutto si stava oscurando alla sua vista, i primi tele-dipendenti che preferivano guardare l'eclissi in diretta, tappati in casa davanti ai loro televisori, e per finire i ricchi locali che erano andati in massa ad osservare il fenomeno nel pescarese, poichè la radio aveva detto che nella nostra zona l'eclissi sarebbe stata solo parziale, invece divenne buio come pece e così i ricchi locali dovettero accontentarsi di una misera penombra. Giusta punizione! Allora frequentavo la quinta elementare. Andammo tutti a scuola quel giorno per non perderci la spiegazione scientifica che ci avrebbe fatto il direttore didattico in persona. Le istruzioni di come annerire un vetro per guardare il Sole senza danno agli occhi, furono, a dire il vero, molto utili. Mi lasciò invece perplesso la sua spiegazione scientifica dell'eclissi. Secondo lui, quella mattina la Luna non era visibile perchè si era nascosta dietro al Sole. Un mio compagno lo interruppe, sostenendo di aver letto che sarebbe stata invece la Luna a nascondere il Sole. Il direttore replicò, più per salvare la faccia che per convinzione, che la Luna non potrebbe mai nascondere il Sole che è grande come mille lune. Non convinto, il mio compagno tentò di precisare meglio la sua osservazione ma la maestra lo interruppe esclamando: "Il solito testone!“Il direttore, calmo e paziente, continuò con un esempio talmente bislacco che fece sorgere in noi dubbi molto seri riguardo la sua preparazione scientifica: "Vedete bambini, se io prendo il cancellino e lo illumino da questa parte e poi taglio questo pezzo di ombra con un coltello e la metto sotto il mio cappello, dove sta l'ombra?". "Sotto il cappello, Professore", rispondemmo tutti in coro. A quel punto tentai di intervenire con un mio esempio che forse avrebbe spiegato tutto. "Non interrompere il professore!", ringhiò ancora la maestra ricacciandomi le parole in gola. Il direttore, lasciando intendere con una smorfia che era inutile cercare di spiegare un fenomeno così complicato ad una classe di cafoncelli, tagliò corto e disse: "Be ragazzi! Su, su, è tempo di andare fuori a constatare quanto ho detto con i vostri occhi. Niente è meglio dell'esperienza diretta per capire un fenomeno scientifico". Quel giorno, oltre ad osservare un evento eccezionale, scoprii anche che era meglio verificare, enciclopedia alla mano, quanto gli adulti insegnavano. Non si sa mai. TEMPO ALLO SPECCHIO Realizzando un film su De Chirico, Guelfo e i suoi personaggi volanti. RAI “Artisti D’oggi” R.S. Ho ascoltato fino alla consunzione, il disco di Milhaud. Posso immaginare il film scena per scena, prima ancora d'averlo iniziato. In principio, ho dovuto spingere a forza la cinecamera attraverso i titoli e le foto di De Chirico e Guelfo. Questa operazione mi è costata una fatica notevole, ma non si vede. Ora, in mezzo alla gente che popola la piazza del monumento mai realizzato, avviene il tanto atteso evento. Il clima festaiolo, il suono dell'arpa, il tellurismo ritmico delle percussioni, imprimono alla cinecamera la forza necessaria per salire in senso verticale sulla folla. Le grida di gaudio ne alimentano la forza ascendente verso la finestra, e poi dentro la casa. Nell'attraversare il vetro, non sento più le voci della folla ma solo una specie di ronzio continuo proveniente dal fondo di un corridoio mal illuminato. Passando in una stanza, mi ha attirato il tictio di un orologio ed altri ancora, fermi da tempi immemorabili, alcuni hanno lancette e numeri fusi tutt'uno a segnare un'ora decisa e lasciata lì per sempre. Nell'andare, ho passato un dito sul vetro di un quadro pieno di polvere. Sono pentito d'aver lasciato quel segno.La macchina ispeziona, indaga fra gli oggetti, i disegni, i segni e le tracce di segni. Una inerzia residua fa cozzare la cinecamera contro la cornice dove il Volficano è stato messo a riposare. L'urto con esso e il suono prodotto, rivelano una certa consistenza fisica di questa creatura. Tale caratteristica rende il Volficano più familiare a me, ma la sua sorprendente mobilità mi impedisce di scoprirne la natura reale. Le Fenilene rendono il mio lavoro assai difficile. I contorni scuri si rivelano solo per "effetto eclissi", cioè, quando passano davanti un fondo luminoso o illuminato. In tali condizioni, l'occhio può percepire i tratti essenziali di queste creature, al punto da poterne descrivere la forma. Un osservatore poco attento e superficiale scambierebbe facilmente le Fenilene per amebe, se alcune di esse non avessero uno o due occhi, a seconda che siano di faccia o di profilo. Filmare una Fenilena è quasi impossibile, poi che non appena provi ad aumentare la sorgente luminosa, i loro esili contorni si dissolvono completamente. E questo il motivo per cui nel film non si vedono Fenilene. I Folleni sembrano esseri diffidenti, ma la forte vanità li porta a rivelarsi di tanto in tanto. Stanco