Marco Platania

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Marco Platania
ATTRAVERSO LA STORIA
CONVENGO SISEM – Arezzo, 23-25 settembre 2010
L’Europa e i nuovi mondi: comunicare e comprendere la diversità culturale in età moderna.
Organizzazione e presentazione: Marco Platania
Partecipanti: Antonio G. Espada, Daniela Fabrizio, Claudio Ferlan, Massimiliano Vaghi.
Introduzione
MARCO PLATANIA
Dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Trieste e l'Université Paris 8, attualmente borsista presso
la Goethe Universität, Francoforte. E-mail: [email protected]
Che i viaggi e le scoperte geografiche siano state una delle dinamiche
principali, forse la più importante per durata e intensità, ad innescare profonde
trasformazioni nella cultura europea – legate tanto alla rappresentazione di sé quanto alla
comprensione delle altre civiltà e alle forme di comunicazione con esse – è
un‟affermazione evidente.
Più difficile e più controverso, invece, tracciare le linee di questo confronto
culturale dell‟Europa con i Nuovi Mondi: quali continuità e quali discontinuità è
possibile individuare nei discorsi culturali provocati dalle scoperte geografiche in età
moderna rispetto all‟epoca medioevale e all‟età contemporanea? E all‟interno della
cultura moderna, quali sono state le linee di tendenza, le torsioni, le analogie e le
differenze, sul piano nazionale e in una prospettiva di storia comparativa transnazionale,
nella formazione dell‟apparato culturale attraverso il quale l‟Europa si confrontava e
comunicava con i Nuovi Mondi?
I quattro interventi qui riassunti sono rappresentativi dei percorsi di studio che
giovani ricercatori stanno conducendo in merito a questi problemi. Essi mettono a
confronto una pluralità di prospettive come la storia della storiografia, la storia della
letteratura di viaggio e dei discorsi politici, la storia culturale. Inoltre, i quattro contributi
abbracciano un panorama significativamente ampio dei momenti, nazioni, e aree
geografiche coinvolte dalle scoperte geografiche moderne.
Intento condiviso da tutti gli intervenenti è di evitare i rischi insiti in visioni
globalizzanti e interpretazioni retrospettive, spesso teleologiche, dello sviluppo della
cultura europea come forma dominante rispetto ad altre culture “subalterne”. I contributi
muovono dalla consapevolezza di quanto sia importante stabilire confronti appropriati
rispetto a contesti precisi, individuando le specificità dei singoli momenti dei discorsi
culturali nei loro rapporti al potere coloniale, alla curiosità intellettuale, alla vita sociale
ed economica. Partendo da questa prospettiva storicizzante, gli interventi hanno
affrontato: le strategie di comunicazione religiosa adottate dai missionari nel Nuovo
Mondo (Ferlan), la comprensione dei rapporti politici ed economici tra le nazioni
europee (specialmente la Francia) e i principi dell'India da parte delle élites francesi
(Vaghi), le rappresentazioni e gli studi della civiltà orientale in differenti momenti e
contesti dell‟età moderna (dai primi contatti innescati dalle relazioni di viaggio nella
seconda metà del XIV secolo al fiorire degli studi orientalistici – García Espada e
Fabrizio).
Il proposito non è stato tanto quello di fornire una linea interpretativa unitaria
(né tanto meno esaustiva) delle strategie comunicative e della comprensione della
diveristà umana e civile in età moderna, ma piuttosto di rendere conto della complessità
e della varietà delle dinamiche culturali verificatesi nel contatto con il mondo
extraurepeo, soprattutto nel loro rapporto con le spinte economiche e le ambizioni
geopolitiche delle nazioni del Vecchio Continente.
Claudio Ferlan è entrato nel merito delle strategie comunicative dei padri
gesuiti di fronte agli indios americani nel XVI secolo. Portando ad esempio una serie di
casi circostanziati, egli ha mostrato come l'uso di immagini e oggetti sacri andò
acquistando importanza fino a diventare strumento fondamentale di apostolato per la
propaganda di fede gesuitica. Ufficialmente riconosciuta dal Terzo Concilio di Lima
(1585), prima di tale data questa strategia sembra essersi consolidata empiricamente,
attraverso una serie di circostanze fortunose che permisero ai padri di constatare il potere
di persuasione degli oggetti. Tutto questo armamentario di rappresentazione della
sacralità divenne sempre più utile mano a mano che la predicazione gesuitica si
allontanava dai centri abitati, penetrando nel territorio indigeno, per far presa sui “poveri
indios”. “Oltre a riceverne in dono, gli indigeni potevano anche essere coinvolti nella
preparazione degli oggetti sacri, resi così partecipi della loro stessa conversione: uno
schema di comunicazione e relazione che le Riduzioni del Paraguay avrebbero saputo
affinare al meglio”. Tuttavia, nota Ferlan, queste pratiche potevano anche produrre
contraddizioni inaspettate, come per esempio il rischio di rafforzare quella che ai gesuiti
pareva la tendenza degli indios all'idolatria. Come distinguere, infatti, l'immagine sacra
dall'idolo? In effetti, uno dei risultati più interessanti della predicazione attraverso oggetti
fu che “l‟universo delle rappresentazioni cristiane dispiegate in Perù uscì dal contesto
dell‟ortodossia cattolica (che intendeva disciplinarne usi e letture) per acquistare una
logica parallela, costruttrice di un cattolicesimo se non completamente nuovo,
decisamente differente da quello che i primi missionari gesuiti pensavano di importare
attraverso la propria esperienza e i propri bagagli”.
