6 marzo 2011 - Suore Don Mazza

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6 marzo 2011 - Suore Don Mazza
6 marzo 2011
La festa a Verona, occasione unica per riallacciare relazioni
6 marzo 2011: data importante per noi tutte ex allieve figlie di Don Mazza.
Marilisa, Elsa ed io, Francesca, ci siamo preparate per tempo, tenendoci in contatto
e pregustando la gioia di una giornata tutta nostra con i nostri ricordi di quando eravamo imbranate, impreparate e indifese e quanto lo stare con le nostre suore sia stato
importante per la nostra formazione.
La giornata quest’anno era limpida e piena di sole a rallegrare, oltre a noi “vecchiette”, le giovani nuove leve… che tenerezza vederle leggere in Chiesa e portare i doni.
Nel pomeriggio, dopo il consueto pranzo conviviale, ci hanno rallegrato con il ricordo dei nostri tempi, mostrandoci in video le foto di allora.
Che esclamazioni di stupore e di gioia nel rivedere quei tempi e ricordare… Penso
che si siano divertite anche loro nel vedere
le nostre divise e i nostri atteggiamenti
spesso impacciati.
Le nostre suore… gli anni passano anche
per loro, ma si sono messe tutte in ghingheri, piene di spirito.
GRAZIE, GRAZIE A TUTTE.
Anche quest’anno ci hanno voluto festeggiare con un gradito regalo: un DVD con la
storia di don Mazza e il racconto dei 30
anni di missione in Brasile. Ho appena terminato di guardarlo.
Che emozione rivedere suor Noemi e suor
Rosa, le amiche della nostra giovinezza!
Vederle là in Brasile, scoprire con le immagini il loro lavoro, vederle tra i poveri,
ascoltare i loro racconti: è come averle vicine e sentire un gran desiderio di condividere personalmente la loro esperienza.
Mi sono commossa: grazie, grazie a tutte voi per questo vostro donare agli altri le
vostre energie, la vostra vita. Ricordo quanto desideravo andare anch’io in missione.
La vita mi ha riservato comunque una missione in casa: ho un figlio disabile gravissimo. Questa è stata la mia missione. Giorno dopo giorno, sostenuta dal marito e dagli
altri figli.
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Il mio desiderio di andare personalmente a visitare João Pessoa e le altre comunità è
ancora vivo: forse non riuscirò a realizzarlo, ma magari ci riuscirà Nadia, la nostra
ultima figlia. Ha espresso un pensiero… Speriamo.
Francesca Durigon
Sabato 26 marzo 2011: Santa Lucia di Piave
E’ un sabato splendido ed è tutto per noi quattro “ragazze” : Antonietta, Elsa, Marilisa
e Francesca, ex allieve del don Mazza di Treviso.
Una giornata speciale ed emozionante: siamo dalla Zia Pierina, nostra educatrice di
quel tempo. L’avevamo persa di vista e l’abbiamo ritrovata parlando con le suore di
Verona, mostrando una foto di Elsa con una piccola bimba in braccio di nome Emma.
Elsa, con il suo entusiasmo e la sua voglia di ritrovare quella bimba dopo 50 anni, si
è attivata e ha ritrovato tutte e due, oltre
alla famosa Nini, a
quel tempo piccola e
sconosciuta ai più,
ma famosa per noi.
Era il tempo in cui le
suore accoglievano
anche le bimbe piccole e orfane, sempre
nello stile del Mazza.
Zia Pierina… anche
per lei il tempo è
passato, ma la ritroviamo tra le sue “ragazze”, sposate con figli, sempre sorridente, attiva, brava in cucina come ai nostri tempi. Noi la ricordiamo buona e tranquilla. Ora vive sola, sta abbastanza bene nonostante i suoi 87 anni, rallegrata dalle visite quotidiane di Emma e
Nini.
Le piace ancora cucinare ed è molto brava. Lavora alacremente a maglia e fa golfini
per tutti: ne abbiamo portato a casa alcuni per i nostri nipotini.
Le ore sono volate tra ricordi, foto e i racconti del presente. Che giornata!!!
Ci siamo lasciate con la promessa che il prossimo anno a Verona per la festa delle ex
allieve porteremo anche loro. EVVIVA!!!
Un grazie ancora a queste suore che ci hanno dato l’occasione di provare queste emozioni forti e belle. A presto.
le “ex” di Treviso
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PREGARE
Chiese sorelle: le Chiese d’Oriente
2. La Liturgia ortodossa
Tutte e tre le confessioni cristiane - cattolici, ortodossi e protestanti trovano nella celebrazione eucaristica il loro momento più visibile e
concreto, “culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e sorgente da
cui promana la sua virtù e la sua grazia” ci ricorda il Concilio Vaticano
II nella costituzione sulla “Sacra liturgia” al n. 10, un convergere di
tutte le comunità nel giorno del Signore, che in tutto il mondo occidentale è diventato la domenica.
Tuttavia, a seconda delle epoche e delle varie sensibilità, la liturgia si
è sviluppata nel corso dei secoli in modi e forme diverse. Soprattutto
in seguito alle divisioni, le Chiese hanno impostato le proprie liturgie
in modo autonomo.
Vi è dunque una varietà di riti e modalità di espressione che dipendono dalla cultura di un popolo, dal suo territorio e dagli eventi che lo
hanno segnato; per cui distinguiamo la Liturgia cattolica, in particolare il Rito romano, dalla Liturgia ortodossa, in particolare quella bizantina, e dalle Liturgie della Riforma.
Resta condiviso il cuore di ogni liturgia, che è il memoriale di Gesù,
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la ripetizione “in memoria” dell’Ultima Cena in cui Egli benedisse pane e vino e lo
distribuì, cibo di vita eterna, come nuova ed eterna alleanza tra l’uomo e Dio.
La morte e la resurrezione di Gesù Cristo, la Parola di Dio, l’invocazione dell’assemblea, la comunione nell’assunzione del pane e del vino, corpo e sangue di Cristo,
sono i momenti costitutivi di tutte le liturgie cristiane, anche se ogni Confessione lo
esprime, lo sente e lo vive con modalità e sfumature diverse.
Le liturgie delle Chiese d’Oriente durano dalle due alle cinque ore, le veglie durano
anche di più, una lunghezza per vivere un tempo “sospeso”, staccato dal tempo “profano” della quotidianità. Non sono obbligatorie tutte le domeniche, ma almeno una
volta al mese.
Per accedere all’eucaristica, offerta
sotto le due specie del pane e del vino,
bisogna essersi confessati, e aver digiunato per almeno tre giorni. Il digiuno
ortodosso prevede l’esclusione del vino,
degli alcoolici e di tutti gli alimenti animali. I bambini fino all’età di sette anni
possono comunicarsi sempre.
Nella Liturgia ortodossa, il canto, che
proviene da una tradizione molto antica, ha un ruolo centrale. Tutta la liturgia
è cantata, dal sacerdote, dai solisti, dal
coro, da tutta l’assemblea. Clero, lettori, cantori e popolo si suddividono le
parti, in un dialogo con Dio a più voci,
nell’annuncio del Vangelo, nelle invocazioni e benedizioni, nelle preghiere dell’assemblea.
Non vi sono strumenti musicali, solo la
voce si eleva a glorificare Dio, e attraverso il canto continuo che coinvolge
tutto il corpo, l’orante è aiutato a elevarsi e purificarsi per avvicinarsi al mistero e alle
sue profondità spirituali, per essere nutrito e illuminato.
Altro elemento molto importante nella Liturgia ortodossa sono le icone, che non sono
semplici immagini, ma strumenti per la meditazione, evocazione del mistero e della
“presenza”. Sono dipinte, “scritte”, su tavole di legno, con colori naturali e oro zecchino, secondo canoni molti rigidi, e con una procedura di ascesi, con digiuni e preghiere, perché dipingere un’icona è un’azione sacra. Per questo sono considerate
finestre sull’assoluto, esprimono visibilmente l’invisibile e offrono alla contemplazio4
Anonimo, Icona della Vergine di Vladimir (XII sec.)
Andrej Rublëv, Icona della Trinità (1425)
ne il mistero che rappresentano. Cristo, la Madre
di Dio e i Santi sono allora rappresentati e raggiunti con l’occhio del cuore, in un trasporto
interiore. “Se Dio si è fatto uomo, è naturale che
si possa dipingere la sua immagine: è l’Invisibile
che ha scelto di rendersi visibile”, sosteneva san
Giovanni Damasceno, Padre della Chiesa e tenace oppositore degli iconoclasti.
Creare unità tra il visibile e l’invisibile è anche
l’obiettivo dell’incenso che inonda la chiesa e
avvolge tutti nella sua aria profumata, e dei ceri
che creano un’atmosfera scintillante sulle dorature delle antiche chiese ortodosse.
