La ricerca della felicità

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La ricerca della felicità
LIBRO
IN ASSAGGIO
LA RICERCA DELLA
FELICITÁ
DI CHRIS GARDNER CON QUINCY TROUPE
Capitolo 1
Caramello
Gli squarci di memoria sulla mia prima infanzia sono come dipinti realizzati da un artista
impressionista, ma un’immagine si staglia nitida sulle altre - e quando la richiamo alla mente è preceduta dall’aroma invitante dello sciroppo d’acero messo a scaldare in un pentolino e dal
gorgoglio dello sciroppo che bolle e si trasforma magicamente in dolcetti caramellati fatti in
casa. Poi lei mi appare, una donna bellissima che sta ai fornelli e fa questa magia solo per
me.
O perlomeno è così che la vedo, da bambino, a tre anni. C’è un altro buon profumo che
accompagna la sua presenza mentre si gira sorridendo nella mia direzione, e si avvicina al
punto in cui mi trovo, nel mezzo della cucina aspettando avidamente di fianco a mia sorella
Ophelia che ha sette anni e a Rufus e Pookie, due degli altri bambini che vivono in questa
casa. Mentre lascia colare dal cucchiaio di legno l’impasto che si sta raffreddando, lo rigira e
lo riduce in pezzetti che mi porta e poggia sulla mia mano tesa, e mi guarda trangugiare
felice il dolcetto gustoso, la sua fragranza meravigliosa è di nuovo là. Non un profumo, niente
di floreale o speziato - è solo un odore pulito, caldo, buono che mi avvolge come il
mantello di Superman, facendomi sentire forte, speciale e amato - anche se ancora non
conosco le parole per esprimere questi concetti.
Anche se non so chi sia, provo un senso di familiarità nei suoi confronti, non solo perché è già
stata lì altre volte e ha preparato i dolcetti in questa stessa maniera, ma anche per come mi
guarda
—
come se mi stesse dicendo con gli occhi: “Ti ricordi di me, vero?”.
A quel punto dell’infanzia, nei primi cinque anni di vita o poco più, la mappa del mio mondo
era rigorosamente divisa in due territori: il familiare e l’ignoto. La zona sicura e felice del
familiare era molto ridotta, spesso solo un puntino che si spostava sulla mappa, mentre
l’ignoto era vasto, tremendo e immobile.
Sapevo, già all’età di tre o quattro anni, che Ophelia era mia sorella maggiore e la mia
migliore amica, e anche che Mr. e Mrs. Robinson, con cui vivevamo, ci trattavano con
gentilezza. Ciò che non sapevo era che i Robinson erano la famiglia a cui eravamo stati
affidati, qualunque cosa questo significasse. La nostra situazione - dove fossero i nostri veri
genitori e perché non vivessimo con loro, o perché certe volte vivessimo con zii e zie e cugini
- era tanto misteriosa quanto quella degli altri bambini in affido che abitavano dai Robinson.
La cosa più importante era avere una sorella che si prendeva cura di me, e Rufus, Pookie e
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gli altri bambini con cui giocare all’aperto e combinare marachelle. Tutto ciò mi era familiare, il
cortile e il resto dell’isolato, era un prato sicuro dove potevamo correre e giocare a prenderci
o a colpire le lattine o a nasconderci, anche quando faceva buio. Ovunque tranne che davanti
alla casa che stava due porte dopo quella dei Robinson.
Ogni volta che passavamo lì davanti dovevo quasi voltarmi dall’altra parte, solo al pensiero
che la vecchia donna bianca che ci abitava potesse apparire improvvisamente e scagliarmi
contro una maledizione diabolica
—
perché, secondo Ophelia e secondo tutti nel vicinato, la
vecchia era una strega. Una volta io e Ophelia passammo insieme vicino alla casa e le
confessai di aver paura; mia sorella allora mi disse: “Io no, non ho paura” e per provarlo
camminò dritto fino al giardinetto davanti alla casa, arraffò le ciliegie sull’albero e le mangiò
con un sorriso. Ma qualche giorno dopo arrivò correndo su per gli scalini della casa dei
Robinson e si precipitò dentro, ansimando e tenendosi il petto da bambina di sette anni;
raccontò che la strega l’aveva sorpresa a rubare le ciliegie e tenendola per un braccio le
aveva urlato con voce stridula: “Verrò a prenderti!”
