JAN VERMEER_la Ragazza con orecchino perla
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JAN VERMEER_la Ragazza con orecchino perla
JAN VERMEER: LA “RAGAZZA CON L’ORECCHINO DI PERLA La “Ragazza con l’orecchino di perla” o “Ragazza col turbante” è uno dei più famosi quadri di Jan Vermeer. Pare che l’artista olandese lo abbia dipinto fra il 1665 ed il 1666 (secondo alcune fonti in anni ancora successivi). Dipinto ad olio su tela, misura 44,5 × 39 cm ed è conservato al Mauritshuis dell’Aia. Raffigura una fanciulla volta di tre quarti colpisce in particolar modo l’espressione estatica, assolutamente languida ed ammaliante (secondo alcuni carica anche di un innocente erotismo), dello sguardo della giovane modella: sembra sia stato lo stesso Vermeer a chiedere alla ragazza, posta di fronte alla grande finestra illuminata dalla luce naturale del suo atelier, di voltare il capo più volte lentamente, tenendo socchiuse le labbra per produrre questo effetto. La suggestiva leggenda che circonda questo quadro – e che colora con una punta di sentimentalismo la biografia di un grande pittore del quale si sa tuttora ben poco, e che poco ha lasciato: una trentina di dipinti in tutto e tutti di piccole dimensioni. Un aspetto misterioso e leggendario del dipinto, al pari di quello che lo vorrebbe ricavato da una immagine fotografica (si vuole che Vermeer compisse esperimenti con le prime apparecchiature allo studio per riprodurre immagini). In “La ragazza con l’orecchino di perla”, nessuna linea segue il profilo del naso della ragazza. Il naso è delineato dalla differenza del colore con la guancia. Le linee della parte destra del naso e le narici si perdono in ombre. Anche la parte blu del turbante è stata ridotta a due toni essenziali del blu oltremare. Non vi sono tracce delle pieghe del vestito (che dovevano esserci sicuramente) e il copricapo giallo ocra è reso così sommariamente che nessuno studioso ha cercato di identificare il tipo o il materiale dell’indumento. Queste e altre caratteristiche hanno portato più di uno studioso a credere che Vermeer elaborò questo ritratto utilizzando la camera oscura. ANALISI DEL QUADRO: la “Ragazza con l’orecchino di perla” o anche chiamata “Ragazza col turbante” La Ragazza con l’orecchino di perla o Ragazza col turbante è uno dei più famosi quadri di Jan Vermeer. Pare che l’artista olandese lo abbia dipinto fra il 1665 ed il 1666 (secondo alcune fonti in anni ancora successivi). Dipinto ad olio su tela, misura 44,5 × 39 cm ed è conservato al Mauritshuis dell’Aia. Il dipinto reca la firma del pittore: “IVMeer”. Raffigura una fanciulla volta di tre quarti. Colpisce in particolar modo l’espressione estatica, assolutamente languida ed ammaliante (secondo alcuni carica anche di un innocente erotismo), dello sguardo della giovane modella: sembra sia stato lo stesso Vermeer a chiedere alla ragazza, posta di fronte alla grande finestra illuminata dalla luce naturale del suo atelier, di voltare il capo più volte lentamente, tenendo socchiuse le labbra per produrre questo effetto. Il genere a cui si rifà Vermeer per realizzare quest’opera è il tronie, un genere molto diffuso ai tempi del pittore, che rappresenta un ritratto in costume cioè un quadro in cui i modelli indossano abiti esotici o vestiti che richiamano periodi di storia antica al fine di raffigurare personaggi storici realmente esistiti o personaggi biblici e religiosi( o latra interpretazione: una forma artistica in voga nell’Olanda del Seicento. Sono ritratti che raffigurano il volto di individui convenzionali o di tipi, più che di persone realmente riconoscibili. Venivano usati per decorare le pareti delle abitazioni). Tuttavia in questo quadro la ragazza ritratta e la sua rappresentazione rimangono un mistero. Gli abiti infatti che indossa – un turbante di colore azzurro, una fascia dorata uguale al vestito, l’orecchino di perla opalescente – non suscitano un richiamo iconografico tale da poter identificare un personaggio specifico. Particolare interesse si deve dare al modo in cui viene dipinto l’orecchino, un