delle difficoltà, decido di abbandonare la stanza, attirato dalla granitica maestosità di forme oltre uno specchio. Non ho esitato un attimo ad entrarvi. Solo al momento di attraversare lo specchio, ho avuto un breve indugio, ho avuto la sensazione rivelatasi infondata che ci fosse una specie di scalino, ma poi ho seguitato. Ho qualche difficoltà a valutare le dimensioni delle statue. Potrebbero comunque essere di misura notevole se posso entrare nelle pieghe dei loro vestiti. In mezzo a tanta maestosità, la sibilla mi appare alquanto esile e diafana. Il canto del disco di Milhaud, che ho ben in mente, calza giusto con la Sibilla, anzi, sul corpo lucente di lei si fa suono udibile all'orecchio.Neppure le mura del castello e il vento possono trattenere il canto della Sibilla. La luce dell'alba comincia ad impressionare bene la pellicola. Le ultime creature notturne svaniscono, assorbite dal fondo verderame intenso della lupe sulla quale tutta la notte ho tenuto l'occhio in attesa di cogliere strani eventi. Poi vedo comparire l'orologio che segna le sei e trentasei. Il mio lavoro è terminato, necessariamente. Il folleno, le fenilene, il volficano, sono personaggi del pittore Guelfo Bianchini, a destra L'ASINO SACRIPANTE Una storia per dormire L’asino Sacripante non si rassegnava. Era molto triste fin dal giorno in cui scoprì di avere una bella voce da tenore così limpida e penetrante, che al do di petto poteva rompere qualsiasi oggetto di vetro nel raggio di un chilometro. Ma non era questo a renderlo infelice, anzi, ma il fatto che aveva un padrone così stupido e ignorante che non sapeva apprezzare le sue qualità canore. Un inverno nevoso e rigido, per ingannare la noia, Sacripante lo passò nella stalla affinando il suo talento. Nei momenti di pausa, pensava: "Sono un asino molto fortunato, a primavera quando dimostrerò al padrone cosa so fare, di sicuro mi porterà a tutte le fiere e le feste a dare spettacolo. Forse girerò il mondo con un circo, il padrone diventerà ricco e famoso e io non dovrò più lavorare ed essere frustato di continuo". Preso da un entusiasmo incontenibile, fece un acuto così acuto che infranse tutti i vetri della camera da letto sopra la stalla. Il padrone si svegliò e riempì di botte il povero somaro. L'asino non si perse d'animo, pensò, "Non ha capito l'importanza di ciò che ho fatto, adesso lo rifaccio e capirà". E giù, un'altro possente acuto che spaccò una damigiana piena di vino, e giù ancora botte dal padrone. Svegliata dal trambusto, scese anche la moglie. "Bene!", pensò l'asino. "Forse lei capirà. In quanto alla damigiana, potranno comprare tutto il vino che vorranno ai primi incassi". E giù un'altro acuto che spaccò un'altra damigiana piena di vino, e giù botte da orbi, sia dal padrone che dalla moglie. Da allora, ogni tentativo fu peggio dell'altro, al punto, che quando venne primavera, l'asino era così malconcio che non poteva neanche più lavorare. I due contadini decisero, quindi, di portare Sacripante a Bologna per farne mortadella e così fu. In attesa dell'esecuzione, il povero asino venne lasciato in un recinto isolato in modo che i suoi ultimi disperati do di petto non potessero far danno. Fortuna volle che in un hotel vicino, venne ad alloggiare il famoso cantante Luciano Pavarotti, il quale, aprendo la finestra una mattina, udì quella voce. Esperto com'era, ne capì subito le qualità canore, ne fu addirittura stupito. Lo stupore divenne meraviglia quando si rese conto che era un asino il proprietario di quella voce. Il famoso tenore acquistò l'asino per pochi soldi, dato che la pelle era troppo rovinata dalle bastonate per ricavarne tamburi. Lo presentò al suo impresario discografico, il quale propose, dopo averlo ascoltato e apprezzato, di fargli interpretare l'opera, I Pagliacci. Alle prime, Sacripante rifiutò sdegnosamente di lavorare per "La voce del padrone", ma poi resosi conto che quella non era la voce del suo ex-padrone, accettò, soprattutto quando Luciano gli confidò che l'autore di quell'opera era un mezzo parente dell'asino che si chiamava Leoncavallo. Da quel giorno, per Sacripante ci furono solo trionfi e gloria. I due ex-padroni dovettero accontentarsi di guardare il loro Sacripante in TV, accusandosi a vicenda di quella occasione persa, tra un boccone e l'altro di pane e mortadella, ma non quella di Sacripante. ARTICOLO 128 Per chi dovesse trovare questo CD nei secoli a venire, sepolto in mezzo qualche mucchio di robaccia, spiegherò che l'articolo 128, altro non era che una specie di mutuo soccorso, o meglio, un aiuto economico che lo stato metteva a disposizione agli artisti del cinema o per essere più chiari, era una considerevole somma in denaro appesa sopra un albero della cuccagna solitamente eretto in piazza socialista. L'iscrizione in gara consisteva nel possedere una semplice tessera PSI. Un giorno incontrai un mio compagno