ON DIGNITY La dignità umana è dotazione originaria e assoluta o
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ON DIGNITY La dignità umana è dotazione originaria e assoluta o
ON DIGNITY La dignità umana è dotazione originaria e assoluta o risultato dell’azione storico-sociale dell’uomo? di Cristiana Bullita È di I. Kant una delle riflessioni più belle sulla dignità umana: “Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità […] L’umanità è essa stessa una dignità: l’uomo non può essere trattato dall’uomo come un semplice mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine.” (Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, 1785) Chi ha dignità non ha prezzo. L’uomo non è una merce e non può essere acquistato o venduto. Eppure Marx, riflettendo sulla condizione operaia nell’industria moderna, avverte che il lavoratore è trattato proprio come una merce, il cui prezzo coincide con il salario che gli viene corrisposto dal capitalista. Tale prezzo risente del gioco della domanda e dell’offerta esattamente come quello di qualsiasi altro bene disponibile sul mercato. Il lavoratore si trova costretto a mettere in vendita la propria forza lavoro, considerata dal capitalista alla stregua di una cosa. Purtroppo la storia ci fornisce infiniti esempi di svilimento della dignità umana. Si pensi alle ignobili tratte di schiavi neri, all’asservimento e allo sterminio dei nativi americani, al trattamento riservato agli internati negli universi concentrazionari di ogni tempo e di ogni luogo. Non sembra che oggi nel mondo vada molto meglio: basti citare la pena di morte - che ancora vige in molti Paesi cosiddetti civili -, i moderni traffici di prostitute slave e nigeriane, lo sfruttamento sessuale dei bambini russi, il lavoro forzato di milioni di bambini pakistani, degli operai nelle miniere cinesi e congolesi, dei raccoglitori di cotone in Uzbekistan, dei produttori di olio di palma asserviti nelle piantagioni indonesiane… Purtroppo non è necessario allontanarsi molto per assistere alla quotidiana mortificazione della dignità umana. In Italia la prostituzione, ormai in mano alle mafie, dilaga nelle grandi arterie cittadine come nei vicoli a ridosso degli scali ferroviari, in periferia come nel centro; in certi ghetti ai margini delle città i bambini vengono abusati e addestrati al crimine da individui senza scrupoli; nei laboratori clandestini del tessile a Prato o a Firenze schiavi cinesi di ogni età consumano le loro grame esistenze tra macchine da cucire, topi e scarafaggi. “…egli [l’uomo] non può essere considerato come un mezzo per i fini altrui, o anche per i propri fini, ma come un fine in se stesso, e cioè egli possiede una dignità (un valore interiore assoluto) mediante cui costringe tutte le altre creature ragionevoli al rispetto della sua persona e può misurarsi con ciascuna di esse e considerarsi eguale ad esse.” (Kant, Metafisica dei costumi, 1797) L’uomo dunque deve a se stesso, e non solo agli altri, il rispetto della condizione di “nobiltà ontologica e morale” (Treccani), appannaggio di ogni individuo appartenente alla specie umana, proprio in quanto uomo/donna esistente. Questa è la cosiddetta ‘teoria della dotazione’, per la quale la dignità è un principio trascendentale naturalmente collegato agli esseri umani, che non si acquista e non si perde. È importante riconoscere e tutelare anche in se stessi lo status privilegiato di homo noumenon, ossia di soggetto appartenente al regno dei fini, in contrapposizione a quello di homo phaenomenon, che pure prosaicamente ci appartiene in quanto semplici elementi del mondo sensibile. È emblematico a tale riguardo il noto ‘aneddoto dell’anima’ di Varlam Šalamov, autore dei Racconti di Kolyma. Egli era prigioniero in un Gulag, quando nella sua baracca giunse un’ispezione. I funzionari chiesero agli internati di consegnare ogni dispositivo artificiale in loro possesso. I poveretti, uno dietro l’altro, si liberarono delle loro protesi. Chi