Una contea della notte

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Una contea della notte
Massimo Monsagrati
Riccardo Paolo Uguccioni
UNA CONTEA DELLA NOTTE
Edizioni del Resto
MASSIMO MONSAGRATI
RICCARDO PAOLO UGUCCIONI
Nati nel 1948, pesaresi entrambi, l’uno di adozione, l’altro di nascita, hanno frequentato il Liceo Classico cittadino e in Urbino si sono
laureati. Dopo un breve periodo di lavoro in Alta Italia, sono tornati
a Pesaro ove lavorano e risiedono.
Copertina:
foto di Daniele Contini
grafica di Camilo Rocca - Studio Aliante
Una contea della notte di Massimo Monsagrati e Riccardo Paolo Uguccioni,
Pesaro 2007, è un’opera distribuita su Il Resto della Pesaresità:
http://restodellapesaresita.splinder.com
Fonte: Una contea della notte, edizione di Pucelle - editori in Pesaro, stampata
nell’ottobre del 1983 dalla Tipografia Nobili a Pesaro.
Quest’opera è stata rilasciata sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://
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CAPITOLO I
L’ultima sera d’estate del 1977, nell’imminenza del poker notturno, il professor Stefano Tis ancora una volta percorse il viale che
conduceva al porto. Come non accorgersi che quasi suo malgrado
stava prolungando l’uscita serale consueta per prendere congedo
dalla fuggente stagione? Alle otto non c’era più nessuno in giro, il
mare risuonava come nell’Iliade e il vento aveva per tutto il giorno portato sabbia fin sull’asfalto, oltre i marciapiedi. Camminando,
la sabbia cedeva piacevolmente, ancora inconsistente. Ma le lunghe
strisce gialle sulla strada, disposte dal vento in forma di minuscole
dune, parevano l’avanguardia di un avanzante deserto in una città
finalmente abbandonata.
In fondo al viale, i moli senza gente davano sensazione di umidità e solitudine. In fretta era scomparso il Luna Park con le sue
rimediate attrazioni, le carrozze con cavi grandi e piccoli e le lampadine sospese sugli ingressi.
C’erano già state altre sere percosse dai primi acquazzoni per
fare il grande poker che precedeva da almeno dieci anni l’inizio della
scuola: ma questa sera di settembre, sul limitare incombente della
cortina dell’anno scolastico, era davvero l’eletta, che avrebbe dato
al perdere o al vincere quella specie di malinconia che riempie ogni
cerimonia e ne costituisce la più segreta verità.
Per uno che di mestiere stia a scuola, l’anno non comincia mai
il 1° gennaio, sarebbe ridicolo. Non è tra il clamore e i balli e i botti
e lo spumante che uno sente finire qualcosa e, bene o male, è costretto a guardare davanti. L’anno comincia invece quando una mattina
si entra fra altri clamori e turbinii di ragazzini. Il 1° d’ottobre, una
volta. Adesso a settembre, con quel poco di sole in più a confondere
inutilmente le idee. Sulle pareti ci sono ancora i pessimi disegni dei
licenziati dell’anno prima, le colleghe si raccontano inezie con esagerata allegria, molti sono cambiati, assai presente la sensazione del
tempo che fugge senza curarsi di noi.
Così, la sera della vigilia, c’è il poker notturno in cui si pren
dono in giro e si confortano, con qualche asprezza, i superstiti di
vasta compagnia d’amici. Il professor Mauro Londei, amico e intimo di Tis anche nella certezza di un mestiere sbagliato; l’avvocato Giancarlo Cassiani, che parla di donne inguaribilmente; il dottor
Giampaoli, direttore dell’Archivio di Stato; il bancario Aiello, che
in genere vince. Donne nessuna: non sanno mai chi ha aperto e non
capiscono il meccanismo di quelle scale reali che peraltro nessuno
ha mai visto. Negli anni passati giravano per casa la moglie di Tis,
spedita poi alle nove con la cugina in un qualsiasi cinema, d’autorità,
e il figlio, messo a letto con abbastanza malagrazia. Ma costei non
c’è, quest’anno, perché mesi fa se ne andò a Urbino dalla madre con
le pendenze legali che sarebbero state regolate poi.
Anche per questo Stefano Tis cammina da solo sul lungomare
e ogni tanto calcia nella sabbia.
Il poker è un’imitazione della vita: persino il colore delle sue
carte, il rosso e il nero, è esemplificazione del vivere, della legge
dei contrasti, della luce e dell’ombra. Nessun giocatore appassionato
dice che il poker è solo un gioco di carte. Gioco sì, anche. Ma proprio
come la vita, la quale obbedisce a sue regole e invisibili tracciati proprio quando a noi pare di dominarla. Nelle carte c’è tutto: la potenza
del denaro, l’inganno punito e quello premiato, il debole che cede, i
giri della sorte. E poi c’è la Dama di Picche.
Il vero giocatore, cioè colui che perde, la conosce bene: è la
carta che annuncia il prevalere del destino sulla fortuna e sulla matematica del gioco. Tis, cercando rivincita su un piatto ricco con in
mano assi e dieci, si vide salire dal mazzo la nera regina. Così, all’improvviso, senza ragione e senza che gli altri se ne accorgessero,
egli si rabbuiò e riconobbe nella carta vaghi presagi.
Verso la mezzanotte fu evidente che l’estate era finita: dalla
finestra l’aria soffiava decisa e fresca, e una sfumatura di preoccupazione per l’ora passò nella mente di Tis: alzarsi domattina, per la
scuola: se si finiva molto tardi meglio non andare a letto per niente:
meglio guardare l’alba facendo il caffè, sentirsi in un quadro di smo-
bilitata Costa Azzurra. Con la scuola, dall’indomani, il sole si sarebbe fatto sempre meno invadente e avrebbe illuminato le colleghe in
mezza stagione, il primo consiglio dei docenti tra urla, risse, barzellette, il preside depresso e immerso nei suoi conteggi di aspettative e
riscatti per fuggirsene prima.
Tis perse da mezzanotte alle due. Solo chi cade, dicono i film,
può risorgere. Ma è assai meglio ignorare cosa ci sia in fondo alla
caduta che provare il dubbio privilegio di risalire. E a poker ogni
resurrezione è sempre incrinata dalla precarietà. Sebbene, l’idea di
aver accumulato con debiti e carte disgraziate credito verso la fortuna, provochi quella febbre che spinge il vero giocatore, cioè ancora
il perdente, verso la rovina e il buio. Non abbiamo detto che il poker
è un’imitazione della vita?
Tis continuò a perdere.
Gli servivano un 7 o un 10. Le mani tentarono il mazzetto e,
piano piano, ancora uscì il segno della Dama di Picche. Ancora? Che
vuole dirgli? Il gioco è perso. Tis passa. “Fate due mani senza di me”
dice, e esce dalla stanza. La casa è immersa nel buio. Di là l’avvocato
Cassiani parla delle studentesse di Urbino. Fra i piedi di Tis si struscia l’onnipotente gatto nero. Con opportunità, nessuno gli ha chiesto
notizie della moglie, neanche Londei che sa tutto, anche i particolari,
ed è uomo di sensibilità e gusto malgrado la fisima di vestire come
un ragazzino. Entra nella camera del bambino. Tutto sembra uguale,
ma la copertina a fiori copre il nudo materasso e quella stanza è buia
da mesi. Sul lettino, l’orso di pezza senza un occhio guarda Tis con
disapprovazione. “Hai ragione” dice Tis all’orso “che uomo sono?”
Torna di là.
Nel corso di perdute sere, uomini e padroni di regni felici persero fra le palme fortune del petrolio, ville, eredità, i gioielli della
mamma, parchi secolari, ferriere. Nei saloni pieni di specchi si rifletterono nobili, donne perdute, ufficiali che rubarono la cassa del
reggimento, orientali pieni di languori e vizio. Il perdere e ancora
perdere avvicina il semplice all’uomo famoso, si ha la sensazione di
vivere sotto lune fatali e i viali del parco di notte, nella disperazione,
chi li dimenticherà? Chi perde conosce il peccato, l’unica vera forma
di piacere concessa agli uomini: questo sa Tis, che a una settimana
dal prossimo stipendio non ha più un soldo. Ha sempre ricordato con
orgoglio le sue sere sfortunate, alcune sono entrate nella leggenda.
Ma questa non gli piace. Un possibile avvilente progetto gli torna a
mente. Un lavoretto, un lavoro che non ha voglia di fare. Certo, bisognerà parlarne mentre girano le carte.
“Quanto pagano una tesi?” chiese Tis.
“Due carte” disse Londei.
“Quattromila.”
“Passo.”
“Che tesi?” chiese Giampaoli raccogliendo il mazzo.
“Una tesi sull’agricoltura nel Pesarese. Alle soglie dell’Unità.”
“Tre, quattrocentomila” provò Londei.
“Dipende” disse Giampaoli che all’Archivio era tormentato da
studenti che facevano tesi locali.
“Mi avete rapinato più di cinquantamila lire” spiegò Tis.
“Invito di cinquecento. Qualcuno fa il buio?” Il bancario Aiello
disse di no. Le carte fischiarono sopra il tappeto e Tis vide una pattuglia di facce e numeri in una confusione senza speranza.
“Verrai all’archivio?” chiese Giampaoli.
“Per forza.”
“Apri?”
“Guai se aprissi!” disse Tis. Altri giocarono e vinsero.
“C’è ancora l’uso di esigere una tesi dagli studenti?” intervenne
Aiello.
“Sì” disse Tis “è rimasto questo strano uso.”
“Credevo che la laurea venisse attribuita d’ufficio al ventiduesimo anno” disse Aiello. “Mille per giocare.”
“Ci sto.”
“Va bene. Forse ci arriveremo fra poco” disse Tis.
“Sei un provocatore” intervenne l’avvocato Cassiani che si teneva per progressista. “Chi ha aperto?”
“Chiamo tre giri” disse Tis.
“Uno” si oppose Cassiani “tanto non ti rifai.”
“Tre.”
La mano seguente e la successiva nessuno aprì, il piatto crebbe
e la fine si allontanò ancora un po’.
“Allora chi è che vuole la tesi?”
“Non so molto” disse Tis, “uno che può, mi telefona, dice che
devo dargli una traccia, un’ idea...”
“Figurati, una traccia” disse Giampaoli, “sarà già molto se non
vuole anche il titolo.”
“Si apre ai re.”
“No.”
“Passo.”
“Tremila” disse Aiello.
Perché non ho niente? pensò Tis. Guardò due miserabili coppie
svestite che aveva in mano, otto e dieci. Perso per perso.
“Ci sto” disse con sicurezza solo apparente.
“Anch’io” si aggiunse Londei.
Giampaoli passò, Cassiani anche, che andò alla finestra e con
le spalle al buio della notte guardò il gioco.
“È un bel piatto” sentenziò.
“Una” chiese Aiello.
“Una” chiese Tis. Ha una doppia - pensò - e sono fregato anche
se non fa full. Forse va a scala e ha scartato la coppia. Oppure ha un
tris e lo maschera. Mise la carta tra le altre, senza guardarla. Londei
ne chiese due, le aprì svelto, richiuse le mani e si guardò in giro. Era
chiaro che non aveva niente.
“Che piatto” ripeté Cassiani.
“Cip” disse Aiello.
“Tempo” chiese “tempo al rilancio.”
Guardò le carte lentamente e vide tre otto in fila: aveva full.
Forse Dio c’è e ascolta anche i professori. Prima che ci potesse riflettere udì la propria voce.
“Sì, cip.”
“Tremila” disse Londei provandoci, con le carte strette nel
pugno.
“Fino a cinquemila” ribatté Aiello.
“Cinque più cinque” fece Tis.
Il cuore gli batté a lungo destando echi, come il vento che soffia sugli abissi della terra. Cassiani si avvicinò. Se Tis avesse perduto anche con il full, la malinconia sarebbe divenuta angoscia. Ma
registrò il fresco della notte, il “passo, diomadonna” di Londei e il
rilancio di Aiello che non veniva.
“Una carta, vero?” chiese Aiello che lo sapeva benissimo.
“Una” rispose per Tis, Giampaoli.
“Vedo le dieci” disse Aiello.
Tis abbassò le carte e vide Aiello posare le sue e spingere i
lucidi gettoni verso il centro.
“Conta” si arrese Aiello “buono il full.”
Alle quattro il gioco finì e malgrado quel piatto Tis doveva ancora quarantamila agli altri e non le avrebbe trovate che da Londei.
“Fra quattro ore a scuola” gli disse chiedendogli i soldi e garantendo per il ventisette. Londei andò ad aprire il frigo.
“Mi andrebbero due spaghetti.” Poi vide che non c’era niente.
“Un po’ d’aglio e un po’ di pepe, l’olio...” provò Aiello.
“Sì, una cosa semplice” ripeté Londei “due spaghetti.”
Ma Cassiani scrutava nella notte e disse di no. Londei insisteva.
“Sembri Craxi” gli disse Cassiani. Londei smise di insistere.
Anche Aiello ammise che era tardi.
“Mi sa che ci vedremo all’archivio” disse Tis.
“Quando?” chiese Giampaoli.
“Prima è, meglio è: prima comincia e prima finisce. Non ho
una lira.”
“Prima i soldi” gli raccomandò Giampaoli, “prima i soldi, poi
la tesi.”
Londei gli strinse la spalla, e, nel frattempo Cassiani era uscito
con l’elenco del telefono, un quadretto con casa cipressi e lago, forchette, un coltello. Li lasciò per le scale e se ne andò rumorosamente,
invano ripreso dagli altri, più civili.
“Deficiente!” gli urlò dietro Tis. Raccolse e portò in cucina le
forchette, ma anche il quadro e l’elenco del telefono che mise sul
lavandino senza capire dove fosse la stonatura. Dalla poltrona del
salotto buono, che la moglie aveva tenuto sempre chiuso, accese la
radio e Glenn Miller gli fece sognare l’America con le sue pianure. Il
gatto gli salì sulle gambe.
Quando riaprì gli occhi andò in cucina e finalmente si accorse
del quadro sul lavandino. Lo portò di là e maledisse Cassiani perché
il chiodo che lo reggeva era sparito, mise l’elenco sotto il telefono,
tornò in cucina.
Con forte sensazione di giovinezza e di vizio bevve il caffè
guardando l’alba che cominciava a sbiancare il mondo.
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CAPITOLO II
Il bello della scuola, quando comincia, è che in genere finisce
presto. Ulula nel corridoio il professore incaricato di sostituzioni,
minacciando il primo certificato. Mestamente si duole il preside, e
prende Tis per il braccio chiedendo novità sul pensionamento.
“La mia disgrazia è di non aver fatto la guerra” spiega a Tis
“non ho avuto i sette anni di ex-combattente. Che vuol farci? Avevo
una gamba più corta dell’altra...”
Nel corridoio fuggono i ragazzini, il bidello indica nervoso a
Tis la classe II C.
Ha gli occhi fuori della testa per la notte in bianco. Manca il
professor Boni che vuole i murales, perché è in permesso sindacale:
di questo si allieta il preside che molto lo teme e volentieri farà le sue
ore sperando che non torni più. Ma Boni tornerà.
Arriva Londei che è in ritardo, elegantissimo con foulard di
seta. Le colleghe escono dalle classi per applaudirlo.
“Mi devi quarantamila lire” ricorda benevolo a Tis passando
con aria allegra “sono in ritardo, vero? Mica vorrai arrivare presto il
primo giorno, tanto è tutto un casino...”
“Anima felice” gli dice Tis che invidia il suo aspetto losco. Fra
un anno suo figlio andrà a scuola e Tis ricorda le sue gambette sporche con furibondo amore.
Nel clamore e negli stridii dei banchi spostati passano due ore.
Ogni anno i bidelli mettono i banchi in fila e in un quarto d’ora comincia il gran galoppo: tutti in cerchio, due mezzelune, un anfiteatro,
a mucchi sparsi, a cellula, a banco di tribunale. Stridono i legni sul
pavimento, navigano le cattedre come atomi nel caos e sul volto della
vecchia bidella è ferma la maschera di chi ha visto tanta vita passare
e tanto rumore perdersi nel nulla della Storia: coi fiori nei capelli lei
applaudì gli Americani che arrivavano sui carri armati, passerà anche
questa.
Alle dieci e mezza la scuola si vuota: sbattono le porte, la polvere di gesso, come cento anni fa, danza nei raggi di sole delle classi
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deserte. Mentre Tis è un monumento funebre sulla cattedra, entra
Londei.
“Che fai qui? Indovina cosa mi ha detto un ragazzino.”
“Che ti ha detto?” chiede stancamente Tis.
“Professore, con quel che la pagano dove trova tanta voglia di
lavorare?”
“Un vero italiano” dice Tis.
“Ti offro l’aperitivo.”
“No. Devo passare in archivio per la tesi...”
“Ma no, andiamo in piazza. E poi non so come spendere i tuoi
soldi.”
Come due angeli, Tis e Londei escono incontro al sole di settembre.
Nella piazza batteva, come è ovvio, lo stesso sole che aveva
turbato le polveri della scuola. Tis e Londei vi pervennero nel brulichio di studenti a spasso e massaie con la borsa, tutti partecipi di
quell’incertezza del destino che coglie la gente a un’ora assurda come
le undici. Il destino delle undici è il più possibilista di tutti; si è fuori
casa, si farebbe a tempo a fare chissà che, si è incerti fra un bis del
caffè o l’aperitivo, come minimo si può ancora decidere di andare a
pranzo in campagna. Forse è per questo che tanta gente si ripara dalla sorte coprendosi le spalle con una colonna, seduta sui gradini del
palazzo del Comune. Fra questi seduti spiccano le figure, una grande
e una piccola, dei colleghi Gladioni e Boni. Li circondano ragazzi,
ragazzotti, giovanetti. Sinite parvulos, è giusto. Alcuni sono sdraiati,
altri disegnano le colonne, altri fumano, si siedono reciprocamente
sulle ginocchia. Oh, com’è bella la vita.
Londei guardò pensieroso e non vide la sua morosa. Si rallegrò. “Che fanno Boni e Gladioni?” chiese dell’umore che inclinava
allo scherzo.
“Rifiutano di invecchiare” rispose Tis con esagerata comprensione del genere umano. “Fanno la corte ai ragazzini.”
“Ancora?”
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“Pare di sì.”
Boni e Gladioni spiegavano con grandi gesti il mondo ai loro
assisi giovinetti.
“Li vedo, ma che fanno?”
“Seguono il movimento...”
Alle loro spalle una gran scritta rossa diceva ALICE VOLA.
Già, ma verso dove? Qual era la meta? Il privato, l’oriente,
qualche nuova aggregazione di gente che scoprirà di odiarsi? Gli ingenui volti, i giovani corpi di quei ragazzetti non esprimevano né
quiete né innocenza. Dove Alice avrebbe fermato le ali?
L’idea dell’aperitivo era venuta a mezza città e la confusione
nel bar era simile a quella della scuola or ora riaperta. Si portarono
i bicchieri quasi sulla porta e Londei beneaugurò con cattiveria alla
tesi che l’amico era costretto a scrivere. Gli studenti passavano a
sezioni intere.
“Londei” chiese con cupezza Tis, “che ne è della nostra giovinezza?”
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CAPITOLO III
Maledicendo il gioco e sconfortato dall’idea del lungo lavoro
di consultazione, Tis guardava le parole fuggire: “Non sommansi che
380 rubbia di grano, ristretta la riserva a favore del Collegio Ungarico...”
Non aveva interesse per le vicende di tale collegio e una lettera
che pareva estranea ai commerci del grano, apparsa al girar della
pagina, lo distolse del tutto dalla Relazione della Sacra Congregazione ad referendum sui diritti promiscui (Roma, 1847). Allontanò i
fogli per andarsene al bar. Per strada passò davanti ai leoni di pietra
che sormontavano i cancelli della Benelli. Un gatto prendeva il sole
ai piedi di una delle belve. Tutte e tre parevano guardare l’edificio
moderno che ospitava l’Archivio di Stato ed altri uffici. Al bar bevve
il caffè con scarsa soddisfazione, non potendo leggere la pagina sportiva contesa da altri lettori. Bisognava tornare.
In sala-studio c’era solo lui. La sala dava su un cortile del palazzo, dove un albero tendeva i rami fino a sfiorare il cemento. Di
fronte, larghi vetri mostravano altrettanto interni di uffici. Nell’archivio c’era una luce quieta: in questa Tis volentieri si era rinchiuso per
ore ed ore della sua vita. “Vai pure all’archivio, carino” era stato uno
dei commiati, non il più tristo, di sua moglie al momento di andarsene. Riprese la Relazione tentando di appassionarsi alle vicende delle
servitù di semina. Invece aprì la lettera che aveva notato anche prima
e l’elegante grafia ornata gli parlò di un antico rimprovero.
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Governo Pontificio
Delegazione Apostolica di
Urbino e Pesaro
Molto Illustre e Rev.do Sig.
Sig. Don Antonio Bacchiani
Parroco di Trebbio Antico
Di assai scontentezza è stato il rapporto del Rettore Sig. Nicola Nardi, che informava richiedutone questa Delegazione del fatto di
Sangue prontamente soggetto agli adempimenti prescritti, da parte
della Gendarmeria, avvenuto nei fini della Vs. Parrocchia il 21 dello
spirato mese.
Non ché l’uccisione, della quale esatta invenzione, secondo
le abbassate disposizioni, fecero e faranno l’Autorità e la Forza, il
Vs. sermone, proclamato dall’altare, null’altro à adempiuto, se non
eccitare gli animi.
Il prefato Rettore, che per rispetto al S. Sacrifizio, à pur presente taciuto, commette di esortarVi a non turbare lo svolgimento
dell’Inchiesta, che, con zelanti ricerche, svolge la preposita Gendarmeria, segnatamente a non dar alimento a voci stolte, che sempre,
nel Popolo, ànno luogo in siffatti casi.
Abbiate dunque cura che si plachino le dicerie assurde, meschinamente levate sull’Onoratezza di un Gentiluomo; istigate le
Anime alla Preghiera, secondo le Intenzioni della Santità di Nostro
Signore felicemente regnante.
