Capitolo 1 - Ujamaa per la pace Onlus

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Capitolo 1 - Ujamaa per la pace Onlus
Capitolo 1: Quadro teorico
“Entro il 2030 oltre il 60%
della popolazione mondiale
si sarà urbanizzato1”.
Come possiamo definire la città e soprattutto come dobbiamo leggere i suoi
cambiamenti? Gli studi urbani non sono un fenomeno recente. L’espressione “teoria
urbana” indica una gamma di prospettive e interpretazioni che mirano a fornire una
comprensione generale della vita cittadina. Simon Parker evidenzia come la teoria
urbana si possa definire con uno o più elementi che comprendono le cosiddette “quattro
C”: cultura, consumo, conflitto e comunità. Per cultura si intende “tutti i sistemi di
credenze, insieme all’ambiente fisico costruito, ai contenuti e ai mezzi di
comunicazione, e anche alla produzione culturale tradizionale e alla cultura popolare. Il
consumo si riferisce alla natura dello scambio e ai mezzi attraverso cui vengono
prodotti i beni e servizi consumati. Il conflitto non si riferisce solo alla violenza fisica
ma anche a lotte meno visibili per le risorse, e anche tra classi sociali e gruppi diversi
per interessi e status sociale. La comunità coinvolge tutti gli aspetti della vita sociale
delle città, dalle dimensioni della popolazione alla sua distribuzione sul territorio, alla
composizione sociale, alle sue caratteristiche e al loro cambiamento nel tempo2. Il
nostro studio vuole cercare di comprendere alcune di queste caratteristiche e in
particolare lo studio della comunità. Nel fare questo utilizzeremo vecchie e nuove teorie
emerse nel XX° sec.
1) Città come spazio
Per l’attore sociale lo spazio “può assumere contemporaneamente un aspetto
concreto, fatto di punti, di distanze, di forze necessarie a percorrerlo, lo spazio che
materialmente permette e caratterizza lo svolgersi delle sue azioni. Nondimeno può
avere un significato astratto, cioè una funzione di forma o schema attraverso cui egli
coglie la realtà”3. Sia nel primo punto di vista che nel secondo la città può essere
1
S. Parker (2004), “ Teoria ed esperienza urbana”, Il Mulino, Bologna, p. 11
Ibid ,p. 12
3
V.Cesareo (1998), “Sociologia, concetti e tematiche, Vita e Pensiero, Milano, p. 211
2
9
considerata come un complesso di case strettamente confinanti, le quali costituiscono un
centro abitato compatto e così esteso che vi manca la conoscenza reciproca degli
abitanti4.
La vita di una città è influenzata da fattori spaziali come il numero degli
insediamenti, la loro distribuzione, l’esistenza di confini, la massa e la densità delle
persone che vi abita. La dislocazione nello spazio urbano di una sua unità è importante
per determinarne tutti gli aspetti concreti dell’azione e della problematica, della
materialità della vita quotidiana (trasporti ecc..) e dei significati culturali che esso
assume5. Una distinzione importante rispetto a questo concetto è quella tra spazio
pubblico e spazio privato. Gli spazi pubblici sono anzitutto spazi simbolici,
caratterizzati da elevata accessibilità e uniformazione. Tali spazi permettono un tipo di
comunicazione indiretta, impersonale, estesa e non gerarchica. Gli spazi privati
riscontrano un’accessibilità condizionata, un’ elevata personalizzazione nonché il
prevalere di comunicazioni gerarchiche. Da questo punto di vista Habermas distingue
tra mondo vitale e sistema sociale: il primo è l’insieme delle conoscenze e delle
concrete situazioni nelle quali l’attore sociale svolge gran parte della sua vita
quotidiana: “il soggetto non si identifica propriamente con il mondo vitale, ma ne fa
parte, contribuisce a costruirlo, e nel medesimo tempo lo utilizza per controllare
(simbolicamente) la propria integrazione sociale”. Il secondo concetto, il sistema
sociale, viene definito dall’autore tedesco come l’insieme delle attività impersonali e
funzionali, svolte secondo il principio della razionalità strumentale. Il sistema garantisce
la riproduzione materiale della società attraverso meccanismi di regolazione estranei
alla personalità dei soggetti perseguendo, dunque, obiettivi antagonistici rispetto al
mondo vitale. Da questo punto di vista si possono definire lo spazio pubblico e lo spazio
privato rispettivamente come sistema sociale e mondo vitale6.
Il rapporto tra socialità e spazio urbano ad oggi si potrebbe sviluppare in maniera
disgiunta rispetto al passato. In particolare Castrignanò afferma come “il rapporto tra
socialità e spazio si manifesta spesso in modo più sfumato e contraddittorio rispetto
all’idea tradizionale dello spazio come specchio delle relazioni sociali”7. Nella sua
analisi del “sistema Corticella” l’autore individua la compresenza di legami sociali e
4
Ibid. p. 223
Ibid. p. 212
6
Ibid. pp. 218-219
7
M. Castringnanò (2004), “La città degli individui”, Franco Angeli, Milano, p. 26.
5
10
socio – territoriali di tipo comunitario con dinamiche di tipo societario. Parlare di
comunità può avere un duplice significato. Da un lato si evidenziano le dinamiche
relazionali tipiche di aree rurali che le persone mantengono e riadattano ad un contesto
urbano anche se caratterizzate da un certo grado di chiusura tipico dell’ambiente
cittadino. Dall’altro si possono verificare autonomamente degli stili di vita caratterizzati
da legami sociali ascrivibili ad una più generale idea di comunità8. Sebbene l’oggetto
del nostro studio non vada nella direzione della ricerca di legami comunitari o societari
all’interno dell’area oggetto del nostro lavoro sul campo, sarà importante verificare le
dinamiche che potranno apparire all’interno dello stesso. Bisogna inoltre aggiungere
come all’interno delle scienze sociali la parola comunità abbia avuto una doppia
accezione: da una parte, l’accezione “comunità” designa un insieme di particolari
relazioni sociali alla base di unità collettive che coinvolgono l’individuo nella sua
totalità; dall’altra invece, “comunità” coincide con comunità locale. Durante il proseguo
dell’elaborato e in particolare nei prossimi capitoli con la parola “comunità” si farà
riferimento principalmente alla seconda accezione e in particolare allo studio dei gruppi
di immigrati intesi come collettivi.
Un altro tema fondamentale è quello dello sviluppo fisico e processuale della
città e quindi dello spazio urbano. Dal punto di vista fisico la città moderna si forma
grazie all’espansione di più città vicine che si sono sviluppate fino a fondersi in
un’unica area urbana continua. La città può essere letta, da questo punto di vista, con
l’analisi del piano, ossia il progetto dell’assetto urbanistico, in relazione all’assetto
morfologico del territorio. La realtà fisica del territorio è il prodotto di modificazioni e
si tratta di comprendere in che modo le stesse sono il frutto di volontà pianificatorie:
quanto cioè l’assetto del territorio è debitore del piano9. Dal nostro punto di vista
l’aspetto più interessante riguarda l’organizzazione dello spazio della città cosmopolita.
Per i sociologi di Chicago, il modello di espansione seguiva le stesse linee in tutte le
città americane dell’epoca. Inoltre, la differenziazione in gruppi naturali, economici e
culturali imprime una forma e un carattere alla città, poiché la separazione assegna al
gruppo, e quindi agli individui che lo compongono, un ruolo nell’intera organizzazione
della vita cittadina. Inoltre, la divisione del lavoro gioca un ruolo fondamentale:
8
Castrignanò M. “Più logiche nell’articolazione del territorio”, (cura di), P. Guidicini (2000), “Luoghi
Metropolitani”, Franco Angeli, Milano, p.161.
9
C. Centanni, Interpretazione della città attraverso il PRG. Efficacia del piano e forma urbana
nell’Ancona del dopoguerra”, Università degli Studi di Camerino, Dottorato di Ricerca XVII ciclo, p. 9
11
l’attinenza di certe popolazioni a certi tipi di lavoro porta di fatto alla specializzazione10.
Tralasciando l’analisi delle varie forme architettoniche che possono incidere nelle
conformazioni della città nei prossimi capitoli analizzeremo l’espansione di Ancona.
Dal punto di vista processuale Park affermava che negli anni ‘20 non fossero
stati compiuti studi importanti sullo sviluppo della città. Secondo questo autore, “i tipici
processi di espansione della città possono essere illustrati mediante una serie di cerchi
concentrici, che si possono numerare per designare sia le zone successive di estensione
urbana sia i tipi di aree differenziate nel processo di espansione”11. Lo sviluppo della
città nel diagramma esemplificativo pone il centro circondato da un secondo anello
caratterizzato dalla zona industriale. Al terzo anello abbiamo la zona residenziale
operaia, al quarto la zona residenziale e al quinto la zona dei lavoratori pendolari. Il
diagramma, dice Burgess, “rivela la caratteristica principale dell’espansione, cioè la
tendenza di ogni zona interna a estendere la propria superficie invadendo la zona esterna
immediatamente successiva”. Burgess aggiunge che questo fenomeno può essere
definito come di successione e che ha analogie negli studi dell’ecologia vegetale. Il
processo di espansione, e soprattutto il tasso di espansione può essere studiato non
soltanto nello sviluppo fisico e commerciale ma anche nei mutamenti che ne derivano
nell’organizzazione sociale e nei tipi di personalità. L’espansione crea anche dei
processi di disorganizzazione e dei mutamenti dove talvolta avviene un disequilibrio
delle forze. Questo avviene sia a livello globale che a livello personale: il nuovo venuto
in città deve affrontare un conflitto interno in quanto abbandona e rinuncia alle abitudini
e spesso anche al suo modello morale di riferimento.