di un arto finto, chi della dentiera, chi di un occhio di vetro. Ma Šalamov, giovane e sano, non aveva nulla da consegnare. Uno dei poliziotti lo provocò beffardamente : “Tu cosa ci consegni?” E lui serio: “Niente”. Allora l’altro disse: “Tu ci consegni l’anima”. Šalamov rispose senza pensare: “No, io l’anima non ve la consegno”. Al che l’altro insistette: “Un mese di punizione se non ce la consegni”. “No, non ve la consegno”. “Due mesi di punizione se non ce la consegni”. “Io l’anima non ve la do”. “Quattro mesi di punizione”. Nei gulag significava morte quasi certa. “L’anima non ve la do”. Sopravvissuto alla pena, Šalamov scrisse che prima che gli venisse avanzata quell’assurda richiesta egli non aveva mai neppure supposto di averla, un’anima. La dignità è quanto di più prezioso possediamo e non è consentito rinunciarvi nemmeno se siamo noi a volerlo. Nel 1991, in una discoteca di una cittadina a sud di Parigi avveniva il cosiddetto“lancio del nano”: il pubblico diviso in squadre gareggiava a chi facesse volare più in alto un uomo di piccolissima statura, il quale rivendicava la sua libertà di prestarsi all’impresa per fini economici. Ma il sindaco si oppose allo spettacolo giudicandolo offensivo della dignità della persona, e il giudice gli diede ragione. “Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno, giuro che lo farò, e oltre l'azzurro della tenda nell'azzurro io volerò. Quando la donna cannone d'oro e d'argento diventerà, senza passare dalla stazione l'ultimo treno prenderà”. (F. De Gregori, La donna cannone) La dignità di questa donna obesa è avvilita perché lei è diventata un fenomeno da baraccone, sfruttata per la sua diversità da chi vuole cavarne profitto. Ma l’amore consente il riscatto da ogni umiliazione. C’è chi per amore pensa di dover rinunciare alla dignità. Il vero amore, però, non chiede mai questo sacrificio. L’uomo è fornito di ragione, che gli conferisce quello che Kant chiama “valore interiore assoluto”. Dalla ragione discende la possibilità di universalizzare la legge morale, essa stessa razionale. La legge morale universale sottintende, a sua volta, la libertà, che è condizione imprescindibile dell’etica. Nel momento in cui il “tu devi” risuona perentorio nella cavità buia della nostra coscienza, noi sappiamo di essere liberi. Quel comando autoritario è, in se stesso, la rivelazione della possibilità di un agire diverso, ribelle; dunque, è incontestabile attestazione della nostra libertà. Kant sostiene poi che “pene infamanti disonorano tutta l’umanità”: pertanto non è mai possibile negare lo status di uomo, con il suo corredo di ‘sacralità’, neppure all’individuo più abietto. E’ recente la sentenza della Corte norvegese che ha concesso un cospicuo indennizzo al neonazista Breivik, massacratore di settantasette persone, per lui simboli e prodotti dell’odiata società multiculturale. Egli è stato ritenuto vittima di “condizioni di detenzione inumane”, in quanto costretto all’isolamento per cinque anni (in un ambiente però dotato di molti comfort). Quei giudici hanno dimostrato che se non si vuole cedere alla vendetta, che pone chi la pratica sullo stesso piano del criminale più spregevole, occorre che chiunque sia trattato sempre come un fine. Alla teoria della dotazione, per la quale, come abbiamo visto, la dignità è un valore ontologico assoluto, si contrappone la ‘teoria della prestazione’, che la predica come valore acquisito e relativo, come risultato dell’agire dell’uomo. Thomas Hobbes, filosofo e matematico britannico, esprime molto chiaramente questa concezione: “Il valore, o pregio di un uomo, è, come in tutte le altre cose, il suo prezzo, vale a dire, quanto si darebbe per l’uso del suo potere; non è perciò una cosa assoluta, ma dipendente dal bisogno e dal giudizio altrui. Un abile condottiero ha un prezzo in tempo di guerra, presente o imminente, ma non così in pace. Un giudice dotto e incorruttibile ha molto pregio in tempo di pace, ma non altrettanto