43. Il Neoclassicismo (3)

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43. Il Neoclassicismo (3)
Blitz nell’arte figurativa
43. Il Neoclassicismo (3)
L’architettura neoclassica interessò tutta l’Europa. La ragione sta nelle conseguenze della nuova
realtà continentale dopo la Guerra dei Trent’anni (1618-1648): pretestuosamente una guerra di
religione, realmente una guerra per la divisione delle spoglie del secolare impero cristiano, uscito a
pezzi dai confronti fra i principi tedeschi (sorreggenti Lutero) e Carlo V (campione dei cattolici). Il
grande imperatore non fu annientato dalle armi tedesche, ma lasciò il campo umiliato dal sorgere
di nuove opposizioni francesi con la minaccia del ricorso al Turco, sempre da parte francese, pur di
sottrarsi al sistema imperiale.
Carlo V lasciò l’impero al fratello Ferdinando, più vecchio di lui, e il trono spagnolo al figlio,
divenuto re col nome di Filippo II. Intanto, il Concilio di Trento, imposto da Carlo per pacificare le
varie correnti cristiane, si avviava al fallimento per la defezione dei protestanti.
Grazie ad azioni spettacolari e spietate, sembrava che la chiesa romana potesse riprendere il suo
ruolo di potere temporale, ma la reazione dei protestanti fu altrettanto spettacolare e spietata,
promossa da interessi materiali in evoluzione scagliati contro quelli tradizionali e parassitari. La
crisi ecclesiastica trascinò con sé quella imperiale, nel senso che quei valori ideali venivano
sostituiti da valori reali.
L’idealismo contenuto nel papato e nella monarchia si era risolto, infatti, in privilegi particolari e
improduttivi resi anacronistici dall’avanzare del materialismo. L’iniziativa luterana fu utile a
giustificare la ribellione allo strapotere della chiesa romana. Uno strapotere ingiusto perché non
basato su valori spirituali. I principi tedeschi colsero l’occasione e trasformarono la disputa
religiosa in opposizione al vecchio sistema. L’Europa verrà trasformata in un campo di battaglia a
causa della nascita di un nuovo sistema, questa volta basato sulla concorrenza fra nuove creazioni
statali, costituite, o in costituzione, a seconda dei risultati ottenuti dalle lotte fra le parti.
Né vanno dimenticate le novità economiche portate dalle imprese transoceaniche.
L’Italia non parteciperà che in modo molto marginale a tutte queste trasformazioni. La caduta di
Roma aveva portato la penisola a perdere ogni influenza politica in Europa. L’Italia verrà
emarginata e si ritirerà in se stessa. Diventerà una curiosità (e un insegnamento) per le nuove
nazioni, si trasformerà in un museo all’aperto.
Già meta di visite in modo significativo dal Rinascimento, questo museo le vedrà moltiplicate per
effetto degli scavi archeologici di Ercolano (1711) e di Pompei (1748). I nuovi visitatori, tedeschi,
inglesi e francesi, danno corpo e senso compiuto alla necessità di una buona preparazione
culturale, reperibile, appunto, nella penisola italiana. Per i figli dei nobili inglesi il viaggio in Italia
diventa praticamente un obbligo. Essi hanno, solitamente, come bibbia il vecchio volume di
Thomas Coryat (“Coryat,s Crudities”, 1611) oppure quello più recente di Richard Lassels (The
voyage of Italy, 1670). Lassels inventa il neologismo “Grand Tour”, neologismo che fa capire
quanta reputazione avesse la penisola italiana. La scoperta del mondo antico da parte di popoli
emergenti – lontani dalle principali correnti culturali - assume un carattere nostalgico e
malinconico che genera, in particolare, due effetti: il romanticismo in letteratura e la passione
archeologica, quest’ultima alimentata dall’idea di monumentalità insita nelle costruzioni romane,
parzialmente di derivazione greca. L’antichità è vissuta dai nuovi popoli, specialmente dagli inglesi,
come una lezione culturale all’aria aperta, una lezione piena di fascino esplicito e ancora di più
implicito, da scoprire sentimentalmente e intellettualmente. L’Italia perde la centralità temporale
e ne acquista un’atemporale che a occhi nuovi appare irresistibile. Gli inglesi, grazie alla
rivoluzione industriale nata sul loro territorio a metà del Settecento, si rendono conto di
possedere un potere materiale imbattibile, ma di non avere un retroterra culturale di pari
importanza e lo vengono a cercare nella penisola italiana, consci che migliore scuola non possono
avere. L’assenza della centralità religiosa agisce, poi, come ricerca di una compensazione: la
cultura classica, custodita dall’Italia, pare riuscirci e, dopo Pompei, l’apparenza si trasforma in
certezza, e non del tutto epidermica. L’architettura in tutto questo va a giocare un ruolo essenziale
per l’evidenza estetica delle costruzioni rinascimentali. La penisola attrae per gli scavi borbonici,
ma poi incanta per la ricchezza delle sue opere d’arte. Il Rinascimento trova così la consacrazione
internazionale, non più per sentito dire, ma per conoscenza diretta: ed è una conoscenza
sconvolgente, come attestano i numerosi diari di viaggio, su tutti, quello di Goethe, del 1816-17,
forse il più completo e appassionato (ed anche il più implacabile nel denunciare lo stato pietoso
degli abitanti: il grande scrittore tedesco lamenta continuamente la presenza di mendicanti).