Una delle più comuni Liturgie ortodosse è la Liturgia bizantino-slava di san Giovanni
Crisostomo, del IV secolo, usata anche dalla Chiesa di Romania, la più grande comunità in Italia. San Giovanni Crisostomo, secondo Patriarca di Costantinopoli, è venerato sia dalla Chiesa cattolica, che dalla Chiesa ortodossa e dalla Chiesa copta.
Così recita la preghiera della seconda antifona della Divina Liturgia di san Giovanni
Crisostomo: “Signore nostro Dio, salva il tuo popolo e benedici la tua eredità, custodisci la pienezza della tua chiesa, santifica coloro che hanno a cuore il tesoro della
tua casa, tu in cambio esaltali nella tua divina potenza e non abbandonare noi che
abbiamo riposto in te la nostra speranza”.
E prima del Vangelo si canta: “O Signore, amico degli uomini, fa risplendere nei
nostri cuori la pura luce della tua divina conoscenza, e apri gli occhi della nostra mente all’intelligenza dei tuoi insegnamenti evangelici.
Infondi in noi il timore dei tuoi santi comandamenti affinché, calpestati i desideri carnali, noi
trascorriamo una vita spirituale, meditando e
operando tutto ciò che sia di tuo gradimento.
Poiché tu sei la luce delle anime e dei corpi
nostri, o Cristo Dio, e noi rendiamo gloria a te
insieme con il tuo eterno Padre e il tuo Spirito
santissimo, buono e vivificante, ora e sempre nei
secoli dei secoli”.
Silvana Jellici Formilan
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L’ALTRA METÀ DEL CIELO
C’era una volta…
Le dee dell’acqua, dei boschi, della notte
Figure mutevoli e sfaccettate, presenze delicate ma travolgenti: come
poter descrivere la donna e la sua essenza? Figura apparentemente fragile e indifesa eppure nutrita di una potente energia: un vento che
accarezza ma che può anche soffocare, un lampo di luce che illumina
ma può anche scalfire. Mille volti e mille forme, dunque, come si è
visto già nell’articolo scorso, in cui la figura femminile è stata analizzata nel suo essere malefico e diabolico, una strega appunto, attraverso gli occhi di una collettività imbevuta di tradizioni antiche ma rilette attraverso uno sguardo bigotto, discriminante e persecutorio. La
donna si manifesta come sfuggente ed enigmatica proprio per la sua
complessità e inafferrabilità e, forse per questo, segretamente temuta
e allontanata. Oltre alle streghe sono molte le donne che, nella narrativa popolare, si trovano a vivere in anfratti boschivi, rintanate in piccole abitazioni distanti da villaggi e centri abitati, ove conducono una
vita solitaria a diretto contatto con la natura e i suoi segreti. E proprio
quegli elementi naturali sono il mezzo migliore per rappresentare la
sua mutevolezza: l’acqua con i suoi giochi di luce, il bosco con i suoi
anfratti nascosti. Si vedrà brevemente che questa unione non è casuale ma che è necessario fare riferimento alla lunga tradizione della classicità antica e non solo.
Vediamo ora alcune figure di donne generalmente presenti in leggende e racconti popolari1 e che, in base alla situazione, si scoprono come
vecchie e scontrose o giovani e affascinanti, mettendo in evidenza il
carattere sfaccettato cui
sopra si accennava.
Le Anguane (o anche
aguane, angane, guane)
sono creature che abitano
in cavità naturali disseminate nei monti e circondate preferibilmente da
fiumi, pozze d’acqua o
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Si fa riferimento soprattutto alla narrativa popolare del Trentino e del Veneto, in ogni caso quella norditaliana che ho potuto studiare più da vicino
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sorgenti, luoghi magici e fatati per antonomasia, in cui avvengono gli incontri più prodigiosi. Infatti, giovani pescatori o boscaioli vengono attratti da queste affascinanti
fanciulle, fuggevoli e ammaliatrici, con cui spesso si fidanzano o stringono sodalizi o
da cui ricevono doni particolari e magici, come fili, trefoli o cose simili. La tradizione popolare le descrive generalmente come esseri benigni dotati di una irresistibile
bellezza: lunghissimi capelli d’oro ornano i loro volti e i loro corpi sono avvolti da
splendide vesti. A volte, però, possono anche mostrarsi con una luce negativa e malefica: sotto l’apparenza seducente, nascondono i tratti caratteristici delle streghe, portando in rovina coloro che hanno ammaliato e sedotto con dolci parole e grande bellezza, mostrando solamente alla fine il loro sgradevole aspetto di vecchie. Tale contraddittorietà nella rappresentazione delle anguane è da riferirsi a varie tradizioni. In
primis si ricorda la figurazione della dea Berchta (o Perchta), divinità di origine teutonica, chiamata anche dea Freya o dea Holda, presente soprattutto nel Tirolo e nelle
regioni austriache e compagna di Odino. Il nome significa “la Splendente” in quanto
le parole peraht, berht e brecht equivalgono a dire “radioso”, “luminoso” e/o “bianco”. Essa è raffigurata generalmente bella e bianca come la neve, una dama incantevole che fa ricordare certamente le anguane, anche per la luminosità dei loro capelli
dorati, oltre che per la vicinanza e il legame con la natura (si ricorda infatti che
Berchta è anche chiamata Signora delle Bestie, in quanto guardiana del mondo animale e della natura, nelle antiche culture cacciatrici germaniche). Alcune volte, però,
ella appare vecchia ed anziana, ricordando così la duplicità stessa delle anguane.
In secondo luogo, si può far riferimento ad un’altra tradizione, quella mitologica greco-romana, in particolare
alle fanciulle-ninfe che abitano i boschi: le cosiddette
Oreadi, nome greco per indicare le ninfe dei monti (in
alcune vallate si riferisce il nome di Bregostane) e le
Naiadi, ninfe delle fontane e dei fiumi. Entrambe sono
giovani donne delicate e gentili, spesso vittime di
abbandoni e inganni. Accanto a loro si possono ricordare altre figure prettamente acquatiche: le sirene.
Esseri femminili originariamente legati all’aria, in quanto uccelli spaventosi, divennero solo in un secondo
momento magnifiche donne dell’acqua, dai lunghi e
magnifici capelli e dalla voce seduttrice, ma nello stesso tempo portatrice di sventura per chi le udiva,
mostrando nuovamente un esempio di tale duplicità femminile.
Numerosi altri esempi potrebbero essere riportati, ma bastino questi spunti di riflessione per notare la somiglianza delle anguane con queste donne dell’antica tradizione: il legame forte con la natura e le sue creature, l’acqua, il bosco, la bellezza, la
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capacità di amare, i lunghi capelli, la seduzione e l’ambivalenza dell’essere donna e
“strega” allo stesso tempo.
La narrativa popolare fa inoltre riferimento ad altre figure femminile: le graostane
(vivane o salvane), cui si avvicinano per funzione anche le salvane. Esse, a differenza
delle anguane e delle bregostane, non possiedono particolari poteri soprannaturali,
ma sembrano essere invece semplici donne solitarie e selvatiche che vivono in grotte
nei boschi, ai margini della società. Nonostante alcuni racconti le descrivano come
fautrici di scherzi crudeli verso gli uomini, non fanno alcun male ed, anzi, sono riconoscenti a coloro che portano loro qualche dono o del cibo. Certamente esse si allontanano un po’ dalla fantasia fatata delle anguane, per far riferimento invece ad una
realtà di vita più concreta e vera, possibile soprattutto in un tempo passato: donne
esperte nella medicina naturale e nella preparazione di decotti ed erbe medicamentose per curare malattie. Anche in questo caso, comunque, è ben chiara la duplicità
di tali figure, “aiutanti”, così come possibili nemiche e avversarie.
Vi è, infine, una particolare figura che si distanzia leggermente da quelle finora
descritte, ma che mantiene la duplicità femminile di cui si è discusso precedentemente: la Redòdesa, signora delle dodici notte sacre tra Natale e la “Festa dei Tre
Redi”, l’Epifania. Secondo la tradizione, in queste notti non era consigliato avventurarsi lungo le strade, per evitare strani avvenimenti. In questo lasso di tempo “sacro”
anche i filò, infatti, erano vietati: anziché trascorrere quelle lunghe sere invernali nelle
stalle filando la lana, intagliando zoccoli, strumenti di legno o raccontando vecchie
storie, era preferibile passarle in famiglia a pregare o a rievocare le vicende evangeliche della nascita del Salvatore. Tale figura è presente soprattutto nella zona bellunese e in alcune altre zone del Veneto ed è descritta in modo diverso a seconda del
luogo. Generalmente, però, è avvolta da un mantello nero che la copre mentre compare nella notte come uno spirito, di bellissimo
aspetto ma di implacabili intenzioni. Essa, infatti, si
reca di casa in casa a controllare che le donne
abbiano finito di filare tutta la canapa, il lino e la
lana dell’anno precedente e che abbiano rassettato
la casa come si conviene prima dell’Epifania. Per le
buone saranno allora benedizioni per l’anno entrante; per le cattive, invece, punizioni e disgrazie. In
alcune leggende, è inoltre indicata come “Signora
dei bambini morti”, bambini che conduce in un
grande giardino introvabile, di cui lei è custode.