In tale intelligenza, mi riconfermo
Pesaro, lì 2 Dicembre 1857
P. Badia
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A un lettore occasionale, il documento sarebbe parsa una minuta che con frequenti correzioni mostrava le limature subite dal testo. Ma la consuetudine di Tis con documenti coevi, colse qualcosa
di sorprendente nella procedura del fatto. Cento e più anni prima,
monsignor Pasquale Badia, delegato apostolico di Urbino e Pesaro, s’era degnato di scrivere al parroco di Trebbiantico, esprimendo
scontentezza per un sermone che aveva – imprudenza gravissima! –
turbato i fedeli. Il rimprovero era espresso direttamente e non tramite
la cancelleria vescovile: ciò significava che il “fatto di Sangue” e il
sermone che ne era seguito erano cose al di fuori dell’ambito canonico, richiedevano procedimenti inconsueti e un’altrettanto inconsueta
urgenza. “Dicerie assurde”, “Onoratezza di un Gentiluomo”... Cos’era successo da far perdere la testa a un prete di campagna, al punto
che la massima autorità della provincia gli scrivesse un biasimo di
quella portata? A Trebbiantico poi, dove sei anni prima s’era svolto
il pranzo di matrimonio, inizio della lunga guerra con sua moglie?
Tis si incamminò verso l’ufficio del direttore. La Relazione sui diritti
promiscui rimase abbandonata sul tavolo.
Giampaoli era al telefono. Fece cenno a Tis di accomodarsi e
congedò l’interlocutore lontano.
“Ciao.”
“Ciao. Volevo farti leggere questa.”
“Cos’è?” chiese il direttore aprendo la lettera. Lesse ed ebbe
qualche cenno di meraviglia. Chiese all’amico dove l’avesse trovata.
“Fra le pagine di una relazione.”
“Il vizio del poker finisce per servire la causa della cultura”,
rise Giampaoli.
“Come ci sarà finita?”
“Non so davvero.”
“Te l’ho portata perché mi è sembrata strana. Non so a cosa si
riferisca, ma mi ha sorpreso il tono del rimprovero.”
“Non c’è dubbio” convenne Giampaoli. “Per gente che pesava
quello che scriveva, anche se togli il bello stile, qui il rimprovero è
gravissimo. Chissà che diavolo sarà successo: una predica che eccita
gli animi, il delegato che interviene...”
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Tis riconobbe i segni dell’avventura che capita a volte ai frequentatori degli archivi: il manoscritto d’altri tempi, il documento
imprevisto, il bandolo di perdute cose.
“E il seguito dove lo trovo?”
“Quale seguito?”
“Il resto dell’incartamento.”
“Se c’è, è nel fondo del tribunale. Per un morto ammazzato
dovrebbe esserci l’istruttoria.”
Aprì un armadio e ne cavò un inventario. Lesse, girò le pagine.
Tis restò in poltrona.
“Ecco qua” disse alla fine il direttore, “per il 1857 puoi vedere
dieci cartelle, a partire dal numero 179.”
Giunse in quel momento il suono della sirena della fabbrica al
di là della strada, e parve di udire il brusio del mondo del lavoro che
si consolava uscendo per strada o per la mensa.
“È mezzogiorno” disse Tis. “Posso avere le prime buste? Poi
torno domani.”
“Senz’altro” rispose Giampaoli, “te le faccio prendere.”
Un’ora dopo Tis scendeva in strada. La luce era tersa, il colle
sotto il faro manteneva il verde estivo. Il sole di settembre scendeva
dai muri e dalle gronde. Altissimo passava un aeroplano: appena,
tracciata, la scia bianca già si sfilacciava nel cielo luminoso.
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CAPITOLO IV
Il professor Tis assegnò gli esercizi per casa un attimo prima
che suonasse il campanello. Poi, tra l’agitazione della classe che riponeva i libri e si scomponeva verso la porta, si avviò al corridoio
sfiorando un gruppetto di colleghi che sbarrava la via.
“Guarda qua, Tis. Anche con l’orario ridotto ci tocca sostituire.”
“Che vuoi farci?” rispose evasivamente Tis.
“Ma è il principio che conta” ribadì il collega noto per il suo
analfabetismo, “l’inefficienza sistematica è negazione del principio
di scolarità.”
“Ma quale principio di scolarità” intervenne un altro infilando
la porta. Si affiancò loro il solito paio di colleghe.
“Il 28 c’è la conferenza sulla professionalità. Ci venite?”
“Mai” disse Tis.
“Il relatore chi è?” chiese un’altra.
“Quel Crimelli che ha tenuto a Covignano l’incontro-dibattito
sull’individualizzazione degli itinerari di apprendimento.”
“Gli itinerari della mona” disse Tis che aveva insegnato in Veneto.
“Di che?” chiesero le colleghe.
Ma già Tis abbandonava le loro chiacchiere e si dirigeva al
parcheggio. Due minuti dopo lasciava l’auto in sosta vietata e si precipitava dentro il negozio del Corso.
“È arrivato. L’ho visto in vetrina.”
“Che cosa?” chiese la commessa riccia e dalle lunghe gambe.
“L’ultimo Focke Wulf” esclamò Tis salendo le scalette che portavano al retrobottega, “ne prendo tre.”
Si impossessò delle scatole. Sul coperchio la lunga sagoma del
caccia picchiava su uno sfondo di incendi. Un quadrimotore americano si avvitava in un bagliore di fiamme.
“Quanti mesi sono che l’aspettava?” chiese amichevolmente la
commessa che aveva sfilato il piede nudo da uno zoccolo e lo posava
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con grazia sull’altro. Neanche diciott’anni. Beato chi ti piglia - pensò
Tis immaginando la commessa inseguita da un giovane biondo su
un bordo di piscina fra canti e Coca Cola, come nelle pubblicità che
tanto dolgono a chi le donne non le ha più.
“L’ho aspettato per una vita. Quasi come l’amore” rispose Tis
alla ragazza. Quella ridacchiò rimettendo il piedino al suo posto.
“Me li segni sul conto. Mi dà anche la colla liquida.” Mise la colla in
tasca. Non aveva imparato nulla da quando la rottura di una bottiglia
gli aveva fuso l’intera tasca di un impermeabile nuovo. Gli urli della
moglie, in quell’occasione, avevano toccato vertici di perfezione.
“Oggi è più carina del solito” provò timidamente Tis.
“Segno tre scatole sul conto” rispose l’altra con serietà. Tis
uscì a sottrarre la macchina alle attenzioni di un vigile. Partì per il
Corso e virò verso l’archivio. Si inoltrò nei modernissimi anfratti.
Quando cominciò a leggere la luce si abbassò dai finestroni:
le prime nuvole coprivano il sole. Non poté fare a meno, furtivo, di
togliere l’aereo dalla scatola. I carrelli erano perfetti, gli steli delle
gambe di forza avevano gli ammortizzatori in rilievo e le ruote mostravano la bullonatura. Ne assemblò i pezzi essenziali – carlinga ali
timoni – a incastro. Sebbene traballante, la linea del caccia fu evidente nel suo gelido slancio. Tis lo sollevò verso la luce: la plastica
grigia traspariva nelle parti più fini. La piccola cabina aveva i montanti ben in rilievo. Forse non ci sarebbe stato bisogno di lucidarla,
vecchio trucco ignoto alle masse, con il dentifricio.
Con le dita strette alla fusoliera, Tis accennò una virata. Incontrò il viso della segretaria sbalordita sulla porta. L’aereo umiliato si
abbassò e ricadde nella scatola.
“Per mio figlio, sa...” accennò imbarazzato e arrossito Tis.
“Procede bene la ricerca?” chiese educatamente la segretaria.
“Oh, bene... benissimo...”
Tis ricacciò la scatola del Focke Wulf e riprese i documenti.
Scorsero sotto i suoi occhi nomi, fatti, preghiere e rescritti: Ebrei che
imploravano di potersi recare alla fiera di Senigallia, municipi che
chiedevano l’anticipazione della vendemmia, possidenti che reclamavano contro “deplorati abusi”. Leggendo cose del 1857, si perse
a considerare le città di allora: i gendarmi, i bastioni, le fontanelle,
Rocca Costanza e gli Svizzeri con le bandoliere bianche.
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Ululò la solita sirena della fabbrica di là della strada, e gli riaccese la fretta. Riprese il lavoro su altre cartelle del fondo del Tribunale. Cercava solo i procedimenti di morte contro ignoti, e faceva
alla svelta. Dopo mezz’ora ne chiese altre quattro. Alla sesta ebbe
fortuna. Un esile fascicolo recava l’intestazione “morte riputata ex
scelere, poi rinvenuta casuale, di Giuseppe Andreoni, bracciante”.
Ne trasse un primo foglio che decretava l’archiviazione del caso, e
un secondo nel quale lesse:
Trebbio Antico, 30 Novembre 1857
Relazione a S.E. Rev.ma sull’ammazzamento di Giuseppe Andreoni avvenuto in Trebbio Antico il 21 Novembre 1857, e de’ Rumori che ne corsero.
Eccellenza Reverendissima,
In ordine a quel tanto che V.E. Rev.ma mi à richiesto con Veneratissima Sua del 27 corrente, sono prontamente a significarLe
quanto voluto.
Vivesi la Villa di Trebbio Antico compendiata in 73 fuochi e
contenta di quel piccolo guadagno, che dà vita agreste e silvana;
turbar mai sempre la Villa i passati torbidi del Governo de’ Demagoghi, or sono ott’anni; resta tuttora lieta sotto il Reggimento de’ passati, come del presente Preside, non fosse che per l’Ammazzamento
avvenuto il perduto 21 Novembre.
Erasi di Sabato, e taluni trascorrevano in letizia le ore dell’imbrunire nella Locanda del Gallo Bianco: qui passano le ore del
riposo, come si suole, alcune genti dopo parco desinare, in brigate
più numerose la sera del Sabato, rallegrate dall’appressarsi di quel
Riposo Santo, che Iddio volle per Sé e per gli uomini. La sera del
predetto giorno, si sciolse una di tali brigate verso il sonar dell’undicesimo tocco, ed era tra coloro certo Giuseppe Andreoni, casanolante di anni 42, implorante la clemenza dell’E.V. or son cinqu’anni per
aver contravvenuto alla ribadita Notificazione del 13 Maggio 1839,
contro gli abusi de’ casanolanti.
Salutata la schiera, l’Andreoni si incamminò verso la umile
capanna, che tenea sul colle tra Trebbio Antico e il mare, detto Monte d’Inferno, presto uscendo di vista. Anche di vita uscì, di lì a poco,
l’infelice: non è conto dir l’ora, come e per chi: di certo si à, e questo
è ben noto all’E.V, che fu trovato da certi Garzoni l’indomani prima
del tocco nono, riverso in piccola selvetta. Disse, chi partì pe’ soccorsi ormai tardivi, esser spettacolo grave ed inusitato pel pallore
del volto, contratto in smorfia e languido assai.
Il misero giacea circa dugento passi oltre il bivio della Fonte,
subito fuor di paese per chi s’incammini a Pesaro, su pel Monte
D’Inferno: e dunque, ove abbisognasse, a portata di voce; ma nessuno udì nulla. Giacea, poi, non sul tratturo, ma dieci passi discosto
da esso, quasi strascinato, sui fini della Possessione del Conte Baldassarri.
Come fu poi colto dalla Forza, e condotto in luogo pietoso, si
vide più manifesto lo stato della Salma, desueto (ne convenni pur io)
in un pallore assai più che non tocchi ai morti di poco tempo. Gli fur
trovati que’ segni orribili, che V.E. conosce da altri più compiuti rapporti, ovunque graffiato e sanguinoso, con quel segno profondissimo
sul collo. Ché il pallore della Salma era tutto in questo, nell’essersi
dissanguato per tale ferita profonda.
Di suicidio fu escluso il caso, che l’Andreoni era, come si dice,
un semplicetto, noto in Villa pel buon umore e benignità, pur vivendo
la vita grama de’ suoi simili Casanolanti; per non esser rinvenuto
alcun corpus delicti eziandio ne’ paraggi; né tampoco si comprenderebbe il novero delle ferite.
Due voci prontamente corsero la Villa di Trebbio Antico.
La prima, che l’Andreoni, perito di morte naturale per le gaiezze della sera avante, fosse dipoi sconciato da faine ed altre selvatiche bestie, tenne campo ben poco, d’un subito soverchiata dall’altra,
cui die’ fiato l’Ill. Sig. Don Bacchiani. Il predetto parroco, d’abitudine Uomo Prudentissimo, dall’accaduto parve alquanto sconnesso;
tenne alla S. Messa infocatissimo Sermone nel quale tuonò contro il
Demonio, riprese qualche pregiudizio che il Volgo in sua nescienza
pretende; segnatamente un antico corpo di superstizioni, che in Villa
si à contro la Casata Baldassarri.
Conobbe di certo V.E., le voci di che il Volgo illetterato vien
colpendo, or son più anni, la Casa di detto Conte, uomo invero schivo e appartato, di certo Galantuomo specchiato e ligio, al tempo
dell’intrusa sedicente Repubblica, alla Santità di Nostro Signore felicemente regnante. Arrossirei, non fosse pel dovere richiedutomi,
nel dire che del prefato Conte si pretende qualche malefizio, qualche
sospingimento agli Arcani vietati da Santa Romana Chiesa. Di certo
si à (ne era presente pur io) che il Parroco die’ corpo alla voci del
suo Gregge, donde i disordini di cui la Gendarmeria avrà fatto conta
l’E.V. per più dettagli.
Così sta il caso, né l’Ill.mo Don Bacchiani, da altri e me pregato, à più inteso proferir verbo e tiensi sdegnoso e ritirato in Canonica. Veda l’E. V. se sia da pregarlo di achetar le acque che già son
torbide per noi e pe’ Gendarmi.
Mentre, in attesa di Venerato cenno, mi riprotesto dell’E.V. Rev.ma
obbl.mo dev.mo umil.mo servitore
Nicola Nardi
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Che fare, ora? Perché adesso sorgeva la nuova angustia del
poco tempo. A meno che non cacciasse tutto in borsa assieme agli
aerei e esaminasse ogni cosa a casa sua, illecitamente.
Intanto le mani si erano mosse da sole, il fascicolo dei documenti era sparito (in perfetto sincronismo con le 12,55) nella borsa
di Tis. Il quale, andandosene, entrò dalla segretaria pregandola che
gli fosse lasciato ancora per qualche giorno il materiale in sala, che
sarebbe senz’altro tornato. E intanto, salutasse Giampaoli.
Uscì imperturbabile dall’archivio e si diresse all’auto.
A casa non ebbe voglia di tornare. Sbatté invece lo sportello
davanti al moletto e scese con la borsa sottobraccio.
Lasciò perdere le panchine e si avviò sulla spiaggia. Il mare,
come sempre, cambiava le sue gradazioni cupe secondo i nembi che
gli passavano sopra. Si sedette sulla ghiaia asciutta. Non era né caldo
né freddo. Lontano verso il porto udì, prima di vederlo, un ragazzo
con la sua moto che faceva evoluzioni sulla sabbia. Vide il vento
portar via quella che le ruote alzavano. I soliti gridi di gabbiano venivano dall’orizzonte.
Prese i documenti dalla borsa e subito il vento glieli contese.
“... le voci di che il Volgo illetterato vien colpendo... uomo invero
schivo e appartato...” Schivo e appartato perché? Perché essere appartati in una epoca meno rumorosa della nostra?
Rimise i documenti in borsa e tirò fuori una birra.
Fra i piedi stavano le conchiglie, le canne rotte e quanto il mare
fa apparire in una settimana, appena se ne vanno i bagnini coi loro
rastrelli. Il tizio con la moto andò avvicinandosi. Sbandò sulla sabbia
asciutta e dovette trascinare l’arnese fino a una striscia di cemento.
Lì accelerò ancora e sparì nel viale. Non è che l’aumentato silenzio
portasse chiarezza. I gabbiani salivano e scendevano sulle onde: lasciò allora la bottiglia mezza vuota dove il mare se la sarebbe portata
con la marea, e tornò verso il molo.
Allora decise di andare a Trebbiantico.
La chiesa era sulla strada, messa curiosamente di traverso come
se non c’entrasse bene, schiacciata dalla via che di là si arrampicava
con rapida svolta verso un sanatorio con parco di pini e cipressi. Di
fianco alla chiesa precipitava già una strada sassosa con tutti gli alberi e le siepi bianchi di polvere. La porta della chiesa non si apriva.
Bussò alla canonica.
Il prete in persona lo fece entrare. Davanti a una tazza di caffè si
lamentò della pericolosità della strada che tagliava in due il paese. Si
interessò a quanto Tis disse sulle chiese della provincia, sentendolo
citare alla rinfusa navate transetti trabeazioni e quant’altro Tis ebbe
a mente degli esami di storia dell’arte. Voleva vedere la chiesa? Sì
certamente. Questa, vecchia di fuori, mostrava di dentro un intonaco
perfetto e comunissimo, dalle tristi cornici grigie e in rilievo, nulla di
bello. Ma qual era la ragione della visita? Un parente, raccontò Tis,
un lontano parente della madre: aveva trovato dei libri che erano stati
della bisnonna e dentro c’era scritto “Don A. Bacchiani, parroco di
Trebbio Antico - 1857 A.R.”. Si poteva sapere che fine avesse fatto,
quando? Magari, non so, portargli dei fiori?
Il prete condusse Tis in sacrestia. Un massiccio mobile ne occupava un’intera parete.
Chiunque l’avesse secoli prima intagliato a mano, ci aveva
messo una stagione. Nell’angolo più oscuro, coperto in parte da un
panno, Tis vide un lungo tavolo, una grande barella o, come si accorse invece, un catafalco. Anche quello antichissimo, mostrava un
teschio giallo scolpito, sormontato dalle solite tibie, con la scritta:
Beati qui in Domino Moriuntur, sotto le ossa. Una cinghia pendeva
verso il suolo.
Anche l’Andreoni, centovent’anni prima, vi aveva certamente
giaciuto prima di essere accompagnato in mezzo ai boschi, verso il
cimitero.
Il prete leggeva in un registrone. “Ecco qua” disse. “Don Antonio Bacchiani, parroco dal 1840 al 1857. Volto a S. Leo nel 1858. Ivi
morto nell’inverno del 1861. A S. Leo?”
“Come mai a S. Leo?” fece eco Tis.
“Forse aveva dei parenti, non so. Ma non credo, perché qui
dice che nacque nel 1813 a Serrongherina... Pensi: sa quanti preti ci
sono stati fra me e il suo parente? Io sono il quinto.”
“Appena?”
“Appena. E sa dal primo, il canonico Candido che fu qui nel
Duecento, quanti sono stati i miei predecessori? Ventidue. Sembrerebbe che in sette secoli dobbiamo essere stati tanti a camminare qua
dentro, vero? E invece meno di una classe a scuola, da oggi ai tempi
delle crociate.”
“Sembra incredibile” ammise Tis, “forse qui a Trebbiantico c’è
aria buona.”
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“C’era” disse il prete.
Tis si avviò all’uscita ringraziando. Quando fu sulla porta chiese come se gli venisse in mente allora.
“Senta, i Baldassarri, i conti... che gente sono? Che gente erano?”
“I Baldassarri? Non saprei dirle, per il passato, ma immagino
ottime persone come l’attuale conte: un uomo degno..., che si vede
poco. È vedovo e ha una figlia.”
Le prime gocce d’acqua avevano alzato polvere dalla strada
ma adesso le nuvole giravano a scacchiera senza trovare modo di
sfogarsi.
“Promette un autunno di pioggia” disse il prete “ma l’estate è
stata calda. Ho raccolto due quintali di pomodori nell’orto.”
“Beato lei.”
Si avviò con la macchina e pensò di andare da uno zio che
aveva da quelle parti.
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CAPITOLO V
Passata una settimana di scuola, già Tis non ne poteva più:
così, seduto nella sala dei professori, considerò a lungo le erbe che
ingiallivano nei prati, la mentuccia che era appassita e gli alberi che
mostravano un’aria stranita, poco lucida ed entravano così ufficialmente nell’autunno. Nel cortile della scuola i bidelli avevano raccolto i grugni, Londei viaggiava con la giovane amante per trovare
questo e quello, nella scuola erano comparsi nuovi insegnanti, Boni
era tornato dal primo permesso sindacale. Già programmava entusiasticamente con i nuovi per svolgere tutti i programmi attraverso
i murales, l’animazione, il teatro: inalterabile modello plastico del
professore aperto. Aperto a tutto: uscendo non s’era avveduto della
porta socchiusa e vi aveva sbattuto suscitando nel vecchio edificio
rumori ed echi. E ogni cosa aveva rimbombato cupamente, parlando di teatro gestuale, di linguaggio del corpo, di decentramento, di
realtà di quartiere. Tis, simile a Cassandra, aveva udito quegli echi
e preannunci di future disgrazie, come ombre, gli erano passati sul
viso.
Mentre queste cose pensava seduto in sala, sentinella di fronte
al buio mare dell’esistenza futura, la vita nei bulbi e nelle radici si
preparava a quella sosta del vivere senza la quale non vi sarebbero
poi nuovi risvegli: gli animali presentivano il letargo, i conti dei bagnini crescevano sotto i nuovi depositi, gli alberghi già si coprivano
di nere tavole numerate. Anche la sabbia, a ben guardare, aveva guadagnato sulla spiaggia larghe zone di pace senza orma di passi, senza
buche, senza colline. A Urbino anche il figlio di Tis aveva preso la
prima bronchite della stagione, accuse reciproche avevano riempito
la telefonata di Tis alla moglie.
Mentre Tis rifletteva, vide entrare il preside che si sedette. Entrambi rispettarono il silenzio che regnò a lungo fra le circolari e le
altre cartacce sul tavolo.
“È tornato Boni” disse infine mestamente il preside.
“Non abbia paura” disse Tis “è scemo ma non è cattivo.”
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“Professore...” sospirò il preside.
“Nessuno ci sente” continuò Tis “si ricorda? La scuola senza
teatro...” Sospirò anch’egli come ricordando una perduta passione.
“Ma il teatro, in fondo... il progresso... anche la personalità
dell’alunno...”
“Si ricorda” chiese Tis con malignità “di quando tutti la rispettavano?”
“Professore...”
“Io le sono amico” disse Tis “perché siamo due peccatori. Non
lo neghi: lei pagherebbe per chiedere a un ragazzo le eccezioni della
III declinazione. Lo ammetta!”
“Lei scherza sempre...”
“Lo ammetta!”
“Lo ammetto” confessò il preside rivedendosi per un istante
giovane, altero e forte.
“E l’Iliade, se ne ricorda? Non trattava del territorio. Lei non si
occupa a sufficienza del territorio.”
“No, questo no. Il territorio...”
“Sì invece, lo so” insistette Tis.
“Presto andrò in pensione” disse il preside.
“Mi piacerebbe bocciare qualcuno” Tis parlò nel nulla “sì, vorrei, una volta ancora.”
“Non dica questo, la prego” disse il preside accoratamente.
Il silenzio tornò nella stanza, mentre il canto di un bidello fluiva
lontano tra corridoi con scaffali, polverose conchiglie e gabinetti di
scienze col gufo impagliato e l’uomo di gesso con le budella rosse.