Dal punto di vista dello sviluppo processuale della città un concetto
fondamentale è quello di gentrification. Questo termine è stato usato per la prima volta
dalla sociologa Ruth Glass per descrivere l’arrivo di persone con redditi da classe media
in quartieri centrali di Londra precedentemente occupati da gruppi a basso reddito. I
nuovi arrivi sono costituiti anche dai classici manager o professionisti con istruzione
universitaria, le cui esigenze di consumo possono alterare le caratteristiche sociali e i
servizi di una zona, cosicché le reti sociali dei residenti si disperdono, mentre
aumentano costo della vita e offerta di servizi destinata a soddisfare i gruppi ad alto
reddito.
10
11
S. Parker (2004), “ Teoria ed esperienza urbana”, Il Mulino, Bologna, 51-54.
R. Park, E. Burgess, R. Mckenzie (1997), “La Città”, Edizioni di Comunità, Torino, p.48.
12
Nelle aree ad alta deprivazione sociale, queste enclaves diventano punti di
riferimento per altri proprietari di case della classe media che non possono, o non
desiderano, educare privatamente i loro figli, ma neanche vogliono diventare pendolari
suburbani. Una volta che il consumo collettivo di un bene pubblico si è imborghesito in
questo modo, le reti del capitale sociale che si sono mobilitate per migliorare questo
aspetto dell’offerta coopereranno per esigere che siano migliorati anche altri aspetti di
interesse pubblico, come i parchi, gli spazi verdi, la congestione del traffico e la
criminalità.
Il fenomeno della gentrification rientra anche nei dibattiti sulla globalizzazione e
ristrutturazione del paesaggio urbano connessi alla mobilità di capitali e al conseguente
sviluppo disequilibrato. Secondo Neil Smith, tale fenomeno è un effetto caratteristico di
quello che Harey e Lefebvre chiamano secondo circuito del capitale, il capitale investito
in terreni e proprietà e si collega alla tendenza a sfruttare le variazioni del valore dei
terreni (rendita fondiaria) durante i periodi di fluttuazione dei prezzi. Smith dice come la
valorizzazione del capitale nel centro della città crea l’opportunità affinché questa
porzione di spazio urbano sottosviluppato si rivalorizzi.
2) Aree naturali ed ecologia umana.
Nel libro “La città”, scritto nell’ambito della scuola di Chicago, uno degli aspetti
più interessanti è la delimitazione della città in aree naturali. Una delle parole ricorrenti
tra questi studiosi è l’“ecologia umana”. Questo concetto viene definito da Park come lo
studio delle relazioni spaziali e temporali degli esseri umani in quanto influenzati dalle
forze selettive, distributive e adattive che agiscono nell’ambiente12. Concetto chiave a
questo proposito è quello della posizione, sia nel tempo che nello spazio dove con
questo termine si intende la relazione spaziale di una data comunità con altre comunità,
e, inoltre, la collocazione dell’individuo o dell’istituzione nella comunità stessa.
I sociologi di Chicago pongono il rapporto ecologico all’interno dell’ambiente
urbano come luogo naturale di espressione, insediamento della comunità e articolazione
definitiva del conflitto per la sopravvivenza. L’origine di questi studi ha come corollario
quello degli sviluppi delle scienze naturali del primo novecento. Le teorie si basano
sull’assetto dell’universo delle piante, la cui organizzazione e sopravvivenza, fondate
12
Ibid. p. 59
13
sul processo evoluzionistico, differiscono per il carattere non sociale delle individualità
che lo compongono13.
Da questo punto di vista la città altro non è che un processo del cambiamento
storico che si viene realizzando, come prodotto “naturale” dell’interazione di fattori
economici e culturali, dei quali erano complessivamente protagonisti gli uomini, i quali
si insediavano in un ambiente fisico (in una dimensione spaziale) e in un tempo sociali,
modificandoli e restandone a loro volta modificati14.
Per Mc Kenzie, anche se la differenza essenziale tra uomo e natura sta nella
scelta del proprio habitat e di rimodellarlo a suo piacimento grazie anche alla mobilità
umana, “un esame e un indagine più accurati mettono in evidenza che le comunità
umane non sono prodotti artificiali o consapevoli”15. Il dato fondamentale da cui partire
è comunque la natura dell’uomo come essere sociale. L’uomo, afferma Mc Kenzie, non
può vivere solo; è relativamente debole e ha bisogno non soltanto della compagnia di
altri consociati umani, ma di rifugio e di protezione dagli elementi.
I processi migratori, come ogni altra forma di mutamento sociale della comunità
pongono la città in un processo di disorganizzazione e quindi della ricerca di un nuovo
equilibrio. Tuttavia il momento in cui avviene il cambiamento può trasformarsi in una
situazione di crisi, un’improvvisa ricaduta o addirittura al panico. Dall’altra parte lo
spostamento di popolazione crea dei disequilibri nella comunità di partenza: la
concorrenza diventa più forte all’interno della comunità e gli elementi più deboli o sono
costretti a retrocedere a un livello economico inferiore, oppure debbono abbandonare
completamente la comunità16.
Per Park, che prese a riferimento la metropoli di Chicago, è il conglomerato
urbano il luogo dove si determina il processo di aggregazione, confronto e risoluzione
del rapporto tra i soggetti, e nella quale si realizza, all’interno della popolazione, uno
sviluppo segnato da selezione e segregazione che la porta a vivere in specifiche aree
naturali, omogenee al proprio interno: “la città è il microcosmo nel quale si riflettono,
spesso in anticipo sulle manifestazioni contemporanee, i mutamenti che si stanno
determinando nel macrocosmo”.
13
R. Rauty in R. Park, E. Burgess, R. Mckenzie (1997), “Introduzione a La Città”, Edizioni di Comunità,
Torino p. XV
14
R. Ibid, p. XII.
15
R. Park, E. Burgess, R. Mckenzie (1997), “La Città”, Edizioni di Comunità, Torino. p. 60
16
Ibid. pp. 67-68
14
La città per questi sociologi viene considerata come unità ecologica, unità
geografica, unità economica e un’area culturale. Per unità ecologica si intende il
coinvolgimento nei processi vitali della gente che la compone: come prodotto della
natura e in particolare della natura umana. In particolare si sottolinea come esistano
forze “che agiscono nei limiti della comunità urbana tendenti a produrre un
raggruppamento ordinato e tipico della sua popolazione e delle sue istituzioni”17.
L’ecologia urbana è dunque considerata la scienza che cerca di isolare questi fattori, e di
descrivere quelle tipiche costellazioni di persone e di istituzioni che sono prodotte dalla
cooperazione delle forze.
La città viene anche considerata come unità geografica ossia l’aggregarsi
contiguo, nello spazio urbano, di realtà profondamente contrastanti ma anche la stessa
organizzazione fisica che nella città americana si sviluppa prevalentemente in isolati: “I
mezzi di trasporto e di comunicazione, le linee tranviarie e i telefoni, i giornali ecc..
sono tutti elementi che tendono a produrre nello stesso tempo una maggiore mobilità e
una maggiore concentrazione delle popolazioni”18. La città è anche un’unità economica:
ossia uno spazio organizzato fondato sulla divisione del lavoro. Infine viene considerata
come area culturale caratterizzata da un particolare tipo culturale: adducendo ciò i
sociologi di Chicago pongono enfasi sul come le grandi culture abbiano un carattere
urbano.
L’entità della popolazione, la sua concentrazione e la sua distribuzione entro
l’area cittadina portano allo studio, per i sociologi di Chicago, di alcune caratteristiche
proprie del tessuto urbano:
“Quali sono le origini della popolazione della città? Quale porzione dell’aumento della
sua popolazione è normale, cioè dovuto a un’eccedenza delle nascite sulle morti? Quale
porzione è invece dovuta all’emigrazione di ceppi nativi? Di ceppi stranieri? In quale
modo la distribuzione della popolazione entro l’area urbana è influenzata da interessi
economici, cioè dal valore del terreno? Da interessi sentimentali? Dalla razza?
Dall’occupazione?19”
All’interno della Chicago ma anche di altre città americane degli anni ’20 si
sviluppavano a parte delle colonie isolate di immigrati e delle colonie razziali, ossia i
17
, Ibid p. 5.
Ibid. p.6.
19
Ibid. p.9
18
15
cosiddetti ghetti. Laddove il pregiudizio verso l’immigrato e verso l’altero erano forti si
sviluppavano, all’interno di questi ghetti, legami di intimità e di solidarietà dei gruppi
locali e di vicinato. I ghetti venivano considerati come vere e proprie città nelle città con
la caratteristica di essere composte da persone della stessa razza o classe sociale.
Da questo punto di vista Thomas, precursore di questa scuola, nel suo libro “Gli
immigrati e l’America”, sviluppa una serie di delimitazioni culturali nello spazio fisico
della città di New York.
Il lavoro di Thomas si rivela interessante non solo per l’accentuazione delle
caratteristiche significative di ogni comunità ma anche per i loro tratti comuni20. Nel
prossimo paragrafo approfondiremo l’analisi di questo studioso ponendolo in relazioni
con le problematicità dell’integrazione.