Secondo alcuni studiosi, tale credenza si ricollega
al mito della dea nordica Frigga o Frida, moglie del
dio Odino. Attraverso la cristianizzazione, nel fol8
clore germanico divenne Frau Holle o Frau Brechta -di cui sopra si è parlato- spirito
dei monti, regina delle nevi e protettrice dei neonati. Ecco dunque il suo legame con
le montagne e in particolare con le dodici notti sacre. Alcune tradizioni poi la identificano come una vecchia barbuta, che potrebbe aver dato origine alla figura della
Befana, affermando quindi nuovamente la duplicità nella raffigurazione.
Tali figure di donne sono, dunque, un esempio della complessità femminile con cui
si è dato avvio all’articolo. Ciascuna di noi ha esperienza, come donna, della complessità di pensieri e di emozioni che la caratterizza, studio della stessa psicologia,
che infatti afferma la particolarità del nostro genere attraverso ricerche ed indagini nel
campo. Se ora, però, si ha una maggiore coscienza della differenza grazie anche a tali
analisi, quello che considero molto interessante notare è che questa poliedricità del
femminile sia stata colta, sebbene forse con meno consapevolezza, da un mondo antico e lontano nel quale la donna ha assunto spesso un’aura di fascino e incanto, divenendo un essere quasi magico, divino e per questo venerato (come le antichissime
religioni, presenti anche nell’Italia, dimostrano2). Una sorta di divinità liminari con il
potere di dare e di prendere la vita: un potere del tutto femminile, che si è manifestato lentamente e che forse si è cercato, lungo i secoli, di arginare e soffocare attraverso denigrazioni e persecuzioni, dipingendo questa sua capacità di amore con tinte
fosche e negative.
Nonostante ci si trovi nel campo della narrativa popolare (perciò condita da vivace
fantasia), essa permette di rivolgere uno sguardo affascinante al mondo femminile,
mondo caratterizzato da una magia e mistero che, a mio parere, connota anche la
nostra realtà attuale, sebbene molto distante dalla fantasia della fiaba e della leggenda. Un potere che ammalia e seduce, rapisce e distrugge, un potere multiforme e
spesso contraddittorio, ma proprio per questo capace di profondo e intenso sentimento, in grado di amare e di donarsi per amore.
“Grazie a te, donna, per il fatto stesso che sei donna! Con la percezione che è propria della tua femminilità tu arricchisci la comprensione del mondo e contribuisci alla
piena verità dei rapporti umani” (Papa Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, 29 giugno 1995).
Silvia Carretta
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Secondo alcuni studi, le popolazioni rurali di tutta Europa erano strutturate in una società matriarcale: affettività, partecipazione comunitaria e spontaneità come valori fondamentali contro l’aggressività, l’ordine gerarchico
e il controllo tipici della società maschile. Essa era basata sul culto della Dea Madre, signora soave e benefica,
chiamata anche Signora del gioco, e spesso raffigurata come bellissima ed affascinante donna.
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DALLA COMUNITÀ DELLE SUORE
Comunità di Casa Madre
60° di Professione Religiosa
di suor Giuseppina Varalta
Nella lettura della messa di oggi Ezechiele ci
dice che il Signore radunerà da ogni parte i figli
d’Israele; anche noi oggi siamo stati radunati dal
Signore per celebrare e fare memoria della chiamata alla vita religiosa
di suor Giuseppina, alla quale lei ha risposto con il suo SI 60 anni fa.
Una risposta generosa e di lunga fedeltà svolta nel semplice, ma altrettanto importante servizio per il Regno di Dio, di preparare piatti caldi
e gustosi per le mense delle opere dell’Istituto. Sull’esempio della
Vergine Maria, che ha rallegrato le nozze di Cana chiedendo al Figlio
il miracolo del vino, suor Giuseppina ha rallegrato, soprattutto, la
mensa di tanti bambini che preferivano il pasto della scuola a quello di
casa.
Possiamo elencare questi lunghi anni dal 1950 in poi: 6 anni nell’orfanotrofio di Treviso; 3 anni nella scuola materna di Pilcante; 2 anni al
Collegio Universitario Maschile di Padova; 4 anni a San Carlo, a servizio dei sacerdoti della Pia Società; 36 anni nella scuola materna di
Begosso e 9 anni a Fontanafredda.
Un dono grande il Signore le ha fatto e per questo il 16 aprile 2011 noi
sorelle della Congregazione
delle Suore di Don Mazza,
parenti e amici, abbiamo
voluto nell’Eucaristia innalzare un canto di lode e di ringraziamento per l’amore divino ricevuto e donato.
Vieni ogni giorno, Signore, a
radunarci e a farci sentire
un’unica famiglia che cresce
nell’amore e che fa maturare ancora uomini e donne che sanno donarsi per il bene dei fratelli.
suor Angiolina Giramonte
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Comunità del Collegio Universitario
Tutti insieme appassionatamente
Sono le 10,30 del 20 marzo 2011 quando l’atrio del collegio comincia a riempirsi di colore, di chiacchiere e di volti. Si formano piccoli nuclei di persone che si conoscono e si
raccontano, riempiendo quel tempo che è passato dall’appuntamento dell’anno scorso. E’
la Festa della Famiglia!
Un giorno come tanti altri, ma per noi mazziane a dir poco speciale: un appuntamento
che negli anni si è consolidato nella sua importanza e che vede noi ragazze impegnate
insieme, perché possa essere un piccolo momento di condivisione che non passa subito,
come tutte le esperienze che quotidianamente viviamo.
Quest’anno tutto è cominciato con un’intervista doppia, nel corso della quale Barbara
Boseggia e Simone Venturini, due ex allievi, hanno raccontato il loro collegio e i ricordi
che ad esso sono legati: un bel momento di confronto e anche di divertimento… non
mancano gli aneddoti, a volte spassosi, e i momenti di risate.
A mezzogiorno, poi, abbiamo vissuto l’incontro di spiritualità con le nostre famiglie riunite. La santa messa, presieduta da Don Corrado Ginami, ci ha permesso di vivere un
momento forte di accostamento al Vangelo e di riflessione comune. Naturalmente non
sono mancati i canti, in cui noi ragazze ci impegniamo al massimo, perché crediamo
siano il sale che noi giovani mettiamo per rendere la celebrazione più nostra. Quest’anno,
per dare onore alle diverse culture che il collegio riunisce, ci siamo lanciate anche in
canti in francese e portoghese: è stata una bellissima occasione di interculturalità. Noi
giovani, cittadine del mondo!
E come in ogni festa che si rispetti, dopo l’incontro di spiritualità, non può mancare quello di convivialità! Un buon pranzetto ha atteso noi e le nostre famiglie per un momento
di conoscenza e di scambio, finito con un buon pezzo di torta e un apprezzato caffé.
Ultimo, ma non meno importante, il saluto che noi ragazze abbiamo preparato per i
nostri genitori. Dopo il pranzo ci siamo riuniti tutti nel salone e lì è cominciata una storia, che abbiamo raccontato in un mix di dialoghi, ombre cinesi e musica; abbiamo raccontato la storia dell’amicizia tra un albero e un bambino, una storia di attesa, di fedeltà
e di amore. Abbiamo voluto così sottolineare l’importanza delle relazioni che tra di noi
si sono create o si creeranno; l’importanza di non ricercare la felicità lontano perché ogni
giorno, se stiamo bene a guardare, possiamo trovare tra di noi uno sguardo, un abbraccio o un sorriso. A questo racconto poi è seguito il saluto finale, attraverso un video che
due nostre compagne hanno realizzato con tanto impegno. Un video che racconta di noi,
delle nostre giornate collegiali, delle nostre amicizie e delle nostre abitudini… un video
che parla di sorrisi, di vicinanza, di allegria… parla di tutto ciò che dà sapore alla nostra
quotidianità.
Erica Zigliotto
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“Un po’ più in là… Ecco, così, perfetto… Sorridi…” - Click Di fotografi improvvisati è pieno il mondo. Chi non ha mai cercato di fermare l’istante
in cui il soffio del bambino spegne le candeline sulla torta? Chi non ha mai sbuffato
per degli occhi chiusi di troppo nella foto di classe? E chi non si è mai arrabattato
per far stare la cima del campanile e l’amico sul sagrato insieme nella stessa foto?
