Marco Platania
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Marco Platania
ATTRAVERSO LA STORIA CONVENGO SISEM – Arezzo, 23-25 settembre 2010 L’Europa e i nuovi mondi: comunicare e comprendere la diversità culturale in età moderna. Organizzazione e presentazione: Marco Platania Partecipanti: Antonio G. Espada, Daniela Fabrizio, Claudio Ferlan, Massimiliano Vaghi. Introduzione MARCO PLATANIA Dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Trieste e l'Université Paris 8, attualmente borsista presso la Goethe Universität, Francoforte. E-mail: [email protected] Che i viaggi e le scoperte geografiche siano state una delle dinamiche principali, forse la più importante per durata e intensità, ad innescare profonde trasformazioni nella cultura europea – legate tanto alla rappresentazione di sé quanto alla comprensione delle altre civiltà e alle forme di comunicazione con esse – è un‟affermazione evidente. Più difficile e più controverso, invece, tracciare le linee di questo confronto culturale dell‟Europa con i Nuovi Mondi: quali continuità e quali discontinuità è possibile individuare nei discorsi culturali provocati dalle scoperte geografiche in età moderna rispetto all‟epoca medioevale e all‟età contemporanea? E all‟interno della cultura moderna, quali sono state le linee di tendenza, le torsioni, le analogie e le differenze, sul piano nazionale e in una prospettiva di storia comparativa transnazionale, nella formazione dell‟apparato culturale attraverso il quale l‟Europa si confrontava e comunicava con i Nuovi Mondi? I quattro interventi qui riassunti sono rappresentativi dei percorsi di studio che giovani ricercatori stanno conducendo in merito a questi problemi. Essi mettono a confronto una pluralità di prospettive come la storia della storiografia, la storia della letteratura di viaggio e dei discorsi politici, la storia culturale. Inoltre, i quattro contributi abbracciano un panorama significativamente ampio dei momenti, nazioni, e aree geografiche coinvolte dalle scoperte geografiche moderne. Intento condiviso da tutti gli intervenenti è di evitare i rischi insiti in visioni globalizzanti e interpretazioni retrospettive, spesso teleologiche, dello sviluppo della cultura europea come forma dominante rispetto ad altre culture “subalterne”. I contributi muovono dalla consapevolezza di quanto sia importante stabilire confronti appropriati rispetto a contesti precisi, individuando le specificità dei singoli momenti dei discorsi culturali nei loro rapporti al potere coloniale, alla curiosità intellettuale, alla vita sociale ed economica. Partendo da questa prospettiva storicizzante, gli interventi hanno affrontato: le strategie di comunicazione religiosa adottate dai missionari nel Nuovo Mondo (Ferlan), la comprensione dei rapporti politici ed economici tra le nazioni europee (specialmente la Francia) e i principi dell'India da parte delle élites francesi (Vaghi), le rappresentazioni e gli studi della civiltà orientale in differenti momenti e contesti dell‟età moderna (dai primi contatti innescati dalle relazioni di viaggio nella seconda metà del XIV secolo al fiorire degli studi orientalistici – García Espada e Fabrizio). Il proposito non è stato tanto quello di fornire una linea interpretativa unitaria (né tanto meno esaustiva) delle strategie comunicative e della comprensione della diveristà umana e civile in età moderna, ma piuttosto di rendere conto della complessità e della varietà delle dinamiche culturali verificatesi nel contatto con il mondo extraurepeo, soprattutto nel loro rapporto con le spinte economiche e le ambizioni geopolitiche delle nazioni del Vecchio Continente. Claudio Ferlan è entrato nel merito delle strategie comunicative dei padri gesuiti di fronte agli indios americani nel XVI secolo. Portando ad esempio una serie di casi circostanziati, egli ha mostrato come l'uso di immagini e oggetti sacri andò acquistando importanza fino a diventare strumento fondamentale di apostolato per la propaganda di fede gesuitica. Ufficialmente riconosciuta dal Terzo Concilio di Lima (1585), prima di tale data questa strategia sembra essersi consolidata empiricamente, attraverso una serie di circostanze fortunose che permisero ai padri di constatare il potere di persuasione degli oggetti. Tutto questo armamentario di rappresentazione della sacralità divenne sempre più utile mano a mano che la predicazione gesuitica si allontanava dai centri abitati, penetrando nel territorio indigeno, per far presa sui “poveri indios”. “Oltre a riceverne in dono, gli indigeni potevano anche essere coinvolti nella preparazione degli oggetti sacri, resi così partecipi della loro stessa conversione: uno schema di comunicazione e relazione che le Riduzioni del Paraguay avrebbero saputo affinare al meglio”. Tuttavia, nota Ferlan, queste pratiche potevano anche produrre contraddizioni inaspettate, come per esempio il rischio di rafforzare quella che ai gesuiti pareva la tendenza degli indios all'idolatria. Come distinguere, infatti, l'immagine sacra dall'idolo? In effetti, uno dei risultati più interessanti della predicazione attraverso oggetti fu che “l‟universo delle rappresentazioni cristiane dispiegate in Perù uscì dal contesto dell‟ortodossia cattolica (che intendeva disciplinarne usi e letture) per acquistare una logica parallela, costruttrice di un cattolicesimo se non completamente nuovo, decisamente differente da quello che i primi missionari gesuiti pensavano di importare attraverso la propria esperienza e i propri bagagli”. Dall'Occidente all'Oriente, o almeno all'Oriente come studiato dagli