“Lei è un folle, professore.”
“Solo i matti nella brughiera dicono la verità” rispose Tis.
“Ha letto la circolare sulla programmazione?” chiese il preside.
“Domani, domani, poi domani: così, da un giorno all’altro”
citò Tis “a piccoli passi ogni domani striscia via per arrivare all’ultima sillaba del tempo che si ricorda ancora...”
“Lei l’ha firmata: stasera in consiglio...”
“... e tutti i nostri ieri hanno rischiarata a dei pazzi la via che
conduce alla polvere della morte...”
“Lei ha firmato” ripeté il preside bonariamente.
“Io ogni tre o quattro giorni firmo tutto quello che trovo.”
“La deve leggere: quest’anno si va alla programmazione operativa e a quella curricolare” disse il preside.
“Lei legge gli autori latini di nascosto” insinuò Tis di buon
umore. “Lo dirò a Boni, oggi in consiglio.”
“La prego di non farlo” implorò il preside. Poi proseguì con
affetto: “Lei allieta i miei ultimi giorni di scuola.”
Suonò la campanella.
“Mi attende il lavoro di gruppo e intergruppo, di scambio interdisciplinare, di sviluppo della creatività, il livello!” proferì Tis
uscendo. “Il condizionamento socio-ambientale!” rientrò col dito alzato: “Sa la storia di Pierino che non voleva andare a scuola perché
era il preside?”
“Vada, professore. Vada...”
“Ah, ah” rise da solo uscendo di nuovo.
“Mentre è nella brughiera” gli disse dietro il preside “legga la
circolare sulla programmazione.”
La risata di Tis suonò ancora e svanì su per le scale.
Fra sbuffi di fumo e voci che si inseguivano, Tis riconobbe,
nell’aula del consiglio di classe, l’immagine del proprio destino:
tante sere tra facce tirate dalla noia, bizantino discutere, molte firme, l’invidia perenne per quelli di ginnastica che, siccome hanno
più scuole, ai consigli non li vedi mai. Finché, come attraverso un
cristallo di cattiva qualità, i suoi occhi invecchiati avrebbero riparato
alla noia con la confusione del percepire, con la cronica sonnolenza
del vecchio, col non capire più le tante ragioni di stolto contendere, l’affannarsi delle colleghe per risibili questioni, il piccolo gioco
ammazzatempo dell’anno scolastico. E adesso i suoi occhi ancora
freddi e precisi vedevano il ferro di cavallo dei banchi, le colleghe
col foulard e tre collane, un professore di musica, vinto e corroso dal
fumo, un giovanotto arrivato allora che avrebbe in un anno cambiato
le basi della società.
Il suo vestire, un fazzoletto annodato al collo, il pullover indossato senza camicia, i calzoni sfrangiati, già parlavano di teatro ge-
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stuale, di visite mistiche alle fabbriche, di recupero del legno, di telai
artigianali. Tis lo salutò con garbo e gli occhi del gestuale, col quale
aveva già discusso, gli fecero capire: ti riconosco, tu sei il nemico.
Quelli di Tis risposero: anch’io ti riconosco. Ho invidia e pietà per
il tuo sangue giovane, ma invecchierai e sarai solo anche tu. Quale
libro potrà mai consolarti? I tuoi parlano solo di mete e di rincorse.
Che leggerai, quando sarai stanco e non ce la farai più? Lo sguardo
del giovane concluse: paternalista!, e sbarrò la via ad ogni possibilità
di umana comprensione.
Tis simbolicamente andò a sedersi a fianco del vinto professore di musica, il quale gli comunicò: “Pensa, mi sono già rotto i
coglioni.”
“Anch’io” rispose Tis. “Come va?”
“Se anche quest’anno nessuno degli alunni mi picchierà, andrà
bene” rispose il vinto.
“Eh, ormai non succede più, non esageriamo.”
“Quello lì lo farà succedere” disse quello di musica indicando il
gestuale. “Vedrai,” continuò “mi faranno suonare il folklore cubano.”
“Tu lo conosci?”
“Io sono monarchico” disse quello di musica. Tis capì lo stesso. Venne una collega con una circolare, un’altra la seguì parlando
delle festività soppresse.
Tis guardò il lampadario e, sotto di esso, il preside che diceva:
“Signori colleghi, vogliate... colleghi... chi manca?”
“Mi fai venire la malinconia” disse Tis a quello di musica. “E
già mi basta la mia. Che ti succede?”
“I figli. Sono i figli.”
“A chi lo dici” sinceramente convenne Tis che era umiliato
dall’essere stato un padre nervoso, incostante e adesso separato.
“Me li ha rovinati la scuola: per questo la odio tanto.” Buttò
fuori fumo.
“Ma via, la scuola... che è successo?” chiese Tis.
“Furti nelle macchine: radio, registratori, ho trovato tutto io,
nascosto in cantina. Lo sai perché?” Tis non lo sapeva ma immaginò,
e stette zitto.
“Un giorno me li verrà a prendere la polizia a casa.”
Il preside battendo sulla cattedra riuscì a far sì che il collegio
dei docenti si trovasse infine a posto. “Colleghi,” cominciò “nel primo consiglio dell’anno mi è grato salutare...”
In quella entrò Londei e Tis gli fece cenno di avvicinarsi.
“Lei è venuto a piedi?” chiese il preside a Londei.
“No, in macchina” rispose Londei che scavalcò agilmente un
banco e volteggiò verso Tis.
“Buffone” disse Tis.
“È invidia” rispose sottovoce Londei.
“Silenzio, silenzio... onorevoli colleghi” continuò il preside,
“salutiamo i nuovi e i vecchi, chi arriva puntuale, chi sin dal principio dimostra il suo disinteresse per i regolamenti della scuola.”
Londei sorrise con beatitudine. Il professore gestuale si alzò
dicendo: “Non posso condividere l’impostazione autoritaria di questo discorso.”
“Scusi” disse il preside “non volevo. È un’abitudine di tempi
ormai passati. Colgo l’occasione, anzi, per darle il benvenuto nella
nostra scuola. Il professor Londei, a noi peraltro caro, ha la passione
del ritardo e già in passato...”
“È vero,” interruppe allegramente Tis “Londei ci marcia. Se ne
fa un vezzo.”
“È vero,” ammise gioiosamente Londei “ci marcio. Il giovane
collega non mi conosce, lo faccio apposta...”
Il gestuale si sentì confondere e guardò attorno in cerca di solidarietà. Colse sguardi di simpatia dalla Rondolini, accanita lettrice
di riviste didattiche e agitatrice di problematiche psico-pedagogiche.
“Non è con il paternalismo...” disse il gestuale, ma poi rinunciò. La
Rondolini gli sorrise. Tis dette col gomito a quello di musica.
“Di’, ce l’ha l’orecchino questo qui?” chiese.
“A me questo mi ha già rotto i coglioni.”
Il preside aveva perso il filo e lo andò cercando in una cartella
di fogli bianchi. Dal settore donne crebbe il brusio. Le voci. Ad una
ad una Tis le riconobbe tutte: una dolce, una acuta, una velata. La Severini, che non aveva mai letto un libro dopo la laurea, la Giudici che
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faceva errori di sintassi nei verbali, la Bianchini di educazione fisica,
che girava in tuta ed era l’unica cosa piacevole della sala professori,
la Rondolini che andava a trovare gli alunni a casa per appurare il
condizionamento socio-ambientale e quelli le sgonfiavano le ruote
della macchina. Distinse le facezie che la voce meridionale del professor Ardigò rivolgeva alla Bianchini.
Il preside non ritrovò il filo del suo discorso. “Be’ colleghi...”
tentò “bisognerà passare ad eleggere il vice preside.”
Si alzò il professore gestuale e disse: “Sul ruolo di questa figura vorrei aprire un dibattito.”
“Bravo!” urlò Boni, quello dei murales “bravo!”
“Ma, professor Boni, in fondo è l’uso...”
“Discutiamo se risponde alle istanze” continuò Boni sebbene il
preside cercasse di schermirsi.
“Ma via, per carità, è un semplice uso...”
Ardigò disse: “Non sfruculiamo.” Quello di musica sembrava un infelice, sterile, butterato suolo vulcanico col suo triste fumo.
Londei sbuffava, Tis pensò a casa, alla libertà, al suo tempo rubato,
al gatto, alla giovinezza perduta.
“Colleghi,” provò a dire “non facciamo mezzanotte, tanto il
vice preside non conta un cazzo.”
“Professore, si moderi...” pregò il preside. Ma Boni e il gestuale gli si erano già rivoltati contro.
“Ti conosciamo! Ti conosciamo!” urlò Boni.
“Tanto vale spiegarci subito” urlò anche il gestuale, e prese a
spiegare in fretta ma lucidamente, e con un che di eroico nella voce,
quale fosse il posto di Tis nel mondo. Tis apprese così di essere parte
di un vasto progetto reazionario per la restaurazione reazionaria della
cultura e delle multinazionali.
“Bravo!” si accodò la Rondolini, “ho letto che le multinazionali...”
“Signori colleghi, vi prego... vi prego energicamente... professor Boni, inizia il nuovo anno: non facciamo come l’anno scorso...”
“Un anno di tormenti” uscì una voce.
“L’anno scorso è stato una vera rottura di coglioni” disse quel-
lo di musica.
“Vi prego... discuteremo alla fine... che male c’è a eleggere un
vice preside anzi un collaboratore? Sarà a disposizione... della base”
concluse con felice intuizione il preside.
La parola “base” scese come olio in un mare in burrasca.
Boni e il gestuale tacquero incerti, il brusio andò scemando.
“Credo anch’io” disse il preside saltando timidamente a cavallo del silenzio, “credo anch’io che tutte queste cariche non abbiano
più nessuna importanza. Ma adesso, forse, dovremo dare il via a queste operazioni, stendere un verbale...”
“Perché mi guardate?” disse la Rondolini “quest’anno non mi
sento...”
“Sia la signorina Rondolini la segretaria del consiglio!” disse
Londei accennando a un applauso.
“Cattivi! Sempre questi verbali” disse la Rondolini già sorridendo felice. Molti applaudirono con sollievo, e chi era vicino alla
prescelta ebbe comunque modo di udirla sospirare: “Pure, bisogna
fare anche questo.”
“La nostra Rondolini” esclamò il preside, “do il benvenuto anche a lei.”
“La scuola è la mia vita” informò la Rondolini.
“Gente così mi ha rovinato i figli” disse con odio quello di
musica.
Boni aveva ripreso ispirazione e fiato, e il suo più amato progetto gli urgeva dentro. “Propongo” disse “di dipingere i muri della
scuola con i murales.”
“Professor Boni” ricordò mestamente il preside “lei sa che il
provveditorato già l’anno scorso ci negò il permesso...”
“I muri della scuola andrebbero autogestiti,” gridò Boni “certo
che se lei non si assume le sue responsabilità...”
“Ma io...”
“Mi piace l’idea dei murales” disse la Rondolini, “si prestano
ad una realizzazione interdisciplinare.”
“Vedi?” disse quello di musica “arriva il folklore cubano.”
“Signori,” Tis si alzò in piedi “cittadini!” si atteggiò a oratore.
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“Non fare il matto, non cominciare” lo pregò Londei.
“Signori, propongo che i muri esterni e interni della scuola siano dipinti seguendo le tematiche di Brueghel il Vecchio.”
Il nome, ignoto ai più, fece tornare il silenzio.
“Difatti, o amici, o colleghi, chi ci sovrasta nel nostro lavoro?”
(Tis pensò al polveroso delitto dell’Archivio.) “La morte. Quella
morte che ci coglierà senza...”
“Basta con le matterie!” “Basta!”, vennero un po’ di strilli.
“Vi dico altresì,” continuò Tis “altresì. Altresì vi dico che noi
saremo colti dalla morte senza che fossimo mai vivi e mai della vita
avessimo potuto godere a causa della miseria dei nostri stipendi e a
causa dell’interdisciplinare miseria morale che ci caratterizza...”
“Dai, piantala” sussurrò Londei.
“Non vedete dunque chi siamo?” proseguì imperterrito Tis
come Antonio sul corpo di Cesare. “Un miserabile consesso. Una
riunione di spettri. Qui la cultura è morta e la scuola ne dà testimonianza. Vi dico altresì che mai, mai potrà risorgere. Facciamo quindi
i murales con la morte che galoppa e i professori che vanamente si
nascondono sotto il tavolo della sala insegnanti e nel gabinetto...”
“Basta, basta,” urlò il gestuale “ci prende in giro.”
“È vero” ammise volentieri Tis.
Crebbero le urla di tutti, ora che tutti si sentivano insultati.
“Io non raccolgo le tue provocazioni!” dissero a una voce Boni
e il gestuale.
“Nemmeno io le raccolgo” disse la Rondolini.
“Stagionata e illetterata pollastra” sibilò Tis con freddo sorriso.
La Rondolini scoppiò in lacrime.
“Pausa. Pausa per il caffè” impose quello di musica mentre il
preside si lasciava cadere seduto e Londei si metteva fra Tis e il gestuale e Boni che avevano gli occhi fuori della testa.
“Vieni. Vieni fuori. Andiamo a spasso” disse a Tis.
“Professore,” gli sussurrò il preside “perché si diverte così?”
Tis e Londei si lasciarono alle spalle l’aula del clamore e camminarono nel buio corridoio lungo il quale correvano folate di strilli.
Un bidello disse: “È cominciato l’anno scolastico.” Fuori dell’in-
gresso le misere piante fremevano nella brezza serale e la strada era
nera, vuota, desolata e sei mesi di freddo e tenebre attendevano la
terra.
“Perché fai così?” chiese Londei.
“Non ne posso più.”
“Cosa cambia?”
“Non riesco a pensare a un anno là dentro.”
“È la nostra vita,” disse Londei “che ci vuoi fare?”
“Sono stanco,” rispose Tis “sono stanco di vivere.”
“Passerà”
“Passerà,” disse Tis “tutto passa. Io non rientro.”
“E che dico?”
“Che mi hanno telefonato.”
“In mezzo alla strada?” chiese Londei. Passò un tram pieno di
luci, che andò a perdersi nel buio. “Vedrai che passerà, tu sei forte.”
“Non riesco più a divertirmi, non riesco più a fare il pagliaccio,
il demagogo, il ricerchista, il socio-ambientale...”
“Ma dai...”
“Abbasso i poveri,” esclamò all’improvviso Tis “abbasso i poveri. Viva le poesie a memoria. Eterna vita ad Alessandro Manzoni.”
“Tu sei stanco,” disse Londei “hai bisogno di riposo. E poi anche il resto andrà bene. Quando potrai raccontare queste buffonate a
tua moglie,” aggiunse con pudore “allora ti ci verrà da ridere un’altra
volta.”
“Tu sei un buon amico.”
“Ma dai...”
“Sei buono. Grazie. Il tuo condizionamento socio-ambientale
ti ha reso buono.”
“Va’ a casa” disse Londei “e sta’ tranquillo.”
Un lampo passò svelto nel cielo. “Questa,” disse Tis “questa è
la stagione della nostra vita.”
“Ma va’. Va’ a casa,” insisté Londei “l’autunno è bello e l’estate è solo per gli imbecilli.”
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CAPITOLO VI
Londei leggeva le meraviglie delle vitamine in un foglietto
esplicativo, quando il telefono finalmente suonò. Eccola – pensò – è
lei che arriva. E invece era Tis.
“Vieni giù. Ho da parlarti.”
“Di che?” La voce di Londei espresse delusione.
“Fesserie d’archivio.”
“Ah!”
Pensò di non andare. Poi si compiacque della telefonata di
Laura che avrebbe squillato nella casa vuota, come se lui fosse chissà dove, nei balli, nei locali dove le allucinanti ragazzine come lei
parlano un minuto delle sigarette, due magari della morte, poi sono
pronte in gran tranquillità e nessuna gioia.
“Va bene. Arrivo.”
Quando salì le scale di Tis erano le nove e mezza. L’amico era
con le mani dietro la solita minutaglia di plastica grigia, e non si mosse. Sopra un giornale vecchio si asciugavano le ruote e l’elica di un
aereo. Sulla televisione accesa furoreggiavano ballerine. Tis guardò
la giacca a vento turchese col taschino trasparente.
“E gli sci?” chiese.
“È freddo fuori, c’è umidità... è umido” Londei si piazzò a sedere, “ma che ti frega di come mi vesto?” chiese seccato. Pentito
di essere uscito, pensò che il telefono avesse cominciato a suonare
proprio mentre lui scendeva in ascensore.
“Nervoso?”
“Sì, nervoso. Cos’è quell’aereo?” chiese Londei.
“È un Hurricane.”
“Che?”
“Davvero non sai cos’è un Hurricane?” chiese Tis.
“Non lo so. Non faccio più giochetti da un pezzo.”
Tis unì due semiali e le tenne premute perché la colla attaccasse.
“Giochi anche tu. Hai voglia se giochi. Tutti hanno i loro
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giochetti.”
Londei si alzò e andò in cucina verso il frigo. Vi trovò un cavolfiore, la carne per il gatto, una scatola di dadi. Scoperse infine una
busta di pancetta. “Pezzente” disse a Tis. Scansò un po’ di barattolini
di vernici e si sedette a mangiare. Sullo schermo televisivo scomparvero le ballerine e venne su una cantante coperta di stagnola. Londei
allora spense e cercò nella credenza il vino. Non trovò bicchieri puliti e ne versò in una tazza. Tis era passato all’altra semiala, tutto
assorto nei suoi incollaggi.
“Mi fai venire il nervoso con quelle porcherie,” gli disse Londei
“non mi sembri normale.”
Tis alzò gli occhi dall’Hurricane. “Ti sei ingrassato, ultimamente.”
Londei posò il panino, poi lo riprese. “È vero,” ammise con
tristezza evidente “è sempre più difficile. Si vede?”
“Ma no!” disse pentito Tis.
Londei pensò a quelli della sua età che comprano il dolce la
domenica e trovano la pasta fatta in casa. Le loro mogli non vanno
all’Umbria Jazz e diffidano delle persone magre. Comunque pareva
che a Tis portare il dolce a casa la domenica non fosse servito.
“Se alzi quel giornale, trovi due fogli” disse Tis. “Leggi un po’.
Non è roba importante, ma ti piacerà.” Londei si allontanò dal penoso ricordo dell’Umbria Jazz e lesse la prima fotocopia.
RISTRETTO DE’ CASI DI TAGNANO QUAI NE FURONO
MOSTRATI VERITIERI
senza mostrar verso colui con rari & strepitosi gridi, saltando in qua
& in là disvincolando & contorcendo che pur doleasi di sua morte.
Et poscia che fu disfatta venner dappresso Monsignor Mateo
& alquanti de’ suoi per iscorgere di che natura fosse essa, che già
Monsignor straziato da que’ gridi disperavasi ch’havea colto un misero ò un povero. Erasi come scimia ch’ havesse di lupo il capo, alta
com’uomo, ugne a falcetto, di pel lungo coverta, denti e sanne formidabili. Tal visione cangiò l’essenza al sanguine. Monsignor Mateo
pregò Iddio & pur tremando ne persuase ch’esso abbominio fosse
sepelito, ordinollo dipoi che per paura vide i servi non volere.
La medesima notte per più milia udironsi urlar lupi esciti da
lor tane. Et si scorsero a mane sovra il tumolo d’essa bestia uccisa il
dì inante più unghiate come d’escavar furioso.
La sera che seguitò tali casi mastro Aldergo, che a M. Abbate
è riscotitore di Gabelle, andonne al fiume per sua dilettevole consuetudine di pescagione con taluno amico & ivi ristettero con diletto
a bastanza fin ché il sole venne all’occaso. Erano per partirsi che
udironsi dall’altra ripa gridori & lamenti come chi fosse in sorpreso grado di miseria perfettamente somma & una cosa seguitar da
presso. Mastro Aldergo il quale scorgeva il caso & obstando il fiume
giudicò gridar soccorso & aiuto. Ma l’abbominio come sconciando
volse verso lui & con horror gittosi da la ripa in acqua contra essi.
Mastro Aldergo & i compagni com’ebbero giudicio che contra lor
veniva senza armi, non senza ragione & causa...
La sera del dì VII di maggio, in che la Chiesa catholica celebra di Stanislao Vescovo & Martire la gloria, Monsignor Mateo
Fringuellucci ammazzò di buon colpo d’archibuso un animale mostruoso & assai mirabile che havea colto intruso in sua terra presso
il fiume Folia, IV o VI milia fuor da Pezaro escita Porta del Ponte.
Tal bestia ne tenne sbigottiti per la notomia difforme & incognita
& essa morì a dipresso poi che Monsignor l’havea archibusata non
“Che strana cosa” disse Londei “ma non c’è seguito?”
“No. Sono frammenti.”
“Di che?”
“Non si sa. È la trascrizione di quel che restava di una carta
rovinata. Leggi il secondo. All’archivio hanno dei pezzi inclassificabili.” Londei prese il secondo foglio. Si trattava di un vecchio giornale. Leggendo sorrise: “Il Monitore Metaurense: ma senti che nome.
Queste erano le fesserie d’archivio?”
“Magari alla lontana hanno qualche riferimento con la roba che
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mi interessa. Poi te ne parlo.” Londei lesse ad alta voce, con evidente
piacere.
“Interessante” concluse Londei.
Tis attaccò le semiali alla fusoliera e guardò compiaciuto.
“Sì, è interessante. Ma pensa cosa ci può essere dietro.” Posò
l’aereo e si alzò. “Usciamo a fare due passi? Qui ho finito.”
“Che ci dovrebbe essere dietro?” chiese Londei, “magari sono
fantasie...”
“No, fantasie non sono. Farà ridere ma sono comunque cronache.”
Tis prese una busta della spesa sotto il lavandino della cucina e
vi cacciò pezzi di plastica e fogli di giornale, la annodò e la consegnò
a Londei.
“Domani vengono gli spazzini.”
Quello tenne il sacchetto con due dita, lontano da sé. Quando
Tis si fu infilato l’impermeabile, glielo restituì. Uscirono. Nel buio si
strusciò alle loro gambe il gatto che voleva entrare. Tis gli riaperse
la porta.
“Se non si appendono i sacchetti” spiegò, “cani e gatti di notte
fanno un macello.”
Convennero che c’era molta umidità. Sotto la luce del fanale
videro un grosso ratto uscire da un cumulo e attraversare veloce la
strada.
“Sarà il trionfatore di questo mondo” disse Tis con fasulla solennità. “Perché non ci beviamo una grappa? Si ragiona meglio.”
Londei si tirò su il bavero della giacca.