Ma come direbbe il professor Morandi, una cosa è scattare foto ricordo, un’altra è
usare l’obiettivo per catturare la realtà condendola con la propria interpretazione.
Non serve avere la Reflex ultimo modello con tutti gli accessori del caso (anche se
quella aiuta): per “raccontare” una foto occorre saper leggere la scena e intrappolare
le emozioni che essa evoca in un rettangolo 18 x 24. Insomma nulla che si possa
improvvisare dall’oggi al domani: il fuoco su un oggetto piuttosto che su un altro, la
sua posizione nello spazio, la composizione generale dell’immagine, tutto deve essere studiato in funzione del messaggio che vogliamo trasmettere.
Forse Maria Cristina inorridiva di fronte ai nostri “capolavori” appesi nell’atrio del
collegio quando ha pensato di correre ai ripari proponendoci un corso di fotografia.
E magari non aveva tutti i torti, visto il successo che la sua iniziativa ha riscosso tra
noi studentesse.
8 incontri di un’ora e mezza,
munite di macchinetta fotografica, tanta voglia di imparare, e
già sogni di gloria per un futuro da grandi fotografe, accompagnate da Roberto Morandi,
un insegnante d’eccezione che
ci ha rese partecipi della sua
passione e ci ha aperto le porte
verso il mondo della fotografia
professionale.
Abbiamo iniziato con delle
lezioni puramente teoriche, di
osservazione delle immagini e spiegazione delle regole basilari per lo scatto di una
fotografia ben calibrata (il flusso di lettura di un’immagine, la regola dei terzi), passando poi alla parte pratica, di svolgimento di un tema assegnato attraverso la fotografia: è così che ci siamo cimentate nello scatto di foto che raffigurassero la strada,
il colore rosso, il lavoro, un ritratto. E ci siamo tuffate in questo compito senza nessuna paura, perché come il nostro mentore ha ribadito più e più volte, “non esistono
foto belle o foto brutte, ma solo foto che riescono a trasmettere più o meno bene
quello che l’autore voleva far trapelare”. Per concludere, infine con un’uscita nottur12
na di gruppo, nel corso della quale abbiamo avuto
modo di toccare con mano la difficoltà di sfuggire
agli inevitabili difetti delle foto scattate al chiaro di
luna.
Sicuramente è stata un’esperienza nella quale è valsa
la pena lanciarsi. Oltre a renderci un po’ più “consapevoli” nello scatto di una foto, ci ha permesso di
sviluppare un certo senso critico di fronte a un’immagine di qualsiasi genere. E il ricordo di tutto ciò
resterà (speriamo) per anni appeso alle pareti della
nostra dimora veronese.
Federica De Marchi e G. Rachele Boldrin
Comunità di Fontanafredda
Insieme per festeggiare suor Giuseppina
Lo Spirito guida ogni persona a capire quale sia la propria vocazione nella Chiesa.
Tra le possibili vocazioni vi è anche la chiamata alla consacrazione che impegna la
persona a vivere la propria fede nel quotidiano secondo un preciso stile di vita caratterizzato dalla castità, dall’obbedienza al Vangelo e dalla povertà, espresso attraverso il riferimento a una Comunità di religiose per condividere la stessa spiritualità.
“Tutto quello che c’è in me è del mio Amato,
a lui devo tutto; non si pensi che io ami un
altro né si pensi che io desideri che altri si
compiacciano di me, perché io sono e sarò
sempre del mio Amato, come Lui è mio: chi mi
vuol bene voglia bene anche a Lui, perché io
sono di chi Lui vuole che io sia”.
Queste parole, tratte dal Commento al
Cantico dei Cantici, descrivono bene il cuore
della vita consacrata: per questo oso riproporle in occasione del 60° anniversario di consacrazione di suor Giuseppina Varalta di Badia
Calavena.
La solenne celebrazione, presieduta da don
Mario Venturelli e allietata dalle dolci note
alla tastiera suonata da suor Maria Rosa, provetta pianista, ha avuto luogo sabato 16 aprile
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presso la Casa di Spiritualità di Fontananfredda
di Valeggio s/M.
La sala dell’Angelo era gremita per la presenza
delle numerose suore con la Madre Generale
suor Angiolina Giramonte, che ha fatto gli
onori di casa, dei parenti, dei tanti amici,
conoscenti e simpatizzanti.
Belle e toccanti le parole pronunciate all’omelia dal celebrante, e vivamente sentite le frasi e
le preghiere presentate all’Offertorio dai singoli partecipanti.
Particolarmente suggestiva la volontà di suor
Giuseppina di recitare il Magnificat, preghiera
quotidiana che ogni suora recita per tutta la
vita al Vespro come ringraziamento al Signore
per il grande dono ricevuto:
L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva…
Dopo la messa, particolarmente gradito è stato il momento conviviale che ha visto
parenti, amici e consorelle riuniti in un momento comunitario di gioia.
Giuseppe Passarini
Comunità missionarie
Fraternità e vita sul Pianeta: Campagna della Fraternità 2011
La Campagna della Fraternità 2011 ha avuto inizio il 9 marzo, Mercoledì delle Ceneri.
La Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile (CNBB) ha deciso di dedicare il
tema della Campagna della Fraternità di quest’anno alla Difesa della Vita.
Obiettivo generale
Contribuire nell’approfondimento del dibattito e nella ricerca di percorsi per il superamento del problema ambientale provocato dal surriscaldamento globale e suo
impatto sulle condizioni di vita del Pianeta:
- mettendo in discussione nelle diocesi temi quali il cambiamento climatico, l’effetto
serra, la questione energetica, i modelli di sviluppo, la preservazione della vita,
la produzione agro-alimentare, la biodiversità e l’acqua;
- mobilitando persone, comunità, Chiese, religioni e società per assumere da prota
gonisti la costruzione di alternative per il superamento dei problemi socio-ambien
tali derivati dal surriscaldamento.
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Secondo il segretario generale Dom Dima Lara
Barbosa la Campagna dovrà mettere a fuoco la questione ecologica, soprattutto i problemi che riguardano i cambiamenti climatici. La campagna si collocherà “in sintonia con una cultura che si sta espandendo sempre di più in tutto il mondo, di rispetto
per l’ambiente e per il luogo in cui Dio ci colloca
non soltanto per vivere e convivere, ma anche per
fare di questo luogo il paradiso che tanto sogniamo”.
Agli inizi del mondo la Bibbia ci ricorda la vittoria di
Dio sul caos: organizzandolo, Dio dà alla terra il
potere di generare. Tutto viene all’esistenza in ordine crescente di dignità. Dio é anteriore alla creazione e tutti gli esseri hanno ricevuto da Lui il dono dell’esistenza e della vita. L’uomo e la donna creati a immagine di Dio si trovano al centro delle opere create: attraverso la volontà di Dio hanno ricevuto il potere di dominare sugli altri viventi e “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”
(Gen. 1, 31).
Nel libro della Genesi é chiaro che quando si dice che Dio colloca l’uomo nel giardino per coltivare, guardare, custodire, prendersi cura del creato, intende aver dominio, regnare, tener sottomesso, padroneggiare… Il salmo 8, 6 dice che l’uomo fatto
a immagine di Dio é associato alla sua sovranità: “… L’hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore lo hai coronato”.
San Paolo ci ricorda che “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione
dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma
per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di
Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle
doglie del parto” (Romani 8, 19-22).
Come cristiani siamo chiamati a conservare il creato con le nostre azioni concrete;
pertanto possiamo chiederci: tutte le catastrofi sono reazioni alle nostre azioni?
La Campagna della Fraternità del 2011 viene a risvegliare le nostre responsabilità;
infatti tutto quello che facciamo può pregiudicare o aiutare a salvare il PIANETA.
Cominciamo a pensare insieme e a fare... a partire dalla nostra famiglia per salvare la
nostra casa. In ogni situazione di sofferenza, terremoti, inondazioni sentiamo il
Pianeta e l’umanità che geme in una immensa tristezza. Siamo ancora in tempo per
trasformare i gemiti di dolore in spinte di amore e speranza; allora sì, riceveremo di
ritorno un pianeta più sano come quello che ci é stato dato da Dio.
La Campagna non deve restare utopia. Per questo è necessario essere fraterni, gene15
rare azioni concrete che ci portano al bene comune, impegnandoci come Francesco
di Assisi a lodare Dio con quanto esiste, con tutte le creature del pianeta.