Occidentali: Antonio G. Espada ha messo in luce il contesto politico alla luce del quale deve essere situata la ricezione delle relazioni di viaggio di Marco Polo, Odorico da Pordenone, Giordano Catalan e altri. Le descrizioni dell'Oriente diventavano cruciali in un momento in cui le corti europee cercavano nuove strategie per recuperare la perdita della Terra Santa e rafforzare la posizione nel Mediterraneo Orientale. Tuttavia “nel loro insistere sulla convergenza d‟interessi con le nazioni orientali, le descrizioni dell'Oriente di marco Polo e dei suoi meno celebri pari non potevano soddisfare le aspettative delle élites europee, e finivano per collocarsi fuori dal gioco dei loro interessi, in posizione marginale”. Insomma, proprio quando l'Europa si apriva alla diversità, questa apertura non concordava con il più generale tentativo di rivalsa dell'Europa nei confronti dell'Oriente. Daniela Frabrizio, in un intervento di impostazione storiografica, ha insistito sulla complessità di fattori a cui si trova di fronte il ricercatore che voglia comprendere la nascita e lo sviluppo degli studi orientalistici in età moderna. Escludendo le interpretazioni monocausali che riportano lo sviluppo degli studi orientalisti a rivalse teologiche nate nel contesto delle dispute religiose innescate dalla Riforma, Fabrizio ha insistito sui nessi che legano gli studi delle lingue allo sviluppo dell'umanesimo, del Rinascimento e alla circolazione di uomini e opere (anche in seguito alla “caduta” di Costantinopoli). In tutto ciò andrebbe anche riconosciuta la “genuinità degli interessi per le lingue orientali da parte dei dotti europei”. Maggiore attenzione a questa dinamica culturale di sviluppo degli studi orientalistici, dinamica connessa alle creazione delle prime cattedre uiniversitarie ma anche preesistente a questo momento, permetterebbe di comprendere meglio l'apertura dell'Europa alla diveristà culturale e gli stumenti (anche linguistici) di accesso a questa diversità. L'intervento di Massimiliano Vaghi ha aperto tutt'altro scenario: oltre a ricostruire con perizia la complicata sequela delle divergenti interpretazioni della politica coloniale perseguita dalla Francia nelle Indie Orientali al XVIII secolo, egli ha collegato queste divergenze proprio alle diverse aspettative, e anche alla diversa comprensione delle dinamiche coloniali nelle élites francesi. Queste si trovarono a dover interpretare ciò che ad esse pareva un irrisolvibile dilemma: una strategia politica basata sull'occupazione e sulla gestione diretta dei territori indiani, da una parte, e un'altra strategia orientata allo sviluppo del commercio. Continuando a percepire queste due strade come alternative e inconciliabili, le élites francesi non seppero instaurare un proficuo dialogo con i principi indiani a cui si rivolgevano. Così, la ricerca della tutela degli interessi coloniali della Francia in India, percepiti come interessi strettamente commerciali, rimase distante dalle richieste di aiuto che invece i principi indiani muovevano su un terreno più concreto, anche militare. La prospettiva delle élites entrava in contrasto con quella degli amministratori della Compagnia in India, come Dupleix, che seppero invece cogliere il nesso che legava commercio e gestione dei territori. “Le critiche nei loro confronti, dunque, si possono leggere anche come un'ostilità verso l'europeo che si è 'orientalizzato' nei modi, nei costumi e nella pratica politica, sino a diventare poco 'riconoscibile' agli occhi degli alti europei; critiche, insomma, verso quegli uomini che la letteratura e la pubblicistica inglese chiamano generalmente Nabobs”. Come si sarà notato, i differenti apporti di questo panel non hanno offerto un panorama unitario né univoco. Tale non era neppure l'intenzione, come si è detto, sulla base della convinzione che l'approccio culturale dell'Europa al mondo non-europeo è stato, di fatto, frastagliato e mutevole. Tuttavia, da questi contributi si può trarre almeno una conclusione d'insieme: in età moderna, il rapporto dell'Europa con le civiltà dei nuovi mondi era lungi dall'esprimersi solo e sempre in forme di dominio culturale. Certamente, la comprensione delle civiltà “diverse” implicava profonde svalutazioni e gravi fraintendimenti dei caratteri di queste ultime. Tuttavia, gli interventi presentati in questo convegno hanno anche mostrato che sarebbe unilaterale restare a questo solo aspetto: era possibile che descrizioni dell'Oriente come quelle di Marco Polo risultassero poco funzionali nel contesto dei rapporti politici con l'Islam, che le strategie comunicative dei gesuiti producessero effetti imprevisti come forme di religiosità tipiche del Nuovo Mondo, che gli studi di orientalistica non fossero strumentalizzati dalla dispute religiose, che le élites francesi, anche quando non capivano la specificità della situazione locale, e forse proprio perché non la comprendevano abbastanza, finissero per produrre la marginalizzazione della Francia in India, non il controllo del territorio. Tutto ciò, sia ribadito, non per giustificare le incomprensioni e i travisamenti, gli atteggiamenti paternalistici e la tendenza ad imporre la cultura occidentale sulle civiltà locali, ma per insistere sul fatto che, accanto e contemporaneamente al riconoscimento di tutto ciò, è opportuno considerare la dinamica culturale dell'Europa nella sua plasticità, nel suo divenire, e nei percorsi fragili e paradossali che ha compiuto. CLAUDIO FERLAN Dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Trieste. Attualmente ricercatore presso la Fondazione Bruno