piccolo gioco di chiaroscuro, che rende la lucentezza dell’oggetto unica. Il tutto con solo una pennellata. La forza espressiva della ragazza, di straordinaria immediatezza, proviene dalla posizione del corpo, girato di tre quarti e dallo sguardo languido perfettamente ricreato da Vermeer. Osservando l’opera nel dettaglio non si può non rimanere rapiti dal volto della giovane che trasmette con i suoi occhi una delicata sensualità ed una lucentezza pari a quella della perla che indossa; il viso leggermente inclinato e volto di tre quarti e le labbra socchiuse , rese dal pittore volutamente lucide ed invitanti, conferiscono alla giovane una sensualità unica. Ogni particolare diventa un corollario rispetto alla lucentezza sprigionata dal suo volto. Lo sfondo nero del quadro esalta i colori degli abiti e dell’incarnato. Sia il trattamento dell’azzurro del turbante che la luminosità degli occhi e il riflesso della luce sull’abito dimostrano un sapiente utilizzo dei colori e delle trasparenze. Sono da osservare con attenzione il sapiente utilizzo della luce e le sfumature dei toni e dei colori nel passaggio da un contesto cromatico all’ altro. Il virtuosismo pittorico è evidente. Dalla delicata fusione nel passaggio tra chiaro e scuro ai piccoli riflessi di luce negli occhi della ragazza, sul labbro inferiore e nell’angolo della bocca dove solo un paio di tocchi rosa sovrapposti producono un effetto straordinario. L’ispirazione di Vermeer per soggetto, posa e abbigliamento potrebbe essere arrivata dall’opera del pittore Michael Sweerts (1618-1664), le cui tele conosceva bene. Tra il 1655 e il 1660 Sweerts dipinse molte figure a mezzo busto con profili intensamente illuminati. E poi c’è quell’orecchino di perla, enorme, che raccoglie la luce, e che stona per la sua opulenza con il turbante che invece rimanda ad umili origini, enfatizzando simbolicamente (turbante/orecchino) la contraddittorietà dei sentimenti che la ragazza con il turbante prova nei confronti di Vermeer. Il dipinto , oltre ad un indiscusso fascino, lascia trasparire un significato più profondo voluto dallo stesso artista: Vermeer, solito raffigurare il corpo nella sua completezza prima di quest’opera, rappresenta qui l’intimità dell’anima della fanciulla, un’intimità data dall’intensità dello sguardo e dalla forza che lo stesso sprigiona in chi la osserva. In questo dipinto di Vermeer, non c’è il trionfo del corpo ma quello dell’anima attraverso l’espressione di sentimenti profondi tramite il volto particolarmente espressivo. C’è l’umiltà ma anche la fierezza di un amore sofferto (per Vermeer?), che supera con la sua forza e la consapevolezza di essere ricambiato, i limiti della sua condizione sociale, con un misto contraddittorio di umile assoggettamento e ribellione. Il pittore esprime sulla tela il suo conflitto interiore: la “battaglia” dei sentimenti che invadeva la sua anima, una nitida rappresentazione di un amore impossibile e al contempo inevitabilmente presente. L’opera la ragazza con l’orecchino o la ragazza con il turbante di Vermeer è una delle più belle espressioni della determinazione della donna nello sfidare tutte le convenzioni dell'epoca e della condizione sociale senza però perdere la femminilità della sua anima. ALL’ASTA del 1881 viene messa all’incanto la collezione di un certo Braams. Il quadro viene acquistato da Arnoldus des Tombe su consiglio dell’amico e storico d’arte Victor de Stuers: viene pagato incredibilmente solo due fiorini e trenta centesimi. Alla morte del proprietario del dipinto nel 1902, Arnoldus des Tombe, si scoprì che il collezionista aveva in segreto lasciato al museo Mauritshuis de L’Aia dodici dipinti fra i quali anche la Ragazza. Da allora il quadro è sempre rimasto in quelle sale. La riscoperta di Vermeer avviene nel 1995-1996 in occasione della retrospettiva allestita al Mauritshuis e alla National Gallery of Art di Washington. Ma già a partire dalla fine dell’Ottocento critici e storici dell’arte iniziano ad elogiare il valore del quadro. La suggestiva leggenda che circonda questo quadro – e che colora con una punta di sentimentalismo la biografia di un grande pittore del quale si sa tuttora ben poco, e che poco ha lasciato: una trentina di dipinti in tutto e tutti di piccole dimensioni – è stata rievocata per la letteratura nel 1986 dal libro “La ragazza col turbante” (tradotto in nove lingue) della scrittrice Marta Morazzoni e poi anche nel 2003 per il cinema da un film dal titolo La ragazza con l’orecchino di perla, interpretato dall’attrice Scarlett Johansson ed ispirato al romanzo omonimo del 1999 della scrittrice Tracy Chevalier. L’orecchino con perla del quadro, che cattura quasi da solo la centralità della luce di cui è pervaso il dipinto, è di grandi dimensioni e a forma di goccia. Sebbene la ragazza che lo indossa appaia di modeste condizioni, tale monile era al tempo di Vermeer prerogativa delle dame aristocratiche dell’alta borghesia. La perla è disegnata utilizzando solo due pennellate a forma di goccia separate l’una dall’altra: è l’occhio umano che ha l’illusione di vedere l’intera perla. Nel XVII secolo le perle erano una preziosa rarità: venivano importate dall’estremo oriente. Nel caso della perla raffigurata nel dipinto, si tratta di un esemplare di grandi dimensioni che, a parere di alcuni studiosi, in natura non esisterebbe. CENNI BIOGRAFICI: Jan Vermeer Johannes Vermeer o Jan Vermeer, nato a Delft in Olanda il 31 ottobre 1632, deceduto a Delft, il 15 luglio 1675 ha creato alcuni dei dipinti più raffinati dell’arte occidentale. Ha vissuto e lavorato a Delft per tutta la vita e di lui si conoscono solo 35 o 36 dipinti, la maggior parte figure in interni. Le sue opere sono ammirate per la sensibilità con la quale ha reso gli effetti di luce e di colore e per la qualità poetica della sua immagini. Ossessionato fino alla forzatura figurativa dall’idea di conquistare la dimensione della profondità, per lo studio della prospettiva quasi certamente usò la camera ottica per definire le immagini che poi riproduceva sulla tela. Lo strumento aveva come scopo primario quello di ingrandire i dettagli dello sfondo, più o meno come la lente grandangolare di una macchina fotografica. Un gran numero di studi hanno approfondito l’argomento e, sebbene la maggior parte concordino nel dire che Vermeer ha effettivamente utilizzato una camera oscura, si deve ancora stabilire con esattezza in quale misura lo abbia fatto. In genere i problemi di prospettiva erano risolti dai pittori con disegni preparatori, che però Vermeer non ha lasciato, mentre su 13 dei suoi quadri è presente nel punto ottico di sparizione un foro di spillo, in cui certamente aveva inserito un perno al quale era fissata una stringa con cui aiutarsi a tracciare le linee rette convergenti. In altre opere invece ha usato la camera ottica, come si nota essenzialmente nella disparità di proporzioni fra primo e secondo piano e nella resa brillante e puntinista del colore, nel punto dove l’immagine va fuori fuoco. Inoltre la camera ottica permetteva di “incorniciare” la scena, trasformando l’immagine da tridimensionale in bidimensionale, con un grande aiuto per la composizione, come si nota dai molti ripensamenti che Vermeer ha avuto nel posizionamento degli oggetti in una precisa organizzazione spaziale che segue stretti rapporti geometrici dominati da linee verticali, orizzontali e angoli retti. Altro vantaggio offerto dalla camera ottica è che, limitando la luminosità naturale, riduce il numero dei valori tonali, mentre l’occhio umano, simile alle attuali macchine fotografiche con controllo automatico della luminosità, si adegua quasi istantaneamente alle differenti situazioni di illuminazione, quindi ha una maggior precisione visiva ma impedisce di vedere i valori relativi delle tonalità necessari invece al pittore. Philip Steadman, che insegna all’University College di Londra, è l’autore di un saggio in cui sostiene che i dipinti dell’artista olandese contengono riproduzioni perfette di oggetti di arredamento, sedie con schienali intagliati, quadri, mattonelle, strumenti musicali, persino le travi del soffitto. In