Non ci stancheremo di proporre atteggiamenti e comportamenti fondati su valori che
abbiano come riferimento la vita in relazione all’ambiente. Speriamo che la Campagna
raggiunga i suoi obiettivi: privilegerà e si concentrerà sulla questione ecologica,
soprattutto sui problemi che si riferiscono ai cambiamenti climatici.
L’inno della Campagna
Popolo mio, guarda questo pianeta terra:
di tutte le creature la più bella!
Io l’ho plasmata con tutto l’amore materno,
perché sia una culla di ristoro e di vita.
La nostra madre terra, Signore,
geme di dolore notte e giorno.
Sarà di parto questo dolore?
O semplicemente di agonia?!
Dipenderà solo da noi!
La terra è madre, è creatura viva:
anche lei respira, si alimenta e soffre.
E’ di rispetto che lei ha più bisogno!
Senza le tue cure agonizza e muore.
Vedi, in questa terra, i tuoi fratelli. Sono tanti…
che la fame uccide e la miseria umilia.
Io sogno di vedere un mondo più umano,
senza tanto lucro e molta più condivisione!
Senti quest’aria che ti consegnai tanto pura…
Ora i gas disseminano morte;
il surriscaldamento brucia il tuo futuro.
Contempla i fiumi che agonizzano tristi.
Non ti inquieta inquinare così?!
Guarda: tante specie già non esistono più!
Molta più cura implora questo giardino!
L’umanità sospira una nuova terra.
Di dolore geme tutto il creato.
Trasforma in Pasqua i dolori di questa attesa,
voglio questa terra in piena gestazione!
suor Rosa Melucci
La Teologia della Liberazione piange Padre Josè Comblin, “teologo del
popolo e con il popolo”
La Chiesa della liberazione perde, uno dopo l’altro, i suoi figli più illustri. Senza neppure
la consolazione che vi sia, almeno per ora, chi possa prenderne il posto. Ad andarsene è
stato, lo scorso 27 marzo, il prete belga naturalizzato brasiliano José Comblin, uno dei
padri fondatori della Teologia della Liberazione, nonché uno dei massimi ispiratori della
Chiesa dei poveri in America Latina. È morto di infarto, nella città di Simões Filho, nello
Stato brasiliano di Bahia, in cui si era recato per tenere, come innumerevoli volte aveva
fatto durante la sua vita, un corso per le Comunità di Base. Lo hanno trovato senza vita,
seduto nella sua stanza, dove erano andati a cercarlo non vedendolo arrivare alla preghiera del mattino. Aveva da poco compiuto 88 anni.
Laureato in Teologia all’Università Cattolica di Lovanio, José Comblin era giunto in Brasile
nel 1958, rispondendo ad un appello di Pio XII, il quale, nel documento Fidei Donum,
aveva auspicato la presenza di missionari in regioni povere di sacerdoti. Dopo tre anni passati in Cile, il teologo si era recato, nel 1964, in Pernambuco, su invito di dom Hélder
Câmara (appena nominato da Paolo VI arcivescovo di Olinda e Recife), dove si era dedi-
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cato alla formazione di seminaristi sulla base di una metodologia adeguata al mondo rurale, nota come Teologia della zappa (Teologia da Enxada).
Perseguitato dal regime militare, nel 1971 era stato espulso dal Brasile ed era tornato in
Cile, dove era rimasto fino al 1980, quando, in seguito alla pubblicazione del suo libro
A Ideologia da Segurança Nacional, il generale Pinochet lo aveva espulso anche dal Cile.
Tornato in Brasile, si era stabilito a Serra Redonda João Pessoa (Paraíba) dove aveva fondato un seminario rurale e si era impegnato nella formazione di leader popolari, finché
non si era trasferito nella città di Barra, all’interno dello Stato di Bahia.
Autore di un gran numero di libri e di articoli di grande
rilevanza su temi biblici, teologici, sociali e politici, José
Comblin è stato, come scrive il teologo Carmelo Álvarez
“un teologo popolare, del popolo e con il popolo”, sostenendo sempre con molto vigore la necessità di una presenza tra le fasce popolari. La Teologia della Liberazione è
nata nel momento in cui i teologi si sono fatti presenti fisicamente tra i poveri. A partire dal momento in cui diventano professori, entrano in un altro mondo, un mondo accademico che oggettivamente è solidale con l’establishment, al di là delle critiche teoriche
che può rivolgere alla classe dirigente. La questione è quella di essere presenti fisicamente all’interno del mondo nuovo che sta nascendo. Ma attualmente questa presenza
non c’è quasi più. L’errore è che le Chiese hanno abbandonato il mondo popolare.
Parlano ancora di opzione per i poveri, ma è pura ipocrisia perché nella realtà fanno l’opzione per i ricchi. Sta avvenendo come nella teologia accademica europea: i teologi parlano per altri teologi e non per il popolo impegnato nella lotta. Per questa via, la teologia si isola completamente.
Probabilmente si può affermare che la Chiesa cattolica già non è più presente nelle fasce
popolari. Fisicamente le ha già abbandonate. E non ci sono dubbi che in genere i preti
preferiscano lavorare in una parrocchia borghese. Quanto ai vescovi, a volte vengono
scelti “uomini senza alcuna sensibilità sociale e con l’unica preoccupazione dei sacramenti. Questa è la politica romana? Del resto, con chi parla oggi un vescovo? Non parla
con i contadini, con gli operai, con gli abitanti delle favelas; parla con la classe dirigente e fa proprie le esigenze della classe dirigente”. Opinioni, queste, che Comblin aveva
ribadito anche in una recente intervista rilasciata a El Periodista (30/12/10) durante una
sua visita in Cile, suscitando la reazione del vescovo brasiliano dom Redovino Rizzardi,
che, il 25 febbraio scorso, aveva replicato al teologo in un articolo dal titolo “Padre José
Comblin: crepuscolo di un profeta?” (v. Adista n. 23/11). Un titolo che non poteva essere meno felice. Perché, se una cosa è certa, è che profeta, José Comblin, lo è rimasto fino
all’ultimo giorno della sua vita.
(dalla Conferenza di Padre Ronaldo Mazulla)
a cura di suor Rosa Melucci
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ATTUALITÀ
Acqua, fonte di vita
Se passate da Bojano (CB),
vi invito a visitare, nell’antica cattedrale, una cosa mirabile. Sotto l’altare, proprio
nel cuore delle fondamenta
romaniche, sgorga una
fonte. Lì, nell’antica cripta,
nasce uno dei tanti rivoli che
poi, unendosi, formano il
fiume Biferno, il quale attraversa tutto il Molise conferendo una bellezza mirabile al paesaggio. Bojano, infatti, è ricchissimo d’acqua (come tutto il Molise, d’altra parte), tanto da cederla generosamente all’assetata Puglia e alla vicina Campania. E’ quest’acqua
che rende florida e vivace la cittadina, nota per la fertilità delle sue
campagne. Una cittadina operosa, vivacissima, posta sulle grandi direttrici che uniscono Campania e Lazio, e perciò facile preda degli speculatori. Ma dotata anche di forti radici che la legano alla sua antica
spiritualità, rivitalizzata oggi da una serie di movimenti e gruppi: per
questo potrà benissimo tener testa alle insidie della modernità.
E’ bello vedere dal vivo la sorgente d’acqua che sgorga da quell’antica
cripta. Una pesante lastra di vetro rende ben visibile, durante le celebrazioni, questo mistero della vita. La prima che ci passi sopra quasi
ti spaventi: ti sembra di cadere nella polla d’acqua sottostante che brulica di vita. Poi, invece, rimani come incantato mentre osservi e lodi
Dio pregando all’unisono con tutta l’assemblea. Tutto, infatti, dipende
dall’acqua, da quella fonte di vita perenne e gratuita che Dio ci dona
in abbondanza. In essa la vita pulsa, la natura parla e dice che “nel
creato, tutto è ordine e armonia. E dove c’è ordine, c’è armonia e dove
c’è armonia c’è anche tempo giusto e dove c’è tempo giusto, c’è anche
beneficio”, come scriveva, nel II secolo, il vescovo pacificatore
sant’Ireneo che così descriveva la suggestiva articolazione delle cose:
ordine, armonia, tempo giusto, beneficio.
C’è un altro motivo che mi spinge a riflettere sul tema dell’acqua. Il
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primo settembre ricorre, per volontà dei nostri vescovi, la festa del Creato, un’occasione di riflessione sui temi legati alla salvaguardia e al rispetto delle risorse naturali. In Molise quest’anno dedicheremo la giornata al tema dell’acqua. Abbiamo scelto
proprio questo argomento perché è di stretta attualità: l’acqua è stata infatti oggetto
di un referendum popolare su una legge, fatta passare sottilmente, quasi di nascosto,
che tende a privatizzare quella potabile delle nostre case.