Presero per il bar. Ora che la città aveva di colpo ritrovato parcheggi al mare e gli alberghi s’erano coperti di tavole di legno numerate, l’autunno s’era rivelato cupo e piovoso e aveva respinto la gente
dentro le case. Tanti anni prima, invece, sembrava che le stagioni si
prolungassero oltre il limite spegnendosi poi più lentamente. Allora,
quando gli scioperi degli spazzini erano ancora una cosa seria e nella città, un decennio prima, i cumuli delle spazzature avevano raggiunto livelli di guardia, bande di giovinastri tra i quali Tis e Londei
avevano girato nella notte appiccando incendi come Ulisse a Troia:
nei roghi erano bruciati bidoni e volate minacce dalle finestre che
si spalancavano. Queste cose rivide Tis passargli davanti agli occhi
mentre entrava nel bar dietro a Londei. Lì, dietro il frigorifero dei
gelati, cominciava la fila dei soldati per la cabina del telefono. Per
opposte ragioni e con diversi desideri lui e Londei ebbero voglia di
telefonare e di sentire qualcuno rispondere.
“Non me l’aspettavo così” disse Londei guardando la grappa.
“Perché? È ottima” Tis bevve con la sua solita fretta. “Dicevo
della vita” vennero incredibili le parole di Londei.
Per strada ripresero la via del mare.
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Pesaro, 30.
La nuova che, disciolto il regime teocratico, a Roma rinnovasi la Repubblica, memore delle virtù che infiammarono li petti a
Collatino e Bruto, accavalca li monti e viene a rallegrare i buoni e
sgomentare i tristi. Ma pur esterefatti coloro sonvi ancora pronti a
risicate intraprese.
Or son due giorni la villa di uno specchiato pattriota, di cui
taccionsi nome e fortuna, fu assaltata in pieno dì e una masnada di
villici imbestiati guidati da sobillatori del Papa penetrò tutto asportando, ogni cosa insozzando e riducendo in istato deplorevole. Accorse il massaro co’ famigli pregando per Iddio che s’acquetasse
il tumulto; ma se n’ebbe a dolere, che la rancorosa canaglia l’urtò
quasi a morirlo e offese alcuna donna ch’era con lui.
Li briganti furono poscia fugati da un pugno di pattrioti uscito
a schioppettare, e sei d’essi vennero addotti ai ferri. Entrarono in
fine li soccorsi in villa e iscorsero gran danno. Ma lo smarrimento
venne al sommo quando nella cripta apparve che il sepolcro del padre, era bruttato e scempiato miseramente secondo stolte credenze.
Oh sole della Ragione, inonda li aprichi colli pesaresi e disperdivi le brume del fanatismo. Li civici soldati della Cisalpina Repubblica già s’adoprano a pacificare i contorni.
“Quali sarebbero gli altri documenti, allora?”
Tis strinse le spalle: “È difficile...”
Le finestre degli alberghi erano buie e le vecchie ville in prima
fila anche. Maestose sopra le siepi e l’ombra dei giardini, lasciavano
filtrare solo qualche lama di luce dalle persiane.
Spie di riflessioni, studi o stravizi, nessuno poteva dire. Le
tempeste di fine stagione s’erano mangiato il solito pezzo di spiaggia
e il mare suonava direttamente sotto la strada. Londei cominciò a
guardare con aria indifferente le auto parcheggiate intorno a un palazzo dalle cui cantine uscivano luci e musica.
“Cerchi Laura?” gli chiese Tis.
“Sì” ammise.
“Vuoi che entriamo?”
“Ma no” Londei alzò le spalle. “Andiamo.” La faccia gli si era
tirata e l’interesse per i documenti era scomparso. Si lasciarono alle
spalle anche il Piano Bar, dove può darsi fosse – o non fosse – la
giovane Laura.
“Allora?” chiese Londei.
“Allora che?”
“I documenti, le cose che hai trovato.”
“All’archivio...” cominciò Tis. Ma vide che anche nello spiazzo del vecchio Kursaal Londei frugava con lo sguardo. La grande
sfera bianca che sorgeva al centro dei giardinetti era però abbandonata e nessun giovane vi era sdraiato attorno come d’estate. Liscia,
e poi aperta come a mostrare una sorta di meccanismo illogico, la
scultura era tutta coperta di scritte: indirizzi, cronache amorose, date,
inviti, desideri, promesse di prestazioni, richieste d’aiuto. Così non
sembrava più l’ambiziosa affermazione della politica culturale del
comune, ma il simbolo addomesticato delle malinconie che si trovano scritte nelle stazioni di tutto il mondo.
“Hai un’aria stasera! fra sguardi, giri, e sospiri...” disse Tis.
“Come va con Laura?” Londei stette zitto e tutti e due girarono per il
viale inseguiti dagli sbuffi di nebbia.
“Male” rispose Londei all’improvviso. “Male perché non sto
tranquillo. Non mi diverto più.”
“Però nessuno ti ci lega.”
“Come no, invece. Che ne sai tu? Tu sei quello che capisce
sempre tutto. Queste cose, invece, non le puoi capire.”
“Perché non le potrei capire?” chiese Tis seccato. “Donne ne
ho avute anch’io, e in più ho una moglie.”
“Non è lo stesso. Questa è una ragazzina. Di vent’anni. Non so
se capisci...”
“Non posso, l’hai detto tu.”
“Io ne ho trentasei. Non ci troviamo a ragionare, siamo diversi,
certe volte non la sopporto. Non è nemmeno che abbiamo litigato,
ma ti ricordi ad agosto?”
“No” disse Tis pensando ad una di vent’anni che lo aspettasse
nel suo desolato talamo, adesso che il freddo e le brume invernali
parevano essere arrivate.
“Siamo stati in vacanza. Torniamo dalla Bretagna: baci, amore, passione, milleduecento chilometri in un giorno e una notte. Due
mattine dopo prende e vuole andare al parco d’Abruzzo a trovare
un’amica.”
“Un’amica?”
“Una scema che stava al campeggio con la gonna lunga e gli
scialli.”
“L’alta uniforme femminista.”
“Sì. Torniamo anche da lì e viene fuori l’Umbria Jazz... Hai capito? Non sta mai ferma. Tiene accesa la radio anche quando dorme,
porta sempre qualcuno e vuole sempre andare a trovare qualcuno,
Iris, Maria, Peppe, Dolores, Adelaide e Luigi a Berlino, Fano, Cagliari Elmas. E poi è scema. Adesso ha il mito del sole, del sud. E io
ci devo andare. Se dico di no sembra che voglia essere autoritario, se
non ci vado ho paura.”
“Di che?”
“Di non vederla tornare. Ho preso il vizio. Sarà scema ma...
“Immagino benissimo.”
“È bella, ti senti... ti senti in un modo. Sopporti anche il mito
del sole, quello del corpo, del nudo integrale... si mettono al sole
giornate intere con le tette di fuori. Ore e ore. Non mangiano mai. A
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me sembra di impazzire. Dopo due ore odiavo lei, le amiche e quei
mostri dei loro amici.”
“Giovani e magri?” ghignò Tis.
“Non mangiano mai neanche quelli” disse Londei con odio,
“me li porta a casa, dormono tutto il giorno, mi chiamano compagno,
io devo dargli anche i miei liquori.”
“Be’, almeno te li porta a casa ma sta con te. Lasciale fare quel
che vuole, usa un po’ d’intelligenza.”
La mente di Tis risalì a pochi mesi prima, rivide le porte sbattute, la moglie che partiva, le bugie al bambino. Lacrime e libertà come
nei film. Pensò anche a Laura, come la vedeva lui: liscia e bellina,
con le esagerate cordialità, i baci sulla bocca con cui ti salutava sempre, come se non vederti da due giorni le avesse fatto male.
“Ultimamente poi,” continuò Londei guardando alla città come
a una nemica “ultimamente mi sono anche stancato in quel campo lì.
Stupidaggini.”
“Sì, certo” disse Tis.
“Ho provato a prendere queste” concluse Londei tirando fuori
il foglietto di una medicina. Tis si mise a ridere.
“Sai quanto c’è da ridere” disse Londei seccato e già pentito.
Tis si fermò a leggere sotto la luce di un fanale con evidente malignità.
“Epatopatie acute e croniche, astenie, convalescenze... sei stato male ultimamente?”
“Ma dai.”
“Anoressie,” continuò Tis “ma se mangi come una bestia? Deperimento organico...”
“Fallo sapere a tutti, mi raccomando” disse Londei che era bello, pettinato e triste, appena un po’ pingue nella giacca a vento e gli
stivali col tacco. Erano ormai alle soglie del centro e brillava nella
foschia la luce di un bar seminterrato dove gli attori vanno dopo le
recite e i militari si mangiano la pizza.
“Ti va un’altra grappa?” chiese Tis “tocca a me.” Londei riprese a parlare quasi per i fatti suoi: “Due giorni, tre giorni, sulla spiaggia con le tette fuori. Non fanno mai niente. Speri vadano a fuoco
e invece niente. Il quarto giorno hai capito tutto: sono mostri, non
capiscono, non hanno simpatie, affetti. Sono tutti uguali, vanno con
lo zaino a trovare questo e quello, si piazzano lì a scoprirsi il corpo.
Gente che hanno visto anni prima...”
“Ma si divertiranno...”
“Non si divertono mai,” affermò Londei deciso “non li ho mai
visti divertirsi.”
Loro si divertirono con una seconda grappa e, fatti più saggi,
riemersero in strada incontrando davanti al duomo due tizi che Tis
salutò. Un’ombra spari tossendo per la via del museo, nel quartiere
fantasma dove non abitava più nessuno. Svoltarono anche loro. Di
fronte al museo torreggiava una sorta di cannone antiaereo messo
in un bilanciere di orologio: scultura inserita nel quartiere per essere
fruita dal cittadino. Ma lì le finestre delle case erano chiuse, qualche
persiana pendeva sbilenca, gli intonaci cadevano scoprendo il mattone. Tis sapeva che l’ortica cresceva nei cortili sbarrati, nella viuzza
della chiesa e ovunque lui aveva creduto di cominciare a conoscere
il bene e il male della vita. “Lo sai” disse a Londei “che più passa il
tempo meno le sopporto?” Indicò le sculture “Le statue, i monumenti
del comune...”
Londei strinse le spalle pensando ad altro, non ai monumenti
che in città erano venuti assieme ai quartieri che si erano mangiati le
colline. Appoggiò le mani al freddo ferro rugginoso.
“Per tuo figlio saranno la norma, affari così: come per noi Garibaldi che guarda verso Roma.”
Attraverso un vicolo di portoni sbarrati e muri cadenti uscirono sul Corso. Lì, la città illuminata e abitata ignorava il confine
dell’abbandono e il Corso mostrava serrande verniciate e orgogliosi
negozi. Una coppia entrò nell’accogliente buio da cui loro erano appena usciti.
“Non si può far sempre l’amore come a venti anni” enunciò Tis
consolatorio.
“Già” disse Londei.
“Pacati i moti del cuore, ogni passione spenta...” recitò Tis.
“Non sono del cuore i moti, cretino.”
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“Me n’ero accorto.”
La vetrina di un libraio era ancora accesa e un trespolo faceva
girare i volumi esposti, come accadeva una volta nelle vetrine delle
calzolerie. Dalla Piazza venivano richiami e chiasso, e la nebbia dava
alla città un aspetto settentrionale.
“Senti,” chiese Tis “mi accompagni a Urbino dopodomani?”
“Perché?”
“Devo andare dal bambino che con l’inverno prende una bronchite dopo l’altra.”
“E la tua macchina?”
“Con l’inverno mi si scarica la batteria, se ti scoccia venirci
basta che mi presti l’auto.”
“In primavera cosa capiterà? Perché quest’estate era il motore
che scaldava...”
“Se a poker avessi vinto forse avrei cambiato la batteria, invece di andare all’archivio. Sebbene...”
“Sebbene che?”
Londei vide Tis esitare davanti a quello che stava per dire,
come se aver parlato di donne e motori per tutta la strada gli rendesse
adesso le cose più difficili.
“Anche in archivio puoi trovare certe cose, cose che magari
dovevano restarci chiuse per sempre, che non si dovevano sapere...
insomma un mistero... Conosci i conti Baldassarri?”
“Chi non li conosce? Di fama: c’è quel palazzone loro, qui in
centro” accennò vagamente a una direzione.
“Io, in questa città, ho trovato qualcosa che non si doveva sapere” ripeté Tis, “qualcosa che tutti sono sempre riusciti a far dimenticare.”
“Perché?”
“Perché? ... Non so bene. È una cosa incredibile: come se tu
vedessi, non so, tua madre che esce di casa con la pistola... Più di
cent’anni fa è stato ammazzato un contadino, vicino, anzi sulle terre
del conte di allora.”
“E l’ha ammazzato il conte?”
“Averlo ammazzato sarebbe il meno. Quello pare sia morto
dissanguato e per un morso sul collo.”
“Ma va” disse Londei con un accenno di sorriso, “lo sai cosa
stai dicendo?”
“Sì,” rispose serio Tis “voglio dire che il conte Baldassarri era
un vampiro.”
“Fantasie” rise Londei, “scemenze.”
“No. La gente di allora ne era convinta. Un prete del posto lo
mandarono via perché parlò: io ho giusto trovato la lettera del Delegato con cui lo rimproverava. Poi ho trovato anche il rapporto della
gendarmeria. Le voci si riferivano anche al passato...”
“Capirai! Le voci del popolo... Che anno era?”
“Il 1857. La cosa finì nel nulla anche per la confusione che ci
dovette essere con l’Unità. La prima lettera l’ho trovata per caso.
Se avessi magari trovato prima il rapporto della gendarmeria non
ci avrei fatto caso più di tanto. Invece io ho trovato quella lettera di
rimproveri al prete che aveva dato importanza alle voci e dopo, col
rapporto, ho visto che quelle voci, in fondo, avevano consistenza. Allora mi sono impressionato,... cioè, a parte il fatto giudiziario, c’era
la possibilità di un filone di vampirismo nelle campagne pesaresi...
Lo so, sembra ridicolo dirlo e anche antropologicamente sarebbe una
tradizione atipica...”
“Questa è bella” ammise Londei “per davvero! Ma in Transilvania il vampiro c’è sul serio? o ce l’ha messo il cinema?” Vinto dall’umidità, si tirò su il cappuccio. I bei capelli pettinati scomparvero e
sembrò un frate perduto nella nebbia.
“Non lo so. Il cinema, comunque, può immaginare solo fino a
un certo punto. In ogni caso” riprese Tis “ho cercato ancora e non ho
trovato niente. Tranne quelle cose che hai letto anche tu e che non
significano nulla.”
“Già, quegli strani pezzi... Be’, l’articolo del Monitore sotto
questa luce forse significa anche qualcosa...”
“Allora sono andato a Trebbiantico – è lì che era successo il
fatto – e ho visto che il prete era stato mandato a S. Leo, e nient’altro.
Così sono andato a cercare quel mio zio vecchissimo, ti ricordi? Ci sei
venuto anche tu, a quel pranzo di nozze di mia cugina... due anni fa.”
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“Mi ricordo, sì. Che ti ha detto?”
“Mi ha dato chili di pomodori, patate, vino... I Baldassarri, ha
detto, gran nome, grandi palazzi, grande rispetto. Gente seria, neanche esosa coi mezzadri, ci si poteva fare affari. Però c’era qualcosa.
Ai bambini si diceva – Sta’ buono che viene il Conte e ti porta
via – ...”
“È poco.”
“È molto, altroché. Perché durante la guerra, la Grande Guerra
voglio dire, ci fu un altro morto. Una domestica che fu trovata uccisa.’
Nella piazza c’erano tre o quattro giovani accucciati fra i pilastri del comune. Né l’ora né il freddo li avevano cacciati. Altri tre
lanciavano, con grida ed esortazioni dei seduti, un copertone di bicicletta che fischiava nell’aria e veniva preso al volo o piombava a
terra. Un gruppetto di ragazze uscì dal bar vicino al portico e divenne
visibile nella nebbia quando si accostò a uno dei grandi fanali della
Piazza. Indossavano giacche del nonno e una portava dei lustrini tra
i capelli. Presero a battere le mani ritmicamente. Uno dei giocatori
prendeva la rincorsa con la gomma in mano e la lanciava contorcendosi. Un altro la seguiva con lo sguardo attento e cercava di prenderla al volo, con l’espressione tesa, come se bloccare il volo di quel copertone fosse un esercizio, una recita da celebrare contro qualcuno,
ferocemente, in un teatro dove solo gli attori capiscono e guardano
male il pubblico che odiano.
“L’ala creativa si diverte” disse Tis.
Londei s’era girato più volte. S’era levato il cappuccio e l’umidità gli appiccicava i capelli sulla fronte. Guardava nervoso e non
disse niente.
“Dai, che non è neanche qui” disse Tis “e poi, se c’è, che ti
frega?”
“Niente, mi frega.”
“Entriamo nel bar” propose Tis “vediamo se c’è qualcosa che
ci va. È freddo.”
La gomma intanto fischiava e passava sopra la fontana, scivolava sull’asfalto, e il rumore cresceva.
“Cosa dicevi, di quella domestica?” chiese Londei.
“Non ti annoia?”
“No davvero. Laura non è nemmeno una croce: sono io che me
la creo da me. Dicevi?”
“Dunque, quella domestica fu ritrovata morta per strada e mio
zio sostiene che la madre, quando la vide, disse cose da pazzi... Di
questa storia non ho letto nulla ma qualcosa da qualche parte ci sarà.
Perché non te ne occupi tu?”
“Come è stata uccisa, questa donna?”
“Da un animale, ha detto mio zio. Anzi: come da un animale.”
I lanci della gomma erano all’apogeo: ad ogni volo applausi da
intenditore salivano a rimbalzare sulla piazza coperta di nebbia, ed
ecco che far volare una gomma di bicicletta diveniva un gioco con le
sue regole, un’arte, un rito. Il chiasso doveva giungere come una proclamazione di guerra nelle vecchie case del centro addormentato.
Mentre i due stavano per lasciare il bar che già aveva la segatura per terra, il copertone piombò ai loro piedi lanciato da una torsione
più forte e accompagnato da un grido più acuto: dietro a quello arrivò
a raccogliere uno. Al di sopra del bavero e della sciarpa, in mezzo a
capelli lunghi, gli occhi del ragazzo e quelli di Tis si incontrarono:
Tis vede un volto affilato che lo guarda, una giacca troppo grande,
uno sguardo che subito se ne va verso i suoi giochi.
Adesso non lo sa, ma Tis quella faccia la rivedrà ancora.
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CAPITOLO VII
La testa ricciuta della moglie apparve alla finestra, imbronciata
come l’ultima volta che s’erano visti.
“Non è mai troppo tardi” li accolse, “tuo figlio ha il morbillo.”
Prima che la finestra si richiudesse, Tis e Londei fecero in tempo a sentire un “Dio li fa poi li accoppia” che non mancò di gelarli.
Tis allargò le braccia. La porta in cima alle scale era aperta e nessuno
stava sulla soglia, cosa che sembrò di più acuta e fine maleducazione
di una porta meramente chiusa. Tis si tirò dietro Londei cui aveva
affidato il pacco con l’elicottero, e che indossava, quel giorno, un
giovanilissimo montgomery blu notte.
Anche l’ingresso era deserto. Adesso me ne vado – pensò Tis.
Invece sentì la voce del figlio dal fondo del corridoio, che diceva
“C’è il babbo, c’è il babbo”, e si precipitò verso la camera. Il bambino emergeva da un mare di fumetti, costruzioni, fogli d’album, e tese
le braccia e un faccino eritematoso che gonfiò parecchi dei sensi di
colpa di Tis. Londei dalla porta assisté all’incontro di Tis sopra il figlio, questi che cercava di salirgli sulla schiena e poi, visto l’elicottero, tentava di sottrarsi all’abbraccio del padre. Londei, sotto l’occhio
critico della moglie che sedeva in una poltroncina vicino al letto, lasciò lì l’elicottero e tornò nell’ingresso. Adesso sentiva le espressioni
puerili del bambino e quelle ancor più puerili di Tis, che spiegava
l’elicottero fra reciproche esclamazioni di entusiasmo e meraviglia.
Questi, dunque, i riti della paternità da cui Londei era ancora
provvidenzialmente escluso. Paternità separata, quella di Tis, ma pur
sempre frutto di quella mitica voce del sangue che arriva più di tutto a sommuovere la vita delle persone e fa fare cose, per anni, che
Londei non farebbe per due giorni, neanche a pagamento. Oddio,
magari Londei si lancerebbe dentro una casa in fiamme per salvare
un bambino, anche nelle gelide acque di un fiume, forse. Ma sopportarlo, poi, nella vita quotidiana? Tenere le orecchie pronte anche nel
sonno? Non andare, non uscire, non dormire, aver paura per ognuno
dei mille pianti senza perché di un bambino? E d’altra parte, se Laura
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fosse rimasta incinta che avrebbe fatto? Probabilmente tutto, tutto
sarebbe finito, amore figlio e tutto quanto.
Si mise a bere il caffè che la suocera di Tis gli aveva portato
senza parlargli, come se del marito della figlia lui fosse una sorta di
complice. Però c’era anche l’altra versione di Laura incinta, quella di
Laura che avesse letto in un giornale del modo alternativo di essere
madre. Facile che, a quel punto, accettasse coi soliti entusiasmi pancia e figlio. Londei così vide nel pensiero suo figlio portato a zaino
sotto i cieli estivi della Sicilia, della Tunisia, dell’Iran, fra poppatoi e
campeggi. Immaginò che avrebbe vissuto in un mondo tutto femminile, fra esperimenti libertari e musiche orientali. E lui dov’era? Non
seppe vedere un posto per sé.
Tis arrivò con l’Enciclopedia Medica, cercandovi la voce morbillo con faccia tempestosa.
“Difatti!” esclamò “in un caso su mille dà un’encefalopatia,
assai più spesso complicazioni broncopolmonari. E qui il medico
l’hanno chiamato solo stamattina.”
“Ma lo sai che il morbillo lo prendono tutti” suggerì Londei.
“Cosa succede?” chiese la moglie arrivando dal corridoio.
Tis la guardò cupamente: “Leggi. Già da ieri dovevi chiamare
il dottore.”
“Il morbillo non è la peste, il dottore arriverà. Tu dov’eri, quando si è ammalato? Io sono una donna sola, io non ce la faccio più,
carino.”
“Con chi potresti vivere tu? Chi ti potrebbe sopportare?”
“E tu, il letterato che gioca con i modellini? Tu chi sei?” Tis
taceva.