In linea generale, non esiste un Neoclassicismo netto, ma tante opere
architettoniche, settecentesche, caratterizzate da un abbandono degli
orpelli barocchi. Per gli intellettuali del tempo, gli scavi archeologici
napoletani furono l’occasione per rivalutare, con determinazione, la
serietà del passato, arricchendo quel modo di sentire e di fare con
tocchi di razionalità derivati dagli insegnamenti illuministici.
L’architettura di riferimento è più quell’italiana rinascimentale che quella classica vera e propria. In
particolare, gli architetti del tempo, specie quelli inglesi, riscoprono Palladio e creano il
Palladianesimo, ovvero un’imitazione della precisione vitruviana e della
grazia cinquecentesca che sta alla base del fenomeno chiamato
“Rinascimento”. L’impeto imitativo e la ricerca di una certa originalità,
al fine di dare un carattere proprio alle costruzioni, caricandole sovente
di più cose e diverse fra loro (il Neoclassicismo fu contaminato dal
Neogotico, ad esempio), portò a nuove imprese architettoniche. L’Inghilterra, sulla via di essere
presto una potenza mondiale, grazie a queste imprese, cambiò rapidamente volto. Padre di
quest’architettura inglese è Inigo Jones (1573-1652) che si dice avesse alcuni scritti del Palladio, ne
conoscesse i “segreti” e sapesse di Vitruvio. Di sicuro, rese popolare il maestro padovano in
Inghilterra e certamente s’ispirò a lui. Si veda la sobria bellezza e la
sicura eleganza di questa sua “Queen’s House” situata a Greenwich
(prima figura). In pieno Settecento, Robert Adam cerca di esaltare il
classicismo puro, che poi piega a raffinatezze
estreme, quasi a decorazioni con maggior
significato intrinseco rispetto ai barocchismi.
Adam sposa la monumentalità con l’intento di non appesantirla, come
dimostra la seconda figura (Kenwood House, Londra). William Kent e
Lord Burlington, realizzano, fra l’altro, un bell’esempio d’imitazione
palladiana, la “Chiswick House” a sud di Londra (terza figura). Curiosa è
la decisione di James Stuart di realizzare opere in stile neogreco dorico,
fra cui la prima in assoluto in Europa, Hagley Hall nel Worcestershire
(Inghilterra, regione situata a centro-est; quarta figura). Nel contempo,
John Woods il vecchio realizzava una serie d’interventi architettonici,
ispirandosi al Foro romano nella cittadina termale di Bath, più tardi
completati dal figlio John Woods il giovane. Il poeta Alexander Pope,
amante del giardino all’italiana, grazie a William Kent, lo ripropose con i giardini di Twickenham.
Ma Kent era anche un seguace del Palladio al quale s’ispirò per gli “Elysian field” nel
Buckinghamshire (non lontano da Londra), di cui qui si vede il Tempio della Virtù (quinta figura).
Intorno al 1740 sorge la moda del rovinismo e del pittoresco, sollecitate dal nascente
Romanticismo. Tutto ciò accentua le caratteristiche scenografiche delle architetture che appaiono
sempre più composizioni di rappresentanza e auto-celebrative.