Il motivo di questo provvedimento è quello di poterla meglio valorizzare: si dice,
infatti, che la gestione privata ne garantirebbe un miglior uso. In realtà dietro questa
“scusa” si nasconde un’insidia pericolosa: quella di rendere privati i grandi doni che
Dio invece ha offerto a tutti. Dice, infatti, il Compendio della Dottrina Sociale della
Chiesa, al numero 485: “L’acqua, per la sua stessa natura, non può essere trattata
come una mera merce tra le altre e il suo uso deve essere razionale e solidale”. Infatti,
“Senza acqua, la vita è minacciata. Dunque, il diritto all’acqua è un diritto universale e inalienabile”.
Perciò mi piace ripetere qui lo slogan di un grande studioso di questa materia:
“L’acqua ha un costo, ma non un prezzo. E perciò dobbiamo lottare a tutti i costi,
perché resti pubblica”. Perché ha un costo, ma non un prezzo? Perché non è una
merce e dunque non può essere venduta. Perché se venisse venduta andrebbe solo a
chi può comprarla. Perché scarseggia ovunque e dunque chi la controlla ha guadagni
enormi.
A Parigi l’hanno già capito: dopo che per venticinque anni due multinazionali si sono
spartite il mercato dell’acqua, oggi questo è tornato a gestione pubblica. E subito si
sono abbassate le tariffe e sono aumentati gli investimenti. Come non rileggere allora, con cuore grato, le illuminanti parole di Ireneo, nell’intreccio tra ordine, armonia,
tempo giusto e beneficio?
G. Carlo Bregantini, Arcivescovo di Campobasso-Bojano
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MISCELLANEA
La fine è il mio inizio
Con questo titolo è uscito qualche anno fa (2006) un libro postumo, nel
quale il grande giornalista e scrittore Tiziano Terzani racconta al figlio Folco
il grande viaggio della vita. «Una strada c’è nella vita. La cosa buffa è accorgersene solo quando è finita. Ti volti e vedi il filo». Così Terzani vedeva il
suo cammino, quando ormai volgeva al termine. Ora il volume è diventato
anche un film. La riflessione che riportiamo, dello storico Franco Cardini, ci
aiuta a comprendere meglio la vita e il messaggio di questo testimone del
nostro tempo.
Correva l’anno 2003 allorché il sessantacinquenne Tiziano Terzani prossimo al momento dell’abbandono del suo corpo e di ciò ben conscio - intraprendeva, ravvolto nella sua coperta come in un paramento
liturgico o in un sudario, l’ascesa mattutina a salutare le “sue” montagne partendo da quello ch’era ormai da cinque anni il rifugio delle sue
sempre più frequenti meditazioni, la baita a 2400 metri d’altezza presso Almora nell’Himalaya indiano. Su quell’ascesa, forse l’ultima della
sua vita, avrebbe scritto di lì a poco una pagina commossa. Le sue
parole sarebbero state lette dal pubblico poco più tardi, nel marzo del
2004, quando egli si era ormai già rifugiato tra le altre “sue” montagne, quelle pistoiesi che circondano Orsigna. Lì attese con serenità il
passaggio che ormai da tempo sapeva prossimo e inevitabile: e che
avrebbe affrontato pochi mesi più tardi, alla fine di luglio. Ma tra le
vette attorno ad Almora e i gioghi alpestri tra le valli dell’Appennino,
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antico regno di carbonai e di produttori di ghiaccio naturale e artificiale, per Terzani
la continuità e l’identità erano ovvie, naturali, fiabescamente reali. (…).
Nato a Firenze nel 1938, Tiziano Terzani non aveva ancora sessant’anni ed era uno dei
giornalisti e scrittori di viaggio più noti in Europa e nel mondo quando, nel ’96, gli
fu diagnosticata una grave malattia ch’egli affrontò con il coraggio e l’ottimismo che
gli erano propri.
Combatté circa otto
anni: fiero, vitale,
perfino allegro, scrivendo e viaggiando.
Cominciò con scelte
terapeutiche precise,
scegliendo
prima
New York, quindi San
Francisco. Ma nella
città
californiana
conobbe un maestro
induista,
Swami
Dayananda, il quale
lo invitò a un corso di filosofia e mistica veda in un ashram, un eremo dell’India meridionale. Il maestro decise che Tiziano era degno di divenire uno shisha, “uno che
merita di studiare”: in quell’eremo egli avrebbe passato tre mesi, fra aprile e giugno
del 1999, che avrebbe da allora in poi considerato fondamentali per la sua ascesa spirituale e centrali per la sua intera esistenza. Tre mesi bellissimi, che nel libro Un altro
giro di giostra (Longanesi, 2004) egli descrive magistralmente, con una serenità e
una gaiezza che la maggior parte di noi troverà purtroppo - ed è la misura che serve
a capire a che cosa ci siamo ridotti - incomprensibile in un appena sessantenne che
aveva ricevuto una diagnosi medica che molto probabilmente equivaleva a una condanna capitale. Dall’ashram, Tiziano passò poi al silenzio dell’Himalaya. Ma ai primi
del 2004, quando si rese conto che il passo finale era prossimo, tornò dai suoi, in
famiglia, sui monti della Toscana: dalla moglie Angela, dai figli Saskia e Folco. E
accettò anche di confrontarsi con la gente, tanta, che lo cercava e aveva bisogno di
lui. Seppe ricapitolare, in quei pochi ultimi mesi, la testimonianza di tutta la sua vita
passata in gran parte tra le guerre e i pericoli dell’Estremo Oriente, dal Vietnam alla
Cambogia. Parlò di pace e di lotta alla guerra, ma anche di giustizia e di amore per
la vita.
Ho avuto l’onore di essere amico di Tiziano. Negli anni Settanta collaborai con lui
nell’Università di Firenze. Proveniva da una povera, generosa, onesta famiglia fiorentina di tradizioni comuniste: non aveva avuto un’educazione religiosa, per quanto dei
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valori della fede avesse sempre un grande rispetto e vivesse naturalmente - come tutta
la brava gente faceva una volta - la morale cristiana. (…). Lo ritrovai ai primi anni del
nuovo millennio: era invecchiato, ammalato, ma sempre lo stesso. Stessa energia,
stessa generosità. Ma con una nuova dimensione: una profonda consapevolezza del
valore della vita. (…).
La stessa esperienza in un ritiro induista non lo aveva “convertito” a una religione
diversa dal cristianesimo: gli aveva insegnato l’immensa ricchezza del vivere appieno
la propria esistenza e del donare gioia e speranza agli altri. Quel che aveva appreso
ripensando alla sua vita e alle persone care che gli stavano attorno è che nessuno può
bastare a sé stesso e che la morte può, ma proprio per questo non deve far paura:
aveva superato di slancio quell’individualismo che è forse il peggior male
dell’Occidente moderno, aveva imparato che la vita è il grande dono e il grande patrimonio dell’uomo e che non si deve aver paura perché essa è infinita.
Non voglio far del mio amico
Tiziano un convertito perché
rispetto le sue scelte e il suo
silenzio. Voglio però testimoniare, da cristiano, che pochi come
lui riuscivano, con la sua stessa
presenza e con la testimonianza
del suo dolore e del suo coraggio, del suo amore e della sua
gioia, a far sentire la presenza
viva del Cristo nel mondo, nella
natura, nella storia. Questo è il grande regalo che egli ha saputo fare ai credenti ma,
credo, anche agli altri. Il resto è Mistero.
a cura di Giuseppe Parisi
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L’ANGOLO DELLA POSTA
Cara suor Angiolina,
avrei voluto raccontare la mia esperienza di universitaria mazziana,
ma temevo che la mia voce non fosse chiara, quindi la scrivo.
Sono stata in collegio negli anni 1978-1981. Ero in difficoltà, indietro con
gli esami perchè la mia famiglia naturale, avendo io problemi motori,
non era in grado di portarmi a studiare, perchè impegnata nel lavoro.
Sono stata accolta in collegio dalle suore è ho sentito subito il calore di
una famiglia che mi voleva bene. Ero in camera con Carla Pasetto con la
quale mi sono trovata bene. Frequentavo il corso di laurea in Pedagogia,
mentre Carla era al primo anno di Lingue Straniere.
In quegli anni il collegio era organizzato in modo semplice, le suore, fra
le quale suor Lucia, suor Raffaela Tessari e suor Elisa, facevano servizio
al centralino. Di sera si poteva uscire fino alle 11.00 e il mercoledì fino a
mezzanotte. Io, come le altre compagne, potevamo studiare in camera
oppure in stanzette situate al primo piano. Le suore erano una presenza
silenziosa e accogliente.