sei dipinti viene rappresentata la stessa stanza (probabilmente il suo studio) vista da angolazioni diverse e tutti sono stati eseguiti su tele della stessa dimensione. Perchè? Secondo Steadman l’artista avrebbe ricalcato immagini create nelle camera oscura. Wakter Liedtke, del Metropolitan Museum, anch’egli esperto di Vermeer, ha dissentito. Pur non contestando un ipotetico interesse dell’artista circa gli effetti della camera oscura, sostiene che le stanze dipinte da Vermeer erano frutto di “pura invenzione”. Non ci sono prove documentali a sostegno dell’ idea che Vermeer abbia utilizzato la camera oscura. L’unica fonte di informazioni sono i dipinti stessi. Nel 1891 Joseph Pennell, litografo e incisore americano, fu il primo a supporre che Vermeer avesse impiegato un dispositivo ottico come un aiuto al suo lavoro. Da allora una serie di storici dell’arte hanno perseguito questa idea. Charles Seymour ha verificato l’ipotesi che Vermeer avrebbe potuto essere guidato dalle immagini che vedeva in una camera oscura. Osservando oggetti simili in condizioni di luce analoghe a quelle che si trovano nella pittura di Vermeer attraverso una vera macchina fotografica del XIX secolo, Seymour ha scoperto che l’immagine risultante mostra qualità molto simili a quelle osservate nei dipinti di Vermeer. Ci sono essenzialmente cinque caratteristiche dei dipinti di Vermeer che suggeriscono l’uso di una camera oscura: prospettive, rendering tonale, la composizione, la manipolazione della luce e alcuni effetti particolari prodotti unicamente dalla camera oscura. I limiti tecnici delle camere oscure dell’epoca sono proprio quelli che possono aver contribuito ad alcuni degli effetti che colpiscono nei dipinti di Vermeer. Nonostante la loro precisione sorprendente, le lenti del XVII secolo non avevano messa a fuoco precisa per l’intera profondità di campo. Come gli oggetti attraverso la camera oscura, le forme di Vermeer sono definite dalla contrastanti aree di colore chiaro e scuro, piuttosto che dai contorni netti. Questi contorni chiari, lisci, morbidi spesso producono l’astrazione geometrica, del tipo visto in questo quadro. Qui la forma della testa è concepita in ampie aree di luce e buio, separate da bordi dolcemente arrotondati. Circa 50 anni fa Gowing osservando una fotografia a raggi-x del quadro sostenne che probabilmente costituiva una prova dell’utilizzo della camera oscura. Queste immagini rivelano la presenza di piombo, che era la componente principale del pigmento bianco usato dai pittori al tempo di Vermeer. Gowing ritenne che le aree bianche dell’immagine corrispondessero alla fase di sfondo e fossero una trascrizione diretta dell’incidenza della luce sullo schermo della camera oscura. Particolarmente suggestiva l’immagine prodotta dalla camera oscura è il punto culminante perfettamente sferico: l’orecchino di perla, che è stato modificato nella versione finale. Lo stesso si può dire della luce fioca dell’occhio destro. Gowing ritiene che in una fase successiva di finitura l’artista abbia provveduto a mediare tra obiettività e convenzione. L’ipotesi di Gowing è stata recentemente confermata in uno studio approfondito di Phillip Steadman. La composizione ha svolto un ruolo fondamentale nella pittura di Vermeer. Attraverso la manipolazione degli elementi compositivi l’artista è stato in grado di trasmettere un senso di profondità, ordine e atemporalità in fugaci momenti di vita quotidiana. Si può capire quanto sia importante la composizione nella sua pittura esaminando le numerose modifiche che ha fatto durante la lavorazione. Ha cambiato posizioni di testa, braccia e dita per creare il gesto più elegante e fluido, i bordi delle mappe sono stati spostati per aumentare la stabilità della composizione. Oltre ad offrire interessanti effetti pittorici, la camera oscura è un comodo strumento di composizione, suggerendo nuovi modi per inquadrare una scena e la loro traduzione automatica di un accordo complesso in uno spazio tridimensionale in una immagine bidimensionale.” L’effetto che i cambiamenti nella posizione