Dall'Occidente all'Oriente, o almeno all'Oriente come studiato dagli
Occidentali: Antonio G. Espada ha messo in luce il contesto politico alla luce del quale
deve essere situata la ricezione delle relazioni di viaggio di Marco Polo, Odorico da
Pordenone, Giordano Catalan e altri. Le descrizioni dell'Oriente diventavano cruciali in
un momento in cui le corti europee cercavano nuove strategie per recuperare la perdita
della Terra Santa e rafforzare la posizione nel Mediterraneo Orientale. Tuttavia “nel loro
insistere sulla convergenza d‟interessi con le nazioni orientali, le descrizioni dell'Oriente
di marco Polo e dei suoi meno celebri pari non potevano soddisfare le aspettative delle
élites europee, e finivano per collocarsi fuori dal gioco dei loro interessi, in posizione
marginale”. Insomma, proprio quando l'Europa si apriva alla diversità, questa apertura
non concordava con il più generale tentativo di rivalsa dell'Europa nei confronti
dell'Oriente.
Daniela Frabrizio, in un intervento di impostazione storiografica, ha insistito
sulla complessità di fattori a cui si trova di fronte il ricercatore che voglia comprendere la
nascita e lo sviluppo degli studi orientalistici in età moderna. Escludendo le
interpretazioni monocausali che riportano lo sviluppo degli studi orientalisti a rivalse
teologiche nate nel contesto delle dispute religiose innescate dalla Riforma, Fabrizio ha
insistito sui nessi che legano gli studi delle lingue allo sviluppo dell'umanesimo, del
Rinascimento e alla circolazione di uomini e opere (anche in seguito alla “caduta” di
Costantinopoli). In tutto ciò andrebbe anche riconosciuta la “genuinità degli interessi per
le lingue orientali da parte dei dotti europei”. Maggiore attenzione a questa dinamica
culturale di sviluppo degli studi orientalistici, dinamica connessa alle creazione delle
prime cattedre uiniversitarie ma anche preesistente a questo momento, permetterebbe di
comprendere meglio l'apertura dell'Europa alla diveristà culturale e gli stumenti (anche
linguistici) di accesso a questa diversità.
L'intervento di Massimiliano Vaghi ha aperto tutt'altro scenario: oltre a
ricostruire con perizia la complicata sequela delle divergenti interpretazioni della politica
coloniale perseguita dalla Francia nelle Indie Orientali al XVIII secolo, egli ha collegato
queste divergenze proprio alle diverse aspettative, e anche alla diversa comprensione delle
dinamiche coloniali nelle élites francesi. Queste si trovarono a dover interpretare ciò che
ad esse pareva un irrisolvibile dilemma: una strategia politica basata sull'occupazione e
sulla gestione diretta dei territori indiani, da una parte, e un'altra strategia orientata allo
sviluppo del commercio. Continuando a percepire queste due strade come alternative e
inconciliabili, le élites francesi non seppero instaurare un proficuo dialogo con i principi
indiani a cui si rivolgevano. Così, la ricerca della tutela degli interessi coloniali della
Francia in India, percepiti come interessi strettamente commerciali, rimase distante dalle
richieste di aiuto che invece i principi indiani muovevano su un terreno più concreto,
anche militare. La prospettiva delle élites entrava in contrasto con quella degli
amministratori della Compagnia in India, come Dupleix, che seppero invece cogliere il
nesso che legava commercio e gestione dei territori. “Le critiche nei loro confronti,
dunque, si possono leggere anche come un'ostilità verso l'europeo che si è 'orientalizzato'
nei modi, nei costumi e nella pratica politica, sino a diventare poco 'riconoscibile' agli
occhi degli alti europei; critiche, insomma, verso quegli uomini che la letteratura e la
pubblicistica inglese chiamano generalmente Nabobs”.
Come si sarà notato, i differenti apporti di questo panel non hanno offerto un
panorama unitario né univoco. Tale non era neppure l'intenzione, come si è detto, sulla
base della convinzione che l'approccio culturale dell'Europa al mondo non-europeo è
stato, di fatto, frastagliato e mutevole. Tuttavia, da questi contributi si può trarre almeno
una conclusione d'insieme: in età moderna, il rapporto dell'Europa con le civiltà dei
nuovi mondi era lungi dall'esprimersi solo e sempre in forme di dominio culturale.
Certamente, la comprensione delle civiltà “diverse” implicava profonde svalutazioni e
gravi fraintendimenti dei caratteri di queste ultime. Tuttavia, gli interventi presentati in
questo convegno hanno anche mostrato che sarebbe unilaterale restare a questo solo
aspetto: era possibile che descrizioni dell'Oriente come quelle di Marco Polo risultassero
poco funzionali nel contesto dei rapporti politici con l'Islam, che le strategie
comunicative dei gesuiti producessero effetti imprevisti come forme di religiosità tipiche
del Nuovo Mondo, che gli studi di orientalistica non fossero strumentalizzati dalla
dispute religiose, che le élites francesi, anche quando non capivano la specificità della
situazione locale, e forse proprio perché non la comprendevano abbastanza, finissero per
produrre la marginalizzazione della Francia in India, non il controllo del territorio.
Tutto ciò, sia ribadito, non per giustificare le incomprensioni e i travisamenti,
gli atteggiamenti paternalistici e la tendenza ad imporre la cultura occidentale sulle civiltà
locali, ma per insistere sul fatto che, accanto e contemporaneamente al riconoscimento di
tutto ciò, è opportuno considerare la dinamica culturale dell'Europa nella sua plasticità,
nel suo divenire, e nei percorsi fragili e paradossali che ha compiuto.
CLAUDIO FERLAN
Dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Trieste. Attualmente ricercatore presso la Fondazione
Bruno Kessler – Studi Storici Italo-Germanici. Email: [email protected]
Comunicare la fede: strumenti e strategie. La Compagnia di Gesù nel Perù del XVI secolo
“I padri della Compagnia di Gesù sono uomini santissimi, tutti i cristiani li cercano ed
essi usano carità ed elemosina al prossimo, testimoniano ai cristiani la fede in Gesù
Cristo, nel Vangelo e nella passione di Gesù Cristo e molto di più agli indios e alle indias
donando loro rosari ed immagini”1. Nell‟elogiare i padri gesuiti, il cronista peruviano
Felipe Guaman Poma de Ayala evidenziò come un tratto caratteristico della loro
familiarità e benevolenza nei confronti degli indigeni fosse proprio quello di curarsi della
loro formazione religiosa anche attraverso il dono di immagini e oggetti sacri.