Riferendoci ai processi ecologici di insediamento risulta importante il concetto
di invasione.
Mc Kenzie lo raggruppa in due classi principali: quelle che conducono a un mutamento
nell’uso del terreno e quelle che introducono soltanto un mutamento nel tipo di
occupante. “Le invasioni producono stadi successivi di importanza qualitativamente
diversa; cioè il livello economico del distretto può innalzarsi o abbassarsi in seguito a
certi tipi di inversione. Questo aspetto qualitativo si riflette nelle fluttuazioni dei valori
del terreno o degli affitti”.21 Nel secondo aspetto, si verifica un cambiamento nella
configurazione delle persone che vi abitano e i mutamenti dei tipi di servizi all’interno
di un’area. L’invasione può inoltre cambiare il livello economico del distretto sia in
termini peggiorativi che migliorativi.
Un’altra classificazione delle invasioni è quella relativa allo stadio di sviluppo in
a) stadio iniziale; b) stadio secondario o di sviluppo; c) apogeo. Al primo stadio di
invasione la resistenza dipende dal tipo di invasore nonché dal grado di solidarietà degli
attuali occupanti. L’invasore indesiderato, penetra di solito nel punto di maggiore
mobilità e di minima resistenza. L’inizio di un’invasione tende a riflettersi nei
mutamenti del valore dei terreni. Se l’invasione è costituita da un mutamento di uso, il
valore dei terreni generalmente aumenta, mentre diminuisce quello dei fabbricati.
Questa situazione pone le basi della disorganizzazione. In genere le normali riparazioni
e i miglioramenti vengono trascurati, e il proprietario si trova nell’urgente necessità
20
21
W.I. Thomas (1997), “Gli immigrati e l’America, Donzelli Editore, Roma.
Ibid. p. 69
16
economica di affittare la sua proprietà a servizi parassitari e transitori che possono
essere economicamente redditizi ma socialmente condannabili e che quindi possono e
debbono pagare affitti più elevati di quelli che i servizi legittimi si possono permettere. I
primi stadi dell’invasione possono essere caratterizzati da fasi di aperto conflitto. “A
misura che il processo continua la concorrenza suscita raggruppamenti di associazione. I
servizi che avanzano richieste di territorio analoghe o complementari tendono a
raggrupparsi fortemente gli uni vicino agli altri, producendo sotto-formazioni con
determinate funzioni”.22 Lo stadio di apogeo si caratterizza per lo stato dominante
dell’organizzazione ecologica capace di resistere alle intrusioni di altre forme di
invasione: in quello stadio tutti i quartieri residenziali ormai ultimati si trova in genere
un notevole grado di omogeneità economica. In generale l’effetto delle invasioni
suddivide il territorio urbano in aree naturali definibili ciascuna per una propria capacità
selettiva e una propria cultura. Queste aree naturali possono poi includere delle sotto
aree o associazioni che vengono a far parte della struttura organica del quartiere o della
comunità.
Il primo autore che parlò di aree naturali fu Zorbaugh della scuola di Chicago.
Nel suo libro, The Gold Cost and the slums, parla della divisione in 6 aree naturali della
parte della città conosciuta come Near North Side. In particolare Zourbagh definisce
l’esistenza di un quartiere considerato ricco. In questa parte della città gli abitanti si
contraddistinguevano per un atteggiamento teso ad escludere dai propri privilegi le altre
persone. Spesso, soprattutto tra le classi più ricche, le persone si vantavano di non
conoscere i propri vicini. Il bene posizionale, nei termini di Hirsh, in questo caso era il
soggiornare in luoghi di villeggiatura per più di otto mesi all’anno. Nel giro di poco
tempo però, questa quartiere vide un processo di successione: le persone che vi
abitavano, nel giro di una generazione, furono soppiantate da classi più povere. Un’altra
area era quella delle case in affitto: in questo quartiere si notava la presenza di single.
La carratteristica principale era la quasi totale assenza di bambini di bambini rispetto ad
altre aree della città. Questa zona, nei termini di Durkheim, si verificava un’alta
percentuale di suicidi dovuti all’anomia. Vi erano poi gli slums che Zorbaugh
classificava in due tipi: il quartiere degli immigrati, considerato come un luogo
cosmopolitita dove vi abitavano 28 tipi di nazionalità e dove la convivenza e la
22
Ibid. p. 70-71
17
tolleranza era reciproca. Le distanze sociali, data la caratteristica della composizione
sociale, si attenuavano, sviluppando un tipo di quartiere solidale. Tra gli slum però vi
era quello di Little Sicily. Questo quartiere, abitato ovviamente da siciliani, possedeva la
caratteristica di essere ancora chiuso rispetto all’esterno. Gli abitanti riuscivano a
mantenere ancora intatte le proprie tradizioni e cercavano di soppiantare il resto degli
immigrati e in particolare gli svedesi. In quest’area si verificava quella lotta per lo
spazio di cui abbiamo appena parlato. Tuttavia ai tempi in cui Zorbaugh scriveva il suo
saggio, i siciliani vivevano un processo di successione a favore dei neri provenienti dal
Sud degli Usa. Vi era un altro slum ossia la zona delle camere d’affitto a buon mercato.
Questa era la giungla dei relitti umani, un mondo di falliti e di derelitti senza speranza.
Tutti portavano il marchio della sventura e del fallimento; l’inabilità fisica, la droga e il
gioco d’azzardo erano elementi quasi sempre presenti nella loro storia, accompagnati da
una totale mancanza di volontà, di speranza e dal conseguente senso di sconfitta, che
faceva loro accettare la vita dello slum e il definitivo isolamento dal mondo. L’ultimo
quartiere preso in considerazione è quello degli artisti o come lo chiamava Zorbaugh dei
Bohemiens. In questa area si incontravano gli intellettuali dell’epoca e, come afferma
Hannerz, veniva assicurata la libertà non per l’anonimato ma per un’affermazione di
principio: le coppie non coniugate che vivevano insieme vi trovavano un porto di
salvezza, così come le minoranze sessuali. Inoltre le donne disponevano di una libertà
d’iniziativa in materia di vita culturale che non avevano nel resto della società
americana23.
Zorbaugh delimiterà le sue aree naturali in modo geografico per mezzo di strade
o ferrovie. Il suo contributo più interessante riguarda l’affermazione in base alla quale
non vi fosse area della città dove non si generasse una difficoltà nel mantenere o
ricostruire un senso di comunità. Questo riguardava tutti i gruppi fatta eccezione per i
siciliani che tuttavia si stavano spostando dal quartiere. Questo fatto stava creando un
senso di precarietà all’interno del gruppo, timoroso di perdere i contatti con la comunità.
L’autore parte dal presupposto che non è sufficiente pensare in termini di una comunità
idealizzata, ma che si deve accettare la natura umana, le tradizioni culturali di una
determinata area, e la configurazione fisica della comunità. In questo contesto la
comunità è concepibile come un gruppo che abbia condiviso una serie di esperienze e
23
J. Madge (1962), “Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in sociologia”, Il Mulino, Bologna, pp.
137-145; U. Hannerz (1992), “Esplorare la città”, Il Mulino, Bologna, p. 132.
18
che possegga una comune definizione della situazione: se però questo è possibile in un
villaggio, dove per le decisioni si utilizza il consenso, non è possibile nella metropoli
dove si tende ad utilizzare il metodo democratico.
Per Madge, questo concetto è un modo un po’ pretenzioso di descrivere il fatto
che le caratteristiche del terreno e le opere dell’uomo tendono a dividere la città in zone
relativamente isolate. La definizione è quindi geografica o economica, non culturale.
Questo fatto è stato trascurato da alcuni urbanisti i quali hanno diviso la loro città in
aree naturali o unità di quartiere divise le une dalle altre da ferrovie, canali, zone di
verde o altre barriere.
Un fatto importante è quello della separazione delle funzioni: già nel 1930 solo
una piccola parte della popolazione lavorava nella zona in cui abitava. Anche i
divertimenti tendono a commercializzarsi e a concentrarsi in zone particolari24.
3) La segregazione sociale come fenomeno fisico o politico
Quando parliamo di segregazione dobbiamo tenere in considerazione come
questo fenomeno possa essere puramente fisico oppure derivante da scelte politiche e
quindi autoprovocato. Come spiega Wirth l’eterogeneità è un attributo essenziale delle
città, insieme alla densità e alla grandezza. Queste tre variabili costituiscono gli
elementi che configurano la forma della vita urbana. L’eterogeneità urbana ha molte
espressioni: la città si sviluppa, infatti, come un conglomerato di “razze” e di culture
distinte, ma è anche una accumulazione di gruppi differenti in termini di ricchezza, di
classi sociali e di integrazione e di esclusione sociale. Quando la disuguaglianza sociale
si combina con l’eterogeneità dello spazio urbano, si genera la segregazione. Il
fenomeno della segregazione è quasi consustanziale con il modo di vita urbano. Il
concetto di segregazione è dunque ricco di ambiguità. Mc Kenzie della scuola di
Chicago la qualifica come un processo ecologico, il che significa che è qualcosa di
spontaneo, e si tratta della tendenza che esiste sotto determinate circostanze alla
localizzazione concentrata di individui con attributi simili e la loro separazione.
L’integrazione non è l’opposto della segregazione in quanto ci sono gruppi segregati
24
J. Madge (1962), “Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in sociologia”, Il Mulino, Bologna, pp.
155-159.