in guerra. E come in altre cose, così negli uomini non è il venditore, ma il compratore a determinare il prezzo.” (Hobbes, Leviatano, 1651) Per Hobbes la dignità non appartiene all’individuo in quanto persona ma al professionista che, in una cornice economica precapitalistica, offre un servizio in cambio di una quantità di denaro, la quale necessariamente varia con le circostanze determinando le oscillazioni di valore dell’uomo stesso. “Il pregio pubblico di un uomo, che è il valore attribuitogli dallo Stato, è ciò che gli uomini chiamano comunemente dignità. Questo suo valore è significato dallo Stato con cariche di comando, di giudicatura, di pubblici impieghi, o con i nomi e i titoli introdotti per la distinzione di tale valore”. (Hobbes, Leviatano, 1651) Ora sarebbe utile chiederci quanto noi oggi siamo realmente lontani dalla concezione di Hobbes. Basti osservare, ad esempio, come la misera retribuzione degli insegnanti determini la loro scarsa considerazione sociale, quando addirittura non ne alimenti il discredito e lo scherno. Alla teoria della prestazione, secondo alcuni, andrebbe ricondotto anche il problema dell’eutanasia, in quanto la stessa domanda sulle condizioni alle quali la vita merita di essere vissuta escluderebbe la concezione della dignità umana come valore in sé. Credo invece che proprio a garanzia della dignità dell’individuo, che non varia con il variare delle sue “prestazioni” sociali, e quindi con il suo stato di salute, il mantenimento in vita resti un obiettivo lecito solo a patto che non arrivi ad intaccare quella stessa dignità: “Il bene non consiste nel vivere, ma nel vivere bene” (Seneca, Lettere a Lucilio, libro VIII) Gabriel Marcel, filosofo del secolo scorso, nota come “il carattere sacro dell’essere umano” ci appaia proprio quando lo incontriamo nudo e disarmato, “nel bambino, nell’anziano, nel povero”. Nel malato, aggiungo. Quella dignità, che non si concilia con la vita ad ogni costo, deve essere comunque difesa. Sulla dignità dell’uomo ha scritto anche G. Pico della Mirandola. Nella sua orazione, così il sommo Artefice si rivolge ad Adamo: “Ti ho collocato al centro del mondo perché potessi così contemplare più comodamente tutto quanto è nel mondo. Non ti ho fatto del tutto né celeste né terreno, né mortale, né immortale perché tu possa plasmarti, libero artefice di te stesso, conforme a quel modello che ti sembrerà migliore. Potrai degenerare sino alle cose inferiori, i bruti, e potrai rigenerarti, se vuoi, sino alle creature superne, alle divine.” (G. Pico della Mirandola, Oratio De Hominis Dignitate, 1486) Pico conferisce all’uomo uno status privilegiato e indubitabile, comprovato dalla sua felice collocazione al centro del mondo. Però il valore dell’essere umano dipenderà molto anche dalle scelte che egli compirà in quanto libero. Dunque nella concezione del filosofo umanista convergono le due teorie sulla dignità, quella della dotazione e quella della prestazione, e lì sembrano trovare una felice sintesi. In conclusione la dignità, pur appannaggio di ogni individuo per il solo fatto di appartenere al consorzio umano, non è un valore inerte trasmesso con i geni della specie. La condizione di eccellenza morale attribuita a ciascuno di noi in quanto uomini e donne deve essere agita. Essa implica rispetto per gli altri e per se stessi, e la pretesa del rispetto per i diritti degli altri e per i propri. Chi umilia e offende, o resta indifferente di fronte all’umiliazione e all’offesa proprie o altrui mortifica la dignità di tutti. Degenera sino alle cose inferiori e diventa bruto, come avverte Pico. Cerchiamo di restare degni del posto d’onore che ci è stato conferito, da una divinità o dall’evoluzione. A questo proposito, ricordo che si chiama Dignity la nave di Medici Senza Frontiere che negli ultimi tempi, insieme ad altre due, ha salvato da morte certa in mare oltre sedicimila uomini, donne e bambini. Salvando, per questa volta, anche la dignità di tutti noi.