I gesuiti ottennero nel 1565 il permesso di entrare in America, dove erano già presenti
francescani, domenicani, agostiniani e mercedari. Dai documenti relativi alla loro prima
spedizione (inizio 1567) abbiamo notizia di una particolare attenzione alle cose da
portare in missione, ed in specie agli strumenti da utilizzare nell‟azione evangelizzatrice,
in viaggio come a destinazione. Essi sapevano bene che l‟obiettivo primario era quello di
aprire un collegio a Lima. Portarono con sé il necessario, primi fra tutti i libri e il testo
delle Costituzioni. Ricevettero per gli acquisti generosi doni pecuniari dal re di Spagna e
da altri benefattori ornamenti per le chiese, immagini e denaro per comprarne2. L‟uso del
rosario in particolare si rivelò prezioso già nel corso della traversata oceanica: raccontano
le fonti gesuitiche che i marinai – dediti abitualmente al gioco e al bere – ricevettero alla
partenza un rosario ciascuno e fu proprio appoggiandosi alla devozione trasmessa
dall‟oggetto donato che i gesuiti riuscirono a correggere i costumi dei rudi uomini di
mare3.
1
M-C. Cabos Fontana, Mémoire et acculturation dans les Andes. Guaman Poma de Ayala et les influences
européennes, Paris, L’Harmattan, 2000, p. 228.
2
Monumenta Peruana I (1565-1575), a cura di A. De Engaña, Roma, Monumento Historica Societatis Iesu,
1958, p. 164; L. Martín, La conquista intelectual del Perú. El Colegio jesuita de San Pablo, 1568-1767,
Barcelona, Prologo, 2001, p. 98.
3
Monumenta Peruana I cit., pp. 168-169.
Le strategie di missione nei primi tre decenni della presenza spagnola in Perù non
seguirono un progetto unitario, data la debolezza della chiesa secolare. Nell‟incertezza,
l‟importanza delle immagini e degli oggetti sacri fu indiscutibile. Solo alla conclusione
del Terzo Concilio di Lima (1585) venne sistematizzata la loro importanza quali armi
strategiche e consapevoli nella lotta contro le pratiche religiose indigene4.
Un chiaro esempio della rilevanza di un oggetto sacro per i missionari gesuiti ci porta alla
seconda spedizione verso il Perù. Partiti il 19 marzo 1569 dal porto spagnolo di Sanlúcar
de Barrameda, tredici missionari sono divisi in quattro navi. Una di queste, fatto scalo
alle Canarie, soffre un grave guasto al timone, rimane isolata dal resto della flotta e in
balia del mare grosso: sembra destinata alla fine. La presenza a bordo di una reliquia del
legno della santa croce, portata dal fratello gesuita Juan de Casasola, opera però un
miracolo: collocata sul timone danneggiato, lo raddrizza e permette alla nave di
raggiungere sana e salva le coste americane. Quella stessa reliquia sarebbe stata poi
oggetto, in Perù, di particolare venerazione e protagonista di nuovi miracoli5. Il contatto
con il Cristo e con i santi attraverso varie tipologie di simboli acquisì un‟importanza
notevolissima nel metodo missionario gesuita. Dotati di virtù santificanti, gli oggetti
venivano messi a disposizione dei “poveri indios”, strumenti adatti ad agevolarne la
conversione.
In quella stessa spedizione navigò anche il nuovo vicerè Francisco de Toledo,
protagonista di un progetto di evangelizzazione incentrato sulla riduzione delle
popolazioni indigene in villaggi e sull‟elevazione del ruolo della gerarchia diocesana
nell‟amministrazione e nell‟azione pastorale a scapito degli ordini religiosi (non dei
gesuiti, almeno agli inizi). La concentrazione degli indios in nuovi villaggi e il mancato
rispetto delle frontiere etniche nell‟operazione, l‟organizzazione di magistrature
sconosciute alla cultura india, l‟imposizione di una vita urbana che prevedeva dottrina
sistematica e alfabetizzazione sono alcune delle prove più evidenti di un progetto che non
riuscì a combinare integrazione, costruzione dell‟indianità e illusione di una società
perfettamente parallela a quella spagnola. In tale contesto, per i gesuiti arrivò ben presto
il momento di allontanarsi dai luoghi abituati al contatto con gli spagnoli per addentrarsi
4
F.L., Lisi, El tercer Concilio limense y la aculturacón de los indigenas sudamericanos, Salamanca, Ediciones
Universidad de Salamanca, 1990.
5
Monumenta Peruana I cit., pp. 355-357; 687-691; J. Valenzuela Márquez, “... que las ymagenes son los ydolos
de los christianos”. Imágenes y reliquias en la cristianización del Perú (1569–1649), in «Jahrbuch für Geschichte
Lateinamerikas», 43 (2006), pp. 41-65.
in località sempre più remote. Di qui i problemi di comunicazione si ingigantirono e
l‟aiuto di strumenti che potessero facilitare il dialogo si rivelò indispensabile6.
In Perù, la forza comunicativa degli oggetti sacri venne sperimentata con successo nella
liturgia, vero e proprio mezzo di apostolato. Nelle processioni in particolare gli alunni
delle scuole gesuitiche partecipavano portando con sé una croce e un‟immagine del
Bambin Gesù, che rappresentavano la fede concretizzata in un oggetto. I maestri gesuiti
rinforzavano tale concretezza attraverso i doni fatti ai loro studenti: croci, rosari, piccoli
oggetti di culto da mettere al centro del “focolare domestico”7.