In collegio si poteva consumare pranzo, cena e colazione prenotandosi
con dei biglietti colorati posti all’ingresso del piano terra. Suor
Domenica e suor Luigia preparavano i pasti con tanta semplicità; in collegio si mangiava veramente bene e in un clima di fraternità. Mentre
consumavamo il pasto le suore giravano in cucina e non mancava mai la
presenza di suor Maria Teresa che inevitabilmente mangiava in piedi una
mela o qualcos’altro e parlava con suor Domenica.
In collegio si studiava e si andava a lezione. In quell’ambiente ho trovato
la serenità che cercavo e sono stata stimolata allo studio. Io, come altre
giovani studenti, trovavo un punto di riferimento al centralino dove si
alternavano le suore. Il mercoledì era proposta la Santa Messa nella cappella del collegio e una sera alla settimana veniva proiettato un film nella
sala vicino al refettorio. L’anno dopo, si poteva partecipare a un incontro
formativo sulla Bibbia, tenuto da don Francesco Massagrande, allora
superiore dell’istituto maschile del Don Mazza. E’ stato durante questi
incontri che ho avuto personalmente modo di conoscere il carisma mazziano, tanto intensamente vissuto dalle suore ogni giorno. Con il passare
del tempo la serenità dell’ambiente giovava al mio studio come non
mai... La “maternità” delle suore mi aiutava a scoprire il valore dello studio costante e impegnato. Gli anni ‘80 non erano anni facili per l’università di Verona: c’erano parecchi scioperi o i professori non tenevano la
lezione prevista perché l’università di Verona dipendeva dalla sede di
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Padova e perdevano il treno... Oppure improvvisavano scioperi...
Ma noi studenti tornavamo tranquille in collegio e dopo quattro chiacchiere ci mettevamo a studiare... Con il tempo ho conosciuto anche suor Germana, allora superiora delle
suore.
Qualche volta interrompevo lo studio è ascoltavo la voce dei bambini dell’asilo animato
da suor Gabriella. I bimbi giocavano, cantavano allietando lo studio di noi universitarie...
Dopo tre o forse quattro anni mi sono laureata con una tesi sull’educazione di Don
Mazza, sacerdote veronese e fondatore degli istituti Don Mazza. Oggi, nella giornata
annuale dedicata alle ex allieve, dei miei anni di collegio eravamo presenti sole in due,
nate rispettivamente nel 1957 e nel 1958. Purtroppo! Mi sono intimidita davanti a tante
ex studenti degli anni più recenti e a quelle che mi avevano preceduto e non ho saputo
dire la mia. La dico ora, confermando il mio grazie alle suore che hanno saputo leggere
e stimolare la mia vita di giovane, confermandola nell’amore a Dio e agli altri attraverso
lo studio. Grazie suore....
Stefania Pol
Grazie Stefania per questa mail che suor Angiolina ci ha inoltrato.
E’ bello che qualcuno senta il bisogno di ricordare, anche se in punta di piedi, quegli anni
per lei così importanti. Se siamo venute alla festa oggi è proprio perchè ciascuna di noi,
credo, ha qualcosa per cui ringraziare e questo ci accomuna tutte e attraversa le nostre
esperienze così diverse.
Oggi a messa avrei voluto fare una preghiera, e l’ho fatta in silenzio, una preghiera per
tutte le ragazze che verranno, perchè possa sempre esserci qualcuno che si trova poi a
ringraziare per l’esperienza vissuta in collegio. Speriamo che anche le giovani che verranno riescano a trovare e cogliere quello che abbiamo trovato noi: aiuto, accoglienza e
crescita.
Grazie a tutte
Greta Perina
Cara Stefania,
leggo davvero con piacere la mail che suor Angiolina ci ha inoltrato. Sono piccoli
scorci di storie, esperienze ricche di emozioni e di ricordi che penso possano essere davvero un modo per sentirci più vicine anche nella diversità. Quello che scrivi nella mail e
ciò che ho avuto modo di ascoltare ieri mi hanno portata a riflettere certamente sulle differenze che hanno contraddistinto il collegio nei suoi anni, ma anche a riscoprire quante
somiglianze esistono tra noi di diverse generazioni: l’educazione, il rispetto, la gioia di
stare insieme, le amicizie, etc. Siamo tutte parte di una grande famiglia che ci ha cresciute, che sentiamo parte di noi e che la festa delle ex allieve dimostra e ha dimostrato
lungo tutti questi anni. Un caro ringraziamento a tutte voi. Con affetto
Silvia Carretta
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NOTE DI CASA
Sono nati:
Stefano, primogenito di Gabriella De Stefano e Antonio Curcetti
Si sono laureate:
Kristina Cukali di Korce (Albania) in Scienze giuridiche
Luisa Lenzi di Torcegno (TN) in Biotecnologie agro-industriali (LS)
Eleonora Marchesi di Bolbeno (TN) in Economia e management delle
imprese di servizi
Besmira Xhelo di Pogradec (Albania) in Economia dei mercati e degli
intermediari finanziari (LS)
Si sono sposati:
Chiara Reato con Francesco Favaretto a Rovigo
Besmira Xhelo con Massimo Stallo a Verona
Ricordiamo nella preghiera
coloro che sono entrati nella Casa del Padre:
Carlo Avanzi, sacerdote della Pia Società Don Mazza
Anna Maria Dal Bon, maestra cooperatrice dell’Istituto femminile Don
Nicola Mazza
Giuseppina Fedrighi, mamma di don Germano Paiola della Pia Società
Don Mazza
Luigina Sartori, cooperatrice esterna dell’Istituto femminile Don
Nicola Mazza
Gianni Zanini, collaboratore di “Note Mazziane”
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Ciao Don Carlo...
Una telefonata di Padre Alberto, sabato
21 maggio alle ore 17,30, ci annunciava la
morte di don Carlo e subito ho detto:
“Ciao Carlo, ti ricorderemo per sempre!
Sei stato per noi suore di Don Mazza la
porta che si è spalancata per la realizzazione del nostro carisma missionario.
Grazie!”
Don Carlo era partito 33 anni fa per il
Nordeste del Brasile, João Pessoa. Nel
1978, a 48 anni, non si sentiva vecchio
per niente, anzi il suo entusiasmo e il
suo sorriso lo rendeva giovane bello e
simpatico. Non è stato facile il suo inserimento nella cultura brasiliana, ma la
volontà era tanta che le difficoltà passavano in secondo piano. Don Carlo era
per me un uomo intelligente, di cultura,
dal cuore grande capace di avvicinare piccoli e grandi, ricchi e poveri della periferia
di João Pessoa; visitava regolarmente le prostitute e i carcerati che facevano parte
della sua parrocchia, non tralasciava di accogliere gli ubriachi e i drogati. Ma la sua
predilezione speciale andava per i giovani studenti e le vocazioni. Anche le nostre
giovani in formazione hanno bevuto della sua spiritualità sotto la sua direzione in ritiri e incontri sul carisma. Quante volte si fermava a cena o a pranzo con noi per restare vicino a quella giovane che aveva più bisogno di attenzione e di incoraggiamento
per mostrarle il suo amore.
Ha amato tantissimo la Chiesa: la gente della parrocchia, la cooperatrice Anna Maria
Dal Bon e noi suore tutte sentivamo il suo amore come di predilezione. Era un uomo
grande, di una grande umanità.
Ha chiesto di essere sepolto nel cimitero della chiesa parrocchiale della Madonna
Nossa Senhora do Ó (Brasile) tra la gente che tanto ha amato e che lo ha amato.
Segno della sua grande inculturazione, povero tra i poveri.
suor Rosa Melucci
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Ti ricordiamo, don Carlo
Scrivo con queste righe la nostra impressione del funerale di don Carlo, molto limitata perché le parole non possono esprimere la profondità dei sentimenti provati.
La comunità dell’Alto do Mateus (João Pessoa) ha organizzato un pullman, ma molte
altre persone si sono dirette a Olinda con le loro macchine, soprattutto dalla parrocchia dell’Immacolata Concezione, la parrocchia che don Carlo aveva assunto 33 anni
fa all’inizio della sua missione brasiliana.
Noi tre suore: Noemi, Perpetua e Graça, siamo andate con la nostra automobile insieme a Simone, un volontario italiano, e a Josefa Marlene, nostra fedelissima collaboratrice.
Siamo arrivate per la prima Messa delle ore 8 e già c’erano tantissime persone, il
piazzale della chiesa di “Nossa Senhora do O’” era gremito di macchine e la chiesa
stipata di persone venute per dare l’ultimo addio a Padre Carlo. La bara è rimasta
esposta tutto il giorno. Nella stessa mattinata è venuto a rendere omaggio a Padre
Carlo e a porgere le sue condoglianze ai sacerdoti mazziani anche il Vescovo di
Olinda.