19
ma anche ben integrati nella società urbana. Se la segregazione è soprattutto un concetto
spaziale, l’integrazione è un concetto sociale25.
La segregazione residenziale indica dunque il livello di disuguaglianza della
distribuzione della popolazione tra le differenti zone. Nel disegno e nella pianificazione
delle politiche urbane è interessante ottenere una visione quantitativa della segregazione
per prevedere e attuare contro questo fenomeno. Da questo punto di vista due sono le
visioni prevalenti nelle scienze sociali: la prima è relazionata ad un modello
monocentrico per cui le famiglie competono per ottenere una casa vicino al centro
urbano. La differenza di reddito di queste famiglie provoca una distribuzione diseguale
delle stesse. La seconda fa riferimento alla concentrazione di famiglie di reddito basso
in certi quartieri per l’esistenza di esternalità. Come conseguenza le famiglie
preferiscono fissare la propria residenza in zone che presentano una certa omogeneità
socioeconomica26. Ma perché questo fenomeno può essere negativo?
La segregazione può derivare da una scelta politica: in questo caso possiamo
affermare che sia un prodotto esogeno. Alcuni autori la definiscono, infatti, come una
forma istituzionalizzata di distanza sociale che si cristallizza con la separazione
territoriale dei gruppi sociali. Il fenomeno segregativo, come afferma Capel, è una
costante storica della città. Nell’antichità i gruppi marginali si situavano normalmente in
luoghi appartati: ghetti ebraici, quartieri di mussulmani o indigeni delle città coloniali.
Durante il proseguo della storia il ghetto si distinse come un processo derivante da
costrizioni economiche piuttosto che da una decisione amministrativa27. In USA questo
fenomeno, diverso e ben marcato rispetto ai quartieri etnici descritti da R.E. Park e dai
sociologi di Chicago, delinearono un modello residenziale dove, in maniera coatta, la
metropoli emergeva come luogo di segregazione in forme marcatamente omogenee28. Il
ghetto è stato descritto da Denton e Massey come “una serie di quartieri che sono abitati
esclusivamente da membri di un gruppo e dove virtualmente i membri di questo gruppo
vivono”29. Tuttavia, afferma Parker riferendosi a Ward, una definizione del genere può
essere insoddisfacente in quanto non in include una netta distinzione tra l’enclave etnica
25
J. Leal, “Segregaciòn Social y mercado de vivienda en las grandes ciudades”,
http://fes-web.org/revista/archivos/res02/04.pdf
26
J. C. Martori, K. Hoberg, J. Suriach (2006), “Poblaciòn inmigrante y espacio urbano. Indicadores de
segregaciòn y pautas de localizaciòn”, Revista EURE (Santiago) v.32 n. 97 Santiago dic. 2006,
www.scielo.cl/scielo.php?pid=s0250-71612006000300004&script=sci_arttext
27
S. Parker (2006), “Teoria ed esperienza urbana”, Il Mulino, Bologna, p. 125
28
Ibid, p. 123.
29
D.S. Massey, N.A. Denton, “American Apartheid”, Harvard University Press, Massachussets, p. 18
20
e il ghetto. Per questo autore i veri ghetti “contengono tutti o quasi tutti i membri del
gruppo etnico presenti nel territorio nazionale (che siano definiti “cittadini” o meno),
mentre le enclave etniche e le altre comunità elettive lasciano agli abitanti la possibilità
di emigrare verso altri quartieri e permettono anche ad altre popolazioni etniche e “non
etniche” di insediarvisi. È, comunque, importante sottolineare come difficilmente la
sottoclasse urbana che vive nel ghetto possa effettuare altre scelte residenziali. Se la
povertà è un presupposto per abitare nei ghetti, “è stato sostenuto che le comunità
segregate costruite sull’esclusione razziale ed economica siano esse stesse una causa di
povertà, criminalità, bassi livelli di istruzione e cattive condizioni di salute”30. Oltre al
termine ghetto nelle scienze sociali è stato coniato il termine “iperghetto”. Questo
definisce un’area dove almeno il 40% delle persone vive sotto la soglia di povertà.
Negli USA l’isolamento spaziale degli afroamericani fu permesso da una congiunzione
di attitudini razziste, comportamenti privati e pratiche istituzionali che disaffrancarono i
neri dal mercato della casa urbano e portarono alla creazione del ghetto. La
discriminazione nell’impiego esacerbò la povertà dei neri e limitò il potenziale
dell’integrazione. La mobilità residenziale fu sistematicamente bloccata da una
pervasiva discriminazione da parte dei bianchi che non permettevano la presenza dei
neri all’interno dei quartieri. Anche se ci furono varie leggi per limitare la
discriminazione contro gli afroamericani, la segregazione persistette nel tempo31.
Questo fenomeno ha e ha avuto una correlazione con la nozione di “razza” ed
“etnia”. Molti autori parlano di questi due concetti come di costruzioni sociali. Il primo
termine fa riferimento a tratti fisici differenziali e, soprattutto, alla percezione che la
società da degli stessi. Questi tratti, considerati come ereditari, si relazionano ad
attributi morali e intellettuali che non possono essere classificati solo dal punto di vista
fisico. Il concetto di etnia si basa principalmente sulle differenze culturali. Nel gruppo
etnico le persone si percepiscono e vengono percepite dall’esterno come individui che
condividono tratti culturali comuni come la lingua, la religione, la famiglia, i costumi
familiari e le preferenze alimentari. Tuttavia queste percezioni sfumano nel tempo. Oggi
è abbastanza facile pensare ai Tedeschi come simili a noi perché considerati
30
31
Ibid. p. 125
D.S. Massey, N.A. Denton, “American Apartheid”, Harvard University Press, Massachussets, p. 83
21
generalmente Europei piuttosto che persone appartenenti a un universo culturale
differente32.
In situazioni economicamente espansive la popolazione migrante può entrare
nelle città senza gravi tensioni, anche se in peggiori condizioni rispetto al resto della
popolazione mentre nelle situazioni di crisi i conflitti si acutizzano. Questo non succede
solo ed esclusivamente nel mercato della casa ossia dal punto di vista prettamente fisico
della concorrenza nello spazio. Succede anche nel mercato del lavoro e in tutti gli
aspetti della vita sociale. Negli stati come quello italiano dove fino a poco tempo fa era
significativo il ruolo del Welfare State la profonda crisi portata dalla globalizzazione fa
acutizzare le tensioni. Castells nella sua opera “La città globale” ci dice come “la
concentrazione spaziale delle minoranze etniche svantaggiate porta alla creazione di
veri e propri buchi neri nella struttura sociale urbana, in cui la povertà, il degrado degli
alloggi e dei servizi urbani, i bassi livelli di impiego, la mancanza di opportunità
professionali e la criminalità si rafforzano reciprocamente”. Questo autore afferma
anche come la segregazione spaziale sia il fattore più significativo tra tutte le variabili
che possono dare conto del tasso di omicidi33. Nella dinamica globale si affermano dei
processi di esclusione sociale che si esplicitano in una dualità della forma dello spazio:
in spazi differenti all’interno dello stesso sistema metropolitano si trovano le funzioni
più elevate e quelle più degradate, i gruppi sociali che producono informazione e
ricchezza e quelli esclusi ed emarginati. Nelle grandi città nascono quartieri o zone con
un’alta concentrazione di capitale finanziario come nuova forma di concentrazione del
potere dei grandi gruppi multinazionali. Queste zone sono caratterizzate da un alto
livello infrastrutturale per poter governare i processi della nuova economia
transazionale.
Ne sono esempio in Europa il quartiere della castellana di Madrid
(Sassen – 1997). Questi quartieri nascono con l’intento di cambiare un’economia che va
trasformandosi. Se una volta le grandi concentrazioni urbane si stabilivano in prossimità
di zone industriali oggi, con la crisi del modello di sviluppo economico fordista, si
trasformano in attrattori di capitale finanziario. In questo processo, cominciato
dall’inizio degli anni ’80, un elemento significativo in termini di polarizzazione sociale
fu l’esclusine dalla forza lavoro di una percentuale crescente di giovani provenienti dai