Anche in occasione delle conversioni di indigeni, i missionari della Compagnia sapevano
spesso utilizzare a proprio vantaggio la pubblicizzazione dei propri successi, facendo
forza sulla materialità di simboli ed oggetti. Nel 1571 a Huarochirí vengono inviati tre
padri e quattro fratelli gesuiti. L‟indio Culquitacma, che da più di vent‟anni si comporta
da cristiano senza esserlo, ascolta una predica sul battesimo. Ispirato, si reca
segretamente dai missionari perché vuole essere battezzato. In meno di quattro giorni è
pronto per il sacramento, capace di rispondere alle domande sugli articoli di fede. Lo
riceve assieme ad una sua figlia di otto anni. I due escono in processione vestiti di bianco,
esempio riuscito per attirare altri alla fede cristiana: nei giorni seguenti i battesimi si
moltiplicano8. La processione, che ci rimanda al culto sontuoso, la candida veste: sono
segni di “spettacolarizzazione”, segni che ci riportano alle pacificazioni tipiche delle
missioni nelle campagne europee.
Oltre a riceverne in dono, gli indigeni potevano anche essere coinvolti nella preparazione
degli oggetti sacri, resi così partecipi della loro stessa conversione: uno schema di
comunicazione e relazione che le Riduzioni del Paraguay avrebbero saputo affinare al
meglio. Le immagini private dispiegavano la propria aura protettiva anche attraverso
soluzioni considerate miracolose di incidenti e situazioni limite. I gesuiti approfittavano
di questi accadimenti per puntellare il proprio lavoro pastorale, facendosi referenti del
miracolo in lettere e relazioni, in sermoni e processioni allusive. Il pericolo però era
dietro l‟angolo, rappresentato dalla confusione tra segno e significato e dall‟idea che lo
strumento fosse vissuto come “contenitore” di una vera e propria presenza divina. Di qui
6
A. De Engaña, El virrey don Francisco de Toledo y los Jesuitas del Perú, in «Estudios de Deusto», IV-7
(1956), pp. 115-185.
7
F. Mateos, Escuelas primarias en el Perú del XVI, in «Missionalia Hispanica», 8-22 (1951), pp. 591-599.
8
Monumenta Peruana I, cit., pp. 420-422.
il dubbio indigeno se i cristiani non fossero loro stessi degli idolatri, adoratori di divinità
materiali semplicemente diverse dalle proprie. La sacralizzazione degli strumenti venne
consapevolmente ricercata dai missionari, che distinguendo tra immagine ed idolo
(significato e segno) non seppero però superare la contraddizione data da un lato dalla
presenza invasiva di oggetti e raffigurazioni sacre nelle cerimonie e dall‟altro dal violento
rifiuto di ogni traccia materiale (demoniaca e idolatra) propria dei culti preispanici,
tollerata solo a seguito di un'opportuna e radicale reinterpretazione9.
Non sorprende che, mentre i cristiani consideravano gli dei indigeni manifestazioni del
diavolo, gli indigeni interpretavano il cristianesimo come una variazione dell‟idolatria,
stabilendo in effetti dei vasi comunicanti tra culture religiose. Il Dio cristiano, i santi, la
Vergine venivano visti come le personali huacas (“idoli”) degli spagnoli. Così l‟universo
delle rappresentazioni cristiane dispiegate in Perù uscì dal contesto dell‟ortodossia
cattolica (che intendeva disciplinarne usi e letture) per acquistare una logica parallela,
costruttrice di un cattolicesimo se non completamente nuovo, decisamente differente da
quello che i primi missionari gesuiti pensavano di importare attraverso la propria
esperienza e i propri bagagli.
9
J. Valenzuela Márquez, El culto a las imágenes en la cristianización del Perú: herencias, ambigüidades y
resignificaciones, in «Rivista di Storia del Cristianesimo», 2-2007, pp. 465-488; J.C. Estenssoro Fuchs, Del
paganismo a la santidad. La incorporación de los indios del Perú al catolicismo (1532-1750), Lima, Instituto
Francés de Estudios Andinos-Instituto Riva-Agüero, 2003.
ANTONIO G. ESPADA
Dottore di ricerca all'Istituto Universitario Europeo. Email: [email protected]
Asimmetrie: le descrizioni dell’Oriente tra sincretismo culturale e crociata.
Le descrizioni dell‟Oriente prodotte nel corso della prima metà del secolo XIV
da Marco Polo, Odorico da Pordenone, Giordano Catalán, Giovanni da Marignolli e
Giovanni da Montecorvino sono state tradizionalmente considerate dalla critica o come
letteratura d‟intrattenimento, o come guide pratiche per commercianti e missionari.
Questa incompleta attribuzione di significato è stata in buona misura responsabile del
fatto che siano passate inavvertite due delle loro componenti essenziali: da un lato la
sfida prospettata da una posizione di subalternità ai presupposti elementari dell‟élite
culturale europea e, dall‟altro, il rapido ed enorme sviluppo di un‟efficace forma di
comprensione e comunicazione – senza precedenti nella letteratura europea – con la
manifestazione di alterità più estrema conosciuta nel Medioevo.
Le ricerche più recenti mettono in luce come l‟intensa attività delle principali
corti europee volta a superare la perdita della Terra Santa e ricavare dalla nuova
situazione nel Mediterraneo Orientale migliori opportunità per difendere la posizione
della cristianità latina rispetto ai suoi principali rivali – il sultano di El Cairo e i greci
ortodossi – fosse uno dei fattori più rilevanti di fronte all'apparizione di queste prime
descrizioni dell‟Oriente. La ridotta, ma influente avanguardia destinata ad istruire il Papa
e il re di Francia su come recuperare la Terra Santa incontrò nell‟esperienza degli
emigranti latini provenienti dall‟Asia una valida informazione pratica sulla realtà
fenomenologica e tangibile della retroguardia del “dar al-Islam”, così come una sorta di
specchio delle possibilità reali d‟interazione con le nazioni dell‟Estremo Oriente.