dei vari oggetti sulla composizione può essere immediatamente misurato sullo schermo della camera. Non vi può essere alcun dubbio sul fatto che Vermeer possedeva uno dei sensi più inquietanti di composizione nella storia dell’arte occidentale, probabilmente dovuto in gran parte alla camera oscura per la facilità e la precisione con cui avrebbe potuto sperimentare con numerose soluzioni. Un altro vantaggio molto importante della camera oscura è che restringe la vasta gamma di luminosità che si trovano in natura, riducendole ad un numero più limitato di valori tonali riproducibili da pigmenti del pittore. Il tono è la leggerezza relativa o l’oscurità di un colore, non è sempre di facile valutazione ad occhio nudo ed è sempre stato un problema quando i pittori hanno voluto rappresentare varie condizioni di luce in modo convincente. Questo ha due spiegazioni: la prima è che la mente tende a compensare le diversità dei valori tonali per un riconoscimento migliore. Per esempio, se si osserva a occhio nudo un fazzoletto bianco candido in pieno giorno, appare ovviamente bianco. Il fazzoletto stesso osservato sotto l’ombra profonda di un albero appare comunque bianco. Per il riconoscimento il fazzoletto bianco deve rimanere bianco per la mente, sia che si tratti di luce viva od opaca. Il pittore, tuttavia, al fine di distinguere le due condizioni di luce all’interno della stessa immagine deve dipingere il fazzoletto prima con puro pigmento bianco, mentre il secondo deve essere dipinto con una delle infinite sfumature di grigio, per esempio, la miscela di bianco, nero e un po’ di terra d’ombra, una miscela molto comune utilizzata al tempo di Vermeer per scurire il bianco. La seconda spiegazione è che l’occhio umano, simile a una telecamera moderna con controllo automatico, quasi istantaneamente si adatta a diverse situazioni di illuminazione consentendo di valutare con maggiore precisione ciò che stiamo osservando in questo momento. Questo impedisce di vedere i valori relativi del tono, che sono necessari al pittore. Invece, la camera oscura, rappresenta le varie tonalità di toni scuri e la luce nelle immediate vicinanze in modo che possono facilmente essere paragonati uno contro l’altro. La corretta valutazione del tono della pittura di Vermeer è uno dei modi meno evidenti, ma più convincente per rappresentare le varie condizioni di luce. L’ossessione di Vermeer per la luce, i valori tonali, l’ombra e colore (ragioni per cui il suo lavoro è così ammirato) è strettamente legata al suo studio delle speciali qualità delle immagini ottiche. Parere confermato da Lawrence Gowing autore di una delle interpretazioni più sottili del lavoro del pittore. Gowing segue l’opinione generale che Vermeer abbia fatto uso della camera oscura ma, a differenza di altri critici, sostiene che lo abbia fatto come ricerca al servizio del suo stile. Vermeer sembra aver usato la camera oscura come una ‘macchina per la composizione.’ Questa tecnica gli ha facilitato la perfetta illusione prospettica della profondità. C’è stato un effetto di planarità della superficie, che ha creato , ad esempio, con i pavimenti strutturati a mosaico o intarsio. La camera oscura era ben nota ai tempi di Vermeer. Constantijn Huygens, una figura di spicco dell’arte contemporanea olandese, che ebbe contatti con alcuni dei più importanti pittori olandesi del tempo, nel 1662 acquistò una camera oscura a Londra e scrisse: “Produce effetti mirabili, riflettendo su un muro in una stanza buia. Non posso descrivere la sua bellezza a parole, ma tutta la pittura al suo cospetto sembra morta….” Huygens portò la camera oscura nei Paesi Bassi, dove si sa ne raccomandò l’uso a diversi pittori che si meravigliarono per il senso di realtà reso dalle immagini della camera oscura, che proprio per questo era chiamata “dipinto veramente naturale”. Samuel van Hoogstraten, pittore olandese e Constantijn Huygens teorico dell’arte, spesso associato con il lavoro di Vermeer, ne furono entusiasti. Si pensa che Vermeer possa aver sviluppato il suo interesse per l’ottica grazie