Kessler – Studi Storici Italo-Germanici. Email: [email protected] Comunicare la fede: strumenti e strategie. La Compagnia di Gesù nel Perù del XVI secolo “I padri della Compagnia di Gesù sono uomini santissimi, tutti i cristiani li cercano ed essi usano carità ed elemosina al prossimo, testimoniano ai cristiani la fede in Gesù Cristo, nel Vangelo e nella passione di Gesù Cristo e molto di più agli indios e alle indias donando loro rosari ed immagini”1. Nell‟elogiare i padri gesuiti, il cronista peruviano Felipe Guaman Poma de Ayala evidenziò come un tratto caratteristico della loro familiarità e benevolenza nei confronti degli indigeni fosse proprio quello di curarsi della loro formazione religiosa anche attraverso il dono di immagini e oggetti sacri. I gesuiti ottennero nel 1565 il permesso di entrare in America, dove erano già presenti francescani, domenicani, agostiniani e mercedari. Dai documenti relativi alla loro prima spedizione (inizio 1567) abbiamo notizia di una particolare attenzione alle cose da portare in missione, ed in specie agli strumenti da utilizzare nell‟azione evangelizzatrice, in viaggio come a destinazione. Essi sapevano bene che l‟obiettivo primario era quello di aprire un collegio a Lima. Portarono con sé il necessario, primi fra tutti i libri e il testo delle Costituzioni. Ricevettero per gli acquisti generosi doni pecuniari dal re di Spagna e da altri benefattori ornamenti per le chiese, immagini e denaro per comprarne2. L‟uso del rosario in particolare si rivelò prezioso già nel corso della traversata oceanica: raccontano le fonti gesuitiche che i marinai – dediti abitualmente al gioco e al bere – ricevettero alla partenza un rosario ciascuno e fu proprio appoggiandosi alla devozione trasmessa dall‟oggetto donato che i gesuiti riuscirono a correggere i costumi dei rudi uomini di mare3. 1 M-C. Cabos Fontana, Mémoire et acculturation dans les Andes. Guaman Poma de Ayala et les influences européennes, Paris, L’Harmattan, 2000, p. 228. 2 Monumenta Peruana I (1565-1575), a cura di A. De Engaña, Roma, Monumento Historica Societatis Iesu, 1958, p. 164; L. Martín, La conquista intelectual del Perú. El Colegio jesuita de San Pablo, 1568-1767, Barcelona, Prologo, 2001, p. 98. 3 Monumenta Peruana I cit., pp. 168-169. Le strategie di missione nei primi tre decenni della presenza spagnola in Perù non seguirono un progetto unitario, data la debolezza della chiesa secolare. Nell‟incertezza, l‟importanza delle immagini e degli oggetti sacri fu indiscutibile. Solo alla conclusione del Terzo Concilio di Lima (1585) venne sistematizzata la loro importanza quali armi strategiche e consapevoli nella lotta contro le pratiche religiose indigene4. Un chiaro esempio della rilevanza di un oggetto sacro per i missionari gesuiti ci porta alla seconda spedizione verso il Perù. Partiti il 19 marzo 1569 dal porto spagnolo di Sanlúcar de Barrameda, tredici missionari sono divisi in quattro navi. Una di queste, fatto scalo alle Canarie, soffre un grave guasto al timone, rimane isolata dal resto della flotta e in balia del mare grosso: sembra destinata alla fine. La presenza a bordo di una reliquia del legno della santa croce, portata dal fratello gesuita Juan de Casasola, opera però un miracolo: collocata sul timone danneggiato, lo raddrizza e permette alla nave di raggiungere sana e salva le coste americane. Quella stessa reliquia sarebbe stata poi oggetto, in Perù, di particolare venerazione e protagonista di nuovi miracoli5. Il contatto con il Cristo e con i santi attraverso varie tipologie di simboli acquisì un‟importanza notevolissima nel metodo missionario gesuita. Dotati di virtù santificanti, gli oggetti venivano messi a disposizione dei “poveri indios”, strumenti adatti ad agevolarne la conversione. In quella stessa spedizione navigò anche il nuovo vicerè Francisco de Toledo, protagonista di un progetto di evangelizzazione incentrato sulla riduzione delle popolazioni indigene in villaggi e sull‟elevazione del ruolo della gerarchia diocesana nell‟amministrazione e nell‟azione pastorale a scapito degli ordini religiosi (non dei gesuiti, almeno agli inizi). La concentrazione degli indios in nuovi villaggi e il mancato rispetto delle frontiere etniche nell‟operazione, l‟organizzazione di magistrature sconosciute alla cultura india, l‟imposizione di una vita urbana che prevedeva dottrina sistematica e alfabetizzazione sono alcune delle prove più evidenti di un progetto che non riuscì a combinare integrazione, costruzione dell‟indianità e illusione di una società perfettamente parallela a quella spagnola. In tale contesto, per i gesuiti arrivò ben presto il momento di allontanarsi dai luoghi abituati al contatto con gli spagnoli per addentrarsi 4 F.L., Lisi, El tercer Concilio limense y la aculturacón de los indigenas sudamericanos, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, 1990. 