Sotto questo punto di vista, le descrizioni dell‟Oriente di Marco Polo e dei suoi
meno celebri pari, nel loro insistere sulla convergenza d‟interessi con le nazioni orientali,
non potevano soddisfare le aspettative delle élites europee, e finivano per collocarsi fuori
dal gioco dei loro interessi, in posizione marginale: tanto la fruttuosa cooperazione tra gli
emigranti latini, i musulmani d‟Asia e il mondo indiano, come il predominio in tutto
l‟Oriente di una sorta di relativismo e sincretismo culturale, particolarmente intenso per
quanto riguarda le espressioni religiose, apparivano in questi testi come requisiti
indispensabili al momento di interagire efficacemente con le nazioni orientali, e pertanto
contraddicevano apertamente i presupposti elementari del discorso sul potere dell‟Europa
Latina.
.
DANIELA FABRIZIO
Dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Milano, attualmente docente/ricercatrice presso la
stessa Università. E-mail: [email protected]
L’orientalismo in età moderna: un problema storiografico aperto.
In principio, l‟Oriente che l‟Europa studiò “scientificamente” fu quello di cui ebbe più
diretta ed antica conoscenza, ovvero il Mediterraneo del Sud. Per questo, sino alla prima
età moderna, l‟orientalistica europea fu essenzialmente arabistica ed ebraistica. Più tardi,
la percezione europea dell‟Oriente s‟ampliò, includendo i popoli e le culture dell‟Asia che
mano a mano venivano "scoperti" nell‟intensificarsi dei rapporti commerciali e politici.
Conseguentemente, l‟ambito degli studi d‟orientalistica si allargò in modo considerevole,
tanto da persuadere gli studiosi ad una nuova sistematizzazione lessicale e concettuale.
Ma il tentativo di specificare cosa fosse l‟orientalistica si risolse nella proliferazione di
micro-definizioni di dubbia comprensione, finanche accademica.
Di fatto, dal medioevo ad oggi, non sono mai stati univoci i criteri d‟uso di certe
“etichette”: Middle East o Near East? Proche Orient o Moyen Orient? Vicino Oriente o Medio
Oriente? Conseguentemente, non è mai stata univoca l‟accezione di termini quali
orientalistica ed orientalismo. Nel corso degli ultimi decenni, la tesi di Edward Said,
esposta in Orientalism (1978), ha accresciuto le diatribe, tanto più che il sociologo
americano ha via via rivisto certe sue posizioni, talvolta moderandole e talvolta
esasperandole.
Di tutte le critiche mosse a Said, la più acuta fu espressa dal “padre” dell‟orientalistica
italiana contemporanea: Francesco Gabrieli. A parere di Gabrieli, il metodo sociologico
di Said pecca di contestualizzazione storica in quanto fatti, personaggi ed espressioni
culturali, lontani fra loro nel tempo e nello spazio, vengono piegati ad interpretazioni
tanto univoche quanto forzate. In effetti, a sostegno della sua tesi di fondo (la civiltà
occidentale è aggressiva culturalmente ed imperialista ideologicamente), Said cita buona
parte della intellighenzia europea/occidentale da Omero in poi. Ma non ne analizza il
pensiero nel contesto storico in cui esso fu formulato, né lo confronta con la coeva
riflessione di dotti musulmani e/o arabi.
A ben vedere, la critica di Gabrieli a Said era - ed è - estensibile a quanti leggono il
passato alla luce del presente ma anche a quanti forzano i contesti storici per avvalorare
proprie teorie. Valga il tema dell‟apertura delle prime cattedre di arabo nelle università
europee. L‟argomento è poco dibattuto nella storiografia italiana, se non ignoto. Il
disinteresse è in parte collegabile alla assai tarda istituzione di cattedre di arabo nelle
università italiane e alla perdurante assenza di ambiti accademico-disciplinari c.d.
comparati. Di qui, il mio più caldo invito agli storici modernisti italiani affinché vogliano
coltivare campi d‟indagine scientifica poco o per nulla battuti nel nostro Paese.
Un esempio è, per l‟appunto, il tema dell‟istituzione delle prime cattedre universitarie
di arabo in Europa. Alcuni potrebbero obiettare che siffatto argomento attiene agli studi
di linguistica. A mio avviso, se una lingua è il veicolo con cui una collettività decodifica
la realtà, esprimendo la propria percezione di contesti di vita presente e passata, il tema è
pienamente pertinente agli studi storici. In particolare, agli studi di storia della cultura e
delle civiltà.
D‟altra parte, nell‟Europa del XV e del XVI secolo, lo slancio degli studi
d‟orientalistica precorre la decisione delle grandi università d‟istituire cattedre di lingue
orientali. La loro apertura fu un frutto dell‟umanesimo, ovvero della “ri-scoperta” delle
antiche opere letterarie greco-latine. Nella consapevolezza che gli archetipi originali
erano andati persi, i filologi umanisti sottoposero i testi a loro giunti, in versioni ricopiate
dagli amanuensi con non pochi errori e personali adattamenti, alle più moderne tecniche
di critica testuale. In tal modo, le traduzioni arabe degli antichi scritti greci furono
accusate d‟inesattezza. Critiche non meno severe furono espresse nei confronti delle rese
latine medievali dei testi arabo-spagnoli.
L‟arrivo in Europa occidentale dei dotti bizantini, in fuga dall‟avanzata ottomana,
permise la collazione con i testi greci più tardi e, per questo, più vicini agli archetipi
originali. Di contro, le primigenie versioni musulmane delle opere greche classiche
furono riscoperte dai dotti europei che si recavano in Levante a caccia di manoscritti
arabi, turchi, persiani e così via.