“Sei la rovina mia e di mio figlio” concluse la donna finalmente. Londei si nascondeva dietro un vivo interesse per l’enciclopedia
medica. In quell’istante comparve sulla porta proprio il bambino a
piedi nudi, e a tutti sembrò pallido e spaventatissimo, sicché anche
Londei balzò in piedi.
“Babbo, perché strilli?”
“Madonna, non deve prendere freddo, incosciente” gridò la
moglie tirandolo su.
“Strillavo con lui” si giustificò Tis indicando Londei “ma tu
non ti devi alzare dal letto.”
“Babbo, s’è rotta la gru dell’elicottero. Vieni a vedere” ordinò
il bambino. Il trio scomparve verso la camera, Tis e la moglie lanciandosi occhiate feroci al di sopra della testa del figlio.
“Fanno sempre così” disse la suocera a Londei. “Lei è sposato?”
“No... io no.”
“Me l’immaginavo” disse la donna guardandolo di traverso.
“Pensi che ieri è andata dal parrucchiere perché oggi veniva il marito. E adesso, vede, sembrano scintille.”
“Tis è un brav’uomo” si lasciò scappare Londei.
“Io spero sempre, sa? Almeno per quella creatura. Però guardi
che quello, a mia figlia, gliene ha fatte vedere di tutti i colori... Anche
lei ha il suo carattere, non dico di no. Ma lui, lui...”
Preceduto da un enorme elicottero giallo tornò Tis.
“Signora, ha un cacciavite? Ho paura di doverlo aprire.”
La suocera uscì e Tis si mise a considerare l’elicottero.
Sotto, da una fessura, un uncino doveva salire e scendere comandato da una manovella, ma adesso il congegno era rotto. Tis lo
tentò e lo scrollò tutto. Arrivò il cacciavite portato dalla suocera.
“Ai miei tempi i figlioli giocavano senza giocattoli e erano più
contenti di adesso. Ai figli bisogna volergli bene.”
Svitando la prima vite, Tis non raccolse. Tanto la suocera aveva ragione e lui che avrebbe avuto da rispondere?
“I figli non si devono abbandonare, questo è importante” continuò la suocera incoraggiata dal silenzio. Tis alzò gli occhi al cielo e
pestò più forte sulle viti. “Una volta a queste cose ci si pensava prima
di buttare tutto per aria” insistette la suocera. “Il matrimonio...”
“Insomma, signora! Basta!” ruggì Tis fuor della grazia di Dio.
La suocera sparì nel corridoio, certa in cuor suo delle disgrazie della
figlia.
Mentre l’elicottero si apriva mostrando un’anima complessa,
la moglie tornò. Pur potendo dire più cose – sul tempo, sul morbo,
sulle mille giravolte della vita – scelse proprio quella che più d’ogni
altra avrebbe mandato in bestia Tis:
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“Perché hai rotto il giocattolo del bambino?” Tis parve sorpreso da tanta cattiveria. “Avrai speso una fortuna e non gli è neanche
piaciuto.”
“Gli è piaciuto moltissimo.”
“Ha fatto finta per farti piacere ma non gliene importa nulla. E
poi, gliel’hai rotto subito.”
“Glielo sto accomodando, dammi pace. Non ho voglia di litigare...”
“Pace ne hai anche troppa, ti fa comodo: vieni qui una volta a
settimana e gli porti i regali che piacciono a te e li rompi anche.”
Con secchi movimenti Tis fece rientrare nel buco l’asse della
manovella che era uscito, pressò assieme le due metà dell’elicottero,
controllò con sollievo che tutto funzionasse.
“Vedi?” disse alla moglie “funziona.”
“Allora che l’hai smontato a fare? A casa non sapevi cambiare
neanche una lampadina.”
Con un rapido scalpiccio, vanamente inseguito dalla nonna,
riapparve il bambino dicendo: “Voglio sapere perché strillate.”
“Chi strilla?” chiese il babbo “nessuno strilla.”
“Voi gridate sempre.”
“Lo vedi?” sibilò a bassa voce la moglie. “Lo vedi il male che
fai a tuo figlio?”
Il bambino in braccio alla mamma venne riportato in camera
con in mano l’elicottero accomodato. Tis lo seguì.
“Adesso la mamma ti fa dormire con una bella favola” disse
al bambino. Lo misero sotto le coperte, tolsero le carte dal letto, posero l’elicottero in vista sul comodino e Tis contemplò le eruzioni
del figlio in lotta contro la malattia e i genitori, che a lui dovevano
sembrare dispettosi e pieni di capricci. Notò le onde nei capelli della
moglie accucciata vicino al letto, lucide e nuove: capì che le aveva
fatte per lui. La mano del figlio stava sul braccio della madre e lui
la carezzò, sfiorando anche lei e i suoi bronci. “Dormi bene, gioia
del babbo” disse al bambino andando di là. Nell’ingresso Londei
guardava l’orologio. Dalle finestre si vedeva la pioggia piombare su
Urbino, sulle strade piene di fumi, sui tetti malinconici, sugli studenti
incazzati, sul vasto mondo senza pace.
Nel silenzio passarono alcuni minuti, poi riapparve la moglie.
“Lo vedi il male che gli facciamo per colpa tua.”
“Basta!”
“Ma il giudice deve sapere...”
“Che giudice?”
“Il giudice deve sapere come vivi mentre tuo figlio sta male”
gridò la moglie.
“Come vivo! Vivo come un cane per mandarti i soldi che tu
sprechi dal parrucchiere!”
“Io... io...” la moglie scoppiò a piangere, “tu che butti i soldi
dalla finestra. Quanto sono disgraziata.”
“Vivo come mi pare nel lusso e nel vizio, tratto le bianche,
vado con le ballerine...”
“A parole. A parole sei il gran maschio” sottolineò sarcastica,
pur tra le lacrime, la moglie. Tis brandì l’elenco telefonico.
“Ti piacerebbe, eh?, che te lo dessi in testa? Ti piacerebbe dirlo
al giudice.”
“Sei un pazzo, un violento. Sei...”
Londei si alzò invocando la calma e desiderando con tutte le
sue forze di essere altrove, magari in un campeggio tunisino o in una
comune, persino in un corso di musica indiana autogestito. Il bambino, fatalmente, era ancora sulla porta.
“Basta. Basta di fare i capricci” scattò Tis, “subito a letto!”
Il figlio esplose in lacrime e scappò a piedi nudi inseguito dal
padre. Tis lo prese al volo e, metà pieno di tenerezza metà pieno di
rabbia, lo rimise sotto le coperte.
“Lo sai che stai male, eh delinquente” gli diceva “il babbo ti
mangia.” Gli tirò giù i pantaloni del pigiama e lo morse sul sederino.
“Ecco il timbro, ecco il sigillo.” Il figlio si mise a ridere. “Adesso ti
racconto io una bella storia, la storia del principe e del suo babbo.”
“Non mi piace, ne voglio un’altra.”
Ma Tis si mise a raccontare che una volta, in un paese lontano,
c’era un giovane principe che doveva badare a tutto il regno perché
il suo babbo, il re, era andato lontano a fare la guerra. La guerra era
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lunga e il babbo non tornava mai, ma il principe era bravo, premiava
i buoni, arrestava i ladri, non faceva i capricci e non andava mai scalzo, perché nel suo paese faceva freddo e gli poteva venire la tosse, e
allora come avrebbe potuto fare il principe? La regina non era capace
di far niente.
Con sorpresa di Tis il figlio si addormentò subito mentre il padre lo guardava senza capire dove avesse sbagliato e perché tutte
capitassero a lui e perché non avesse mai avuto niente fortuna. Passò
un po’, prima che potesse tornare di là. “Torno giovedì” disse alla
moglie che alzò le spalle senza rispondere. “Allora arrivederci” ripeté, “telefono per sapere qualcosa quando viene il dottore.”
“Telefona, sì, sì. Adesso vai. Va’.”
Lei gli aperse la porta, Londei uscì con un “arrivederla” che
era un falso storico, Tis disse che le stavano bene i ricci e le strinse
una spalla mentre la moglie guardava con interesse la tromba delle
scale.
L’insulto di Tis si perse nello schianto della porta.
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CAPITOLO VIII
Quando ritornò a casa, alle undici, il gatto era in conversazione con un altro paio di ceffi felini sotto la luce del bar, e ostentò di
non riconoscerlo.
“Guarda che più tardi non ti apro” lo ammonì Tis.
Stanchissimo salì le scale. Che giornata. Dopo Urbino con la
moglie, il vagabondare pomeridiano e deludente, poi la cena con
Londei e Cassiani a Fiorenzuola. Tre sole persone nella sala dove
venti giorni prima si ammassava ancora mezza Europa avida di piadine. Andò alla credenza e cercò il bicarbonato. Si sedette a pentirsi
del bagordo che aveva chiuso la giornata, contemplando il bicchiere
lattiginoso e amaro sul tavolo. Lì vide il giornale che in tutto il giorno non aveva ancora avuto tempo di leggere. A occhi chiusi mandò
giù il bicarbonato e gli sembrò subito di placare un incendio. Il giornale parlava di crisi di governo imminente. Passò oltre. Parlava di
crisi degli ospedali. Passò oltre. Gli Arabi avevano comperato mezza Londra e le acciaierie tedesche. Passò oltre. È in crisi la figura del
centravanti nel calcio totale? Lesse con avidità.
Un giornale alle undici di sera è già una cosa spenta senza
rimedio. Arrivò alle pagine locali. Da di sotto venne perentorio il
miagolio del gatto. Crepa, pensò. Il miagolio crebbe di tono. Tis
andò ad aprire: il gatto saettò su per le scale e, arrivato in cima, si
voltò verso il padrone col capo di traverso e il ronzio delle fusa già
in atto. Talché Tis si sentì subito racconsolato e pronto all’indulgenza.
“Sei meglio te di tanta gente” disse al gatto. Gli venne a mente
l’andare e venire di Londei al telefono e la faccia che aveva al ritorno, fra i lazzi di quell’altro animale di Cassiani. Che si era messo
a fare con una ragazzina? Correrle dietro coi codici e gli schemi di
un’altra età, negati ma non meno vivi dentro il suo animo alla moda?
In due ore aveva tentato di trovarla almeno dieci volte. Alla fine
anche il cameriere sorrideva, Cassiani sghignazzava e solo Londei
mangiava cupamente. A ogni uomo la sua pena.
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Riflettendo e sospirando Tis riprese la lettura. Allora gli occhi
volarono, poi Tis sbalordì.
ULTIM’ORA
Pesaro, 3 ottobre. – Profonda impressione ha suscitato nella cittadinanza la morte del ventunenne modenese Roberto Avoli, che dallo
scorso inverno viveva nella nostra città senza fissa dimora, ospite di
occasionali amici.
Il corpo dello sventurato giovane è stato rinvenuto ieri sera, poco
dopo le 23, riverso nell’atrio del Palazzo Baldassarri, in pieno centro, da persona rimasta sconosciuta che ha provveduto ad avvisare
il 113. Gli agenti della Squadra Mobile hanno svolto i rilevamenti di
legge. La morte sembrerebbe risalire a poco prima del rinvenimento, tra le otto e le dieci della sera stessa. Vicino al corpo gli agenti
hanno rinvenuto un laccio emostatico, un cucchiaio e una siringa
da insulina. Ciò farebbe pensare che l’Avoli sia stato vittima della
droga, forse di un’overdose, come la nostra cronaca sempre più frequentemente riferisce.
Ha suscitato raccapriccio il fatto che la salma presentasse tracce di
sangue alla gola, si teme a causa dei topi che sempre più numerosi
infestano i fondi e le cantine della città. Si è subito formata una
piccola folla attorno al pietoso spettacolo. La salma del giovane,
dopo i primi accertamenti, è stata portata all’ospedale S. Salvatore
a disposizione degli inquirenti.
Baldassarri? Lui? La sua casa? Rilesse tutto. Un cenno alle
tracce... Che tracce? Il lato ridicolo della sua vita si dissolse e lui intuì la tragedia. Ci si sentì immerso fino al collo. Negli ultimi giorni il
destino gli aveva posto in mano il capo di una catena. In mezzo alle
sue preoccupazioni, senza accorgersene e senza badarci più di troppo, Tis aveva seguito quel capo e adesso era arrivato al varco. Quali
sono i limiti dell’impossibile che accade? Era successo. In tutta la
città solo Tis capiva cosa quel morto significasse.
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A mattina bevve il caffè versandolo sul fornello e anche sulla
camicia. Si sedette ancora con l’articolo davanti: la radio che aveva
automaticamente acceso lo seccò con i suoi annunci e i primi lagni
confidenziali delle radio libere. Spense.
Certo, l’articolo gli sembrava l’inizio di una cosa pazzesca.
Nel palazzo Baldassarri era morto questo Roberto Avoli: ma come
era morto? Gli venne in mente di riaccendere la radio e sentire qualche notiziario locale, caso mai dicessero qualche cosa: udì invece
dediche di Patrizia a Ciu En Lai di Fano e di Bobo a Gula, nonché
réclames di ristoranti e discoteche. Baldassarri... Si chiese ancora se
fosse possibile. Certo, stava scritto lì. Ebbe voglia di sapere e paura
insieme. Che doveva fare? Che fa uno se si accorge che il feroce
assassino è il pensionato del piano di fronte che ci prestò zucchero e
prezzemolo innumeri volte? Parlarne a qualcuno? Immaginò le risate di Cassiani e l’incredulità sconcertata del direttore dell’Archivio.
No, nessuno di loro era adatto. Londei, invece, poteva andare bene:
bravo, e forse disposto a ingannare le attese dell’autunno e la sua
noia con quel giochetto di horror detective. Poteva aver paura? Di
notte certo. Ma in quella comune mattina decise di no. Alle dieci e
trenta doveva essere a scuola. Scese le scale e volò a comperare il
giornale.
C’era mezza colonna in pagina nazionale che riassumeva, praticamente, l’articolo del giorno prima. Nella pagina locale, invece,
trovò una foto recente del morto e del palazzo. Il volto con i capelli
lunghi gli rammentò un fischiare di gomme, in Piazza. Così lo riconobbe. Con le sue giacche grandi era stato uno dei frequentatori dei
portici, e Tis lo rivide venire a raccogliere il copertone quasi ai suoi
piedi. Il giovane Avoli!
Nell’articolo lesse queste cose memorabili:
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SGOMENTO E PREOCCUPAZIONE IN CITTA’
PER LA MORTE DEL GIOVANE AVOLI
Tutta la cittadinanza scossa e preoccupata – Il primo di una
lunga serie? – Gli inquirenti seguono diverse piste – Riserbo.
Pesaro, 4 ottobre. – Continua la sensazione di orrore e commozione
per la morte del giovane Roberto Avoli, rinvenuto cadavere la sera
del 2 ottobre nell’atrio di un palazzo del centro di Pesaro. Il giovane,
probabilmente deceduto per un “buco” di eroina, sarebbe nella nostra città la prima vittima di questo tremendo flagello contro il quale
si sono rivelati fin qui impotenti leggi troppo permissive e inadeguati
interventi delle autorità.
Il giovane, la cui salma resta a disposizione per gli adempimenti di legge, era giunto nella nostra città verso la fine dello scorso
anno e vi si tratteneva senza esercitare alcuna attività fissa. Pare
abbia vissuto di espedienti e che frequentasse certi ambienti giovanili noti alla Questura. Lo stesso Avoli era stato per pochi giorni
associato al locale carcere di Rocca Costanza, a metà dello scorso
luglio, essendo stato fermato sotto i portici della Prefettura in possesso di un quantitativo di stupefacenti, ed era tuttora in attesa di
processo. Secondo voci raccolte dalla nostra redazione, in città si
dice che i guai dell Avoli siano cominciati proprio a causa di quella
scarcerazione, giudicata forse troppo rapida da qualche persona del
giro.
Qualunque sia l’origine della tragedia, si è di fronte a una
recrudescenza del fenomeno che coinvolge ormai masse sempre più
imponenti di giovani e che le autorità locali e nazionali sembrano
incapaci di arginare.
La Questura non ha ancora potuto ricostruire completamente
le mosse dello sventurato giovane nel suo ultimo giorno di vita. Pare
che l’Avoli, in compagnia di amici, si sia recato verso le 16 in un
paese dell’entroterra per partecipare a una festa. Il nostro cronista
ha avuto difficoltà a intervistare gli amici del defunto, comprensibilmente riluttanti (o forse preoccupati) a rilasciare dichiarazioni. Pare
comunque che a tale festino, che aveva luogo in un antico palazzo,
partecipasse un certo numero di balordi e drogati. Sembra che, forse
eccitati dal vino o da altre sostanze, la festa sia degenerata quando
alcuni invitati, tra cui l’Avoli, avrebbero provocato danni agli arredi. Alla comprensibile reazione della padrona di casa – un’eccentrica signora –, si sarebbe scatenata una rissa conclusasi, tra insulti
e minacce, con l’espulsione dell’Avoli e dei suoi amici. Tornati a
Pesaro, qui l’Avoli avrebbe lasciato la comitiva verso le 19,30. Da
allora non sarebbe più stato visto vivo.
Gli inquirenti reputano che la morte sia stata causata da
un’overdose, ma per esserne certi si dovranno attendere i risultati
definitivi dell’autopsia. La Polizia indaga e interroga tutte le persone in qualche modo coinvolte nella vicenda. “Si considerano molte
ipotesi, tutte collegate al mondo degli stupefacenti”, ci hanno detto
per telefono dalla Procura. Ma alla richiesta di maggiori dettagli è
stato opposto un ovvio riserbo. Intanto si parla di morte per overdose
ma anche di suicidio o persino di omicidio tramite dose opportunamente alterata. Mentre gli inquirenti vagliano ogni pista, i cittadini
allarmati si chiedono se fatti del genere potranno ancora accadere.
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UN MACABRO PARTICOLARE
Orrore singolare ha suscitato il fatto che la salma dell’Avoli giacendo presso la bocca della cantina del palazzo Baldassarri, era stata
morsa dai ratti e presentava ferite al collo. Crediamo di interpretare
l’opinione della cittadinanza facendoci carico presso le competenti
autorità dell’esigenza di una sistematica derattizzazione del centro
storico, dove non è più raro scorgere enormi ratti passeggiare indisturbati, anche in pieno giorno, vicino alle fogne e alle aperture
delle cantine.
Per lunghi minuti Tis rimase sconcertato, passando più volte
dall’articolo alle foto: il volto del giovane Avoli, incorniciato dai lunghi capelli neri, era reso più affilato dagli zigomi sporgenti, nei suoi
occhi non c’era espressione.
L’atrio del noto palazzo dove il corpo era stato rinvenuto mo-
strava, in una fuga di volte e cornici, un piccolo giardino dove si intuiva del verde e la frescura dei pomeriggi estivi. Un refolo di vento
autunnale, giunto dal mare scavalcando i tetti della città, sfiorò Tis.
Doveva vedere. Quel che il primo articolo riportava sulle tracce di sangue alla gola già chiariva ciò che i primi scopritori dovevano aver visto, il segno di un morso che avevano attribuito ai topi
con razionalità e buon senso e con quel che a loro era già sembrata
bastante sfumatura di orrore. Avessero saputo. Se Tis avesse potuto
vedere... Ma era possibile? Come sapere ancora? Si avviò per strada
allo studio dell’avvocato Cassiani. Lui poteva dirgli qualcosa, lui che
conosceva mezza città e dell’altra metà sparlava tutto il giorno. Chiedere così, senza dare a vedere.
La strada dove l’avvocato stava edificando meritate fortune
era stata una delle più caratteristiche della città. Aveva ospitato generazioni di elettricisti, restauratori di mobili, negozianti di smalti
e vernici, idraulici in quantità, pittori, un paio di ubriaconi storici,
mercanti di libri usati, grossisti di detersivi e soda caustica, artigiani
vari, suonatori di clarinetto e poeti. Strada che aveva una storia e una
tradizione: posta a confine del vecchio ghetto, era stata abbandonata progressivamente da tante famiglie stanche dell’aria di crollo ed
estrema vecchiaia delle costruzioni, della mancanza d’acqua d’estate
e dell’umidità trasudata nelle altre stagioni. Diminuiti quindi i ragazzini che vociavano e correvano per strada e intimiditi gli altri da
motociclettari che avevano preso ad esibirsi con indisturbata soddisfazione sulla sola ruota posteriore, la strada aveva cominciato a
mostrare i segni della malattia comune a buona parte delle vie del
centro vecchio. Un paio di funerali avevano accentuato il fenomeno
e l’autunno inclemente, nel quale si muoveva Tis, andava chiaramente mostrando che, come un’infezione, la solitudine, gli scrostamenti
e gli echi delle case vuote si espandevano anche qui, in un presagio
di irrimediabile abbandono. Nell’unico palazzo risanato che dava ad
angolo sul Corso e che, come le facciate di cartone dei finti villaggi
di un finto Far West, nascondeva alla vista del passeggio la degradazione retrostante, qui, covo di avvocati agenzie e belle segretarie,
stava anche Cassiani.
Tis salì calpestando la moquette azzurra e trovò l’amico nella
lettura del giornale.
“Hai visto” gli chiese “quel ragazzo, la droga...”
Cassiani annuì. “Qui è il primo” disse.
Tis si accomodò e cominciò a rubare da un piattino elastici e
grappette. Cassiani spostò il piattino.
“Com’è morto?” chiese Tis. “Pensa, è successo nel palazzo
Baldassarri... Pare che i topi l’abbiano anche morso...”
“I topi?”
“Pare di sì. Tu lo conosci, questo Baldassarri?”
“Il padre aveva tutto” disse Cassiani, “Terre, palazzi, le cose
migliori. Questo invece è andato indietro.”
“Questo chi?”
“Il Conte. Umberto Baldassarri.”
“Tu lo conosci?” chiese Tis.
“No, io no. Ma ho sentito parlare di lui.”
“Che dicono?”
“Dicono che è ricco” disse Cassiani. “Lo sai che ho avuto i
bruciori di stomaco?”
“Quattro piadine: ci credo! Questo studio è freddo” continuò
Tis “non ci tieni una rivista, un oggettino. Per fare i soldi non vuoi
distrazioni? Compra una statuetta, metti due fiori.”
“Eh, i soldi. Baldassarri li ha i soldi, nonostante tutto. E non fa
niente.”
“Qualcosa farà...” indagò Tis.
“Si occupa di cose antiche, credo. Deve aver decifrato delle
lapidi, cose così... Dicono che studi.”
“Ha figli?” chiese Tis riprendendosi un grappolo di elastici.
“Sta’ fermo,” sbottò Cassiani “mi servono. Ha una figlia dicono sia una gran...”
“È una contessa.”
“Be’... è bella, dicono.”