32
H. Capel, “Los inmigrantes en la ciudad. Crecimiento economico, innovaciòn y conflicto social,
www.ub.es/geocrit/sn-3.htm
33
M. Castells (2002), “La città globale”, De Agostini, Novara, p. 89.
22
settori più poveri. Negli Usa questi gruppi erano composti prevalentemente da ispanici e
afroamericani che, insieme alla grande massa di clandestini, andarono a ingrossare i
ranghi dell’economia informale e dell’economia criminale. Siamo dunque in presenza a
una trasformazione della città: il nuovo modello di consumo dell’ampio strato
professionale al vertice della struttura sociale viene ora affiancato ad una forza lavoro
informale dove la casa elettromeccanica del sobborgo viene soppiantata da un consumo
urbano intensivo di lavoro da parte delle elite (servizi domestici, babysitter, ristoranti e
bar, sicurezza, servizi personali). “In questo modo alcuni elementi esclusi dalla società
vengono occasionalmente reintegrati, pur restando in ogni caso in circuiti di lavoro
temporaneo con scarse prospettive di mobilità sociale34”
Ciò detto, sussistono differenze sostanziali tra le varie parti del mondo. Ad
esempio dobbiamo sottolineare come le città europee stanno perlopiù seguendo la strada
della segregazione urbana delle minoranze etniche che caratterizza le metropoli del
Nord America, benché la forma spaziale della segregazione urbana nel vecchio
continente appaia quantomeno differenziata. Rispetto agli USA l’Inghilterra ha svolto
nel secondo dopoguerra una politica che mirava all’offerta di edilizia pubblica rivolta
alle classi meno agiate. “Laddove il Welfare e le politiche di edilizia pubblica hanno
puntato a ridurre la polarizzazione sociale, specialmente in Svezia e Olanda, si riscontra
una mescolanza tra le classi e tra i gruppi etnici che dimostra il ruolo determinante della
politica nazionale e locale nel combattere lo sviluppo di quartieri abitati esclusivamente
da una sola etnia”35. In Inghilterra, il fenomeno della consistente presenza di minoranze
etniche è recente: le aree di primo insediamento erano quelle dove il mercato dell’affitto
era più basso rispetto ad altre zone. Inevitabilmente, vista la dipendenza dal mercato e la
crescente discriminazione, si verificava una fluttuazione dei prezzi per cui i nuovi
arrivati pagavano un affitto superiore rispetto alle persone autoctone. In ogni caso in
Inghilterra non esistono e non esistevano i ghetti e gli iperghetti. Questo perché i nuovi
arrivati tendevano a sistemarsi in maniera disomogenea nelle grandi case di città un
tempo occupate dalla bassa classe media. Ovviamente le situazioni di vivibilità degli
alloggi e, dunque, le condizioni igieniche raggiungevano difficilmente un livello
accettabile. Non è infrequente trovare a Londra tre o quattro famiglie di immigrati che
vivono nella stessa casa con addirittura un solo bagno in comune. Queste aree vengono
34
35
Ibid. p. 46
S. Parker (2006), “Teoria ed esperienza urbana”, Il Mulino, Bologna, p. 130
23
definite come “zone di transizione” che si caratterizzano per situarsi in aree in via di
degrado e che, conseguentemente, abbassano ulteriormente i prezzi delle restanti
proprietà.
Mentre le banlieue francesi formano dei ghetti metropolitani periferici, nel resto
dell’Europa, come del resto nel Regno Unito, le minoranze vengono concentrate nei
centri cittadini o in luoghi ad essi contigui, attuando un modello spaziale simile a quello
nord-americano. In questo caso se le condizioni di vita di queste minoranze non
migliorassero si potrebbe potenziare il contributo al declino dei centri urbani.
L’importanza delle bande e l’espansione delle attività criminali è meno marcata in
Europa rispetto al Nord America tuttavia, pur tenendo conto delle differenze culturali e
istituzionali, se le tendenze verso l’esclusione sociale continueranno ad accentuarsi,
sembra ragionevole prevedere l’emergere di situazioni simili36.
La differenza vera tra USA e Europa (in generale) è nella politica dello stato
americano, che risponde alle priorità di spesa della maggioranza “bianca”, per lo più
benestante e non metropolitana37. Nel caso del nostro studio non possiamo parlare di circostanze che possano
affiancare il concetto segregazione con quello di episodi di macrocriminalià.
Anzitutto dobbiamo analizzare se esista un fenomeno segregativo o semplicemente
esistano delle aree di concentrazione. In ogni caso, se l’una o l’altra ipotesi venisse
confermata, dobbiamo chiederci se in quelle zone sussistano episodi di
microcriminalità. Ancona, essendo una città di appena 100.000 abitanti, non può
contenere tutte quelle dinamiche che sono oggetto di studio delle grandi metropoli
del mondo. Ciò detto quello che possiamo analizzare sono delle tendenze. In ogni
caso affronteremo i differenti comportamenti residenziali tra gruppi piuttosto che
tra classi anche se queste due categorie potrebbero coincidere. Nell’analizzare i
comportamenti delle maggiori comunità saranno esaminati i fenomeni di classe in
maniera semplicemente descrittiva rispetto alla tipologia del lavoro e non al
reddito.
Nelle scienze sociali il procedimento per misurare la distribuzione diseguale è
stata studiata da geografi, urbanisti, sociologi e economisti. L’interesse per le
conseguenze del processo migratorio nelle città non è nuovo come dimostrano gli studi
36
37
M. Castells (2002), “La città globale”, De Agostini, Novara. pp. 90-91.
S. Parker (2006), “Teoria ed esperienza urbana”, Il Mulino, Bologna, p.132
24
della scuola di Chicago negli anni ’20 del secolo scorso. A partire dagli anni ’40
vennero costruiti alcuni indici che permisero di quantificare questo fenomeno. Gli
“indici di uguaglianza” misurano l’uguaglianza della distribuzione di uno o più gruppi
nelle zone o unità spaziali nelle quali possiamo dividere uno spazio urbano (per esempio
una circoscrizione o una unità di censo catastale in Italia). Un gruppo di popolazione
presenta segregazione se è ripartito in forma disuguale tra le zone o unità spaziali di una
città. Per esempio se un gruppo rappresenta il 20% del totale della popolazione del
municipio, in ogni sezione catastale o in ogni circoscrizione, nel caso della nonsegregazione, l’indice dovrà misurare il 20%. Quanto più lontano si troverà il gruppo in
questione, maggiore sarà la segregazione dello stesso.
Indice di segregazione (IS): Questo indice misura la distribuzione di un
determinato gruppo di popolazione nello spazio urbano. Con questo indice si calcola
la differenza tra la proporzione di individui del gruppo minoritario (X) e la
proporzione del resto della popolazione in ogni unità spaziale. Varia tra zero e uno,
valori che corrispondono rispettivamente a una distribuzione esattamente uguale e
una distribuzione di massima segregazione. Questo indice non incorpora le
informazioni sulla configurazione delle unità nello spazio.
Fonte: Revista EURE (Santiago) v.32 n. 97 Santiago dic. 2006
Nel calcolo della segregazione un altro indice importante può essere quello di
centralità. Questo misura la prossimità di un gruppo di popolazione al centro urbano. La
localizzazione centrale dei gruppi minoritari è stata associata tradizionalmente a alti
livelli di segregazione, dovuto in parte alla situazione della minoranza afro – americana
nelle città degli USA38.
Per calcolare la segregazione possono essere utilizzati anche altri indici come ad
esempio quello di concentrazione. Tuttavia, per le caratteristiche della città oggetto del
nostro studio, Ancona, non li riteniamo idonei alla comprensione del fenomeno spaziale
degli immigrati nello spazio urbano. La concentrazione fa riferimento all’occupazione,
da parte di un gruppo di popolazione, di uno spazio fisico in termine di superficie. La
città di Ancona, dal terremoto che l’ha colpita nel 1972, non può avere edifici più alti di
quattro piani. Questo significa che nella città risulta impossibile trovare alti palazzi con
38
J. C. Martori, K. Hoberg, J. Suriach (2006), “Poblaciòn inmigrante y espacio urbano. Indicadores de
segregaciòn y pautas de localizaciòn”, Revista EURE (Santiago) v.32 n. 97 Santiago dic. 2006,
www.scielo.cl/scielo.php?pid=s0250-71612006000300004&script=sci_arttext
25
una grande concentrazione di persone. Nel caso di alcune comunità è facile incontrare
situazioni per cui le case vengano abitate da un numero enorme di persone. Nella
percezione comune si può pensare a case dove vivano più di 10 persone. Tuttavia,
questo fenomeno è difficilmente riscontrabile se non con un’analisi approfondita delle
case che il nostro studio non prevede.
4) Mobilità e mobilitazione sociale
Legato profondamente al concetto di aree naturali bisogna tenere in
considerazione il fenomeno della mobilità dell’individuo. I ghetti o quartieri non sono
qualcosa di immutabile: i trasporti e le comunicazioni “hanno moltiplicato per
l’individuo le possibilità di contatto e di associazione con i suoi simili, ma hanno reso
questi contatti e queste associazioni più transitori e meno stabili”39. Per Burgess esiste
una correlazione significativa tra il concetto di mobilità e di individualizzazione. Per gli
immigrati di seconda generazione, ad esempio, l’esporsi ad altri tipi culturali in luoghi
esterni al proprio ambiente sociale come la scuola può portare ad una ridefinizione
contraddittoria della situazione. Questo, secondo Burgess può portare alla dissoluzione
della solidarietà sociale40.
Strettamente connesso con la mobilità all’interno delle scienze sociali si è
elaborato il concetto di mobilitazione sociale. Questo concetto non riguarda la distanza
fisica ma quella morale: la separazione tra mondi contigui crea distanze morali che
trasformano la città in un mosaico di piccoli mondi che si toccano, ma non si
compenetrano. Gli individui, dunque, possono passare facilmente da un mondo morale
ad un altro. Per mobilità sociale si intende il passaggio di un insieme di individui e di
gruppi sociali dai gradini più bassi della stratificazione sociale a quelli più alti e
viceversa. Questa definizione, prodotta da Sorokin, fa da corollario al pensiero di altri
padri della sociologia moderna come ad esempio Marx. Questo autore tratta le fasi di
sviluppo dei sistemi sociali e dei modi di produzione (feudale, capitalista, socialista)
utilizzando la classe come unità di analisi: in questa prospettiva i movimenti ascendenti
o discendenti passano in secondo piano a favore di una prevalente attenzione per gli
aspetti relazionali tra categorie economico-sociali appartenenti a diversi settori e dotate
39
40
R. Park, E. Burgess, R. Mckenzie (1997), “La Città”, Edizioni di Comunità, Torino, p.38
J. Madge (1962), “Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in sociologia”, Il Mulino, Bologna, p.159
26
di un differente peso specifico entro la struttura produttiva di un paese. Nella prospettiva
neomarxiana si sceglie di dare maggiore enfasi alla mobilità delle classi e tra le classi
rispetto alla mobilità degli individui tra strati contigui. Nelle società industriali –
moderne l’ascesa o la discesa sociale è strettamente legata alla posizione professionale:
il possesso di elevate conoscenze tecnico-scientifiche, la produzione di beni o servizi
sono solo alcuni aspetti che possono determinare la mobilità degli individui.