d' istituto, diplomato assieme a me due anni prima, che aveva tra le mani un suo soggetto ed era deciso a trascinarmi con se e presentarmi alla commissione dell'articolo 128 per propormi cineoperatore ufficiale del suo film previa iscrizione al Partito Socialista. Dopo un tortuoso viaggio in autobus, arrivammo con moltissimo ritardo in una sala piena di aspiranti registi ed un branco di “volpi grigie” sedute lungo un tavolo del tutto simile all'ultima cena di Leonardo, se si escludono i microfoni e l'acqua minerale. La riunione era ormai terminata. Colui che rappresentava il Cristo della situazione, dopo aver riposto le sue scartoffie dentro una cartella, si alzò e stava per uscire. Il mio amico lo bloccò appena in tempo, deciso a presentarmi a lui. Il Cristo riaprì di nuovo la cartella e poggiandola sopra il termosifone, prima aggiunse il mio nome sopra una lista, poi mi consegnò un bigliettino da visita con un indirizzo, al quale mi sarei dovuto recare il giorno dopo per tesserarmi al partito. In fine, dopo avermi stritolato la mano, si avviò lungo il corridoio continuando a parlare al mio amico che era costretto ad inseguirlo. "Bisogna ovviamente ringraziare Lui", disse al mio amico continuando a tirarselo dietro. "Si, ringraziare, ma come? Forse posso telefonargli, e invitarlo al bar più vicino in modo da non dare nell'occhio", gli rispose il mio amico. "No!", interruppe il Cristo. Non è sicuro. La cosa migliore è di contattare Lui in sezione per concordare il lavoro, poi non appena arrivano i soldi, la sera stessa, vai all'indirizzo di casa con una busta chiusa senza nessuna scritta sopra e . . swiisss . . . sotto la porta. Lui capirà". "E se non riuscissi ad infilarla sotto la porta? Lei capisce, è una bella sommetta", chiese preoccupato il mio amico. "Entrerà, stia tranquillo entrerà", rispose il Cristo allontanandosi fino a sparire. Voi giudici di tangentopoli!, avete mai pensato di misurare le fessure sotto le porte per stanare i corrotti? Preoccupato di perdere qualche grossa opportunità, il giorno seguente mi recai al partito come concordato. Nella sala d'attesa c'era un gruppetto di ragazzi aspiranti cineasti con il loro tutore sulla cinquantina che impartiva le ultime istruzioni di come salire sopra l'albero della cuccagna, probabilmente in cambio di una lauta percentuale. Aspettando l'uomo chiave, cominciai a provare un certo disagio. In quel posto c'èra una gran puzza di merda di cane. Anche il tutore interruppe il discorsetto per sniffare. "Voi non sentite una puzza tremenda?", disse provocando una risata generale, poi seguitò ad impartire istruzioni. Io me ne stavo li, seduto buono buono nel mio angolino ad osservare le facce un po' tese ma piene di sicurezza di quei ragazzi. Avevano la sicurezza di chi ha alle spalle il papà che conta, un papà che può, un papà "in" e non importa se quel papà è morto da un pezzo, o magari è scappato con un'altra lasciando la famiglia sul lastrico. Quell'atteggiamento io posso, dunque sono, quindi voglio era comunque intatto in loro. Talento o no, la loro vita era quella, nel cinema. Ebbi la sensazione che erano nati predestinati per essere introdotti nel mondo dello spettacolo. Io invece, che avevo un papà di mestiere cassamortaro in un paesino in mezzo le montagne, pieno di aria pura e cibi genuini e quindi anche pochi decessi per nostra disgrazia, io che ero andato a scuola d'arte con il preciso fine di diventare decoratore di bare, che chance potevo avere di entrare nel loro mondo?" pensai sconsolato guardando le mie scarpe di camoscio consunto. Fu a quel punto che notai una folta laniccia e qualche cartaccia attaccata sotto le mie scarpe. La colla che teneva il tutto appiccicato alla suola era pura merda di cane. Non sapevo che fare. Le impronte maleodoranti dalla porta conducevano proprio verso di me. Per qualche minuto rimasi come impietrito, cercando di capire dove poteva essere ubicato il bagno in modo da precipitarmi dentro a pulirmi. Ma proprio in quel momento, sentii arrivare l'uomo chiave mentre urlava al portiere: "Io vorrei proprio sapere chi è stato quel porco che ha smerdato dappertutto. Guarda, guarda che schifo! Anche qui! Proprio ieri ho fatto cambiare la moquette. Buttano cicche per terra, gomme americane e adesso anche la merda!". Continuava a sbraitare, seguendo le orme che conducevano inesorabilmente verso di me. Mi fissò un attimo, dopodichè, molto seccato e senza parole, l'uomo chiave si infilò nella porta del suo ufficio e dopo averci fatto aspettare tutti qualche minuto, allo scopo di rimarcare il suo potere, dalla sua scrivania gridò: "Chi è il primo!". Fortuna volle che non ero io. Questo mi diede il tempo di darmi alla fuga e dire ciao ciao per sempre e senza troppi rimpianti al famoso articolo 128 . . . Grazie cane! LA RIVOLTA DEI NERDS 38 Anni all’ Uneversità “La Sapienza” Nel 1972 frequentavo ancora quello che