La diffusione della qabalah cristiana, dell‟esoterismo e dell‟ermetismo riportò in auge
lo studio delle antiche civiltà orientali, i cui alfabeti pareva che celassero i misteri
dell‟occulto. Non pochi dotti partirono per il Levante allo scopo di ricopiare, sui loro
taccuini, le iscrizioni riportate su lapidi funerarie e sui vari cimeli. Nel mentre
avvenivano le scoperte geografiche e la Riforma protestante. La concorrenza mercantile
si accompagnò a quella religiosa fra le Chiese e, all‟interno di esse, fra ordini e
congregazioni missionarie: in entrambi i casi, la dimestichezza con le lingue, gli usi e i
costumi indigeni divenne un‟esigenza prioritaria.
Tutto ciò fa da sfondo all‟apertura delle prime cattedre di arabo nelle università
europee. Si tratta di contesti storici ampi, variegati e complessi ma in parte disattesi nei
tradizionali approcci storiografici che fanno della Riforma protestante la chiave di volta
nella lettura della prima età moderna. Siffatta impostazione storiografica induce a
sottolineare le fratture più che le continuità fra l‟età medioevale e l‟età moderna giacché
la Riforma segnò il tramonto definitivo di tutti gli assetti politici, sociali, economici,
religiosi e culturali di stampo medioevale. In tal modo, però, l‟età seicentesca viene
interpretata o come l‟esacerbazione di fenomeni e di tendenze cinquecentesche, oppure
come prodromo della successiva età settecentesca. Valga come esempio il giudizio
storiografico sull‟apertura delle prime cattedre di arabo nelle università europee, valutata
o come “ricaduta” culturale umanistico-rinascimentale o come “preludio” intellettuale
settecentesco.
Secondo una corrente storiografica, i dotti europei dei secoli XVI-XVII, al pari dei
loro predecessori, attesero allo studio dell‟arabo al fine di guadagnare una maggiore
padronanza con l‟ebraico. A muoverli a tanto studio era il desiderio di rivalsa teologica:
una maggiore conoscenza dei testi giudaici avrebbe facilitato la confutazione del pensiero
rabbinico anticristiano e, quindi, la conversione degli Ebrei che, espulsi dalla Spagna,
andavano stabilendosi nelle restanti contrade dell‟Europa. Inoltre, una maggiore
dimestichezza con la lingua originale dell‟Antico Testamento avrebbe aiutato i teologi
riformati e cattolici a corroborare le rispettive dottrine nella confutazione delle altrui. E‟
ovvio che simile approccio storiografico sminuisce la genuinità degli interessi per le
lingue orientali da parte dei dotti europei, dipingendoli come secondari o accessoriali.
Secondo un‟altra corrente storiografica, nell‟Europa del XVI-XVII sec., lo studio
dell‟arabo era finalizzato alla rivalsa religiosa contro le antiche Chiese d‟Oriente: una
maggiore dimestichezza con l‟arabo avrebbe aiutato i missionari a confutare le dottrine
cristiano-orientali, facilitando il cambio di fede e/o di rito nei copti, nei siriaci, nei
melkiti ecc. D‟altra parte, secoli di impegno missionario non avevano prodotto i risultati
sperati circa la conversione dei musulmani. Semmai, si erano verificati con più frequenza
casi opposti d‟apostasia cristiana che la progressiva avanzata ottomana avrebbe
ulteriormente incrementato. In tal modo, le antiche Chiese d‟Oriente si ridussero a
Chiese di “resistenza“, a fronte delle pressioni non solo ottomane ma anche di
“satellizzazione” ora romana ora ellena.
Anche questo approccio storiografico tende a sminuire la genuinità degli interessi
scientifici per le lingue orientali da parte dei dotti europei. Tali interessi sono giudicati
strumentali alla missionologia.
Una mediazione tra queste due opposte correnti storiografiche è offerta da quanti
hanno sostenuto che i dotti latini del XVI-XVII sec. si dedicarono allo studio dell‟arabo
per apprendere gli antichi testi della patrologia orientale. A muoverli era il desiderio di
corroborare le accuse reciproche che cattolici e riformati si scambiavano e quelle che
entrambi
muovevano ai Bizantini elleni e russi, nell‟emergere della c.d. questione
balcanica.
Le linee storiografiche, or ora accennate, sono contestate dagli orientalisti di ultima
generazione: la generazione di internet e dei voli aerei low-cost. Si tratta di studiosi
“affascinati” dalle teorie sulla world history e sulla global history finché il crollo delle Torri
gemelle a New York ne ha compromesso gli entusiasmi, tanto da rinverdire le vecchie
concezioni dei mondi bipolari che interagiscono per scontri di civiltà e di religioni.
Tendenze storiografiche più “moderate” sono volte a ri-costruire ed a ri-scoprire le
dinamiche storiche interne alle singole società, culture e religioni orientali, accantonando
definitivamente l‟eurocentrismo storiografico come pure le teorie sul “villaggio globale”.
Il compito è arduo perché alla riflessione sull‟Oriente visto da Occidente si oppone la
riflessione dell‟Occidente visto da Oriente. Le une e le altre diventano cartine tornasole
dell‟immagine che sia l‟Occidente sia l‟Oriente hanno percepito di se stessi nel corso delle
epoche, un‟immagine che ciascuno ha creduto di riflettere nel modo migliore e senza
possibilità di equivoci d‟intesa.
Nel merito, gli arabisti di ultima generazione ricordano che le prime cattedre
universitarie di arabo in Europa furono tenute da studiosi poliglotti in lingue orientali.
Oltre all‟arabo, quasi tutti erano versati in siriaco, copto e persiano. Gli interessi
scientifici di tali dotti non erano incentrati esclusivamente sull‟ebraico né finalizzati
unicamente agli studi biblici onde confutare rabbini, cardinali, pastori riformati e
patriarchi di turno.