L’appartenenza ad organizzazioni, come partiti, sindacati, apparati burocratici ecc…,
influisce nell’ascesa sociale . Infatti, molto spesso, le carriere sono determinate
maggiormente dall’anzianità (circolazione verticale). Nello studio della mobilità è
importante prendere a riferimento il concetto di posizione sociale che si definisce in
base al reddito, all’occupazione, al prestigio e al potere. Sulla base di quanto abbiamo
appena detto la posizione sociale può assumere un punto di vista unidimensionale o
multidimensionale. Una delle cause maggiori di mobilità nelle società industriali
moderne, anche se non la principale, è l’istruzione. Connesso non solo al titolo di studio
conseguito durante la vita, l’istruzione può essere considerata anche un concetto
esprimibile nel modello culturale interno alla famiglia. Questo fenomeno è iscrivibile in
particolar modo alle classi medie dove difficilmente i figli otterranno nel corso della
loro vita un livello d’istruzione inferiore a quello dei genitori e quindi raramente
scenderanno nella scala sociale. Tuttavia con l’incremento del grado generale
d’istruzione non si è verificato corrispondentemente una maggiore crescita delle
opportunità. Si verificano dunque dei casi significativi di disoccupazione intellettuale41.
Considerando le tipologie di lavoro degli immigrati sappiamo che riguardo
all’introduzione dei lavoratori stranieri questa avviene, inizialmente, in occupazioni
ritenute scarsamente interessanti e mal retribuite. Solo dopo aver acquisito le
competenze necessarie e solo dopo un lungo periodo di soggiorno gli immigrati possono
progredire verso mansioni considerate più interessanti e con una migliore retribuzione42.
Tenendo in considerazione che l’immigrazione e la sua collocazione nello spazio
urbano, ossia l’oggetto del nostro saggio, è un fenomeno del tutto nuovo nel nostro
paese, lo studio della mobilità sociale e fisica potrà essere studiato in maniera efficiente
41
V. Cesareo (1998), “Sociologia: concetti e tematiche”, Vita e Pensiero, Milano, pp. 175-189.
G. Sospiro (2003), “Prossima fermata: Monte Conero. L’integrazione socioeconomica segmentata
degli immigrati nelle Marche”, L’Harmattan Italia, Torino, p.19
42
27
tra qualche anno quando cioè il fenomeno si sarà stabilizzato e se ne potranno notare le
evoluzioni e caratteristiche.
5) Integrazione e assimilazione
A corollario del tema si può aggiungere come nel contesto delle scienze sociali
emersero due concetti fondamentali per comprendere il ruolo e il modus vivendi
dell’immigrato arrivato in un’altra società: quello di assimilazione e quello di
integrazione. “L’assimilazione è generalmente intesa come il processo attraverso il
quale lo straniero interiorizza i modelli di comportamento e gli orientamenti valoriali
della società ospite, laddove l’integrazione concerne precipuamente la sfera socioeconomica e implica l’adozione di modelli di comportamento e il raggiungimento di
condizioni di vita che riducono i rischi di segregazione e di conflitto senza però
addivenire a una completa conformità culturale”43.
L’assimilazionismo fa riferimento al modello francese di gestione della diversità
etnica e culturale. In questo schema si eliminano le differenze culturali e religiose in
quanto si presume che tutti gli individui abbiano gli stessi diritti e gli stessi doveri,
indipendentemente dall’origine etnica e dalla confessione: in questo senso i
particolarismi e le identità specifiche riguardano esclusivamente la vita privata dei
cittadini. Da corollario a questo schema c’è la nazione, unica e indivisibile, cui ciascun
cittadino è tenuto a difendere sulla base di un contratto sociale che sta alla base della
vita dello Stato44. In questi tipi di società gli immigrati e le potenziali minoranze si
integrano nella società in virtù di un processo unilaterale di adattamento culturale: la
scuola e l’esercito rappresentano da questo punto di vista le istituzioni fondamentali ai
fini dell’assimilazione. Il modello postula infine un facile accesso alla cittadinanza: le
società assimilazioniste attuano la politica dello ius soli che attribuisce automaticamente
la nazionalità a chiunque sia nato all’interno dei confini nazionali. In questo caso le
procedure per ottenere la cittadinanza sono molto semplici45.
Il modello anglosassone, denominato pluralista, pone uno schema dove si
sviluppa una competizione se non un conflitto tra le varie comunità etniche per il
controllo dello Stato. La diversità culturale invade lo spazio pubblico e i diritti
43
V. Cesareo (1998), “Sociologia: concetti e tematiche”, Vita e Pensiero, Milano, p. 150.
M.Martiniello (1997), “Le società multietniche”, Il Mulino, Bologna, p. 49
45
Ibid, p.51-52
44
28
dell’individuo sono conferiti in funzione alla sua appartenenza ad una comunità46. Le
diversità culturali sono, dunque, pubblicamente riconosciute o, in certi casi,
semplicemente tollerate. Nel processo di integrazione vengono definiti a priori i gruppi
di appartenenza: nei censimenti che si svolgono ogni dieci anni si chiede di scrivere a
quale etnia o razza si fa parte. Questo serve poi per attuare politiche antidiscriminatorie
soprattutto nel caso britannico. Negli USA si cerca di tenere viva la cultura del paese
d’origine tramite corsi di lingua, di cucina, di danza ecc.. Tuttavia non vengono erogati
contributi finanziari47.
Le problematicità e le insidie di questo modello vengono descritte già dall’inizio
del secolo scorso dalla brillante interpretazione di Thomas. Per questo autore il concetto
fondamentale è quello di “americanizzazione”. Secondo Thomas differenti razze e
nazionalità attribuiscono lo stesso valore a cose diverse e diversi valori alla stessa cosa.
Questo è l’elemento principale del problema dell’americanizzazione, cioè del tentativo
di armonizzare la vita degli immigrati con quella degli autoctoni. Ogni gruppo umano
accumula nel corso della sua esperienza una certa riserva di valori peculiari e un
insieme di atteggiamenti rispetto a tali valori. Il patrimonio culturale viene, dunque,
definito come l’insieme di atteggiamenti e di valori che un gruppo immigrato porta con
sé in tutti i suoi modi di sentire e le sue consuetudini. Il ruolo che un dato atteggiamento
può esercitare in America all’interno di un gruppo di immigrati non è mai uguale a
quello che eserciterebbe in patria. I primi cambiamenti che si verificano nell’immigrato
sono per lo più superficiali e riguardano il modo di vestire, le consuetudini e gli altri
indizi che ne tradiscono l’appartenenza al gruppo dei “novellini”. Ma ben presto, più in
fretta di quanto possiamo percepire, sopraggiungono cambiamenti più profondi. Di
solito i genitori si lagnano dei rapidi mutamenti verificatisi nei figli. Questi
cambiamenti possono essere parziali e lenti perché l’immigrato continua a vivere in
mezzo alla propria gente e ha pochissimi contatti con gli autoctoni.
Per quanto riguarda il nostro atteggiamento verso l’alterità, qualunque usanza
inconsueta non inscritta nel nostro codice culturale è sconvolgente. Thomas a questo
proposito pone in questione la barba degli ebrei. Uno dei problemi è che qualsiasi cosa
sia altèra rispetto alle nostre abitudini, rischia di approdare nella nostra disapprovazione
morale. I primi contatti tra americani e immigrati producono dunque un certo grado di
46
47
Ibid, p. 49
Ibid, p. 53
29
antagonismo, dovuto all’elemento della stranezza e al differente coefficiente di
ricchezza morale attribuito a dei valori dati, rispettivamente dagli americani e dagli
immigrati. L’antagonismo prodotto dalla pura e semplice stranezza si colloca
ovviamente nella sfera del pregiudizio e non ha importanza morale maggiore del
disappunto provocato da una certa foggia di abito o da un codice di galateo diverso
dall’unico a cui gli autoctoni sono abituati48.
Dai due modelli principali ne derivano altri come il modello Belga dove sono
riconosciute alcune comunità e regioni corrispondenti agli originari gruppi nazionali: i
fiamminghi, i valloni e la minoranza di lingua tedesca. In questo caso le minoranze
formatesi con l’immigrazione non sono riconosciute. In Germania, invece, il livello di
inclusione delle minoranze è strettamente controllato dallo stato. Lo stato in questo caso
riconosceva le minoranze interne pensando non ad una società multiculturale ma
applicando politiche volte a facilitare il ritorno degli immigrati nei paesi d’origine in
quanto si pensava ad una temporanea permanenza nel paese. In questo caso la
cittadinanza era strettamente connessa al principio dello ius sanguinis per cui la
nazionalizzazione è strettamente connessa ad un potere discrezionale dello Stato.