5 Monumenta Peruana I cit., pp. 355-357; 687-691; J. Valenzuela Márquez, “... que las ymagenes son los ydolos de los christianos”. Imágenes y reliquias en la cristianización del Perú (1569–1649), in «Jahrbuch für Geschichte Lateinamerikas», 43 (2006), pp. 41-65. in località sempre più remote. Di qui i problemi di comunicazione si ingigantirono e l‟aiuto di strumenti che potessero facilitare il dialogo si rivelò indispensabile6. In Perù, la forza comunicativa degli oggetti sacri venne sperimentata con successo nella liturgia, vero e proprio mezzo di apostolato. Nelle processioni in particolare gli alunni delle scuole gesuitiche partecipavano portando con sé una croce e un‟immagine del Bambin Gesù, che rappresentavano la fede concretizzata in un oggetto. I maestri gesuiti rinforzavano tale concretezza attraverso i doni fatti ai loro studenti: croci, rosari, piccoli oggetti di culto da mettere al centro del “focolare domestico”7. Anche in occasione delle conversioni di indigeni, i missionari della Compagnia sapevano spesso utilizzare a proprio vantaggio la pubblicizzazione dei propri successi, facendo forza sulla materialità di simboli ed oggetti. Nel 1571 a Huarochirí vengono inviati tre padri e quattro fratelli gesuiti. L‟indio Culquitacma, che da più di vent‟anni si comporta da cristiano senza esserlo, ascolta una predica sul battesimo. Ispirato, si reca segretamente dai missionari perché vuole essere battezzato. In meno di quattro giorni è pronto per il sacramento, capace di rispondere alle domande sugli articoli di fede. Lo riceve assieme ad una sua figlia di otto anni. I due escono in processione vestiti di bianco, esempio riuscito per attirare altri alla fede cristiana: nei giorni seguenti i battesimi si moltiplicano8. La processione, che ci rimanda al culto sontuoso, la candida veste: sono segni di “spettacolarizzazione”, segni che ci riportano alle pacificazioni tipiche delle missioni nelle campagne europee. Oltre a riceverne in dono, gli indigeni potevano anche essere coinvolti nella preparazione degli oggetti sacri, resi così partecipi della loro stessa conversione: uno schema di comunicazione e relazione che le Riduzioni del Paraguay avrebbero saputo affinare al meglio. Le immagini private dispiegavano la propria aura protettiva anche attraverso soluzioni considerate miracolose di incidenti e situazioni limite. I gesuiti approfittavano di questi accadimenti per puntellare il proprio lavoro pastorale, facendosi referenti del miracolo in lettere e relazioni, in sermoni e processioni allusive. Il pericolo però era dietro l‟angolo, rappresentato dalla confusione tra segno e significato e dall‟idea che lo strumento fosse vissuto come “contenitore” di una vera e propria presenza divina. Di qui 6 A. De Engaña, El virrey don Francisco de Toledo y los Jesuitas del Perú, in «Estudios de Deusto», IV-7 (1956), pp. 115-185. 7 F. Mateos, Escuelas primarias en el Perú del XVI, in «Missionalia Hispanica», 8-22 (1951), pp. 591-599. 8 Monumenta Peruana I, cit., pp. 420-422. il dubbio indigeno se i cristiani non fossero loro stessi degli idolatri, adoratori di divinità materiali semplicemente diverse dalle proprie. La sacralizzazione degli strumenti venne consapevolmente ricercata dai missionari, che distinguendo tra immagine ed idolo (significato e segno) non seppero però superare la contraddizione data da un lato dalla presenza invasiva di oggetti e raffigurazioni sacre nelle cerimonie e dall‟altro dal violento rifiuto di ogni traccia materiale (demoniaca e idolatra) propria dei culti preispanici, tollerata solo a seguito di un'opportuna e radicale reinterpretazione9. Non sorprende che, mentre i cristiani consideravano gli dei indigeni manifestazioni del diavolo, gli indigeni interpretavano il cristianesimo come una variazione dell‟idolatria, stabilendo in effetti dei vasi comunicanti tra culture religiose. Il Dio cristiano, i santi, la Vergine venivano visti come le personali huacas (“idoli”) degli spagnoli. Così l‟universo delle rappresentazioni cristiane dispiegate in Perù uscì dal contesto dell‟ortodossia cattolica (che intendeva disciplinarne usi e letture) per acquistare una logica parallela, costruttrice di un cattolicesimo se non completamente nuovo, decisamente differente da quello che i primi missionari gesuiti pensavano di importare attraverso la propria esperienza e i propri bagagli. 9 J. Valenzuela Márquez, El culto a las imágenes en la cristianización del Perú: herencias, ambigüidades y resignificaciones, in «Rivista di Storia del Cristianesimo», 2-2007, pp. 465-488; J.C. Estenssoro Fuchs, Del paganismo a la santidad. La incorporación de los indios del Perú al catolicismo (1532-1750), Lima, Instituto Francés de Estudios Andinos-Instituto Riva-Agüero, 2003. ANTONIO G. ESPADA Dottore di ricerca all'Istituto Universitario Europeo. Email: [email protected] Asimmetrie: le descrizioni dell’Oriente tra sincretismo culturale e crociata. Le descrizioni dell‟Oriente prodotte nel corso della prima metà del secolo XIV da Marco Polo, Odorico da Pordenone, Giordano Catalán, Giovanni da Marignolli e Giovanni da Montecorvino sono state tradizionalmente considerate dalla critica o come letteratura d‟intrattenimento, o come guide pratiche per commercianti e missionari. Questa incompleta attribuzione di significato è stata in buona misura responsabile del fatto che siano passate inavvertite due delle loro componenti essenziali: da un lato la sfida prospettata da una posizione di subalternità ai presupposti elementari dell‟élite culturale europea e, dall‟altro, il rapido ed enorme sviluppo di un‟efficace forma di comprensione e comunicazione – senza precedenti nella letteratura europea – con la manifestazione di alterità più estrema conosciuta nel Medioevo. Le ricerche più recenti mettono in luce come l‟intensa attività delle principali corti europee volta a superare la perdita della Terra Santa e ricavare dalla nuova situazione nel Mediterraneo Orientale migliori opportunità per difendere la posizione della cristianità latina rispetto ai suoi principali rivali – il sultano di El Cairo e i greci ortodossi – fosse uno dei fattori più rilevanti di fronte all'apparizione di queste prime descrizioni dell‟Oriente. La ridotta, ma influente avanguardia destinata ad istruire il Papa e il re di Francia su come recuperare