Nonostante fosse molto spaventata, ben presto decise che dal momento che era scampata a
morte prematura, poteva anche ricominciare a rubare. Però mi fece promettere di evitare la
casa di quella strana donna. “Ora ricorda”, mi avvertì Ophelia, “quando passi di lì, se la vedi
sulla veranda, non guardarla e non dirle nemmeno una parola, anche se lei ti dovesse
chiamare per nome.”
Non c’era bisogno di promettere perché sapevo che niente e nessuno avrebbe mai potuto
spingermi a fare una cosa del genere. Ma ero sempre tormentato da incubi così realistici che
avrei potuto giurare di essermi davvero introdotto in casa sua e di essermi ritrovato nel mezzo
di una stanza buia, accerchiato da un esercito di gatti che si rizzavano sulle zampe posteriori
e mi mostravano i denti e gli artigli. Gli incubi erano così intensi che per un periodo
lunghissimo ebbi una paura e un’antipatia irrazionali per i gatti. Allo stesso tempo, non ero
pienamente convinto che quella vecchia donna fosse davvero una strega. Forse era
semplicemente diversa. Dato che non avevo mai visto nessun’altra persona bianca a parte
lei, mi immaginavo che potessero essere tutti così.
D’altronde mia sorella maggiore era l’unica fonte d’informazione su tutto quel che non
conoscevo, io le credevo e accettavo le sue spiegazioni. Ma quando, con il passare degli
anni, incominciai a mettere insieme frammenti di notizie sulla nostra famiglia, principalmente
da Ophelia e anche da alcuni dei nostri zii e zie, trovai risposte più difficili da comprendere.
in che modo la donna bellissima che veniva a preparare i dolcetti rientrasse nel puzzle
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nessuno me lo disse mai, ma la mia parte più profonda e sensibile sapeva che lei era
importante. Forse perché aveva un’attenzione speciale nei miei confronti, anche se era
affettuosa pure con Ophelia e gli altri bambini, o forse perché mi sembrava che avessimo un
linguaggio segreto per comunicare senza parole. Grazie alle nostre conversazioni mute capii
che vedermi felice la faceva stare bene, e così dentro di me decisi che il mio primo impegno
nella vita sarebbe stato di farla stare bene. Intuitivamente capii anche chi era, a dispetto del
fatto che nessuno me lo disse mai. Durante una delle sue visite infine la riconobbi — mentre la
guardavo ai fornelli e facevo delle considerazioni che sarebbero state confermate negli anni a
venire.
Era più che bella, era meravigliosa, una bellezza di quelle che ti giri a guardarle due volte.
Non alta, circa un metro e sessanta, ma con un portamento nobile che la faceva sembrare più
slanciata, la pelle marrone chiaro ma non troppo
—
quasi del colore dell’ottimo sciroppo
d’acero che mescolava e riscaldava per fare i dolcetti caramellati. Aveva unghie forti,
soprannaturali, in grado di spaccare a metà una mela a mani nude, una cosa che pochi
uomini e donne sono in grado di fare, una cosa che mi aveva sempre molto colpito. Si vestiva
in modo elegante, con abiti di tessuto morbido stampato, color Borgogna — una sciarpa o uno
scialle sulla spalla a darle un aspetto femminile e armonioso. In seguito avrei descritto il suo
stile come afrocentrico, per il colore luminoso e gli strati armoniosi di stoffa.
Ma gli elementi che incarnavano di più la sua bellezza erano gli occhi espressivi e il sorriso
fantastico. Da sempre associo quel sorriso all’apertura di un frigorifero di notte. Tu apri quella
porta – sorriso - e la luce riempie la stanza. Anche nelle nottate a venire quando il frigorifero
non conteneva altro che una lampadina e dell’acqua ghiacciata, il suo sorriso e il ricordo del
suo sorriso erano tutto il conforto di cui avevo bisogno.
Non ricordo precisamente il momento in cui la riconobbi, so solo che capitò in qualche punto
del mio quarto anno di vita, forse dopo aver accettato una caramella, in un istante in cui
finalmente potei rispondere a quel suo sguardo e rassicurarla con il mio: “Certo che mi ricordo
di te. Tu sei la mia mamma”.
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