alcuni anni più tardi sarebbe divenuto il prestigioso Istituto Europeo di Design, quando durante la lezione di estetica fece irruzione il segretario d'Istituto che mi tirò fuori al corridoio dicendomi: “Corri giù in segreteria c'é Enrico Medi che ti vuole parlare”. Enrico Medi, per chi non lo sapesse, era una via di mezzo tra il Piero Angela e il Zichichi di allora. Un vero mistico alla costante ricerca di una verità che conciliasse la scienza con la fede. Persona di grande carisma, ma anche di grande modestia e bontà. Predicava la scienza in RAI come un prete predica la parola di Dio in chiesa. Nonostante io fossi del tutto ateo assunsi Enrico Medi come la mia guida spirituale che mi conduceva per mano tra i misteri della scienza. Non persi nemmeno una delle sue trasmissioni in TV, anzi no: Per via della scarsa elettricità che arrivava nel mio paesino in Abruzzo, una delle puntate la persi e come, il che mi fece arrabbiare a tal punto che con vernice e pennello convertii, ogni scritta sui pali “Chi tocca i fili muore” in “Chi tocca i fili si ammala” perche al massimo ti potevi ammalare, altro che morte, con quella miseria di luce elettrica elargita dall‘ ENEL. La cinepresa ricavata nel coperchio di una gavetta militare come curriculum Enrico Medi Inutile dire che presi come scherzo le parole del segretario, e invece no! entrato in segreteria mi trovai al cospetto del mio idolo in carne ed ossa. Per un attimo mi parve di svenire dall'emozione. Ero talmente frastornato da non accorgermi che mi tendeva la mano in attesa che a mia volta colmassi la distanza residua per la stretta, cosa che rimediai alla bell'e meglio li per li. Dopo di che esclamò con la consueta voce carezzevole che tanto mi era familiare attraverso lo schermo: “Salve giovanotto! da quel che si dice, lei è una specie di fenomeno” “Chi lui?” Risposi indicando scherzosamente il segretario alle mie spalle per scrollarmi di dosso l'imbarazzo, il quale replicò con un buffetto dietro la mia nuca. “Venga a trovarmi a Geofisica” esclamò il Prof. Medi: “Se dopo una settimana le piacerà l'ambiente ed io troverò utile il suo lavoro sarà senz'altro collocato, senza impegno però”. Poco prima di sparire oltre la porta si voltò e aggiunse: “E faccia in modo di stupire quelli del dipartimento come ha stupito me con questi suoi arcani”. Fu a quel punto che mi resi conto che la segreteria era stata trasformata in una specie d'improvvisato museo allestito con alcuni miei lavori poggiati qua e la, e realizzati in quei quattro anni di scuola che alcuni dei miei insegnanti, bontà loro, vi avevano posto in mostra. Fu così che venni assunto a “La Sapienza” il 4 marzo 1972. Uno dei rari casi di ingaggio meritocratico. Purtroppo il Prof. Medi colpito da un male se ne andò due anni dopo, ma non prima d' avermi riciclato presso la Facoltà di Medicina. Era ancora l’epoca di quei dirigenti che amavano cucirsi addosso uno staff di collaboratori efficienti e competenti nelle rispettive mansioni, dal portiere al vice. al fine di completare, in questo libro, la sfilata di protagonisti che da sempre colorano lo scenario della “provincia Italia” in tutte le variegate sfaccettature, grottesche, tragiche ma anche divertenti e persino esaltanti dell'universo “La Sapienza”, eviterò di specificare l'esatto dipartimento per non destare possibili asti e risentimenti per via di quanto racconterò. Il primo giorno di servizio a medicina in attesa di essere presentato al così detto barone, mi imbattei in un pezzo classico tanto caro agli accademici ma in particolar modo alla classe medica cioè, il culto del titolo. Appena giunto in facoltà mi presentai alla segretaria del barone esclamando: “Buon giorno! ho un appuntamento col Dottor La Gatt/...“professor!, professor La Gattolla!! ha capito? professore e non dottore!!” urlò qualche galoppino dalla stanza attigua mozzando in due quel nome dalla mia bocca. Era uno dei solerti assistenti del Prof. che chiameremo in modo fittizio La Gattolla. Se almeno si fosse scomodato di scollare il culo dalla sedia e presentarsi ben in vista sull'uscio gli avrei replicato: E io allora che ho studiato arte per 10 anni perche non ho mai potuto esibire il mio bel titolo di “Maestro d'Arte” senza provocare ilarità e scherno persino da parte dei miei genitori? Se lo immagina lei, caro il mio galoppino, un ragazzo fresco fresco di Accademia di Belle Arti che tutti devono chiamare Maestro? Come mi confidò il Dott. Baldoni, il famoso cardiochirurgo durante una mia intervista, l'attaccamento pernicioso al titolo è una delle caratteristiche che ci rendono ridicoli all'estero e che gli italiani di buon senso cercano con imbarazzo di scopare sotto al tappeto. L'attaccamento al titolo soprattutto nella classe medica è ben incarnato da quel roboante bolognese chiamato Dott. Balanzone, maschera del teatro dell'arte italiana che soleva schivare le domande