Il medesimo principio è in vigore nel nostro Stato nel quale sussiste un modello
di recupero della cittadinanza che si applica ai nipoti e pronipoti degli antichi emigranti,
quando questi riescono a dimostrare un legame di parentela con un ascendente italiano.
Il passato governo rafforzò questo principio costituendo addirittura un ministero per gli
italiani all’estero, mentre inasprì le condizioni per l’insediamento stabile degli
immigrati. Secondo Ambrosini “il fattore chiave per determinare la riuscita
dell’integrazione di gruppi di immigrati non consisterebbe quindi nelle differenze di
cultura che intercorrono fra il paese di origine e quello di destinazione, bensì nelle
politiche di accoglienza poste in atto da quest’ultimo. L’integrazione o l’esclusione
degli immigrati dipende, anziché da differenze culturali o livelli di istruzione, dalle
politiche pubbliche in fatto di insediamento e cittadinanza”49.
In realtà il modello realmente applicato non è mai così marcato e questo riguarda
ogni singolo Stato. Si possono incontrare schemi di inclusione che tendono talvolta a
modelli assimilazionisti, pluralisti o misti. Martiniello parla a questo proposito di
sfasamenti tra il modello teorico, affermato dai paesi, e la realtà che muta nel tempo. La
48
49
W.I. Thomas (1997), “Gli immigrati e l’America”, Donzelli Editore, Roma, pp. 8-18.
M. Ambrosini, E. Abbatecola (2005), “Immigrati e Metropoli”, Franco Angeli Editore, Milano, p. 63
30
Francia ad esempio riconosce l’identità religiosa di una regione specifica come
l’Alsazia ma anche il concistoro degli Ebrei. In questo caso lo Stato transalpino attua un
modello assimilazionista che però rimane uno schema astratto se analizzato
integralmente. “Indipendentemente dal modello di integrazione che difendono e dalle
politiche alle quali approdano, le diverse società europee devono affrontare, a livelli
diversi, problemi simili che rappresentano altrettante sfide da raccogliere. Dovunque si
creano disuguaglianze sociali e politiche a danno dei ceti popolari, tra i quali sono
ampiamente rappresentati gli immigrati e i loro figli. Dovunque sopravvivono forme di
razzismo e di discriminazione di fatto. Dovunque s’istituisce una certa segregazione
residenziale. Nella maggior parte delle città europee si registra anche la tendenza a
costituire sacche di comunitarismo etnico e religioso e a praticare la ghettizzazione
culturale, compensata dalla vocazione al cosmopolitismo di una fascia, soprattutto
giovanile, che rivendica un’identità aperta e molteplice”50.
Nel nostro paese i processi di accoglienza e integrazione dei migranti è frutto del
lavoro di numerosi attori tra cui principalmente i sindacati ma anche la Chiesa cattolica
e gruppi / associazioni di volontariato. Per quanto concerne la prima accoglienza e
l’emergenza queste associazioni si rivolgono in maniera indifferenziata agli immigrati
siano essi regolari o irregolari. Per certi versi, continua Ambrosini, si può pensare che le
istituzioni pubbliche si affidino a queste associazioni per gestire le componenti più
imbarazzanti dei processi migratori, come appunto quella dell’immigrazione
irregolare51.
Dal punto di vista dei migranti, ossia della migrazione come immigrazione
hanno avuto un sempre maggiore peso i cosiddetti Network sia come fattore di arrivo
che di integrazione. La Network analysis viene definita come quella serie di ricerche
che evidenziano “uno specifico complesso di legami tra un insieme ben definito di
persone […] con la proprietà che le caratteristiche di questi legami come un tutto
possono essere usate per interpretare il comportamento sociale delle persone
coinvolte”52. Le cosiddette “reti parziali” sono sempre reti ego-centrate raccolte attorno
a particolari tipi di relazioni sociali. Molte di tali reti sono di tipo multistrato o multiple:
esse includono un certo numero di relazioni significativamente distinte, nelle quali le
50
M.Martiniello (1997), “Le società multietniche”, Il Mulino, Bologna, pp. 56-60
Ambrosini, E. Abbatecola (2005), “Immigrati e Metropoli”, Franco Angeli Editore, Milano, p. 66
52
G. Pollini, G. Scidà (2002), “Sociologia delle migrazioni e della società multietnica”, Franco Angeli,
Milano, p.126
51
31
parentele, le amicizie, e le relazioni coi i vicini di casa sono combinate dentro un’unica
relazione a più strati che non appare proficuo spezzettare nei suoi elementi costitutivi53.
Si vanno così a creare gruppi che assomigliano appunto a reti dove le relazioni formali e
informali sono importanti. Ambrosini ci dice come i gruppi più forti tendono ad
allargare le proprie capacità di insediamento. Questo può dare dei vantaggi ai nuovi
entrati sia per quanto riguarda il mondo del lavoro che per ogni altro tipo di ambito sia
questa l’assistenza o la ricerca di una abitazione. I fattori che determinano la capacità
d’incidenza possono essere così riassunti:
1. “Il primo fattore concerne la numerosità: gruppi troppo piccoli o, viceversa, troppo
numerosi sembrano incontrare maggiori difficoltà nel formare reti etniche
funzionanti. I primi rischiano di trovarsi dispersi e di dover affrontare in modo
sostanzialmente individuale le sfide della ricerca del lavoro e dell’’integrazione; i
secondi di non riuscire a conoscere e a filtrare i connazionali immigrati e di dover
far fronte ad una moltiplicazione di domande di aiuto; in tal caso, le minoranze
meglio inserite, all’interno dei diversi gruppi etnico - nazionali, possono prendere le
distanze e attuare forme di secessione dalla turba dei più poveri.
2. I gruppi arrivati prima tendono ad occupare gli spazi disponibili nel mercato del
lavoro e ad attivare catene di richiamo a vantaggio dei connazionali, attuando
strategie di chiusura nei confronti di altri gruppi di immigrati.
3. Un terzo fattore discriminante può essere riferito alla distanza geografica.
Generalmente chi arriva da più lontano è più selezionato alla partenza, dispone di
maggiori risorse in termini di capitale umano e sociale, sa di dover investire in
progetti migratori più a lungo termine, acquista consapevolezza dell’importanza
della coesione di gruppo per trovare appoggio e reggere i costi psicologici dello
sradicamento e del trapianto in un nuovo contesto sociale. Chi parte da più vicino
affronta costi minori, può arrivare più facilmente anche senza l’appoggio di solide
teste di ponte, può coltivare progetti migratori meno definiti attuando forme di
pendolarismo con la madrepatria. È inoltre più elevata la probabilità che arrivino
anche immigrati irregolari, giacché anche sul “mercato nero” degli ingressi, i costi
del viaggio tendono ad essere inferiori e i canali di passaggio più conosciuti e
53
Ibid. p. 127
32
relativamente strutturati. Questo non vale sempre: in realtà a livello locale le
situazioni sono alquanto eterogenee”54.
Lo studio dei Network ci servirà per comprendere se e come questi possono influire
nella città di Ancona a definire un modello di comportamento insediativo.
6) Metodologia e Fonti
Sul piano analitico la ricerca si può distinguere mediante due tipi di
orientamenti: teorico ed empirico. “La ricerca teorica produce i propri assetti muovendo
ora da un’analisi della ricerca empirica, ora da uno sviluppo autonomo di ipotesi e di
modelli […] La ricerca empirica produce i propri asseti e, soprattutto, ne fonda la
plausibilità facendo esperienza del proprio oggetto” 55. Nell’ambito dell’elaborato si è
deciso di utilizzare modelli teorici già esistenti e in particolare quelli definiti nell’ambito
della Scuola Sociologica di Chicago. Il disegno della nostra ricerca parte da una
domanda: “Viste le tendenze nel nostro continente e nel mondo intero alla creazione di
zone di concentrazione di immigrati, quali sono le tendenze nella città di Ancona?”
L’ipotesi fondamentale sul comportamento insediativo degli immigrati riguarda
le zone il cui costo delle abitazioni è più economico.
La ricerca è, dunque, stata realizzata mediante l’utilizzo di due tipi di tecniche:
qualitativa e quantitativa. Se il primo capitolo, come abbiamo appena visto, raccoglie
alcune delle esperienze teoriche sviluppate nell’ambito della Teoria Urbana durante il
XX° secolo, i due capitoli successivi descrivono la realtà mediante l’utilizzo e
l’elaborazione di dati secondari.