la Terra Santa incontrò nell‟esperienza degli emigranti latini provenienti dall‟Asia una valida informazione pratica sulla realtà fenomenologica e tangibile della retroguardia del “dar al-Islam”, così come una sorta di specchio delle possibilità reali d‟interazione con le nazioni dell‟Estremo Oriente. Sotto questo punto di vista, le descrizioni dell‟Oriente di Marco Polo e dei suoi meno celebri pari, nel loro insistere sulla convergenza d‟interessi con le nazioni orientali, non potevano soddisfare le aspettative delle élites europee, e finivano per collocarsi fuori dal gioco dei loro interessi, in posizione marginale: tanto la fruttuosa cooperazione tra gli emigranti latini, i musulmani d‟Asia e il mondo indiano, come il predominio in tutto l‟Oriente di una sorta di relativismo e sincretismo culturale, particolarmente intenso per quanto riguarda le espressioni religiose, apparivano in questi testi come requisiti indispensabili al momento di interagire efficacemente con le nazioni orientali, e pertanto contraddicevano apertamente i presupposti elementari del discorso sul potere dell‟Europa Latina. . DANIELA FABRIZIO Dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Milano, attualmente docente/ricercatrice presso la stessa Università. E-mail: [email protected] L’orientalismo in età moderna: un problema storiografico aperto. In principio, l‟Oriente che l‟Europa studiò “scientificamente” fu quello di cui ebbe più diretta ed antica conoscenza, ovvero il Mediterraneo del Sud. Per questo, sino alla prima età moderna, l‟orientalistica europea fu essenzialmente arabistica ed ebraistica. Più tardi, la percezione europea dell‟Oriente s‟ampliò, includendo i popoli e le culture dell‟Asia che mano a mano venivano "scoperti" nell‟intensificarsi dei rapporti commerciali e politici. Conseguentemente, l‟ambito degli studi d‟orientalistica si allargò in modo considerevole, tanto da persuadere gli studiosi ad una nuova sistematizzazione lessicale e concettuale. Ma il tentativo di specificare cosa fosse l‟orientalistica si risolse nella proliferazione di micro-definizioni di dubbia comprensione, finanche accademica. Di fatto, dal medioevo ad oggi, non sono mai stati univoci i criteri d‟uso di certe “etichette”: Middle East o Near East? Proche Orient o Moyen Orient? Vicino Oriente o Medio Oriente? Conseguentemente, non è mai stata univoca l‟accezione di termini quali orientalistica ed orientalismo. Nel corso degli ultimi decenni, la tesi di Edward Said, esposta in Orientalism (1978), ha accresciuto le diatribe, tanto più che il sociologo americano ha via via rivisto certe sue posizioni, talvolta moderandole e talvolta esasperandole. Di tutte le critiche mosse a Said, la più acuta fu espressa dal “padre” dell‟orientalistica italiana contemporanea: Francesco Gabrieli. A parere di Gabrieli, il metodo sociologico di Said pecca di contestualizzazione storica in quanto fatti, personaggi ed espressioni culturali, lontani fra loro nel tempo e nello spazio, vengono piegati ad interpretazioni tanto univoche quanto forzate. In effetti, a sostegno della sua tesi di fondo (la civiltà occidentale è aggressiva culturalmente ed imperialista ideologicamente), Said cita buona parte della intellighenzia europea/occidentale da Omero in poi. Ma non ne analizza il pensiero nel contesto storico in cui esso fu formulato, né lo confronta con la coeva riflessione di dotti musulmani e/o arabi. A ben vedere, la critica di Gabrieli a Said era - ed è - estensibile a quanti leggono il passato alla luce del presente ma anche a quanti forzano i contesti storici per avvalorare proprie teorie. Valga il tema dell‟apertura delle prime cattedre di arabo nelle università europee. L‟argomento è poco dibattuto nella storiografia italiana, se non ignoto. Il disinteresse è in parte collegabile alla assai tarda istituzione di cattedre di arabo nelle università italiane e alla perdurante assenza di ambiti accademico-disciplinari c.d. comparati. Di qui, il mio più caldo invito agli storici modernisti italiani affinché vogliano coltivare campi d‟indagine scientifica poco o per nulla battuti nel nostro Paese. Un esempio è, per l‟appunto, il tema dell‟istituzione delle prime cattedre universitarie di arabo in Europa. Alcuni potrebbero obiettare che siffatto argomento attiene agli studi di linguistica. A mio avviso, se una lingua è il veicolo con cui una collettività decodifica la realtà, esprimendo la propria percezione di contesti di vita presente e passata, il tema è pienamente pertinente agli studi storici. In particolare, agli studi di storia della cultura e delle civiltà. D‟altra parte, nell‟Europa del XV e del XVI secolo, lo slancio degli studi d‟orientalistica precorre la decisione delle grandi università d‟istituire cattedre di lingue orientali. La loro apertura fu un frutto dell‟umanesimo, ovvero della “ri-scoperta” delle antiche opere letterarie greco-latine. Nella consapevolezza che gli archetipi originali erano andati persi, i filologi umanisti sottoposero i testi a loro giunti, in versioni ricopiate dagli amanuensi con non pochi errori e personali adattamenti, alle più moderne tecniche di critica testuale. In tal modo, le traduzioni arabe degli antichi scritti greci furono accusate d‟inesattezza. Critiche non meno severe furono espresse nei confronti delle rese latine medievali dei testi arabo-spagnoli. L‟arrivo in Europa occidentale dei dotti bizantini, in fuga dall‟avanzata ottomana, permise la collazione con i testi greci più tardi e, per questo, più vicini agli archetipi originali. Di contro, le primigenie versioni musulmane delle opere greche