troppo forbite e imbarazzanti, farfugliando risposte in latino. Il mio lavoro consisteva nel documentare a tutto campo ogni sorta di attività ed eventi scientifici da stipare in archivio sotto forma di documentari, disegni anatomici e materiale vario, utilizzabile per pubblicazioni o semplicemente video didattici che ogni docente poteva farsi confezionare da me per svolgere le sue lezioni in aula. Prima dell'avvento del computer il mio era considerato un mestiere prestigioso ed indispensabile. Chi è nato assieme al computer non potrebbe nemmeno concepire quanto fosse difficile per un docente o un medico di allora realizzare un semplice lucido per lavagna luminosa o peggio le tabelle, le diapositive o la documentazione filmata dei casi clinici da proiettare in aula o stampare sulle riviste. In seno al dipartimento di medicina inventai dal nulla il “Servizio di Documentazione Scientifica” con un archivio che, in 38 anni di lavoro, annovera ben 200 Giga di materiale senza contare quello disperso prima del digitale almeno dieci volte tanto. Il modo più vicino per realizzare un testo come quello tipografico era il così detto normografo cioè un patetico attrezzo con le lettere traforate che permetteva, passandoci dentro una penna, di fare una pallida imitazione dello stampatello tipografico. C'erano anche i famosi trasferelli o lettere a ricalco che si potevano incollare su di un foglio staccandole con una matita che però richiedevano molta pratica ed un lungo lavoro anche nel comporre un breve testo. Non potrete mai immaginare l'andirivieni del personale e dei medici che venivano a farsi fare la striscetta con il proprio nome da attaccare sul campanello di casa il che era considerata una vera sciccheria, addirittura uno status simbol ve lo assicuro, per non parlare dei complicatissimi disegni anatomici e i filmati in pellicola da processare a Cinecittà, il che richiedeva un lungo e complicato ciclo di lavorazione e le spese di noleggio di una costosa moviola per il montaggio audio-video. L'arrivo del computer da un lato ha reso il mio lavoro infinitamente più agile e meno gravoso ma dall'altro ha fatto a pezzi il mio mestiere consegnando al pubblico flagello l'arte grafica. Ricordo con sconcerto quando il capo dipartimento mi convocò esclamando: “Senta, visto che oggi tutti hanno un computer per disegnare, realizzare le slide ed impaginare i testi, e quindi il suo mestiere è meno richiesto, che ne direbbe di occuparsi soprattutto della gestione didattica?” Al che replicai con altrettanta faccia di culo: “E lei che ne direbbe se anziché gestire la didattica mi mettessi a fare interventi chirurgici?” Affermazioni come queste spiegano molto bene come mai le nuove meraviglie tecnologiche le chiamano democratiche. Le chiamano democratiche perche offrono a qualsiasi praticone di passaggio, smanettando il mouse nel paradiso del fai da te, la dolce illusione di credersi un navigato professionista. Di solito eravamo io ed il secchione di turno, in veste di consulente scientifico, per esempio, a curare il lungo e paziente lavoro di edizione di un film didattico solitamente destinato alle lezioni, alle pubblicazioni o alla rete RAI dell'ormai defunto dipartimento “Scuola educazione”. Ma la situazione più grottesca e complicata si presentava al momento di apporre i titoli di testa e coda. Era a quel punto che si materializzava intorno all'editor l'equipe medica al gran completo per accaparrarsi le varie priorità di apparizione in ordine d'importanza, lasciando al secchione, se gli andava bene, il solito e misero “Un particolare ringraziamento a...” Come non bastasse, io e il mio collaboratore secchione, trafelati davanti all'editor dopo ore ed ore di duro lavoro, dovevamo persino sciropparci le imbarazzanti avventure congressuali vissute nelle camere di esotici hotel, con la solita Lolita inclusa, che quelli l'equipe, si raccontavano addosso, con assoluta impudenza, e senza lasciarsi sfiorare dall'idea che io ed il secchione potevamo anche trasformarci in pericolosi delatori. Mostravano il tipico atteggiamento strafottente di chi ha alle spalle il papà “in” il papà che conta e sempre pronto a tirarli fuori dei guai. Inutile aggiungere che venivamo sempre e puntualmente dimenticati nella lista degli invitati alla cena di presentazione del nostro stesso filmato, cosa che non succedeva mai lavorando con i veri luminari della scienza con i quali si instaurava sempre un clima di stima ed amicizia reciproca. Sappiate che secchione in inglese si traduce nerd, un appellativo offensivo che un vero nerd accetta anche con un certo orgoglio ma sono guai seri se dai del nerd al fichetto della classe, quello conteso da tutte le compagne di scuola per intenderci. Se ti va bene minimo ti becchi una coltellata, perche il nerd è sinonimo di primo della classe quindi foriero d'invidie, non guarda le ragazze, e non pratica