“E la moglie?”
“Baldassarri è vedovo, la moglie è morta di parto. Il marito era
già anziano... Dopo non uscì quasi più di casa. Anzi, dalle case: ha
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una villa in campagna, con un parco. Sta lì e nel palazzo di Pesaro,
che però va a pezzi.”
“E che tipo è” chiese ancora Tis.
“Uno che si fa gli affari suoi.”
“Che affari?”
“Gli affari suoi, non se ne sa niente. La figlia sta in Svizzera:
studia là.”
“E il padre, che tipo era?”
“Un signore, penso. Con questo figlio solo e pochi parenti. Il
padre è morto in guerra, nella prima.”
“Ah, è morto, allora?” chiese Tis.
“Certo che è morto. Perché, non doveva morire?”
“Sì, sì...” fece Tis “ma senti, che nobili sono questi? Non hanno
nessuna stranezza, qualche vizietto... eh, capisci?”
“Io non ne so niente.”
“Se non lo sai tu, allora non ne hanno” concluse Tis.
“Io conoscevo, anzi, mio padre conosceva l’amministratore,
una specie di fattore del vecchio conte, quello morto... Balsamini.”
“E dov’è?”
“Se è ancora vivo, all’ospizio di Muraglia. Me ne ha parlato
mio padre. Ma a te che t’importa?”
“Niente. Chiedevo. Quell’ospizio strano, vetro e cemento, tutto moderno?”
“Quello, credo. Ma non so se sia vivo... Com’è che non sei a
scuola?” chiese l’avvocato.
“Vado adesso. Be’, ti saluto. Ci sentiamo per un poker?”
“Ridammi gli elastici” chiese invano Cassiani.
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CAPITOLO IX
“Balsamini Amelio. Amelio... Adesso glielo faccio chiamare.”
Il portiere si mise a telefonare. “È parente di Amelio?”
“Sono un amico” disse Tis con leggero imbarazzo “gli porto i
saluti di un parente.”
Il portiere parlò con qualcuno di sopra. “Lo so, lo so che fra
poco si cena, lo so... Balsamini, sì, Amelio, quello con la carrozzina... Sì, aspetta qui...” Riattaccò il telefono e guardò l’ora. “Non c’è
molto tempo, i vecchi cenano presto, qui. Come i bambini.” Si ricacciò nella lettura: “... e non credo che Amelio riesca a capire molto.”
“Perché?”
“Ha più di ottant’anni, forse novanta: è un po’ via di testa.”
“Coi vecchi ci vuole pazienza” convenne Tis guardando fuori
della finestra.
Nel cortile, vialetti di pietre bianche sotto i lampioni spuntavano nell’erba, e le due ali del residence per anziani si stagliavano
illuminate contro i cieli della sera. Nel tardo pomeriggio, quando il
giorno è già finito ma cena e sonno sono ancora lontani e il cielo è
purissimo, quando le impiegate smettono i camici e si pettinano in
fretta prima di andarsene, cosa pensano i vecchi guardando dalle moderne, luminose vetrate del loro albergo? Dopo la pioggia adesso era
venuta la prima sera di freddo, limpida e ventosa. Tis sentiva colpi
di tosse e odor di minestra scivolare fra i pavimenti di gomma e gli
splendidi infissi di alluminio. La scatola di marrons glacés stava fra
le mani, il vegliardo Amelio non si decideva a scendere. Dietro di lui,
chiuse la porta della biblioteca di quartiere, inserita nel residence, la
bibliotecaria. Bionda e ancor giovane uscì con aria assorta a prendersi la bicicletta appoggiata al muro. Anche lei, dove sarebbe andata?
Dal residence dei vecchi, posto all’estrema periferia, quanto avrebbe
pedalato prima di arrivare a casa? Tis pensò alle proprie stanze, alla
caldaia a gas che ormai sarebbe stato inevitabile controllare, si stupì
di non aver voglia di verniciare aerei: anche lui, cosa avrebbe inventato per far tardi sotto le fredde stelle di quella sera?
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Dal finestrone si voltò perché udì la voce del portiere.
“Oh, il nostro Amelio.”
Così vide il vecchio in carrozzina fissarlo senza interesse con
le mani in croce sopra la coperta che gli copriva le gambe magre, un
fazzoletto nella destra, tutt’un’idea di tremito addosso.
“Sono il... sono il professor Stefano Tis” si presentò. “Io...
avrei bisogno della sua cortesia per breve tempo, se lei vorrà usarmi
la gentilezza...”
Il vecchio non parlò e l’infermiera lo fece girare ad angolo retto
sulle ruote verso la sala parlatorio. Tis non poté fare a meno di notare
che la carrozzina virava secco come il carrello di un supermarket e
seguì più la carrozzina con le ruotine snodate che Amelio Balsamini
col suo penoso fazzoletto.
“È ora di cena,” comunicò secca l’infermiera “e facciamo una
eccezione perché per lui non viene mai nessuno, purché si sbrighi. Su
con la vita, Amelio. Non vedete che c’è un amico?”
Mise dentro la mano di Balsamini tutto il fazzoletto che pendeva, e Tis la vide sparire cantando a bassa voce per le scale.
“Buonasera...” disse Tis al vecchio che lo guardava.
Nel silenzio che presto calò sulla stanza dai pavimenti di gomma nera, dagli splendidi infissi di alluminio, l’uno nella carrozzina,
l’altro appoggiato alla sedia con gli occhi ai muri, al fazzoletto, i due
si persero a guardare il vuoto. Tis chiese della salute, del tempo, disse
che era arrivato l’inverno, lodò la bellezza dell’istituto. Tutto da solo,
perché non ebbe risposta. Balsamini sedeva col plaid sulle gambe, le
mani in tremito. Era un vecchio alto, sebbene tutto piegato, e certamente in piedi con sigaro e giornale non avrebbe dimostrato gli anni
che aveva, novanta o ottanta quanti erano.
Ma il tremito, lo sguardo vacuo, il capriccio di non rispondere, la sua mancanza di curiosità indicavano che la devastazione e il
tormento dell’età non si erano fermati sul colore chiaro degli occhi,
sui capelli bianchi e leggeri, sulla figura ancora asciutta. Ma dentro,
nell’intrico delle arterie e delle vene, nelle vie del cervello e della
memoria, l’età aveva colpito e distrutto.
Quando infine a Tis venne in mente la scatola dei marrons
glacés e la spinse sul tavolo verso il vecchio, allora venne fuori una
voce – “I cioccolatini sono per me?” – più forte e giovane di quanto
facesse pensare l’aspetto dell’uomo.
“Se li gradisce...” disse Tis aprendo il cellofan perché il vecchio faceva gesti di aprire la scatola. L’aperse e comparvero le fila
ordinate e opache di zucchero dei marrons glacés. Tis sentì che dovevano essere una tentazione terribile per un goloso, li spinse avanti
al vecchio e distolse lo sguardo. Quando si girò, già mezza fila era
distrutta.
“Non vorrei che le facessero male.”
“No, no no no...” disse il vecchio a bocca piena “dà forza, il
dolce, dà la forza...”
“Lei era il custode della villa Baldassarri?” chiese con leggerezza al vecchio che non rispose. Si voltò di fuori: la notte era proprio
arrivata e sì e no una traccia più chiara fra le antenne sui tetti restava
del crepuscolo. Brillavano due o tre stelle e Tis desiderò la sua bicicletta, la pedalata nel buio e nel freddo, verso casa, l’abbandono del
muto e ghiotto Balsamini. La prima fila adesso era vuota, e la mano
avanzava con due dita protese verso la seconda. Secco, tirò via la
scatola. “Le faranno male, sa, così di fretta. E fin quando è rimasto,
come custode della villa?”
Il vecchio desolato guardò con furbizia dolorosa la faccia di
quel tale che gli aveva sottratto il tesoro.
“Uno subito” chiese Balsamini.
“No, dopo.”
“Fino al 1970. Di giugno, il 19” disse alla fine il vecchio a Tis
che restò di stucco. Gli passò il marron glacé, e quello l’inghiottì.
“Io scrivo un libro sulla storia della famiglia Baldassarri, sono
un professore. Sono di Urbino, dell’università” mentì.
“Il 19 giugno 1970 Balsamini Amelio ha concluso il suo fedele
servizio. Me ne dà un altro?”
“Io vorrei sapere qualcosa sul conte Baldassarri, l’eroe della
guerra” disse Tis porgendo la scatola e ritirandola fuori portata.
“Il Conte... il Conte era il padrone, stava sempre assieme a me.
Anche la guerra abbiamo fatto assieme, io sono cavaliere di Vitto-
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rio Veneto. Ho combattuto a Asiago, col Conte. Il Conte mi voleva
bene e io gli portavo rispetto... mica come oggi. Il Conte mi chiamava Balsamini, ma se eravamo soli mi diceva “Amelio, andiamo,
Amelio, andiamo a caccia”... sono vecchio, sono quasi morto, ma mi
ricordo... Una volta nevicava sempre, non è come adesso l’inverno.”
Il vecchio alzò lo sguardo improvvisamente saggio e presente verso Tis. “Una volta gli inverni erano freddi, a Trebbiantico nevicava
sempre... Il Conte mi diceva, quando nevicava, “Amelio, il mondo si
pulisce”, eh...” Lo sguardo di Balsamini si andò di nuovo annebbiando. Fece cenno a Tis di avvicinarsi. “Lo sa perché non nevica più, lo
sa? Sono state le bombe...”
“Sì, è vero, forse... però mi dica del Conte. Gli voleva bene la
gente, vero?”
“Sono state le bombe. Io ho fatto la guerra, lo sa lei? Quella
vera, sull’altopiano d’Asiago, quattro anni, quella vinta...”
“Gli voleva bene la gente, vero?” chiese ancora Tis. “Però qualcuno era cattivo, vero? Durante la guerra, è vero che morì una donna
e che questa gente fece paura al Conte, è vero che diventò triste? Lei
si ricorda Balsamini?”
“Le voglio dire un’altra cosa,” disse l’altro facendogli ancora
cenno di accostarsi “qui dentro è pieno di comunisti” sussurrò.
“Non lo sapevo, veramente...”
“Anche a Pesaro ci sono i comunisti, è pieno di comunisti...”
“Senta,” ricominciò Tis “lei conosceva anche il figlio, vero?”
“Era buono come il padre, bello e buono...”
“Voi, Balsamini, avete voluto bene al padre e al figlio, voi siete
stato molto con quella famiglia, io lo so perché me l’hanno detto a
Trebbiantico. Lì tutti vi ricordano, come voi vi ricordate di loro”
mentì Tis.
“Chi c’è rimasto a ricordarmi? Eh, chi c’è rimasto?” chiese
Balsamini lucido, guardando negli occhi il professore. “Il Conte è
morto, il figlio è cambiato e anche tutti gli altri sono morti. E a me
mi hanno dimenticato qua dentro, in mezzo ai comunisti.” La testa
gli andava ancora via e stette un po’ a muovere il fazzoletto. “Le
infermiere non mi danno lo zucchero, me ne mettono poco nel latte,
lo sa lei?”
“Prenda ancora,” disse Tis aprendo la scatola “le porterò anche
lo zucchero.”
“Mi ha regalato un fucile, una doppietta coi cani interni, allora
era una rarità. Lei va a caccia?”
“Veramente no. Da giovane...”
“Ma come sono gli uomini, oggi?” chiese Balsamini. “Qui
dentro sono tutti comunisti, anche il dottore.”
“Balsamini, qui tutti vi vogliono bene.”
“Anche la Contessa mi rispettava... Diventò mezza matta per
il Conte, lo sa lei? Una medaglia d’argento sul Montello, come Baracca...”
Tis prese la spalla del vecchio, cautamente.
“Balsamini... Balsamini, mi dica. Quella poveretta che morì
durante la guerra...”
“Il Conte,” disse il vecchio lacrimando “il Conte è morto al
Montello nella guerra vera, quella che abbiamo vinto. Eh, è morto
così giovane. Lui, Balsamini non l’avrebbe lasciato qui, lo sa lei?
Qui mi hanno dimenticato. Sono cavaliere di Vittorio Veneto.”
L’infermiera apri la porta. “Amelio, abbiamo mangiato? Poi
state male, eh, Balsamini? Ha finito di parlare? È ora di cena” disse
rivolta a Tis. Tis fece cenno di sì.
“Arrivederci, Balsamini. State in gamba.”
L’infermiera sistemò la coperta e mise con una occhiata critica
la scatola dei dolci in grembo al vecchio, che vi si aggrappò.
“Forza Balsamini, che quella sporca comunista della Maria vi
porta a cena.”
Tis prese il portafogli e bisbigliò “posso? Per lui, un dolce, dei
biscotti...” L’infermiera fece cenno di no con la mano dietro le spalle
di Balsamini, e, con una virata secca, la carrozzina scomparve nel
corridoio.
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La casa di Tis si rianimò brevemente, quando arrivò. Il telefono non suonò e nessuno venne a chiamarlo. Il sonno, come ogni
sera, tardò a venire. Tis lucidò le scarpe, preparò il caffè per la mattina, riordinò qualcosa. Poi si sedette a tavolino e pensò ai vampiri
e a quanto cova dietro le facciate del mondo. Si sentiva calmo, ma
a onde la calma se ne andava e poi tornava. Infine prese la coperta
da stiro, il ferro e i panni che s’erano ammucchiati nell’armadio, e li
dispose sul tavolo come uno sconvolto terrapieno di stoffa. Un po’
per volta, combattendo le pieghe e sempre incerto sul calore del ferro
che tentò più volte col dito umido, Tis si venne riabituando alla vita
e all’idea del domani.
Tutta la storia dei Baldassarri con le ville, con i boschi, con
le nevi di un tempo e le guerre i morti e i sopravvissuti, tenne compagnia a Tis. Finché la notte fu alta e finalmente la casa tornò nel
buio.
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CAPITOLO X
Ahimè: ci sono delle rose che non si colsero. Per stupidità, per
delicatezza, per troppa fretta mentre inseguivamo qualche altra illusione, perché ce ne accorgemmo troppo tardi.
Se le rivediamo, un giorno, le guardiamo mentre distratte e
svelte passano per qualche loro ambascia o traffico che non ci riguarda più. Così si possono anche avere dei rimpianti e considerare
il gran fiume del tempo che è passato, intanto.
Di rimpianti così basta averne un paio e si è già vecchi, carichi
di esperienze che non servono a niente e persuasi una volta di più
che la vita è una gran giostra dove nessuno sa chi ha vinto il premio
perché tutti lo perdiamo. Chi ci vive accanto non sa niente di noi e
noi di lei, e tutto è un grande imbroglio che ci trascina, finché, come
dice il famoso film, la morte ci fa ballare sull’orizzonte delle colline
e ci asciuga le lacrime dalla faccia.
Tali cose alcolicamente meditando, Tis cerca il numero sull’elenco. Abiterà sempre lì, nella strettissima via che dà sul Corso?
In questi anni molte cose si sono abbattute sulle spalle non
atletiche di chi guarda nome e numero. Cosa sarebbe cambiato se lui
e la Luisa avessero vissuto assieme? Alle spalle di Tis si aprono le
porte delle vuote camere: come non sentire il malessere che spira da
quelle stanze? Incerto è il futuro. Ma certissimo è il suo fallimento
presente, mentre telefona.
Dopo un po’ di segnali, quando già sembrava che non ci fosse
nessuno, dall’altra parte il telefono si alzò.
“Pronto?” disse Tis.
“Chi è?” chiese una voce che non era quella della Luisa.
“C’è Luisa?” chiese ancora Tis riconoscendo la madre.
“No, non c’è.”
“Posso sapere quando torna?”
“Lei chi è?” chiese la madre.
Qualcosa bisognava dire e in fretta. Tis non seppe tirar fuori
niente di intelligente.
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La madre stette zitta comprendendo che il tizio non voleva dirle chi fosse, incerta se chiedere ancora il nome o accontentarsi.
“Ah!” si accontentò. “Mia figlia fa la notte stasera,” disse dopo
un po’ “torna domattina, ma dormirà.”
“Non fa niente allora.”
“Devo riferirle qualcosa?”
“No, arrivederla.”
Riattaccò sollevato ma certo che se ci fosse stata lei tutto sarebbe stato più semplice e la cosa si sarebbe risolta.
Adesso che aveva cominciato a scivolare, tanto valeva arrivare
al fondo. Cercò il numero dell’Ospedale e lo fece.
Dopo un’interminabile attesa una voce rispose: “Ospedale civile.”
Tis chiese dell’infermiera Luisa Tinti del turno di notte.
“In che reparto?” La voce venne da lontano, già seccata.
“Che reparto? ... non lo so...”
“Vuole che lo sappia io?” chiese la voce. La linea si interruppe.
Dunque aveva telefonato per niente? Richiamò la madre decidendo di fingersi un Pascucci. (Il vino fu più forte della timidezza, la
voglia, infine, di parlare con Luisa dopo tanti anni).
“Pronto, sono Giovanni” disse al telefono.
“Giovanni chi?” rispose la madre.
“Giovanni Pascucci. Qual è il reparto della Luisa?”
“Lei è il collega di chirurgia dell’ospedale di Fano?” chiese la
madre.
“Sì.”
“Come sta la mamma?”
“Be’...” annaspò Tis “la stagione, sa, l’età...”
“Ma io dicevo dell’operazione” chiese ancora la signora gentilmente.
“Ah... meglio... si riprende bene.”
“Mi doveva dire prima che era lei: Luisa mi parla spesso...”
“I gettoni!” mentì Tis “la devo lasciare... il reparto?”
“Medicina donne, come sempre... Giovanni mi saluti la
mamma.”
Tis simulò uno scatto secco e riappese.
L’infermiere di Fano. Qualcuno c’era. Ma si può essere gelosi
di una donna cui stringemmo la mano, sì e no la mano, allusivamente, dieci anni fa?
Poteva per dieci anni essere stata a fare opere di bene, curando infermi e orfani per delusione di un Tis qualsiasi che era sparito
senza concludere? Sparito, poi, non in guerra ma in città, sposato e
padre, dimentico di lei finché tutto era andato bene e adesso pronto a
cercarla a causa di un morto.
Ci sono donne che uno ha amato fino alla febbre e al delirio che
poi escono per anni a fare la spesa e comprano filetto e patate, hanno
figli, prendono l’influenza a novembre, dormono tutte le notti con
un marito appassionato o scialbo, aitante o imbecille, ma comunque
un marito. E noi rivedendole pensiamo di cancellare anni di vita e
tornare a parlare a quella che l’ultima volta vedemmo salire su un
treno, o allontanarsi sulla spiaggia col bagnino, o sposare un dentista.
Questa Luisa Tis vide l’ultima volta avviarsi verso la macchina con
un vestito rosso che il vento, con quanta grazia, le attaccava al corpo.
Nel mese d’agosto, o ai primi di settembre? In una furibonda estate?
L’aveva poi rivista quattro volte, in sei o sette anni. Però sposata non
si era. Fece il numero e la voce disse:
“Ospedale civile.”
“Vorrei la signorina Tinti, del turno di notte. Medicina donne.”
“Attenda,” sospirò la voce.
Dal microfono cominciò a uscire una sequela di fischi, echi,
uno scatto, una voce che disse:
“Pronto.”
“Vorrei...” disse Tis.
“Attenda” disse la voce. Ricominciò un lungo eco fischiante
che culminò in uno scatto. Per un pezzo dal telefono non uscì nulla.
Poi si sentì una foce femminile.
“Pronto?”
“Vorrei la signorina Tinti” disse Tis.
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sere.
“Sono un amico” rispose. Un nemico di certo non poteva es-
“E chi è?”
“Parlo con la medicina donne?” chiese Tis.
“Attenda.”
Fischiò ancora il telefono, si placò, scattò di nuovo.
“Eccoci qua” disse una voce maschile.
“Vorrei la signorina Tinti.”
“Anch’io” fece imperturbabile la voce maschile.
Tis non seppe che dire e aspettò col telefono in mano.
“Pronto.”
“Vorrei la signorina Tinti.”
“Sono io...”
“Ah...” disse Tis.
“Lei chi è, scusi?”
“Io sono Stefano” disse Tis “Stefano Tis.”
Luisa non disse niente e Stefano capì che l’aveva comunque
riconosciuto.
“Scusa se ti disturbo” disse “non vorrei mentre lavori...”
“Ma come hai fatto, che è successo?” chiese Luisa.
“Senti, io avevo bisogno di un favore, di una sciocchezza...”
“Un favore da me?”
“Come stai?” chiese Tis.
“Io? ... io sto bene, lavoro, solo che è strano, a quest’ora, avrei
anche da fare... tuo figlio come sta, tua moglie?” chiese con gentilezza.
“Loro bene, senti... io non posso parlare per telefono...”
“Ma qual è il problema?”
“Un consiglio di medicina” mentì Tis “però è urgente.”
“Stai male?” chiese Luisa.
“No, no, non è per me, ma è una stupidaggine.”
“Vuoi telefonarmi domani pomeriggio, dopo le tre?”
“No, scusa, senti” disse Tis “senti: posso venirti a prendere
quando esci dal turno, domattina?”
“Ma che ti è successo?”
Tis sentì rumori di ruote gommate e tintinnii di vetri vicino al
telefono.
“Hai bisogno... perché?” interrogò Luisa.
“Ti posso vedere domattina?” insistette Tis.
“Senti ho fretta” disse Luisa “però guarda che mi sembri matto. Comunque io domattina esco alle sette.”
“Vedrai che non è niente” disse Tis “ti ringrazio, ti ringrazio
molto.”
“Ciao allora” disse la donna, lasciando Tis in piedi e con il telefono in mano, convinto di aver pasticciato ancora un po’.
Tornò in cucina con la testa e lo stomaco in ebollizione.
Il gatto saltò sul tavolino fiutando briciole e bicchiere. Guardò
Tis (a lui parve negli occhi) con muto rimprovero, quasi sapesse che
quella sera non c’era niente da mangiare.
“Mi sono dimenticato” spiegò Tis.
Il gatto saltò per terra senza più occuparsi di lui e si diresse
alla porta, da dove, di nuovo silenziosamente, guardò lo snaturato
padrone.
“Vai a cena fuori?” chiese Tis “non fare tardi.” Il gatto sparì per
le scale. Per mezzanotte, sicuramente, l’insistente miagolio avrebbe annunciato il suo ritorno e disturbato il sonno. Tis si sentì solo.