classiche furono riscoperte dai dotti europei che si recavano in Levante a caccia di manoscritti arabi, turchi, persiani e così via. La diffusione della qabalah cristiana, dell‟esoterismo e dell‟ermetismo riportò in auge lo studio delle antiche civiltà orientali, i cui alfabeti pareva che celassero i misteri dell‟occulto. Non pochi dotti partirono per il Levante allo scopo di ricopiare, sui loro taccuini, le iscrizioni riportate su lapidi funerarie e sui vari cimeli. Nel mentre avvenivano le scoperte geografiche e la Riforma protestante. La concorrenza mercantile si accompagnò a quella religiosa fra le Chiese e, all‟interno di esse, fra ordini e congregazioni missionarie: in entrambi i casi, la dimestichezza con le lingue, gli usi e i costumi indigeni divenne un‟esigenza prioritaria. Tutto ciò fa da sfondo all‟apertura delle prime cattedre di arabo nelle università europee. Si tratta di contesti storici ampi, variegati e complessi ma in parte disattesi nei tradizionali approcci storiografici che fanno della Riforma protestante la chiave di volta nella lettura della prima età moderna. Siffatta impostazione storiografica induce a sottolineare le fratture più che le continuità fra l‟età medioevale e l‟età moderna giacché la Riforma segnò il tramonto definitivo di tutti gli assetti politici, sociali, economici, religiosi e culturali di stampo medioevale. In tal modo, però, l‟età seicentesca viene interpretata o come l‟esacerbazione di fenomeni e di tendenze cinquecentesche, oppure come prodromo della successiva età settecentesca. Valga come esempio il giudizio storiografico sull‟apertura delle prime cattedre di arabo nelle università europee, valutata o come “ricaduta” culturale umanistico-rinascimentale o come “preludio” intellettuale settecentesco. Secondo una corrente storiografica, i dotti europei dei secoli XVI-XVII, al pari dei loro predecessori, attesero allo studio dell‟arabo al fine di guadagnare una maggiore padronanza con l‟ebraico. A muoverli a tanto studio era il desiderio di rivalsa teologica: una maggiore conoscenza dei testi giudaici avrebbe facilitato la confutazione del pensiero rabbinico anticristiano e, quindi, la conversione degli Ebrei che, espulsi dalla Spagna, andavano stabilendosi nelle restanti contrade dell‟Europa. Inoltre, una maggiore dimestichezza con la lingua originale dell‟Antico Testamento avrebbe aiutato i teologi riformati e cattolici a corroborare le rispettive dottrine nella confutazione delle altrui. E‟ ovvio che simile approccio storiografico sminuisce la genuinità degli interessi per le lingue orientali da parte dei dotti europei, dipingendoli come secondari o accessoriali. Secondo un‟altra corrente storiografica, nell‟Europa del XVI-XVII sec., lo studio dell‟arabo era finalizzato alla rivalsa religiosa contro le antiche Chiese d‟Oriente: una maggiore dimestichezza con l‟arabo avrebbe aiutato i missionari a confutare le dottrine cristiano-orientali, facilitando il cambio di fede e/o di rito nei copti, nei siriaci, nei melkiti ecc. D‟altra parte, secoli di impegno missionario non avevano prodotto i risultati sperati circa la conversione dei musulmani. Semmai, si erano verificati con più frequenza casi opposti d‟apostasia cristiana che la progressiva avanzata ottomana avrebbe ulteriormente incrementato. In tal modo, le antiche Chiese d‟Oriente si ridussero a Chiese di “resistenza“, a fronte delle pressioni non solo ottomane ma anche di “satellizzazione” ora romana ora ellena. Anche questo approccio storiografico tende a sminuire la genuinità degli interessi scientifici per le lingue orientali da parte dei dotti europei. Tali interessi sono giudicati strumentali alla missionologia. Una mediazione tra queste due opposte correnti storiografiche è offerta da quanti hanno sostenuto che i dotti latini del XVI-XVII sec. si dedicarono allo studio dell‟arabo per apprendere gli antichi testi della patrologia orientale. A muoverli era il desiderio di corroborare le accuse reciproche che cattolici e riformati si scambiavano e quelle che entrambi muovevano ai Bizantini elleni e russi, nell‟emergere della c.d. questione balcanica. Le linee storiografiche, or ora accennate, sono contestate dagli orientalisti di ultima generazione: la generazione di internet e dei voli aerei low-cost. Si tratta di studiosi “affascinati” dalle teorie sulla world history e sulla global history finché il crollo delle Torri gemelle a New York ne ha compromesso gli entusiasmi, tanto da rinverdire le vecchie concezioni dei mondi bipolari che interagiscono per scontri di civiltà e di religioni. Tendenze storiografiche più “moderate” sono volte a ri-costruire ed a ri-scoprire le dinamiche storiche interne alle singole società, culture e religioni orientali, accantonando definitivamente l‟eurocentrismo storiografico come pure le teorie sul “villaggio globale”. Il compito è arduo perché alla riflessione sull‟Oriente visto da Occidente si oppone la riflessione dell‟Occidente visto da Oriente. Le une e le altre diventano cartine tornasole dell‟immagine che sia l‟Occidente sia l‟Oriente hanno percepito di se stessi nel corso delle epoche, un‟immagine che ciascuno ha creduto di riflettere nel modo migliore e senza possibilità di equivoci d‟intesa. Nel merito, gli arabisti di ultima generazione ricordano che le prime cattedre universitarie di arabo in Europa furono tenute da studiosi poliglotti in lingue orientali. Oltre all‟arabo, quasi tutti erano versati in siriaco, copto e persiano. Gli interessi scientifici di tali dotti non erano incentrati esclusivamente sull‟ebraico né finalizzati unicamente agli