ai contatti con il pittore Carl Fabritius, che si trasferì a Delft nel 1650, oppure con il suo amico Samuel van Hoogstraten di Dortrecht. Entrambi furono affascinati dai tromp-l’oeil e dall’illusione prospettica. A Delft, la visione, lo sviluppo e la disponibilità di questi strumenti erano facilitati dalla passione di Anthonie van Leeuwenhoek, un ricercatore operoso oggi meglio conosciuto per la sua scoperta di micro-organismi attraverso il microscopio, che come vedremo più avanti fu suo amico ed esecutore testamentario. Che camera oscura poteva usare ? Vermeer poteva utilizzare due tipi di camere oscure: quella a cabina o quella portatile. La prima, dotata di specchi di grandi dimensioni con un posto a sedere all’interno. Aveva il vantaggio dello spazio ermeticamente chiuso dove solo la luce filtrata attraverso il diaframma poteva entrare nella cabina in maniera tale che l’immagine fosse particolarmente pulita e brillante. La seconda, più maneggevole, era facilmente trasportabile, l’immagine però era più piccola e meno definita a causa della luce ambientale. Nessuno dei due tipi di camere oscure sono stati trovati nell’inventario delle proprietà di Vermeer alla sua morte. Tuttavia la costruzione e, quindi, anche lo lo smontaggio di entrambi i tipi era molto semplice e l’unico pezzo che necessitava dell’intervento di un esperto era l’obiettivo. Ma a Delft Vermeer poteva contare su Anthonie van Leeuwenhoek noto per la sua competenza in lenti e di ottica. Esperto in microscopi, scoprì i batteri, gli spermatozoi e i globuli rossi dei pesci; non fu solo un grande amico del pittore, al punto di essere il suo esecutore testamentario, ma posò per almeno due quadri: nel “Geografo” e nell'”Astronomo”, due dei capolavori di Vermeer… Sebbene nessuna delle considerazioni di cui sopra può dimostrare che Vermeer abbia utilizzato la camera oscura, la loro presenza combinata ha convinto gli studiosi moderni che sia stata effettivamente un elemento centrale nel metodo di lavoro di Vermeer. Un uso sistematico della camera oscura non è in contraddizione, ma piuttosto in linea con la base fondamentale con l’intento artistico di gran parte della sua opera. In un’intervista Robert Huerta, autore dei “Giganti di Delft: Johannes Vermeer e filosofi naturali: la ricerca parallela della conoscenza durante l’epoca delle scoperte”, fornisce una considerazione molto interessante: “Concentrare il dibattito sul fatto che Vermeer abbia usato, o meno, la camera oscura non serve è molto più proficuo concentrarsi sulle modalità di utilizzo di Vermeer di tale strumento. L’uso di queste appendici strumentali, infatti, non è in contrasto con la sua arte, ma piuttosto ci permette, se indaghiamo su come vennero usate, di comprendere meglio la natura della sua creatività”. FILM CINEMATOGRAFICO “La ragazza con l’orecchino di perla” “La ragazza con l’orecchino di perla” è stata rievocata nel 2003 per il cinema con un film dal titolo omonimo: “La ragazza con l’orecchino di perla”diretto da Peter Webber. Interpretato dall’attrice Scarlett Johansson ed ispirato al romanzo omonimo della scrittrice Tracy Chevalier. La bellissima attrice americana Scarlett Johansson interpreta la parte di Griet, la servetta del pittore che poi diviene modella e “complice” del maestro. Si sa davvero poco del pittore olandese Jan Vermeer. Ma, paradossalmente, proprio il mistero che aleggia attorno a questo grande maestro ha fatto sì che il film che lo vede protagonista, risulti intenso e madido di certe impalpabili ma vibranti atmosfere che molto difficilmente sarebbero affiorate da una maggiore conoscenza biografica dell’artista. Uno dei rari casi, insomma, in cui l’inconoscibile diviene ricca fonte di ispirazione. Un’ispirazione che in questo caso non poteva che rifarsi all’opera stessa dell’artista. Al suo mondo di luci radenti, di toni caldi e freddi che, assieme, si colgono e si raccolgono entro immagini di vita quotidiana e borghese, le quali probabilmente sono state il fulcro non solo artistico di un pittore poco incline ad allontanarsi dalle mura di casa.