sport, perché sempre disprezzato e considerato nullità da tutti i coach del mondo. Il nerd è il bersaglio preferito dai bulletti che gli pestano gli occhiali sotto le scarpe, sperando in un qualche accenno di reazione del poveretto che di solito non arriva, dunque niente rissa, quindi niente figurone che il bullo possa offrire in pasto alle sue pupe. Il nerd è l'eterno perdente: Se non reagisce gli danno del vigliacco, se reagisce te lo gonfiano come una zampogna; insomma uno che ci rimette sempre. Il nerd è il classico genietto occhialuto, il topo di biblioteca senza uno straccio d'appeal sulle ragazze, neanche durante l'inevitabile e brillante carriera post laurea quando il barone di turno se lo cucca e se lo alleva nel suo stabulario per mungergli le idee sempre brillanti e sempre utili a rinnovarci l'assegno di ricerca e...chissà un giorno al barone potrebbero anche fruttargli un bel Nobel, alla faccia del suo nerd personale. Mi viene in mente l'emblematica situazione di quando venne a farci la conferenza quel santo patrono di tutti i nerd che si chiama, Bill Gate, come noto un non laureato. Sul manifesto del convegno vi era una lunga sfilza di nomi, nessuno escluso, affiancati dai soliti: Dott. Prof. Ing. Avv. On. Pres. Con l'unica eccezione di Bill Gate, senza uno straccio di titolo, liscio come un Martini. Un giorno, arrivato da Vicenza, mi si presentò un giovane chirurgo acchittato di tutto punto e dai modi gentili e garbati, deciso a farmi documentare il suo primo intervento in sala operatoria: “Eccolo qui l'incosciente di turno che si crede il Dott. Barnard” pensai: “Uno di quelli che da casa sognano di stare in sala operatoria ma che una volta in sala operatoria sognano che era meglio starsene a casa”; ma poi l'occhio mi cadde sul colletto della sua camicia pulita e ben stirata ma dai bordi consunti fino a mostrare il feltro inamidato interno, indizio inequivocabile di genialità, di chi sa il fatto suo e considera l'aspetto esteriore un dettaglio del tutto secondario, infatti quell'intervento fu il primo di una lunga serie di successi tra l'invidia dei Prof. mezze calzette che lo accusavano di eccessiva spregiudicatezza, aspettandolo al varco per farlo a pezzi al primo errore chirurgico. Il secchione è quello sempre preso a “poisson dans le visage” che volgarmente sarebbe, a pesci in faccia, prima dagli amichetti di scuola e poi dai colleghi. I nerds, pur di soddisfare la loro sete di ricerca o di lenire la febbre che li spinge ad esplorare tra i più intricati anfratti dell'universo, si aggirano come topi nei meandri degli scantinati dell'ateneo romano, sempre a caccia di vecchi e polverosi apparati da laboratorio, che qualcuno ha fatto acquistare dietro mazzetta e poi accantonato. Un topo di biblioteca mentre rosicchia cultura Non sempre i nurds sono bruttini e occhialuti come si evince da questa foto Quando non riescono a volare all'estero come cervelli in fuga verso gli orizzonti di gloria, finiscono la carriera da limoni spremuti in pensione, per poi portarsi nella tomba il recondito sogno di rivendicare il Nobel che frattempo si è pappato il suo barone. Se tutti i nerds decidessero di ribellarsi agli stolti metterebbero il mondo in ginocchio. Sarebbe come provocare un black out tecnologico di dimensioni titaniche. Niente più automobili, ne televisori, ne computers, ne viaggi in aereo, in treno e in nave. Le città finirebbero nella morsa del caos, le nostre civiltà che gli stessi nerds, antichi e moderni, hanno creato regredirebbero al neolitico e gli uomini tornerebbero a guerreggiarsi con pietre e bastoni, come disse una volta il vecchio Einstein. E' assieme ai i nerd che popolano gli scantinati della “Sapienza” che, come tecnico scientifico ho condiviso momenti entusiasmanti, soddisfazioni e tanti riconoscimenti di sincera gratitudine. Un grazie a tutti loro che mi hanno reso piacevole la mia quasi quarantennale collaborazione in seno alla grande università romana. Continuare a parlare di questi oscuri martiri della scienza che da sempre hanno spianato la strada ai Nobel e hanno formato i cervelli in fuga, mi è penoso e difficile. In loro omaggio altro non posso che invitare i miei lettori ad osservare un mesto minuto di raccolto silenzio. L'ARROTINO DI CIVITA RETENCA Arrivò un giorno d'autunno del 1958 con una specie di carriola spinta a mano. Allora avevo otto anni, tornavo da scuola e decisi di saltare il pranzo pur di scoprire a cosa servisse quell'ordigno a forma di cubo di legno pieno di cassetti e cassettini. Due aste inchiodate ai lati e una ruota di legno davanti, lo facevano somigliare ad una di quelle lettighe per portare a spasso re e regine. L'anziano forestiero spinse il coso attraverso la strada principale fino alla piazzetta centrale, in mezzo alla quale si fermò. Le case intorno, con le piccole finestre sopra e le porte sotto, somigliavano a tante facce