studi biblici onde confutare rabbini, cardinali, pastori riformati e patriarchi di turno. A supporto di questa tesi, fanno presente che Scaligero, primo professore di arabo a Leida (1593-1609), lamentò la necessità di “smarcare” gli studi d‟arabistica da quelli d‟ebraistica. A tal fine, evidenziò l‟urgenza di recuperare manoscritti originali arabi di argomento profano, non essendovene copia nelle biblioteche europee. Pococke abbandonò la cattedra di arabo ad Oxford, appena affidatagli (1636), per compiere ennesimo viaggio in Oriente alla ricerca di manoscritti arabi e turchi. Non fu da meno Golius, il quale ripartì per l‟Oriente dopo appena un anno dall‟aver assunto la cattedra di arabo a Leida (1625). Prima di loro, Postel trascorse buona parte della sua vita a fare incetta di manoscritti orientali, fino a tralasciare la cattedra di arabo creata per lui al Collegio di Francia (1539). Gli esempi di illustri “giramondo” prima che professori universitari di lingue orientali potrebbero proseguire per varie pagine. E‟ davvero difficile ritenere che tutti costoro furono mossi da finalità teologiche di controversia religiosa antigiudaica piuttosto che anticattolica o antiriformata. Ancor più difficile è immaginarli mossi da fini di evangelizzazione di musulmani o di cristiani arabofoni. MASSIMILIANO VAGHI Dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Milano, attualmente al Centro per gli Studi di Politica Estera e Opinione Pubblica (Centre for the Studies on Foreign Policy and Public Opinion). E-mail [email protected] L'“Inde Perdue”. Intellettuali e politici di fronte alla fine dell’influenza francese in India (secc. XVIII-XIX) L‟obiettivo di questo mio intervento è quello di tentare di evidenziare come le élites politiche e culturali francesi abbiano recepito, percepito e „metabolizzato‟ la fine della grandeur in India; un problema che inevitabilmente si intreccia con quello della fallimentare politica francese nel subcontinente che, dalla pace del 1763 al Primo Impero, trascurò – né comprese mai in pieno – le legittime richieste di soccorso che alcuni fra i principati indiani ancora non sottomessi ai Britannici continuarono a rivolgere alla Francia sino in principio del XIX secolo. A partire dalla metà del Settecento, infatti, la fallita conquista dell‟India, ha dato spunto, in Francia – a volte per mezzo di argomentazioni contraddittorie – ad una serie di opere sul ruolo della monarchia, sulla politica coloniale francese d‟ancien régime, sulla rivalità anglo-francese e sui rapporti fra Oriente ed Occidente. Tali opere – che spesso finiscono per dare uno spazio considerevole, nel bene o nel male, al 'personaggio' di JosephFrançois Dupleix – testimoniano l'interesse che le élites francesi più acculturate avevano per la politica coloniale e mercantile nel subcontinente indiano, e sono inoltre indicative del fascino che l'India esercitava su di loro. I Philosophes, generalmente, ebbero un'opinione negativa del colonialismo, in particolare di quello cosiddetto 'di popolamento' – che nel caso dell'India si declina più come un'espansione territoriale (si pensi ai tentavi di Dupleix). E' conosciuta l'opinione di Montesquieu circa il colonialismo, accusato di indebolire il paese conquistatore senza arricchire, né popolare, quello conquistato, e che egli riassume con poche e significative parole: "è augurabile che gli uomini restino dove si trovano". Altrettanto celebri sono le considerazioni di Voltaire circa l'opportunità di scontrarsi con l'Inghilterra per le distese di neve del Canada ("Voi sapete che queste due nazioni sono in guerra per qualche miglio di neve in Canada e che esse spendono per questa bella guerra molto di più di quanto il Canada valga"), e quelle di Bernardin de Saint-Pierre ("Credo di rendere un servizio alla mia Patria, qualora impedissi anche ad un solo uomo onesto di andarsene"). In pieno XVIII secolo, dunque, l‟importanza di vaste acquisizioni territoriali oltremare non era generalmente riconosciuta. Agli occhi delle élites intellettuali francesi erano considerati utili per il commercio esclusivamente i comptoirs indiani e cinesi – i quali fornivano i prodotti esotici che la moda aveva reso indispensabili – e, soprattutto, le colonie di piantagione delle Antille che, inquadrate all‟interno del „commercio triangolare‟, facevano la fortuna dei porti atlantici francesi. Queste idee condizionarono inevitabilmente anche la politica francese in India, tanto è vero che – durante tutto il conflitto anglo-franco-indiano (in sostanza dal 1744 al 1761) – gli ordini che la Compagnia delle Indie passò ai suoi amministratori disponevano di privilegiare assolutamente il commercio sulle conquiste. Stando ai numerosi pamphlet pubblicati negli anni ‟80 del XVIII secolo, parrebbe che la crisi precedente lo scoppio della Rivoluzione ed il vittorioso – ma del tutto infruttuoso – intervento francese a fianco delle tredici colonie inglesi nell‟America del nord abbiano contribuito a rendere popolare, accanto alla tesi del Dupleix geniale ed incompreso, quella dell'inettitudine dei direttori della Compagnia e della eccessiva arrendevolezza del governo monarchico nei confronti delle pretese dei rivali inglesi: in un libello anonimo del 1787 [Etat actuel de l’Inde et considérations sur le commerce de France dans cette partie du monde], ad esempio, leggiamo che Dupleix fu un “uomo di genio e un acuto politico”, al quale solo col passare degli anni verrà resa giustizia, riconoscendogli tutti i suoi meriti per aver capito per primo l‟importanza della colonizzazione dell‟India da parte degli europei. Per