Londei era a casa? Gli poteva telefonare. In realtà non ne aveva voglia. Sarebbe forse venuto a vedere il cadavere dell’Avoli, ma la Luisa, Tis si rese conto, voleva incontrarla da solo. Cercò di costruire un
discorso da fare, una ragione qualsiasi che giustificasse l’eccentrico
desiderio di vedere un morto per droga del quale non gli poteva importare nulla. Dire che era un parente? Sarebbe stato più logico, allora, mischiarsi ai parenti veri durante la cerimonia, alle esequie. Ma
anche così sarebbe stato difficile scoprire se il povero morto avesse
due buchi sul collo. No. Da solo doveva vedere, farsi aiutare dalla
Luisa. E poi la voleva incontrare, rivederla.
Una persona normale adesso dormirebbe, ma Tis avverte già
che il sonno gli si nega, come alla moglie di Macbeth. La televisione
manda su entrambi i canali tavole rotonde e sindacalisti di ogni specie spiegano i mali del mondo. Anche i moderatori sorridono mestamente, assentendo. Tis pensa che il bello della morte è che almeno
nessun sindacalista ancora se ne è impadronito e discetta. Spegne la
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televisione. Nella confusione della sua vita può darsi anche che un
caffè serva a fargli venire sonno. Poco dopo la caffettiera fischia.
Lo scombinato metabolismo di Tis reagì al caffè propiziandogli
un sonno tormentato che lo rivoltò nel letto. Vide fasci di documenti
sparsi fra le tombe. Una mano scheletrica gli porgeva nuovi fogli ai
quali non riusciva a sottrarsi. Un foglio aveva il timbro di ceralacca,
e adesso il bollo si ingrandiva, diventando il mantello rosso di un
vampiro che copriva tutto il cimitero. La sirena di mezzogiorno penetrò nel cimitero divenuto l’Archivio di Stato, facendo scomparire
tutto nel pavimento di gomma che ribollì, nera palude. Tis si svegliò.
Il gatto miagolava con furore, erano le due. Corse ad aprirgli. Il gatto
salì in casa e si pose a fianco di Tis, sul letto. Tutti e due ricaddero
nel sonno.
Alle cinque del mattino la bestia decise di avere veramente
fame. Si alzò, andò in cucina, miagolò di disappunto davanti al piatto vuoto. Tornò sul letto, dove si lamentò spingendo col nero naso
la mascella di Tis. L’uomo si svegliò da un sonno questa volta non
turbato da sogni e memorie.
“Sei un tormento” disse al gatto.
Si alzò anche lui. Dalla finestra del bagno vide che non pioveva
più ma nella strada l’umidità e il fumo di nebbia avevano riempito l’aria buia della mattina. La testa doleva e il desidèrio del caffè
aleggiava nella stanza. Il gatto miagolò ancora appena Tis entrò in
cucina.
“Vuoi il caffè?” chiese al gatto.
Prese da sopra il frigo l’ultimo modello d’aeroplano, finito
giorni prima, e lo posò sul tavolo col corredo di vernici e pennelli.
Mentre versava il caffè il gatto annusava con disgusto i barattolini delle vernici. Tis si accorse di essere più nervoso all’idea
di rivedere l’infermiera Luisa dai capelli lunghi e bruni, che per il
timore, l’ansia, l’eccitazione di aver scoperto nella sua città il regno
di Dracula.
I miagolii aumentarono e il gatto scivolò tra lui, il caffè e i barattoli, in cerca di disastri.
“Vuoi il caffè?” chiese ancora Tis. Il gatto lo guardò e mosse il
naso con grazia verso i vapori che uscivano dal bicchiere. Tis allora
prese col cucchiaino un po’ di caffè e lo diede sul piattino all’animale. Questo fiutò e rifiutò, poi con la lingua rosea pulì il piattino ad
occhi chiusi. Tis gliene versò ancora.
Perché temere i vampiri e sbalordirsene, se il suo gatto beve il
caffè? “Ti porterò sempre con me, festeggeremo insieme.”
Ma il gatto andò a miagolare davanti alla porta. Nella strada,
mentre Tis rabbrividiva nel pigiama, la notte stava impercettibilmente sfumando, e le pozze d’acqua a terra, che il vento increspava, riflettevano cieli plumbei e nuvole fuggenti. Il gatto scomparve in una
cantina del suo territorio.
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Quello che adesso Tis sta con cura passando con un pennello intinto nel solvente appena sporco di grigio azzurro, è il famoso Focke Wulf 190 D. Comparso nell’autunno del 1944, col muso
lungo sopra il potente motore, con la sagoma elegante ed inutile,
era stato il miglior caccia ad elica della seconda guerra mondiale.
Nelle mattine nebbiose dell’autunno e dell’inverno della precipitante
catastrofe, aveva volato basso, sotto il peso della superiorità aerea
alleata, spesso consumandosi in rapidi roghi luminosi ai bordi delle
strade che aveva attaccato. Certo, nel lucido giocattolo di plastica
che Tis va colorando, nelle ali sottili chiazzate di grigio e verde, non
c’è niente del freddo di quelle mattine, né l’angoscia del pilota, né
il violento disintegrarsi dell’aereo nemico, né il fumo e il fracassarsi
del proprio. Il viso di plastica della figurina, dietro gli occhiali verniciati d’argento, non riflette che il nulla. Nel colore artificiale non
c’è paura, né morte, né ricordi di cose che vorrebbe rivedere. Puro
gioco nelle mani di un bambino invecchiato, il pilota non sa nulla del
destino, né alcuna guerra gli sta rubando la giovinezza. Tis immerge
il pennellino nella tinta più scura e lievemente picchietta la fusoliera
umida, che si copre di sfumate macchie mimetiche.
L’aereo diventa un rettile del crepuscolo, scuro e aggressivo,
adatto a correre su nebbiose pianure, consapevole della prossima
fine, vanamente feroce. Dalla finestra il giorno comincia a entrare
con lo stesso colore dell’aereo.
In ospedale forse la Luisa guarda l’orologio, vede l’alba invernale scivolare per i corridoi, ode il vento muovere i pini fradici
d’acqua. Chissà se è vero che in autunno si muore più facilmente.
Vede dalle finestre la piazza dove l’assurdo Tis, emerso dal passato,
l’attenderà?
Chiedendosi dove l’ha lasciata, Tis riflette sulla sua giovinezza. Non dentro un caccia, non in guerra, non nell’avventura di una
vita. In una decina di registri firmati ogni giorno, sbarrati alla fine
dell’anno con anacronistica cura e consegnati agli archivi, è rimasta
presa la miglior parte di lui.
Pagina dopo pagina, foglio dopo foglio, quattro fogli in un
mese, tutto è dentro quei registri foderati di plastica. Lì ci sono le
menzogne, gli amori, le pene e i tumulti dei giorni, tutto nascosto
dietro la Storia, la Geografia, gli Hittiti, i predicati. Altri cinque o
sei registri e Tis avrà più reumatismi e meno capelli, ogni pagina più
pesante da sollevare, il suo tempo rapidamente dispersosi.
Ma adesso, mentre guarda dalla finestra il giorno che cresce,
forse per chi sta andando a vedere un morto e, insieme, una rimpianta
infermiera, comincia qualcosa che solo lui può fare. Fra un registro e
l’altro, pare giunta la sua personale chiamata del destino. Lascia sul
tavolo il Focke Wulf grigio azzurro ed esce. In casa non c’è più un
bambino che possa andarlo a prendere.
“Non è che non si possa” disse Luisa. Si fermava i capelli con
una mano e lo guardava ancora vagamente sorpresa. “È che è così
strano...”
“Non c’è niente di male, devo solo guardare, un secondo.”
Nei pochi metri di strada percorsi assieme, dall’ospedale alla
costruzione antica e sempre in riparazione del teatro, Tis aveva già
detto quel che voleva vedere, con precipitazione. E adesso, nel vento
umido e nel grigiore del mattino la stanca Luisa lo guardava come si
guarda un matto.
“Stefano, che te ne fai di vedere un morto?”
“Hai preso il caffè?” chiese Tis.
“Lascia stare il caffè” disse Luisa prendendolo per un braccio,
“se ti devo fare questa cosa dimmi perché... è una cosa politica?”
“Ma no, sono anni che non me ne frega più niente, anzi... senti,
è freddo, andiamo in un bar, così ti spiego meglio. L’ho finita da un
pezzo io, con la politica.”
Nella piazza le saracinesche dei bar erano ancora tutte chiuse.
“Andiamo alla stazione?” propose Tis.
“No, fa tristezza lì. E poi ricomincia a piovere.”
“Allora giriamo, dove è aperto ci fermiamo.”
Tis aperse la macchina che sembrava (se ne accorse allora) un
residuato bellico: giornali dell’estate prima, terriccio, canne rotte,
pezzi d’aereo.
“Scusa, non ho mai tempo di pulire...”
La Luisa entrò, Tis vide le ginocchia, la bella linea delle gambe,
ebbe invidia per chi ne aveva beneficiato.
“Ti trovo bene” le disse “sei sempre, sei... come prima.”
“Abbiamo quasi gli stessi anni. Tua moglie come sta? Il bambino?”
“Non sto più con mia moglie” disse Tis “e neanche con mio figlio, quindi. Anzi” riprese dopo un attimo di silenzio, girando attorno
a una rotatoria “è mia moglie che se ne è andata.”
“C’entra lei in questa storia?” chiese Luisa.
“No.”
“Bene” disse la ragazza, “non è una storia d’amore e di
morte.”
La macchina scivolava lungo una strada sconvolta da una trincea laterale, con tubi dentro e fuori lo scavo, la luce della mattina non
metteva voglia d’andare in nessun posto.
“Perché mi chiedi se c’entra mia moglie?”
“Pensavo che tu, in questi anni, non ti offendere, non so come
dire...”
“Non mi offendo.”
“Quando ti conoscevo io, non sembravi una persona da poterci
contare... eri simpatico, eri bravo, ma eri sempre così esagerato.”
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“Vero. Grazie.”
“Stefano ti offendi...”
“No. Tu dopo tanti anni mi vedi ancora come sono davvero:
esagerato, eccentrico da sempre, uno che adesso va a caccia di cadaveri.”
“No” disse tranquilla Luisa, “però sei sempre stato uno che
corre dietro al vento.”
Stette nel mezzo un po’ di silenzio.
“Il bello del mondo è che è vario”, scappò detto a Tis, più secco
di quanto avrebbe voluto.
Passarono sotto il cavalcavia, imboccarono il viale desolato che
corre lungo il fiume, con in fondo il porto e le flagellate scogliere.
“Stefano, ti sei offeso?” chiese ancora Luisa. “Alle volte, volevo dire, a noi donne piace una persona tranquilla. Magari per una
donna è più bello andare a comperare un divano che fare una gita a
Venezia, vedere, cercare...”
Stefano pensò al suo interesse forzato per i divani. Certo, Luisa
aveva ragione. Anche lui, nell’ultimo anno, aveva cercato divani e
librerie, cambiato valvole e rotto la lucidatrice che cercava di accomodare. Ma si era accorto di casa e delle sue robe con l’accanimento
tardivo di chi già sente cascare tutto. E poi non c’era nemmeno riuscito.
“Mi sembrava di recitare una parte” disse alla presenza del
porto, “e mia moglie lo sapeva.”
“Che vuol dire?”
“Vuol dire che ho sbagliato tutto.”
Guardò le barche da pesca che ondeggiavano agli ormeggi, segno di bufera più avanti.
“Chi non sbaglia?”
Luisa sembrò chiederlo a lui, a se stessa, alla lontana e sconosciuta moglie di Tis.
“Io più di tutti,” se ne uscì Tis.
Come un eroe romantico, scese dall’auto e camminò sul molo
battuto dal vento e fremente per l’urto del mare autunnale. Verso
l’orizzonte l’acqua mutava il colore fangoso e l’aspetto selvaggio per
diventare profonda e buia e lì, appena le creste dell’onda si alzavano,
sparivano come se la forza immensa che le muoveva le risucchiasse.
Sul molo la schiuma si abbatteva in pieno e il vento frustava assieme
i cavi e la faccia di Tis. Anche la Luisa scese e camminò fin dove
c’era riparo dagli spruzzi.
“Non hai l’età di offenderti come un cretino”, disse a Tis.
“No, infatti. Sembra che il mare si voglia portare via tutto, quest’inverno.”
“Che cosa?”
“Il molo. E questo porto maledetto.”
“Maledetto perché?”
“Perché ci ho passato troppo tempo della mia vita,” rispose
Tis. “È come non essere mai cresciuto. Ci venivo da ragazzo e non
ho più smesso di venirci... Forse è stato un rifiuto di crescere, come
non occuparsi del divano, non sapere accomodare uno sportello. Tu
dici che correvo dietro al vento: è vero. È come una malattia, quella
del vento. Vieni qui e la testa va per conto suo. Litigavo e venivo
qui. Andavamo a pranzo fuori io, la moglie e il figlio, tutto bello, ma
poi li portavo a casa e venivo qui da solo, magari ore intere, mezze
giornate...”
“E che voleva dire?” chiese Luisa con l’impermeabile tirato
dal vento, il fazzoletto di seta in testa, i capelli all’indietro come
una polena della prua, bella sì, che sul viso mostrava adesso qualche
pallore, qualche stanchezza che lasciava segni. “Noi siamo stati tutti
così, una generazione di gente abituata così, andavamo a spasso da
soli, non abbiamo rotto le scatole a nessuno, non abbiamo fatto i
grandi gruppi. Siamo gente triste, mica solo tu. Non contavamo niente, era tutto difficile.”
“Non abbiamo preso il caffè. Ti scoccia stare qui?”
“No.”
“Comunque con mia moglie non è andata” disse Tis, “è stato
bello finché è durato.”
“Tu sarai anche un bravo ragazzo” disse Luisa “ma non sempre
basta. Allora, perché lo vuoi vedere quel morto?”
“Perché lo devo vedere” parlò a voce alta, fra le raffiche. “È
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una scemata, però lo devo vedere. Non c’è ragione.”
“Se non c’è ragione allora perché? Se non è politica, allora
perché? Vai dietro ai drogati? Sei drogato anche tu?”
“Senti Luisa” disse Tis “io tra sette giorni ti telefono e te lo
dico...”
“Non mi importa. Non è neanche difficile, ma perché non lo
vuoi dire?”
“Non è un giochetto che se insisti te lo dico. Io non ti vedo da
anni e anni. Sei bella e io ero innamorato di te, ho sempre pensato
che è stata una pazzia aver lasciato perdere tutto quanto. Ci credi?”
disse senza guardarla. “Adesso ti devo telefonare per chiederti un
favore assurdo, strano, vedi tu come ti pare... Comunque con imbarazzo...”
“L’imbarazzo non sarebbe niente.”
“No, ma c’è, e grande.”
“Torniamo in macchina” chiese Luisa “fa troppo freddo.”
In auto il rumore del vento e il freddo non penetravano. Fuori
si preparava una delle migliori tempeste invernali che Tis ricordasse.
Le onde cominciavano a passare sopra il molo e gorgogliava cupamente l’acqua spumosa attorno alle scalette e ai pali delle baracche
coi retoni. Quando un’onda si rompeva, attorno al faro bianco e rosso, prima di precipitarsi di nuovo nell’acqua del canale, il vento ne
prendeva i merletti di spuma e li portava via allungandoli assurdamente, spingendoli a raffica su tutto il molo.
“Mi verrà la polmonite” disse Luisa.
Vedevano l’acqua torbida correre incuneata tra i due moli del
canale, priva ormai di forza per diventare onda, ma gonfia e piena di
avvallamenti, di abissi opachi lungo le calate.
“Certo che anch’io” disse Luisa “anni fa... anche a me piacevi... ma tu sei scomparso e mi sono sentita presa in giro. Adesso
guarda chi ti telefona mentre lavori con la siringa in mano, e senti
che vuole...”
“Io non ho preso in giro nessuno.”
“Allora sei corso dietro al vento... O stavi preparando la rivoluzione mondiale?”
Tis si mise a ridere.
“Pensa, è proprio vero. Correvo dietro al vento e preparavo
l’insurrezione mondiale. La rivolta dei cretini benestanti. In mezzo a
questo correre, ho incontrato mia moglie.”
Si mise a ridere anche lei. Nell’auto che vibrava per il vento venne un bel ridere, perché ecco che un altro trucco del destino
era venuto fuori: due persone pronte alla grande illusione dell’amore
erano andate per i fatti loro, senza ragione. E adesso, dopo anni, si
vedevano, tranquille e lontane dalle ridicole tempeste dei sentimenti
che rendono ogni notte d’estate un penoso labirinto. Lontani: almeno
sembra.
“Va bene” disse Luisa, cedendo con simpatia (apparvero intorno agli occhi rughe che Tis non aveva mai visto) “vuoi vedere il tuo
morto? Te lo faccio vedere. Va bene? Stasera alle cinque, e non voglio sapere il perché. Ti accompagno io, però adesso voglio proprio
un caffè.”
“Sei un tesoro”, disse Tis.
Girò la chiave e tirò il motorino a lungo.
“Non sai che favore mi fai” continuò. “Cristo della batteria.”
“Tu fammi il favore di non lasciarmi qui. Sono stanca e a piedi
non ci vado. Non hai fatto i soldi, eh?”, disse a Tis attaccato al motorino.
Tis lasciò la chiave e le passò una mano sui capelli, d’impulso.
“Dai, dai, partiamo” disse Luisa, “siamo vecchi per queste robe
in macchina, al porto. Mai di mattina.”
“Senti” fece Stefano “ti posso vedere?” Si sentì arrossire fino
ai capelli.
“Mi vedi, sono qui.”
“No, dopo. Voglio dire dopo, ancora.”
“No” Luisa si negò senza durezza.
“Perché?”
“Bada a partire, Stefano” disse lei sorridendo con garbo, e con
ottocentesco sapore aggiunse: “non sono libera.”
“Ah.”
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“Vado a un corso di psicomotricità.”
“Che è?” chiese Tis con sospetto.
“Non lo sai? Più o meno, è un corso che armonizza e sviluppa
la mente attraverso il corpo, e viceversa.”
“E che fate?”
“C’è un ballerino, che ci insegna a muoverci con certe regole,
e questo educa la mente e assieme si prende coscienza del corpo, di
certi simboli...”
“Pare la scuola media”, si amareggiò Tis ricominciando col
motorino.
“Siamo in molti, ci vediamo due sere per settimana e facciamo
questi esercizi, e poi dal comportamento che teniamo riusciamo a
capire cosa pensiamo, i nostri istinti... e io...”
“Tu che?”
“Io faccio l’amore col ballerino. Da vari mesi.”
“Ah,” disse Tis. “E l’infermiere di Fano?”
Le spiegò della telefonata alla madre.
“Non esiste,” disse ancora Luisa “è per mia madre. Ho detto che
è un collega perché con un ballerino non so come l’avrebbe presa.”
Il motore finalmente partì. La macchina girò sotto il vento in
cerca del caffè.
Come Dio volle, il tempo della mattina passò: a Stefano Tis
importava rivedere la Luisa, e, dalla sera prima, adesso sarebbe già
stata la terza volta che si parlavano e si vedevano. E sembrava già
d’aver gettato un ponte, ricreato qualcosa di personale, se non di
intimo. E anche telefonarle, in futuro, non sarebbe stato più difficile.
Però, c’era il ballerino. E comunque, adesso, l’importante era vedere
se nuovi mostri, oltre ai consueti, scorrazzavano per la terra. O Signore, il vampiro!
Telefonò a casa della moglie, dove la suocera non seppe dirgli granché sulla tosse. Di notte no. All’alba e alla sera. Respirare,
respira. Ci credo, avevo detto Tis. Perché d’inverno ci deve essere
questa tosse dei bambini a tormentare loro e noi? La moglie odiava
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gli sciroppi: il figlio avrebbe tossito tutta la stagione.
Che farà un ballerino quando fa l’amore con una donna? Forse
sono pochi, si consolò Tis, a farlo con le donne. Questo però, sembrava di sì. Un ballerino è bello, questo è certo. Asciutto, muscoloso,
e magari con quel tanto che stuzzica, un po’ fuori asse, così se con
le donne ci va a queste gli pare anche che conceda chissà cosa. Di
sicuro non ha la pancia. Tis si immaginò in calzamaglia, e pensò che
né umanità, né poesie né comprensione potevano pareggiare il conto
a un ballerino che in calzamaglia dev’essere tutt’un’altra cosa.
Alle cinque, prima di vedere il morto, avrebbe chiesto alla Luisa di dirgli ancora. Pioveva. Ad andare al ristorante e a leggere il
giornale pensò che il tempo potesse andarsene prima. Si mise a girare per le vastità dei viali vuoti, con le foglie a guazzo in terra e le
tamerici più che mai simili ad alberi di un sanatorio. Sebbene in tanti
dicano che i professori non hanno una vita sessuale, questo in realtà
non è vero. La cupezza dei riti scolastici e l’eterna fuga di colleghe
per i corridoi rendono improbabile e poco frequente il richiamo della
carne. Ma altri dicono che, per quanto il mestiere ottunda la voglia
di campare e quindi anche quella del sesso (ma c’è poi connessione
davvero?), non sempre riesca a soffocare l’amore e il desiderio di
esso.
Mentre per il viale Trieste piegava il vento la fila delle tamerici, Tis pensava a una collega amata, quando lui era ancora agli inizi,
che aveva peccato senza trasporto parlando di marito e di figli, e poi
pentendosi.
Ricordò il lungo giro in periferia per riportare la peccatrice
all’auto, davanti alla scuola. Gli anni. Quanti ne sono passati.
Dal ristorante uscì alle tre, fra le inclemenze del clima e con
la sensazione di essere stato rapinato. Girò per il centro, il mare, la
ferrovia, incerto sulle sue mestizie e, come in un romanzo, paura, desideri e rimpianti gli travagliarono lo spirito. Comunque, alle quattro
e mezza, era davanti all’ospedale. Alle cinque si affacciò sulla porta
la Luisa in divisa.
Tis la seguiva per il vasto tunnel sotterraneo, col soffitto coper87
to di tubi che correvano paralleli e si intricavano piegandosi a gomito
e raccordandosi con altri di colore diverso. Sembravano dozzine, ed
era facile immaginare usi misteriosi e diversi da quelli soliti. Il suono dei passi echeggiava sotto la foresta di tubi e in mezzo a bidoni
di plastica vuoti che sorgevano da anditi oscuri. Sembrava a Tis di
essere sceso nel sotterraneo di un forte, o nella parte più segreta di un
moderno castello, in compagnia di una maga imprevedibile. La luce
era fioca e Tis immaginò nel buio topi e scarafaggi. Camminavano
già da molto, e a tratti scricchiolavano gli ascensori nelle cabine.
“Stiamo girando sotto tutto l’ospedale” disse la ragazza.
“Sotto terra?”