A supporto di questa tesi, fanno presente che Scaligero, primo professore di arabo a
Leida (1593-1609), lamentò la necessità di “smarcare” gli studi d‟arabistica da quelli
d‟ebraistica. A tal fine, evidenziò l‟urgenza di recuperare manoscritti originali arabi di
argomento profano, non essendovene copia nelle biblioteche europee.
Pococke abbandonò la cattedra di arabo ad Oxford, appena affidatagli (1636), per
compiere ennesimo viaggio in Oriente alla ricerca di manoscritti arabi e turchi. Non fu da
meno Golius, il quale ripartì per l‟Oriente dopo appena un anno dall‟aver assunto la
cattedra di arabo a Leida (1625). Prima di loro, Postel trascorse buona parte della sua
vita a fare incetta di manoscritti orientali, fino a tralasciare la cattedra di arabo creata per
lui al Collegio di Francia (1539).
Gli esempi di illustri “giramondo” prima che professori universitari di lingue orientali
potrebbero proseguire per varie pagine. E‟ davvero difficile ritenere che tutti costoro
furono mossi da finalità teologiche di controversia religiosa antigiudaica piuttosto che
anticattolica o antiriformata. Ancor più difficile è immaginarli mossi da fini di
evangelizzazione di musulmani o di cristiani arabofoni.
MASSIMILIANO VAGHI
Dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Milano, attualmente al Centro per gli Studi di Politica
Estera e Opinione Pubblica (Centre for the Studies on Foreign Policy and Public Opinion). E-mail [email protected]
L'“Inde Perdue”. Intellettuali e politici di fronte alla fine dell’influenza francese in India
(secc. XVIII-XIX)
L‟obiettivo di questo mio intervento è quello di tentare di evidenziare come le élites
politiche e culturali francesi abbiano recepito, percepito e „metabolizzato‟ la fine della
grandeur in India; un problema che inevitabilmente si intreccia con quello della
fallimentare politica francese nel subcontinente che, dalla pace del 1763 al Primo Impero,
trascurò – né comprese mai in pieno – le legittime richieste di soccorso che alcuni fra i
principati indiani ancora non sottomessi ai Britannici continuarono a rivolgere alla
Francia sino in principio del XIX secolo.
A partire dalla metà del Settecento, infatti, la fallita conquista dell‟India, ha dato spunto,
in Francia – a volte per mezzo di argomentazioni contraddittorie – ad una serie di opere
sul ruolo della monarchia, sulla politica coloniale francese d‟ancien régime, sulla rivalità
anglo-francese e sui rapporti fra Oriente ed Occidente. Tali opere – che spesso finiscono
per dare uno spazio considerevole, nel bene o nel male, al 'personaggio' di JosephFrançois Dupleix – testimoniano l'interesse che le élites francesi più acculturate avevano
per la politica coloniale e mercantile nel subcontinente indiano, e sono inoltre indicative
del fascino che l'India esercitava su di loro.
I Philosophes, generalmente, ebbero un'opinione negativa del colonialismo, in particolare
di quello cosiddetto 'di popolamento' – che nel caso dell'India si declina più come
un'espansione territoriale (si pensi ai tentavi di Dupleix). E' conosciuta l'opinione di
Montesquieu circa il colonialismo, accusato di indebolire il paese conquistatore senza
arricchire, né popolare, quello conquistato, e che egli riassume con poche e significative
parole: "è augurabile che gli uomini restino dove si trovano". Altrettanto celebri sono le
considerazioni di Voltaire circa l'opportunità di scontrarsi con l'Inghilterra per le distese
di neve del Canada ("Voi sapete che queste due nazioni sono in guerra per qualche miglio
di neve in Canada e che esse spendono per questa bella guerra molto di più di quanto il
Canada valga"), e quelle di Bernardin de Saint-Pierre ("Credo di rendere un servizio alla
mia Patria, qualora impedissi anche ad un solo uomo onesto di andarsene").
In pieno XVIII secolo, dunque, l‟importanza di vaste acquisizioni territoriali oltremare
non era generalmente riconosciuta. Agli occhi delle élites intellettuali francesi erano
considerati utili per il commercio esclusivamente i comptoirs indiani e cinesi – i quali
fornivano i prodotti esotici che la moda aveva reso indispensabili – e, soprattutto, le
colonie di piantagione delle Antille che, inquadrate all‟interno del „commercio
triangolare‟, facevano la fortuna dei porti atlantici francesi. Queste idee condizionarono
inevitabilmente anche la politica francese in India, tanto è vero che – durante tutto il
conflitto anglo-franco-indiano (in sostanza dal 1744 al 1761) – gli ordini che la
Compagnia delle Indie passò ai suoi amministratori disponevano di privilegiare
assolutamente il commercio sulle conquiste.
Stando ai numerosi pamphlet pubblicati negli anni ‟80 del XVIII secolo, parrebbe che la
crisi precedente lo scoppio della Rivoluzione ed il vittorioso – ma del tutto infruttuoso –
intervento francese a fianco delle tredici colonie inglesi nell‟America del nord abbiano
contribuito a rendere popolare, accanto alla tesi del Dupleix geniale ed incompreso,
quella dell'inettitudine dei direttori della Compagnia e della eccessiva arrendevolezza del
governo monarchico nei confronti delle pretese dei rivali inglesi: in un libello anonimo
del 1787 [Etat actuel de l’Inde et considérations sur le commerce de France dans cette partie du
monde], ad esempio, leggiamo che Dupleix fu un “uomo di genio e un acuto politico”, al
quale solo col passare degli anni verrà resa giustizia, riconoscendogli tutti i suoi meriti
per aver capito per primo l‟importanza della colonizzazione dell‟India da parte degli
europei. Per altri, al contrario, le vittorie in tutti i conflitti coloniali che gli inglesi
conseguirono dal 1748 al 1763 furono favorite da un‟unica ragione principale che
indebolì anche le posizioni del Dupleix in India: la pochezza della marina da guerra
francese [De Tolozan, 1789, Mémoire sur le commerce de la France et de ses colonies].