altri, al contrario, le vittorie in tutti i conflitti coloniali che gli inglesi conseguirono dal 1748 al 1763 furono favorite da un‟unica ragione principale che indebolì anche le posizioni del Dupleix in India: la pochezza della marina da guerra francese [De Tolozan, 1789, Mémoire sur le commerce de la France et de ses colonies]. Pochi anni dopo, nella Francia del Direttorio, la polemica contro il corrotto governo monarchico di Luigi XV si fece decisamente più accesa, tanto da oscurare, in taluni casi, il dibattito su quale „regime economico‟ – monopolio o libero commercio? – per la gestione delle colonie si sarebbe dovuto considerare preferibile. Nel 1796, Fantin Desodoards sottolineava chiaramente la viltà mostrata dalla monarchia, la quale abbandonò Dupleix, rimasto solo a combattere contro tre temibili nemici: “[alcuni] attribuiscono l'insuccesso seguito all'imprese di Dupleix nel Carnatico al triumvirato inglese Lawrence-Clive-Saunders che era allora a capo degli affari [indiani] di questa nazione. [In realtà l'insuccesso] si deve all'egoismo dei ministri del Gabinetto di Versailles, che non inviarono né i rinforzi, né gli aiuti che le circostanze esigevano… Senza la profonda inconsistenza e la funesta volubilità della corte di Luigi XV, [Dupleix] avrebbe eretto in India, a favore dei francesi, quel colosso dei quale gli inglesi, più abili, s'impadronirono in seguito” [Révolutions de l’Inde au XVIII siècle ou Mémoires de TypooZaeb, 1796]. Dopo i fallimenti napoleonici, la Francia conobbe nuovamente, a partire dalla restaurazione della monarchia, un'altra espansione coloniale, in principio cauta ed esitante, che si arrestò definitivamente solo con lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Il ricordo della sconfitta di Waterloo e la nuova rivalità franco-britannica, insomma, contribuirono a stimolare la riflessione sulla mancata colonizzazione dell'India e sui protagonisti della rivalità anglo francese nel subcontinente (Dupleix, La Bourdonnais, Lally-Tollendal, ecc.), facendoli spesso diventare icone rappresentanti le vittime di una monarchia incapace e corrotta, nonché i precursori di una colonizzazione che la maggior parte dell‟opinione pubblica francese considerava oramai moralmente accettabile ed economicamente utile. Durante la Restaurazione, nel suo „elogio di Dupleix‟ [Eloge historique de Dupleix, 1818], Le Fèvre fu tra i precursori di quanti non persero occasione di tributare un omaggio al più celebre esempio di eroe sconfitto, un “uomo che ha consacrato le sue notti, sacrificato la sua fortuna, ed anche la sua salute, alla prosperità ed alla gloria della sua patria” senza ricavarne nulla in cambio. Pur non avendo mai avuto il totale appoggio del governo, le conquiste fatte in India dal Dupleix, sostiene l‟autore, non furono perse tanto per la dissennatezza di Luigi XV, quanto per “l‟influenza della nostra rivoluzione, così terribile nei suoi funesti risultati in tutti i rami dell'amministrazione pubblica”. Già da questi pochi esempi, si può farsi un'idea dell'atteggiamento che le élites francesi fra XVIII e XIX secolo avevano della 'questione coloniale' in Asia. Per costoro tutto ruota attorno al commercio coloniale che, nella quasi totalità dei casi, è percepito come distante e totalmente diverso dal colonialismo vero e proprio. Per dirla in breve – ed inevitabilmente semplificando un poco – le imprese coloniali sono considerate utili solo quando garantiscono un evidente incremento dei traffici ed un conseguente beneficio economico alle organizzazioni che le intraprendono. Anche le alleanze con i principati indiani sono promosse e considerate solo sotto il profilo del possibile tornaconto economico; sono (o tentano di essere), nei fatti, alleanze commerciali, quando i principi indiani, invece, non cessano di chiedere sostegno politico e militare (si pensi alle vicende legate a Tipu Sahib). Ne deriva che le critiche indirizzate alle politiche del governo francese, della Compagnia e degli amministratori coloniali in India sono, nella sostanza, critiche all'insuccesso commerciale di queste stesse politiche. Ancora alla fine del Settecento, il legame fra il controllo politico dei distretti indiani, lo sfruttamento delle loro risorse e i vantaggi economici che poteva trarne la Compagnia commerciale, non era per nulla chiaro ai più (e peraltro, com'è noto, tale legame non era ancora universalmente riconosciuto nemmeno in Gran Bretagna). Per le élites francesi, insomma, il solo vero problema fu quello della perdita della grandeur nei commerci che, prima dei conflitti, dai primi anni Trenta del Settecento e sino appunto allo scoppio delle guerre anglo-franco-indiane (1744-1745) furono, invece, in continua crescita sia come volumi, sia come redditività. Infine, accanto a questa difficoltà nel comprendere i mutamenti in atto nello scacchiere politico indiano nella seconda metà del Settecento, nelle élites francesi si nota un'analoga incomprensione nei confronti di quanti hanno operato per la Francia e la Compagnia nel subcontinente; amministratori che spesso colsero la complessità delle realtà locali e dei cambiamenti politici in corso meglio dei loro connazionali rimasti in Europa (esemplare, in proposito, il caso di Dupleix). Le critiche nei loro confronti, dunque, si possono leggere anche come un'ostilità verso l'europeo che si è 'orientalizzato' nei modi, nei costumi e nella pratica politica, sino a diventare poco 'riconoscibile' agli occhi degli alti europei; critiche, insomma, verso quegli uomini che la letteratura e la pubblicistica inglese chiamano generalmente Nabobs.