Il secondo capitolo, sottolinea i tratti socio – demografici della popolazione
anconetana e degli immigrati. Nel primo caso la fonte principale risulta dai dati censuari
del 2001 e nel secondo caso dai dati dell’Ufficio Anagrafe Comunale. Relativamente
alla prima fonte il limite preminente è riferibile alla fase temporale in cui sono stati
raccolti i dati. Infatti, plausibilmente, alcune caratteristiche avranno subito delle
trasformazioni. Tuttavia, il censimento rimane uno strumento chiave per comprendere le
tendenze. La seconda fonte, i dati dell’Ufficio Anagrafe Comunale, hanno il pregio di
fornire una “fotografia” attuale. Tuttavia, specie nel caso degli immigrati, i dati soffrono
un limite sostanziale: il fatto che in molti casi non sia denunciato il cambio di residenza
54
55
Ambrosini, E. Abbatecola (2005), “Immigrati e Metropoli”, Franco Angeli Editore, Milano, pp. 56-57
M. Cardano (2003), “Tecniche di ricerca qualitativa”, Carocci Editore, Roma, p. 17
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da parte di coloro che decidono di trasferirsi in un’altra città. Il secondo limite, che
tuttavia risulta di difficile risoluzione, si riferisce all’esclusione dalle statistiche dei
clandestini e dei soggiornanti coloro che cioè, arrivati da poco, non risultano iscritti
all’anagrafe comunale56. La fonte in questione è stata utile anche per delineare le
tendenze occupazionali e i titoli scolastici delle varie comunità. Per quanto concerne il
primo aspetto i dati dell’anagrafe sono stati aggregati in 5 categorie: Lavoro
Dipendente, Autonomo, Imprenditori, Professionisti e Altro. All’interno delle suddette
categorie sono state create delle aggregazioni per facilitarne la lettura. Le seguenti
tabelle mostrano la ripartizione utilizzata:
Tabella 1 –
Classificazione
delle occupazioni Categoria Altro
Categoria "Altro"
Casalinghe
Pensionati
Ritirati dal lavoro
Studenti
Tabella 2 – Classificazioni
delle occupazioni:
Lavoro dipendente
Categoria Lav. Dipendenti
Addetti all'agricoltura
Autista
Collaboratori Domestici
Commercio al Minuto
Commercio all'Ingrosso
Impiegati
Imprese di pulizia
Insegnanti
Marittimi
Operai / Tecnici Industria
Operai / Tecnici Servizi
Operai/ Tecnici Edili
Pesca
Ristorazione
Sanità
Tabella 4 – Classificazioni delle occupazioni:
Lavoratori Autonomi
Tabella 3 – Classificazioni
delle occupazioni:
Imprenditori
Categoria Imprenditori
Amministratore delegato
Coltivatore Proprietario
Dirigente d'azienda
Imprenditore costruttore edile
Imprenditore costruttore meccanico
Imprenditore costruttore navale
Imprenditore nei servizi per le imprese
Imprenidotre nei trasporti e comunicazioni
Imprenditore nel commercio
Imprenditore nell'industria
Manager
Tabella 5 – Classificazioni delle occupazioni:
Lavoratori Professionisti
Categoria Lavoratori Autonomi
Classificazione Professionisti
Agente di Commercio
Agricoltura
Commerciante
Sport
Commerciante Ambulante
Arte e Spettacolo
Fornaio
Commercialisti e consulenti aziendali
ed economisti
Panettiere
Pizzicagnolo
Professioni Sanitarie
Rappresentante di commercio
Scienze Ingegneristiche
Venditore ambulante
Interpreti e Traduttori
Altro
Mediatore
Da qualche anno non risulta più obbligatoria la dichiarazione della professione
all’ufficio anagrafe. Infatti, in alcuni casi, i dati a disposizione non superavano la metà
degli appartenenti alle varie comunità. Si è, comunque, deciso l’utilizzo dei sopracitati
56
Caritas Migrantes (2007), “Immigrazione. Dossier Statistico 2007”.
34
dati in maniera campionaria così da individuare le tendenze per ogni collettivo. Lo
stesso problema è emerso nella descrizione dei titoli di studio. Le altre fonti impiegate
nel secondo capitolo sono il sito dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), alcuni
report pubblicati dall’Ufficio Urbanistica del Comune di Ancona e il dossier statistico di
Caritas Migrantes. Per quanto concerne i dati dell’ISTAT è importante denunciarne
l’incompletezza e la scarsa accessibilità. L’incompletezza riguarda l’aggregazione e la
quantità di dati disponibili. Nel sistema spagnolo (www.ine.es), si possono creare delle
disaggregazioni che analizzano la singola unità censuaria e le macrozone di provenienza
degli immigrati. L’aspetto più interessante, in questo caso, è relativo alla quantità di dati
che si possono “incrociare”: condizione delle abitazioni, livello occupazionale, titolo di
studio ecc. In Italia, inoltre, l’accesso alla maggior parte delle informazioni è
subordinato al pagamento del servizio. Ricordo, a questo proposito, come il professor
Filippucci, nell’ambito dell’esame di Statistica Economica, ci rammentasse come il
livello di democrazia di un paese stia, appunto, nella possibilità di avere delle statistiche
disponibili perché correlate alla trasparenza del sistema. L’augurio, quindi, è che nel
nostro paese si possa giungere presto ad un sistema più trasparente sia per i ricercatori e
gli “addetti del mestiere” che per l’ “uomo della strada”.
Il terzo capitolo ha come obiettivo quello di analizzare lo spazio urbano in una
triplice classificazione. Il paragrafo, dedicato alla storia urbanistica della città, ha come
filo conduttore i concetti di Piano Regolatore e di outcome. In questo caso, date le
esigue fonti disponibili, si è utilizzato il libro di Pavia “Le città nella storia d’Italia:
Ancona” e il puntuale studio di C. Centanni sui Piani Regolatori dal dopoguerra in poi.
Il suddetto lavoro è stato realizzato nell’ambito della tesi dottorale dell’autore.
L’importanza di questo paragrafo non riguarda la sola descrizione delle tendenze attuali
ma anche l’analisi morfologica del territorio che esprime caratteristiche specifiche.
Nella costruzione del secondo paragrafo, riguardante la relazione tra mercato
della casa e popolazione si è utilizzato il sito internet dell’agenzia del territorio. Nel
suddetto sito, si possono incontrare i valori assoluti dei prezzi minimi, massimi e medi
delle abitazioni in compravendita e in locazione. Confrontando i dati con i valori forniti
dalle riviste specializzate si scopre come in realtà i prezzi reali siano abbondantemente
più elevati. Tuttavia, lo scopo dello stesso paragrafo è quello di comprendere quali siano
le tendenze dei prezzi all’interno della città. Ancona, divisa dalla stessa Agenzia per il
35
Territorio mediante una mappa, viene divisa in 18 microzone catastali a loro volte
aggregate in 4 fasce: centrale, semicentrale, periferica e suburbana.
Nel terzo paragrafo, riguardante la relazione tra spazio urbano e immigrazione,
abbiamo utilizzato la stessa mappa fornita dalla Agenzia del Territorio. Acquisendo i
dati degli immigrati per nazionalità e per via57 avevamo, infatti, bisogno di una
classificazione che ci potesse permettere un’aggregazione territoriale. Se avessimo
“colorato” la nostra mappa utilizzando come parametro la concentrazione per Via,
sarebbero sussistite alcune inesattezze. Ad esempio, le piccole strade che ospitano due o
tre famiglie avrebbero provvisto la stessa mappa di alcuni errori interpretativi. Data
l’indisponibilità di una lista che elencasse le vie per ogni microzona ci siamo avvalsi
della mappa disponibile sul sito www.geopoi.it (interno al sito dell’Agenzia del
Territorio). Nella costruzione di un nostro elenco di vie si sono descritti i possibili errori
derivanti da arterie stradali comprese in più zone consultabili nell’allegato A. Il terzo
paragrafo è stato completato con una descrizione delle microzone catastali sia attraverso
l’osservazione diretta dei servizi e delle infrastrutture esistenti che avvalendoci di report
elaborati dal Comune di Ancona. Alla fine del capitolo è stato utilizzato l’indice di
segregazione per comprendere quali tipi di modelli di scelta residenziali sono adoperati
dai migranti.
Questo indicatore valuta la segregazione di un gruppo sociale, o, come nel
nostro caso, di una comunità in un’area. Può assumere valori che partono da 0 (minima
segregazione) a 100 (massima segregazione). L’indice di segregazione è stato calcolato
nel seguente modo
n
IS = ½
Σ |x - y | · 100
i=1
i
i
dove:
xi rappresenta il rapporto tra un gruppo localizzato nella zona i-esima e la popolazione complessiva di
quel gruppo nell’intera città;
yi rappresenta il rapporto tra i gruppi restanti (y) localizzati in una certa zona e il totale dei
gruppi restanti nell’intera città;
n è il numero delle zone urbane considerate.
Il quarto capitolo utilizza prevalentemente due tipologie di fonti. La prima
deriva dall’osservazione cognitiva del territorio da parte del ricercatore. A questo
proposito lo scopo è di descrivere l’ambiente dell’area di concentrazione attraverso le
57
Fonte: Ufficio Anagrafe Comunale. Dati del 5/10/2007.
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tecniche di osservazione diretta e la costruzione di documenti naturali di tipo segnico
come le fotografie dello spazio. La seconda è l’intervista semi-strutturata. Questo tipo di
strumento viene definito come
lo “strumento osservativo mediante il quale
l’intervistatore governa la formulazione delle domande ma non le modalità nelle quali
l’intervistato formula le proprie risposte. L’intervistatore è tenuto a porgere ai casi in
studio tutte le domande della traccia ma ha facoltà di adattare alle esigenze degli
intervistati sia le domande, sia l’ordine in cui le pone”58.
Benché si utilizzi una tecnica di osservazione rilevata su individui lo scopo è di
definire le tendenze comportamentali dei collettivi. Infatti, la maggior parte degli
intervistati è composta da testimoni privilegiati. L’idea che sottende l’intero capitolo è
la “costruzione di una rappresentazione plausibile dell’ oggetto”59 (l’area di
concentrazione).
58
59
M. Cardano (2003), “Tecniche di ricerca qualitativa”, Carocci Editore, Roma, p. 55
Ibid. p.51
37