Pochi anni dopo, nella Francia del Direttorio, la polemica contro il corrotto governo
monarchico di Luigi XV si fece decisamente più accesa, tanto da oscurare, in taluni casi,
il dibattito su quale „regime economico‟ – monopolio o libero commercio? – per la
gestione delle colonie si sarebbe dovuto considerare preferibile.
Nel 1796, Fantin Desodoards sottolineava chiaramente la viltà mostrata dalla
monarchia, la quale abbandonò Dupleix, rimasto solo a combattere contro tre temibili
nemici: “[alcuni] attribuiscono l'insuccesso seguito all'imprese di Dupleix nel Carnatico
al triumvirato inglese Lawrence-Clive-Saunders che era allora a capo degli affari [indiani]
di questa nazione. [In realtà l'insuccesso] si deve all'egoismo dei ministri del Gabinetto di
Versailles, che non inviarono né i rinforzi, né gli aiuti che le circostanze esigevano…
Senza la profonda inconsistenza e la funesta volubilità della corte di Luigi XV, [Dupleix]
avrebbe eretto in India, a favore dei francesi, quel colosso dei quale gli inglesi, più abili,
s'impadronirono in seguito” [Révolutions de l’Inde au XVIII siècle ou Mémoires de TypooZaeb, 1796].
Dopo i fallimenti napoleonici, la Francia conobbe nuovamente, a partire dalla
restaurazione della monarchia, un'altra espansione coloniale, in principio cauta ed
esitante, che si arrestò definitivamente solo con lo scoppio del secondo conflitto
mondiale. Il ricordo della sconfitta di Waterloo e la nuova rivalità franco-britannica,
insomma, contribuirono a stimolare la riflessione sulla mancata colonizzazione dell'India
e sui protagonisti della rivalità anglo francese nel subcontinente (Dupleix, La
Bourdonnais, Lally-Tollendal, ecc.), facendoli spesso diventare icone rappresentanti le
vittime di una monarchia incapace e corrotta, nonché i precursori di una colonizzazione
che la maggior parte dell‟opinione pubblica francese considerava oramai moralmente
accettabile ed economicamente utile. Durante la Restaurazione, nel suo „elogio di
Dupleix‟ [Eloge historique de Dupleix, 1818], Le Fèvre fu tra i precursori di quanti non
persero occasione di tributare un omaggio al più celebre esempio di eroe sconfitto, un
“uomo che ha consacrato le sue notti, sacrificato la sua fortuna, ed anche la sua salute,
alla prosperità ed alla gloria della sua patria” senza ricavarne nulla in cambio. Pur non
avendo mai avuto il totale appoggio del governo, le conquiste fatte in India dal Dupleix,
sostiene l‟autore, non furono perse tanto per la dissennatezza di Luigi XV, quanto per
“l‟influenza della nostra rivoluzione, così terribile nei suoi funesti risultati in tutti i rami
dell'amministrazione pubblica”.
Già da questi pochi esempi, si può farsi un'idea dell'atteggiamento che le élites francesi fra
XVIII e XIX secolo avevano della 'questione coloniale' in Asia. Per costoro tutto ruota
attorno al commercio coloniale che, nella quasi totalità dei casi, è percepito come
distante e totalmente diverso dal colonialismo vero e proprio. Per dirla in breve – ed
inevitabilmente semplificando un poco – le imprese coloniali sono considerate utili solo
quando garantiscono un evidente incremento dei traffici ed un conseguente beneficio
economico alle organizzazioni che le intraprendono. Anche le alleanze con i principati
indiani sono promosse e considerate solo sotto il profilo del possibile tornaconto
economico; sono (o tentano di essere), nei fatti, alleanze commerciali, quando i principi
indiani, invece, non cessano di chiedere sostegno politico e militare (si pensi alle vicende
legate a Tipu Sahib).
Ne deriva che le critiche indirizzate alle politiche del governo francese, della Compagnia
e degli amministratori coloniali in India sono, nella sostanza, critiche all'insuccesso
commerciale di queste stesse politiche. Ancora alla fine del Settecento, il legame fra il
controllo politico dei distretti indiani, lo sfruttamento delle loro risorse e i vantaggi
economici che poteva trarne la Compagnia commerciale, non era per nulla chiaro ai più
(e peraltro, com'è noto, tale legame non era ancora universalmente riconosciuto
nemmeno in Gran Bretagna). Per le élites francesi, insomma, il solo vero problema fu
quello della perdita della grandeur nei commerci che, prima dei conflitti, dai primi anni
Trenta del Settecento e sino appunto allo scoppio delle guerre anglo-franco-indiane
(1744-1745) furono, invece, in continua crescita sia come volumi, sia come redditività.
Infine, accanto a questa difficoltà nel comprendere i mutamenti in atto nello scacchiere
politico indiano nella seconda metà del Settecento, nelle élites francesi si nota un'analoga
incomprensione nei confronti di quanti hanno operato per la Francia e la Compagnia nel
subcontinente; amministratori che spesso colsero la complessità delle realtà locali e dei
cambiamenti politici in corso meglio dei loro connazionali rimasti in Europa (esemplare,
in proposito, il caso di Dupleix). Le critiche nei loro confronti, dunque, si possono
leggere anche come un'ostilità verso l'europeo che si è 'orientalizzato' nei modi, nei
costumi e nella pratica politica, sino a diventare poco 'riconoscibile' agli occhi degli alti
europei; critiche, insomma, verso quegli uomini che la letteratura e la pubblicistica
inglese chiamano generalmente Nabobs.