La celebrazione del pomeriggio è stata ancora più bella,
una vera festa: allegria nel
cielo e lodi per quello che è
stato don Carlo sulla terra; si
ascoltavano le persone semplici del popolo, uomini,
donne, giovani e bambini che
piangevano la perdita di un
papà che li aveva guidati alla
fede.
C’è stata la testimonianza di
Padre Alberto, uno dei suoi
primi figli spirituali, che con
molta dignità, nonostante la
commozione, ha cercato di
dire chi è stato don Carlo. Don Domenico Romani ha detto che Padre Carlo aveva
chiesto di essere portato a morire a casa, e con il nodo alla gola si domandava: “Quale
Casa?”. Don Carlo era una persona che godeva della casa, della comunità, del silenzio, della preghiera, che trasmetteva a tutti serenità e tranquillità. Nei momenti di
conflitto chiudeva gli occhi, pregava Dio e la Madonna perché ritornasse la pace.
Padre Carlo era il fratello più vecchio ed il papà: in questi ultimi anni ha vissuto bene
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il ruolo di papà, di nonno per i giovani che iniziavano il cammino di formazione nella
comunità mazziana ed era molto felice quando questi stessi giovani gli chiedevano di
avere una conversazione con lui. “Quale casa?”. Quella stessa casa che aveva trovato
quando era stato Vicario Episcopale nella diocesi della Paraiba, quando prendeva il
caffè insieme al Vescovo Dom Josè Pires. In questo servizio di vicario ha avuto un
ruolo particolare di riconciliazione nei momenti difficili.
Tutti coloro con i quali ho avuto l’occasione di parlare, dicevano: “E’ morto un santo
uomo, un papà”. Altri dicevano di essere certi che avrebbe fatto molti miracoli.
Padre Carlo è stato sepolto di fianco alla chiesa di Nossa Senhora do O’, in un piccolo cimitero, nel mezzo di un piccolo giardino, in terra, come lui aveva chiesto, nella
terra brasiliana, luogo che lui aveva adottato come patria amata per la missione che
gli era stata affidata.
L’ultima volta che ho parlato con lui mi disse, con un sorriso largo e sincero: “Tu sei
un tesoro per le tue sorelle”. Questo suo sorriso non lo perse nemmeno nella sofferenza e nemmeno quando, molto debilitato, prevedeva la sua fine terrena.
Sicuramente in cielo è un grande dono per noi e intercederà per tutti e in particolare per la missione che tanto ha amato.
suor Perpetua Andrade Da Silva
Anna Maria Dal Bon
Anna Maria Dal Bon,
Maestra Cooperatrice
di Don Mazza, dopo
aver compiuto il suo
lungo pellegrinaggio
terreno, si è incontrata con il suo Signore
che ha amato e servito su questa terra nei
piccoli e nei poveri
nello spirito di don
Nicola Mazza.
Non posso dire di
conoscere in profondità Anna Maria, però ci siamo incontrate per molti anni, soprattutto il mattino in
occasione della celebrazione della Santa Messa e in altri momenti significativi delle
comunità mazziane. Anna Maria aveva una personalità “forte”, una intelligenza vivace, una viva sensibilità e finezza d’animo che nascondeva, a volte, dietro uno stile un
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po’ austero. Alle qualità umane si aggiungeva una profonda spiritualità.
Anna Maria era davvero dotata di molte qualità che sapeva sviluppare e mettere a vantaggio del “suo” Istituto, soprattutto con uno straordinario amore al fondatore don
Mazza che cercava di conoscere sempre più e sempre meglio perché, ripeteva spesso, “…è unico, è eccezionale, è inesauribile: più approfondisci i suoi scritti e più
scopri aspetti sempre nuovi, inediti della sua vita, del suo pensiero, delle sue opere”.
Animata dallo spirito missionario di don Mazza, ha avuto il coraggio, nella sua non
più giovane età, di chiedere di raggiungere il Brasile con i preti mazziani don Carlo
e don Dario, insieme a suor Noemi, suor Rosa e suor Nella. Negli anni di vita brasiliana a João Pessoa si è trovata immersa nella povertà e tra i poveri. Anna Maria si è
donata a loro con tutte le sue forze e con tutto il suo amore, compiendo un autentico lavoro di animazione missionaria anche con i suoi scritti (Anna Maria aveva pure
il dono particolare di saper comunicare con lo scritto) che inviava alla sua comunità
in Italia, alle ex allieve e a quanti conosceva.
Tornata in Italia, tra gli altri impegni ha continuato
la sua missionarietà anche collaborando con il
Centro Missionario Diocesano, con fedeltà e competenza e parlando a tutti, in ogni occasione propizia, di don Mazza e delle sue straordinarie intuizioni e iniziative, insieme alla sua santità di vita.
Negli ultimi anni della vita di Anna Maria mi colpiva il suo sorriso aperto che offriva
a me e ad ogni sorella della mia Comunità ogni mattina quando andavamo alla cappella delle Cooperatrici per la Santa Messa. Anche quando era molto sofferente non
ha smesso di offrirci il dono del suo sorriso che ci edificava e ci incoraggiava, anche
considerando il fatto del suo temperamento austero, come ho detto sopra. Io ho
“letto” in quel sorriso l’espressione di un cuore in pace con se stesso, con il prossimo, con il
Signore. E’ il “bicchiere di acqua fresca” che, donato ai fratelli, alle sorelle, è come
fosse donato al Signore stesso, memori della Parola del Vangelo.
Grazie! Di tutto! AnnaMaria! E continua a sorriderci dal Cielo.
suor Germana Canteri
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Letto per voi
Il superfluo
Rendiamo necessarie mille cose superflue:
esse generano un’infinità di miserie, una perdita di tempo e una vita difficile e tesa… Il
superfluo dei ricchi dovrebbe servire al necessario dei poveri e, invece, il necessario dei
poveri serve al superfluo dei ricchi.
Si racconta che Socrate visitasse spesso il
mercato di Atene e a chi gli chiedeva la ragione di tanto interesse, anche perché non vi acquistava nulla, rispondesse: «Vedo
tutte le cose di cui non ho bisogno e di cui si può fare a meno nella vita». È un
po’ quello che noi chiamiamo “il superfluo”, una realtà sulla quale si fonda invece una buona parte dell’attuale pubblicità. Mi sono imbattuto, al riguardo, in
una suggestiva riflessione di Jean Domat, considerato il più grande giureconsulto francese del Seicento. La propongo nella sua immediatezza perché ci aiuta
a fare almeno due considerazioni. Da un lato, c’è l’efficace rappresentazione
delle cose inutili che accumuliamo (si pensi, solo per fare un esempio, allo
spreco dei medicinali). Il cliente - anzi, il customer, come si usa dire oggi - è
coccolato, assediato e circuito perché si convinca, come scriveva Erich Fromm
nell’Arte di amare, che «la felicità moderna consiste nel guardare le vetrine e
comprare tutto quello che ci si può permettere, in contanti o a rate». D’altro
lato, questo consumismo spesso è un bene sottratto a chi ha la pura e semplice e vera necessità di sopravvivere. Pensiamo all’enorme quantità di pane che
ogni giorno è gettata nella spazzatura e allo sperpero di realtà naturali che permetterebbero a molti di non morire di fame. In questi e altri casi ha ragione
Domat: noi destiniamo il necessario dei poveri alle cupidigie del nostro superfluo.
Gianfranco Ravasi
(da “Avvenire”, 4 maggio 2011)
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Per conoscere don Mazza
Non si può non rimanere ammirati di fronte
all’eclettismo dei suoi interessi: educatore,
imprenditore, confessore, padre, missionario,
amministratore, politico, superiore, cittadino,
prete. Ne risulta una figura di spessore, di
coraggio e di solidità, ma anche di intelligenza,
di apertura di mente e cuore, di fortezza e
pazienza nelle prove.
Appare in tutto il suo rilievo anche la fiducia nella Provvidenza
divina, che cresce con il diminuire della beneficenza veronese a fronte dei bisogni economici crescenti, come pure la sua prudenza nella
scelta dei collaboratori e nel provvedere le sue opere dei mezzi di sussistenza e continuità, oltre che nell’elaborare regole di comportamento organizzativo.
Commuove il drammatico ultimo decennio di vita: la costante preoccupazione di compiere la volontà di Dio e la determinazione nel non
permettere che da essa ci si allontani. Non chiede né elemosine né
risarcimenti, ma amore: il bisogno non fa perdere al Mazza la
libertà-dignità e la coscienza-persuasione del valore dei suoi progetti.
Rino Cona, “Nicola Mazza - Un prete per la Chiesa e la Società”
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