Sostanzialmente, l’architettura neoclassica tedesca gira intorno a tre
nomi: Carl Gothard Langhans, Karl Friedrich Schinkel e Leo von Klenze. I
concetti costruttivi dei tre sono accomunati dal monumentalismo, inteso
come riproposizione dei modelli greci (i Propilei di Atene) rivisti dalla
romanità (più che dall’Ellenismo) e sistemati secondo principi nostalgici,
sia volontari sia involontari.
Langhans porta il Neoclassicismo in Germania verso la fine del Settecento con la “Porta di
Brandeburgo” a Berlino, in stile dorico-romano (figura uno).
È chiaramente una riproposizione che non ha un carattere preciso e che quindi si presenta come un
surrogato, concettualmente discutibile, della grandezza classica greca. La
sua magniloquenza risulta frutto di artifici, di manipolazioni povere
d’ispirazione autentica. D’altro canto, è bene ripetere che in linea generale,
il neoclassicismo è dichiaratamente succubo del classicismo vero e proprio,
lo è per scelta e per scarso mordente speculativo causato dalle conquiste
borghesi, povere di contenuto intellettuale.
La Germania, ultima arrivata sulla scena culturale europea, vuole dimostrare, con queste esibizioni,
un apprendimento rapido delle regole dettate dalla cultura del tempo. Il fenomeno ha ottimi
fondamenti illuministici, ma soprattutto è una reazione sanguigna all’irrazionalità precedente.
L’Illuminismo francese, in particolare, getta le basi della conoscenza moderna, tuttavia lo fa
attraverso enunciazioni coraggiose, spregiudicate, più che con approfondimenti veri e propri.
Manca, nell’Illuminismo, la ricerca delle motivazioni profonde che avevano determinato la
supremazia dell’irrazionalità e delle motivazioni per cui si giungeva alla razionalità tout court.
Le conseguenze saranno l’avanzata del materialismo e l’arretramento delle cause responsabili
della spiritualità. L’irrazionalità cui si riferiva l’Illuminismo era infatti
quella rappresentata dal potere della religione istituzionalizzata.
Tutto ciò spiega il desiderio di eloquenza forbita (più che di
argomentazioni incisive, che pure non mancarono) trasportata
nell’architettura, cioè nella forma d’arte più vistosa. Il Neoclassicismo,
sempre in generale, appare quindi una sillabazione del classicismo
autentico, senza capire bene il significato delle “parole”. Rimane la
bellezza estetica e un certo rigore costruttivo, sfociante talvolta in un certo, moderno,
funzionalismo (ovviamente reperibile all’interno delle costruzioni). L’aspetto esterno ha comunque
un’importanza primaria, in quanto imposto al pubblico quale dimostrazione del nuovo potere
borghese: perché l’aspetto abbia l’effetto voluto, ecco la monumentalità, specie se di riporto da
modelli collaudati ed entrati nell’immaginario collettivo. Entro quest’ambito, il solo che veramente
interessi alla committenza tedesca, Schinkel eresse il “Berliner Schauspielhaus” sempre a Berlino
(figura due), onorando il suo maestro Friedrich Gilly, mancato presto, autore, fra l’altro, del Teatro
nazionale di Berlino. Mentre von Klenze è responsabile del “Walhalla” di Ratisbona (figura tre; sarà
tristemente noto, il Walhalla, un secolo più tardi, grazie ai nazisti. Siamo, però, già nell’Ottocento
inoltrato.
In Francia, il Neoclassicismo comincia a penetrare
già a metà del Settecento attraverso tentativi di
nobile grandezza e quieta semplicità, secondo la
nota formula neoclassica (la quieta semplicità
meno evidente ovunque) ispirati dall’Illuminismo.