perplesse che osservavano incuriosite il forestiero e la carriola, in attesa di chissà quale strano evento. La piazza era deserta per l'ora di pranzo. Attraverso le finestre, si sentiva qualche voce tra un boccone e l'altro e il rumore delle posate contro i piatti, segno che non si può bussare alle porte a quell'ora. Il forestiero lo sapeva, si guardò intorno, riflettè un attimo e infine fece un largo sbadiglio che contagiò anche me, solo che il mio sbadiglio rimase mozzato a metà quando dentro la bocca divaricata del vecchio i denti superiori si staccarono in blocco, cadendo rumorosamente su quelli di sotto. Era la prima volta che vedevo una dentiera e non mi augurai certo di averne una anch'io. Riassestata alla meglio la dentiera, riprese di nuovo a spingere la carriola fino alla fontanella, qualche metro più in là. Seduto sul margine della vasca, con la carriola tra le gambe come fosse un tavolino, aprì uno dei cassetti dal quale ne cavò fuori un bicchiere di metallo smaltato, pieno di ammaccaturine rugginose e un coltello. Poi aprì una porticina sul fondo della carriola dove vi era riposto il vino e un tozzo di pane che ammollò ben bene sotto la cannella. Poi aprì ancora un'altro cassetto dal quale ne tirò fuori un pezzo di formaggio. Riempito il bicchiere, metà vino e metà acqua, cominciò a mangiare con un tale gusto da indurmi a considerare l'idea di correre a pranzo anch'io, ma la curiosità era troppo forte. Quel coso non poteva essere solo un portavivande. L'intuito mi diceva che dentro vi si celava qualcosa di ben più magico e arcano del semplice cibo, quindi, decisi di aspettare ancora. Infatti, dopo aver riposto con cura nei loro cassetti, il bicchiere, il coltello e quel che restava di pane, vino e formaggio, spinse verso terra i bracci della carriola, in modo da sollevare la ruota in alto, aprì una botola posta sopra la cassa, estrasse una ruota di pietra con una puleggia a fianco, aprì un'altro cassetto, prese una cinghia, la mise in tiro tra la ruota di legno e la puleggia, collegò un pedale alla ruota di legno, una breve prova per essere sicuro che tutto funzionasse, prese la cornetta riposta dentro un'altro cassetto e suonò come per dire “Signori il pranzo è finito. Jamme arrutine ueee!", gridò in dialetto teramano. Donne e uomini, vennero fuori con ogni sorta di utensili a taglio. Pigiando sul pedale, l'arrotino cominciò ad affilare gli attrezzi mentre parlava alla gente dei suoi viaggi e delle sue avventure, dentro e fuori regione, spingendo la sua scatola magica dalla pietra tonda e sfavillante. Poi finito il lavoro, rimise tutto a posto, unì i soldi ricavati ad un discreto mucchietto che teneva legato con un elastico per mutande e se ne andò al prossimo villaggio a ripetere lo spettacolo e cercare un pagliaio per dormire. LA FAINA C’èra ancora l'ultima guerra mondiale quando, in un tranquillo paesino in Abruzzo, mai toccato dalle bombe e dagli invasori, sparirono alcune galline. A quei tempi le galline erano un bene prezioso. Se ne bolliva una si e no a Natale e forse a Pasqua e in gran segreto, per non invitare altre bocche. Di ladri neanche a pensarlo, tutta gente onestissima in paese, anzi prodiga di offrire aiuto a chi ne avesse bisogno. La colpa di quelle sparizioni non poteva che essere addossata a qualche faina o volpe. Chiunque fosse, era di sicuro un animale furbo e intelligente. Mai un indizio, mai una penna fu trovata in giro. Le sparizioni durarono un paio d'anni, dopo di che non vi furono mai più episodi del genere. Passati una decina d'anni, nel giorno di Natale del 1954, tornò in paese dalla Germania, un emigrante di nome Benito. Benito era il maggiore di cinque fratelli di una famiglia poverissima. Per questo motivo decise di emigrare, fare un po’ di fortuna e mandare soldi a casa. Infatti, si presentò ben vestito e quasi irriconoscibile ai paesani, con una discreta macchina, che aveva il bagagliaio pieno di polli spennati e impacchettati, con l'aggiunta di un regalino, un rametto di vischio e un biglietto d'auguri con tante scuse per aver rubato i polli dieci anni prima, spinto dalla miseria e dalla fame, avendo cura di rubare non più di una gallina a pollaio e di annotare con scrupolo il nome di ogni creditore sopra un quaderno. UN NATALE VISSUTO PERICOLOSAMENTE Alle vacanze di Natale del 2010, il piccolo Luca, cronista in erba, figlio di una nostra vicina; deciso a svolgere con solerzia il compito a casa: “Il Natale di tuo nonno bambino” che la sua maestra gli aveva assegnato per le vacanze natalizie, venne a trovarmi per farsi raccontare da me, visto che i suoi nonni erano tutti morti o dispersi, un vero Natale di tanti anni fa. Un Natale di quelli romantici quando con papà, sfangando la neve ci si recava nel bosco a scegliere l'albero di natale per poi tornare all'imbrunire verso il tepore del focolare domestico, dove l'alberello poteva essere decorato tirando fuori dal ripostiglio gli addobbi. Proprio come si vede in certe cartoline natalizie, mentre la mamma preparava la garrula cena aspettando la notte santa. Un alberello vero! mica uno quelli di plastica comprato al supermercato che i suoi gli avevano appena arrangiato a casa tanto per farlo contento, in attesa che ci arrivi sotto la play station in regalo che Luca aveva richiesto via e-mail al babbo natale della cocacola direttamente dal polo nord. Superato lo shock di essere stato eletto nonno così, su due piedi, iniziai il racconto del mio bucolico natale di tanti, tanti anni fa, mentre il bimbo con fare da vero cronista preparava penna e tacquino per non perdersi nemmeno una virgola. Caro il mio Luca! il Natale d'una volta era povero. Mancava l'abbondanza di oggi ma allora i regali erano pochi ma veri e venivano sempre apprezzati da noi bambini. Allora non c'erano tanti soldi da spendere. Se sotto l'albero ci trovavi una pistola ad acqua e una confezione di carracini era già tanto. Ai miei tempi gli alberi di plastica non c'erano, erano alberi veri di pino o abete che fregavamo alla pineta. La forestale piantava a maggio e i paesani segavano a dicembre e così la pineta non cresceva mai. Passato Natale gli alberelli erano belli e secchi che si dovevano buttare via. Una volta dei fiorai aquilani disonesti non potendo arrivare al vischio segarono due bei mandorli di mio zio pur di fregarlo, il vischio costava parecchio e mio zio passò quel natale smadonnando come come un bifolco. Come addobbo si usavano palle di vetro e non di plastica come adesso, che spesso si rompevano ed erano molto taglienti. La vedi questa cicatrice sul dito? ancora ce l'ho. Per fare la neve sui rami si usava la lana di vetro che era bianca e lucente. Lana di vetro capisci? Era fatta di pagliuzze volanti che ti entravano alle dita, gli occhi, le narici e dentro i vestiti come ortiche e aghi di cactus, ti rendi conto. E dove vendevano la lana di vetro per fare la neve? La vendevano persino ai magazzini Standa!!, roba che oggi ti arrestano subito, perchè la lana di vetro penetra nei polmoni e non la levi mai più, può anche causare il cancro. Sull'albero ci si mettevano le candeline di cera perchè le lucette costavano. Dopo le feste, se ti facevi un giro nelle case spesso si vedevano larghe chiazze nere sui soffitti, segno lasciato dagli alberi natalizi andati a fuoco. Sono anche bruciate un paio di case da queste parti. Oggi con le luminarie elettriche non succede più per fortuna. Adesso ci sono leggi severe. Le palle sono per legge tutte di plastica ed ogni pezzo deve essere conforme elle norme CEE per fortuna. Persino l'albero deve essere certificato di plastica ignifuga. Anzi, sei sicuro che quello che avete appena fatto a casa tua non sia un albero di plastica cinese? Solo a quel punto del racconto realizzai che Luca mi guardava con un sorrisetto tra imbarazzo e delusione; come gli avessi tracannato la merendina senza chiederla. Accidenti a me, gli avevo fatto a pezzi il mito del bianco Natale del panettone Bauli. Se ne uscì con gli appunti scritti a metà ed una espressione sulla faccia della serie: “E mo' cosa gli racconto alla maestra?” Che gaffe ragazzi. Ma che ci posso fare. Che colpa ne ho se al mio interlocutore gli fanno sempre vedere quelle melenze cartoline natalizie. FAGIOLI NELLA TESTA ovvero: la filosofia di Bastiano Un contadino mi invitò a scendere nella sua cantina per offrirmi un bicchiere di vino preso fresco fresco dalla botte. Mentre parlavamo del più e del meno, l'occhio mi capitò su di un lenzuolo di juta umido e cosparso di fagioli. Quando chiesi a cosa servissero tutti quei fagioli, il contadino mi rispose di averli messi li a germogliare per decidere quali seminare e quali no. Giustamente, quelli germogliati li avrebbe seminati, tutti gli altri li avrebbe cotti e mangiati, in modo tale d’ avere, non solo un orto folto e rigoglioso ma anche parecchie zuppe a cena. Tornando a casa, mi venne in mente che quella regola elementare dei fagioli, si poteva applicare anche su scala universale. Ad esempio per scegliere le idee migliori. Se le idee che affollano la testa fossero come fagioli, non sarebbe molto saggio aver fretta di scegliere quelle apparentemente più belle e produttive; con il tempo potrebbero anche risultare sterili e banali. Meglio aver pazienza di aspettare alcuni giorni, o forse mesi, per dare modo alle idee di germogliare come fagioli e, quindi, metterle in pratica, scartando quelle sterili che produrrebbero solo tempo perso. Sicuramente, un filosofo potrebbe meditare in modo più professionale e argomentato su questa teoria, che non un ragazzino mezzo ubriaco. Ma un fatto è certo, fin dal giorno che decisi di applicare alla mia vita la teoria dei fagioli, le cose andarono indiscutibilmente meglio di prima. Roberto Soldati Appunti dal cassetto Appunti nel cassetto termina qui