Sono apertamente operazioni laiche per quanto
psicologicamente condizionate dalla religione,
ormai non più centrale nei pensieri degli uomini
del tempo. Patria del gotico, la Francia sposa
involontariamente un certo eclettismo, pur
avvantaggiando lo stile neoclassico e non
disdegna proiezioni determinate dalla spiritualità propria della sensibilità dell’arte gotica. Così
abbiamo Ange-Jacques Gabriel che realizza “Place de la Concorde” a Parigi
(figura uno il progetto, oggi la piazza è diversa) e il “Petit Trianon” a
Versailles (figura due). Suo riferimento è Claude Perrault con la facciata del
Louvre di un secolo prima circa. Non mancano, nel Gabriel, richiami
barocchi, ma la definizione neoclassica comincia a essere evidente. Più
puro è lo stile di Marie-Joseph Peyre, autore, fra l’altro, del “Teatro
dell’Odeon” a Parigi (figura tre, in una stampa dell’epoca), progettato con
l’amico Charles de Wailly, mentre davvero notevole è il “Grand Theatre” di
Bordeaux, concepito da Victor Louis (figura quattro, particolare). Fra i
molti altri artisti del periodo, particolarmente interessanti appaiono tre
nomi: Claude-Nicolas Ledoux (un suo progetto,
figura cinque, per la casa del direttore delle saline reali di Arc-et-Senans,
presso Besançon, è sicuramente fra i migliori del tempo, il più rispettoso
delle istanze neoclassiche e delle nuove aspettative razionali). Il secondo
architetto veramente notevole è Étienne-Louis Boullée, di cui si
propongono due progetti (figure 6 e 7), uno relativo a una biblioteca pubblica nazionale vista
dall’interno, vertiginosa, una al cenotafio di Newton (non realizzato), autentico balzo in avanti nel
concetto di costruzione rivoluzionaria, staccata dal passato,
ovvero interprete dello stesso con immaginazione moderna e con
responsabilità diretta della visione e della riflessione sulla realtà
umana da opporre alla soggezione naturale. Il terzo è JeanNicolas-Louis Durand, seguace di Boullée, teorico e insegnante
per anni, al quale si deve il primo proposito funzionale (l’edificio
in funzione del suo uso). Durand non fu affatto vicino allo Stile
Impero (1805-1814), di matrice napoleonica, preferendo il rigore
geometrico alla ricerca estetica ed esibizionistica.
Il Neoclassicismo si esprime anche nel sacro, con l’erezione di chiese austere e simmetricamente
perfette, segno della raggiunta capacità dell’uomo di competere con la perfezione divina. A
differenza della mentalità rinascimentale, la competizione illuministica è impositiva, pur con
sfumature devozionali, quale rispetto per così dire ereditario. La figura otto riproduce la facciata di
“S. Suplice” a Parigi di Giovanni Nicolò Servandoni (di evidente origine italiana), mentre la figura
nove il “Pantheon”, sempre a Parigi, di cui si ammira l’interno; l’opera è di Jacques-Germain
Soufflot. Simbolo per eccellenza dello Stile Impero è l’Arco di Trionfo parigino, progettato da Jean
Chalgrin e costruito da Louis-Robert Goust e Jean-Nicolas Huyot nel 1806 su volere di Napoleone.
Modello è l’arco romano dell’epoca imperiale, con incursioni nella figura del tempio (figura dieci).
Sotto Napoleone furono eseguite molteplici opere architettoniche, di varia
natura (persino colonne) inneggianti la figura dell’imperatore e ripetitive.
Questo stile non fu del tutto abbandonato, ma risultò contenuto negli anni
a seguire, con un ulteriore evento imperiale, ben più moderato del
progenitore, per la restaurazione delle precedenti posizioni delle nazioni
europee dopo il disastro napoleonico a Waterloo. A questo proposito,
molto significativa è la chiesa di “S. Vincenzo de Paoli” a Parigi (figura 11),
progettata in un primo tempo da Jean-Baptiste Lepère, poi ripensata dal
genero Jakob Ignaz Hittorff e realizzata dai due. Il manufatto è composito, ma
offre un ottimo impatto visivo per l’equilibrio fra le parti che lo caratterizza e
per una certa pacatezza che va a smussare determinate pretese neoclassiche
derivate da un’interpretazione molto arbitraria delle opere di riferimento e da
interventi contrari al principio iniziale. Si può parlare di manierismo
neoclassico, prevalente su quello originale, con effetti superficiali rispetto alle
intenzioni, divenute pressioni materiali, con trascuratezza delle sublimazioni ideali. La mentalità
neoclassica in architettura scese a compromessi con la mentalità barocca, non sempre lasciata con
convinzione. Della decorazione, diretta o indiretta, di stampo Barocco, il Neoclassicismo, in
architettura, non fu mai del tutto esente.