“Sì. Quando facciamo il turno di notte, alcune chiudono le
porte degli ascensori che vengono su da questo corridoio” spiegò la
ragazza.
“Perché?”
“Abbiamo paura. Potrebbe salire qualcuno.”
“Qualcuno chi?” si allarmò Tis, fingendo di scherzare. “Un
vampiro?”
“Ma va’.”
“Qui ci si potrebbe nascondere” disse Tis “e nel buio...”
“Nessuno ci viene da solo, di notte” disse Luisa “di solito non
c’è nemmeno bisogno.”
Entrarono da una porta a vetri in un posto imbiancato di fresco, il pavimento lucido, panche di ferro grigie su cui sedevano una
signora e due bambini. Le tubazioni scomparivano sotto una serie di
pannelli bianchi tutti forati, sopra i quali macchie di ruggine e umidità parevano voler riaffermare il primato del buio e del disfacimento.
Da due pannelli scostati i tubi, azzurri e arancioni, mostravano i loro
intrichi. Tis pensò ancora una volta ai topi sospesi stavolta a mezz’aria sul soffitto correre lungo i condotti e occhieggiare dai fori i
passanti. I ragazzini saltavano su e giù dalle panche.
“Avete topi qui?” chiese Tis.
“Sono la mutua più forte” disse Luisa “a volte rodono i fili
degli apparecchi radiologici e fanno un bel danno.”
Uscirono da quel tratto di corridoio e ripresero la galleria, su-
perarono ammassi di vecchi lettini, barelle, seggiole a ruote arrugginite e sventrate. Le gambe della Luisa erano piene di slancio. Siamo
uniti in un qualcosa, adesso, pensò Tis, servirà? Desiderò una donna
d’andare a prendere in macchina, essere baciato sulla porta, andare
a pranzo di domenica a casa di lei, carezzarle un fianco nel corridoio
mentre arriva il dolce in tavola. Anche il cinema: uscire nelle fredde
sere d’inverno, camminare nella nebbia, bere il brandy nel bar della
piazza pensando: ho fatto l’amore in macchina come un ragazzino.
“Quanto manca?” chiese.
“Poco.”
“Luisa sei tanto bella, sei meravigliosa” disse cercando di
prenderla alla vita.
“Lo sai dove stiamo andando? Sta’ fermo.”
“Luisa, lo ami davvero quel ballerino?” accelerò perché lei
aveva aumentato il passo.
“Lo sai dove siamo” ripeté lei “stai andando da un morto e fai
il cretino.”
“Un sotterraneo non è confine all’amore” provò Tis.
“Pensa a casa tua se ti vedessero” la slanciata Luisa non si
voltò a guardarlo “ti rivedo dopo anni e tu ci provi in... un tunnel ci
provi... io proprio non lo so.”
Più che seccata, era lontana.
Tis accusò, il desiderio dell’amore provinciale se ne fuggì sotto
le volte umide. Andava a vedere un morto. Da immagini di effusioni
nella nebbia, adesso la testa gli proponeva l’orrore che aveva cercato
di dimenticare anche mentre gli andava incontro. Il sotterraneo ridiventava ora, con evidenza, ciò che sempre era sembrato: un’umida
catacomba.
Da una porta con i vetri ovali venne luce all’improvviso. La
donna spinse e apparvero semplici scale.
“È qui?” sussurrò Tis.
“No. Adesso usciamo.”
“Luisa, scusa per prima.”
“Non fa niente.”
“Sto in un gran casino” disse Tis.
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“Mi pareva.”
“Sono infelice e adesso ho anche paura.”
“Perché?”
“Non te lo posso dire.”
“Allora non lo dire.”
“Tu che provi quando guardi un morto?”
“Niente. Poco. Con tanta gente hai anche parlato.”
Uscirono nella sera e Tis non capì per niente dove stavano. Un
paio di gatti si riparavano sotto un enorme pino: pioveva appena.
“È il lavoro” continuò Luisa, “pensa a chi lavora in pediatria.
Ci sono bambini che girano per il reparto, giocano con tutti, pensa a
quando...”
“Vuoi dire quando muoiono.”
“Se muoiono stai male un giorno o due, poi ti passa, sennò che
fai? Con queste cose ci lavori.”
Tis pensò ai fatti suoi facendo propositi e scacciando le brutte
immagini che gli salivano dalla sua anima disgraziata.
“È grave la tosse cattiva?”
“Macché. È noiosa, ci puoi fare poco. Ce l’ha tuo figlio?”
“Mia moglie gliela farà venire” disse Tis con rancore.
“È qui” disse Luisa “siamo arrivati. Perché non gliela curi tu
la tosse? Vai a vedere i morti, fai lo stupido con me nei sotterranei...
metà sembri stupido e metà fai pena.”
Tis sentì la grande verità e allargò le braccia sotto la pioggia.
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CAPITOLO XI
Ripensandoci dopo, a Tis sembrava che l’odore di formalina
uscisse addirittura dal locale propagandosi fuori. Ma questo evidentemente non era possibile. Quando la Luisa aperse la prima porta
mormorando che solo Dio sapeva perché lei lo faceva, Tis scorse una
stanza stretta in cui mancava tutto, tranne un portaombrelli metallico
che gli venne fra i piedi. Da questo vano vide un’altra porta di ferro,
come quelle delle cabine della luce e dei depositi d’acqua. La ragazza armeggiò anche su quella e l’aperse con consumata perizia. Sparì
dentro e allo scatto di un interruttore rispose, dopo un paio di palpiti
lampeggianti, l’accendersi del neon. Un attimo e fu indietro, con la
luce alle spalle, pensò Tis, come una attrice sul proscenio. Prese Tis
con forza per l’impermeabile e lo guardò in faccia da vicino, “Io esco
e aspetto fuori. Io non so niente. Hai capito?”
“Sì” rispose Tis specchiandosi nel pallore di lei “tu non sai
niente. Io non ti conosco.”
“Le porte le devi chiudere. Te le devi chiudere dietro quando
esci. Io ti aspetto lontano. La luce... ti ricorderai di spegnerla?” Prese
la mano di Tis e la guidò, gli poggiò le dita sull’interruttore che stava
in mezzo a tanti altri.
“È questo, non un altro. Non li premere tutti assieme. Sei un...”
Non finì e corse fuori. Per un tempo lunghissimo lui non seppe
darsi il via per muoversi. L’odore di formalina saliva direttamente
dal pavimento lucidissimo. Davanti, sulla parete opposta vedeva una
specie di grande schedario metallico grigio, con i cassettoni e le maniglie su ognuno, e un numero dipinto in rosso. In mezzo alla sala
c’erano due letti, come chiamarli, di marmo e mattonelle, canali e
cromate rubinetterie da un lato. A passo lento, come percorrendo una
grande distanza, Tis superò le due cose e arrivò alla parete d’acciaio.
Afferrò la prima maniglia e tirò: il cassettone venne fuori per metà,
vuoto, con una parte che rimase al buio e da cui venne un gran freddo. Respinse quella sorta di frigo e il rumore secco lo fece sussultare.
Venne preso da una gran fretta. Ne aperse un altro e di nuovo percepì
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il freddo che usciva: vuoto. Il terzo scivolò più pesante: assieme al
freddo apparve una forma lunga, distesa come un sacco di biancheria.
Ormai, a quel punto... Si guardò una mano andare verso il lenzuolo.
Tirò: apparvero due piedi con unghie laccate di rosso. I piedi non
avevano nessun colore, forse erano bianchi. Tis ricacciò indietro il
carrello mentre cominciava a sentirsi male. Intorno gli sembrò che la
stanza, i letti di marmo e l’armadio a vetri con le lame luccicanti, tutto cominciasse a girare. Allora afferrò la maniglia dell’altro cassetto,
perché comprese che se fosse svenuto magari avrebbe perso anche
il posto a scuola, e lì sul pavimento non poteva farsi trovare. Anche
quello era pieno. Sapeva cosa avrebbe visto. Questa volta scoperse due magri piedi e il cartellino appeso all’alluce (come nei film
americani, pensò). Parve che il cassetto gelido ci mettesse un’ora a
slungarsi fuori della parete. Scoperse la faccia senza guardarla. Non
vide nulla, a destra, sul collo. Girò attorno al cassettone sentendo che
la stanza non aveva finito di ondeggiare sopra la nausea che saliva.
A sinistra vide quel che bastava. Due buchi, cui nessuno poteva dar
credito tranne lui. Levò lo sguardo un istante verso la faccia lunga, i
capelli neri e opachi. Spinse dentro il carrello.
A ogni passo gli parve che il pavimento nero gli venisse incontro in un’onda di formalina. Trovò l’interruttore giusto, chiuse la
porta. Era fuori. Chiuse la seconda porta, fissò un lampione nel cui
cono di luce risaltava magnificamente la pioggia. Si appoggiò allo
stipite ringraziando il fresco, l’aria umida.
La Luisa non era andata lontano, era lì e lo tirò via.
“Mai più una cosa simile, per te... io non lo so...” corse via e
Tis la seguì. La terra aveva smesso di muoversi e girare.
“Vieni alla macchinetta del caffè” disse la ragazza che salutò
un infermiere con una bombola in mano.
“Sì” disse Tis “non sono una foglia al vento, resisto.”
Ma poi, in quella sorta di labirinto di viali, pini, palazzi da cui
si entrava e usciva, vide un ingresso e una sbarra rossa. Vi si precipitò e passò sotto, ignorando l’ampio passaggio laterale. L’usciere
lo guardò come si guarda un fantasma. Non ricordò di salutare la
Luisa.
La morte per sangue, quella striscia di male giunta fin lì, nella
prevedibile città della sua vita, rese Tis, appena l’immediato orrore passò, amaro, solitario e assetato almeno quanto Philip Marlowe.
Amaro in quanto solo e dubitoso d’aiuto, solitario perché sarebbero
cresciuti l’isolamento e il silenzio del suo vivere, assetato in quanto
non è che, senza liquore, si possano sopportare le due cose precedenti, né tantomeno quest’ultima rivelazione.
Dopo che ebbe percorso a passi furiosi i giardinetti e quando
già era ben dentro al tumulto serale del passeggio del Corso, Tis ricordò di essere uscito in auto e d’averla ormai lasciata, a probabile
disco scaduto, nel parcheggio davanti all’ospedale. Si arrestò come
fulminato e con lo sguardo vuoto. Qualcuno lo urtò, ma nessuno parve accorgersi della sua faccia. Tornare indietro? Sembrò senza ragione intollerabile. Si infilò nel bar davanti alla farmacia, strisciò lungo
una fila di chiassosi militari in libera uscita.
“Un whisky doppio” chiese al barista.
Questi parve esitare.
“Che c’è?” fece Tis.
“Non me lo aveva mai chiesto nessuno, in tanti anni” disse il
barista. “Millequattro. Credevo che usasse solo al cinema.”
“La vita è un cinema” spiegò Tis con ampio gesto.
Prese il bicchiere e guardò i militari, la gente, il cameriere,
come l’inascoltato profeta che contempli Gerusalemme ignara dell’incombente rovina. Il liquore bruciò nell’ora insolita trovando subito e assieme ginocchia e volontà di Tis. Si sentì meno solo. Cioè,
solo uguale ma più forte. Pure sarebbe finita l’ebbrezza e quello sparuto coraggio.
“Voglio una bottiglia” chiese al cameriere.
Quello sparò una cifra assurda. Pagò ugualmente e già malfermo uscì nella fiumana, spettacolo pietoso come l’inizio di un racconto di depravazione e fine, come Poe nella pioggia di Boston. Gesù –
pensò imboccando la via di casa – la letteratura è finita, che comincia
adesso? Chiamò il gatto, aperse la porta, richiuse, riaperse, mise la
bottiglia nel buio delle scale, riuscì mentre il gatto miagolava, andò a
comperargli la carne in scatola. Uscì senza pagare, fu richiamato, si
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scusò, l’androne di casa lo accolse, il gatto cercò di farlo cadere.
“Io ti nutro e tu mi ammazzi” disse alla bestia.
Nel negozio parlarono a lungo di lui, dissero che l’amante non
l’aveva, la moglie chissà. Una vicina commiserò il bambino.
Così la morte era arrivata in città. Sul letto Tis pensava e beveva a piccoli sorsi, la televisione accesa per abitudine e paura del
silenzio. Il gatto si ingozzava in cucina e, dopo breve, apparve sazio
e consolatorio, fremente di gratitudine, pronto al riposo.
Non la morte di tutti i giorni che porta via vecchi, motociclisti,
creature, che spezza legami, promesse, accumulazioni, che risolve i
ritardi dello stato.
Questa era diversa. Marciava ghignando su sentieri che salivano dal nulla, portava un manto rosso. Non la potevi ambientare
in niente di moderno: una sala operatoria o una corsia, o il platano
che si berrà l’ultimo sangue nostro. Questa era come un monatto, un
mostro del buio che solo i cani sentono.
Ecco, veniva fuori da una cripta; percorreva viali neri. A stare
ai pittori, cavalca cavalli scheletrici e comanda schiere di vuoti spettri. Forse increspava le acque del golfo del Messico ricche di squali,
quando Tex Willer le percorse. Questa era sospesa al baldacchino del
malvagio signore che da troppo agonizza. Questa alcuni videro dai
treni che andavano al fronte: pareva una qualunque figura appoggiata
a un muro di una casa, ma ci fu chi la riconobbe. Tis versa ancora, ma
siamo alla fine perché ha tutto un fuoco nelle orecchie, e a bere ancora va a rischio di star male e non gli manca che questo. E la scuola
domani? Comunque deve chiedere un permesso, fare un certificato.
Non può andare a strofinarsi al sudario della Signora fra un consiglio
di classe e una circolare del ministero.
A questo punto Tis sa cosa deve fare. È una follia. Dovrà andare a vedere nuovamente quell’Avoli e mettergli un paletto nel cuore.
Questo di notte, se è diventato un vampiro, il che non crede. Ma
controllare, quindi vedere, deve comunque. Che penserà sua moglie
quando lo arresteranno al cimitero? Verrà morsicato anche lui? L’in-
fezione lo porterà a mordere alunni e colleghi per i corridoi della
scuola? Hai voglia a ridere, povero Tis – pensa. Si alza con grandi
giramenti di testa che Philip Marlowe non avrebbe certamente avuto. Spegne il televisore e ancora il gatto gli gira attorno. La casa è
vuota. Di che deve avere paura? Non c’è nulla nell’aria e nel vuoto
delle stanze. Ma che vuol dire la morte? Muoiono gli alberi che da
duecento anni guardano il mare battere il monte della Panoramica
portandolo via? Ad ogni passo Tis sente la marea della sbornia muoverglisi dentro.
Si siede in cucina dove ancora campeggia il Focke Wulf grigio
azzurro con le sue croci nere e i numeri sotto le ali. Il gatto salta sul
tavolino. Forse rimpiange gli assenti di Tis? Alla moglie era legato,
le dormiva in grembo anche nelle più accese discussioni, al bambino andava spesso a dormirgli nel lettino. Sono mesi che non li vede
più, non ha dato soddisfazione di mostrarsene dispiaciuto. Tis non
guarda fuori della finestra: chissà cosa ci vedrebbe. Il gatto non è
inquieto. Può lui permettere che un mostro uccida la gente? Ufficiale
e soldato, esercito intero arruolato dal senso del dovere che filtra da
una rigida infanzia, Tis parte per la sua campagna. Vorrebbe restare,
pur nella casa vuota e abbandonata, ma non ha nessuno che accolga
le sue deleghe. A Londei però lo può dire. Gli va a telefonare. Il gatto sente inciampi e la voce roca che insulta, incita, prega qualcuno.
Almeno quel vanesio Londei a dargli una mano. Essere soli di fronte
a quel che sta per accadere non si può. La telefonata dura a lungo. Il
gatto ode promesse solenni, sente anche “vigliacco imbecille”.
Tis rientra in cucina meditando ricatti. Gli deve Londei dei
soldi? No, è vero il contrario. Ma forse questa notte Londei avrà
vergogna della sua viltà e del rifiuto. In quel buio loro sono gli eletti.
Ballino gli altri nelle discoteche, consumino piadine e birra sotto i
pergolati delle colline. Ci penserà a questo, Londei?
La morte: d’inverno i contrafforti del duomo sotto la pioggia
battente, il fiume dove lo scrittore morì.
Il gatto guarda l’uomo seduto davanti all’aereo di plastica. Con
decisione comincia a suonare il telefono.
“Sono Luisa.”
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“Luisa bella, Luisa dolce.”
“Stefano hai bevuto.”
“Mica sei mia moglie” dice Tis “il che è un peccato, perché se
tu fossi mia moglie io...”
“Stefano!” lo interrompe lei.
“Sono qui.”
“Mi hai fatto impressione a scappare in quel modo...”
“Non sono scappato. Ho guardato e sono andato a casa con
calma.”
Tis rivide quel poco di morte che aveva visto nel cassone, l’atmosfera da fredda barbieria, i due buchi sul collo.
“Non è vero, hai lasciato la macchina davanti all’ospedale e sta
ancora lì.”
“Avevo voglia di fare due passi.”
“Stefano non scherzare. Ho letto sul giornale di questo ragazzo, non si capisce...”
Stefano, che solo sa, ride con sapienza.
“I suoi compagni” continua Luisa “hanno detto che ci sono dei
lati oscuri. Dunque è ancora una cosa di politica...”
“La politica, la politica...” ride Tis.
“Quali sono i lati oscuri?”
Certo che ci sono – pensa Tis – i lati oscuri. Sono due buchetti
che nessuno ha voluto spiegare. I topi? Diciamo pure i topi. È molto
diversa l’oscurità che lui ha intravisto da quella del complotto che altri hanno immaginato. La sua è l’oscurità vera, quella dove sbuffano
lembi di fantasmi e non penetra la luce dei fari.
“Ma non è vero niente” dice Tis alla Luisa “veramente. È tutta
una balla.”
“L’hanno ammazzato con la droga tagliata? L’hanno fatto apposta?”
“Ma no, guarda, te lo dico sul serio. Sono sobrio, anche. Non è
vero niente, l’eroina non c’entra.”
“Perché hai bevuto?”
“Philip Marlowe beve per sopportare il male e il tradimento”
proclama Tis.
“Philip chi?”
“Ciao Luisa” dice Tis.
Riattacca. Atmosfera da lungo addio. Sospira. Imbecille due
volte. Si pente. Magari lei era pronta a venire lì a fargli compagnia.
Tis adesso ha anche paura del buio. Certo. Ma potrebbe competere
con il ballerino? Sente freddo. Luisa: la rivedrà più? È ubriaco.
In cucina lo accoglie il gatto con indifferenza. Muove la testa,
un occhio socchiuso. La morte. “Sai dirmi tu che sia questo supremo
scolorar del sembiante?” chiede al gatto. La bestia apre tutti e due gli
occhi e lo guarda con comprensione.
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CAPITOLO XII
A scuola arrivò in ritardo e con tale faccia che nessuno fece
malignità quando annunciò che prendeva quindici giorni. Entrato
in presidenza, subito uscì dopo l’annuncio e tutto quello che aveva
bevuto si vedeva nella pelle livida e mosse a compassione chi lo
guardò percorrere il corridoio con andatura da sopravvissuto. Durante l’intervallo, commenti sulla sua vita ribollirono nella palude
professorale.
Mentre di Tis si parlava, egli sedeva davanti alla Rocca della
prigione, nel giardinetto con panchine rotte. Non era esclusa la possibilità di varcare quell’ingresso, di lì a poco. E se l’avessero portato al
manicomio? Queste due ipotesi occuparono Tis un paio d’ore finché
non se ne andò per pensare alle stesse cose sul divano del salotto.
Alle due la porta di casa si aprì e Tis ne uscì, con la collera che gli
ridava colore.
Dopo la telefonata della sera prima e il secco no di Londei, Tis
aveva richiamato all’una e mezza. Gli aveva risposto Laura, la bella
di Mauro, dicendo che l’amico non c’era. Al che Tis aveva pensato,
pieno d’ira, che Londei gli si negasse. Così gli andava a casa e, magari a botte, lo costringeva. Lo costringeva a che? Il cuore al pensiero
gli si strinse e l’angoscia gli traboccò nella testa. Quanto era solo.
Quanto doveva sembrare pazzo. Il paletto nel cuore di un morto, il
paletto nel cuore di un vampiro mentre il campionato di calcio ricominciava e quello di formula uno finiva. Sarebbe uscito, in qualche
modo, da questa storia? Trovare qualcuno, poterlo dire alla moglie,
baciare il figlio innocente ora che il padre suo, come Ettore, se ne va
verso una pianura cruenta e fatale.
Torno a casa e telefono – pensò. Invece girò nella piazza verso
la SIP.
“Dieci gettoni” disse.
La signorina considerò la sua faccia frettolosa e il modo con
cui sbatté la porta della cabina.
“Pronto.”
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“Pronto, chi è? Chi è?” Riconobbe la voce del bambino e gli
sembrò raffreddata.
“Amore, sono papà.”
“Papà, papà,” strillò l’innocente “mi hai comprato le figurine?”
“Che figurine?”
“La mamma dice che le compri tu” disse contrariato il bambino.
“Pronto?” disse la moglie al telefono.
“Sono io.”
“Lo sapevo.”
“Cos’è la storia delle figurine?”
“Adesso vuole l’album coi calciatori e ha fatto i capricci. Così
gli ho detto che tanto tutte le stupidaggini le prendi tu...”
“Grazie” rispose Tis lottando con l’emergente voglia del litigio.
“Se non ci fossi tu, a buttare i soldi per tutti...” sospirò la moglie.
“Senti,” le disse Tis “malgrado tu non sia una donna onesta...”
“Hai pranzato?” chiese la moglie.
Tis le fu grato della sfumatura d’interesse nella voce, forse di
compatimento. Ben immaginava, lei, le miserie dei pranzi col giornale, senza tovaglia.
“Io ti voglio bene” disse Tis improvvisamente, quasi aspettandosi miracoli.
“Non fare l’opera lirica” disse la moglie.
“Puttana, allora!” urlò Tis nel telefono.
“Magari lo fossi...” fece a tempo a sentire, mentre riattaccava
quasi sfasciando l’incolpevole apparecchio. Premette il pulsante di
recupero dei gettoni che il telefono sbattuto per dispetto s’inghiottì.
“Questa è la SIP” disse alla signorina.
Uscì e pedalò in piedi fino a casa di Londei. Salì i gradini a passo di carica. Bussò alla porta ignorando il campanello. Aprì Laura.
“Dov’è” chiese Tis.
“Non c’è. Come stai? Entra.” Lo baciò come sempre sulla bocca.
Tis era in tinello e si guardava sospettosamente in giro.
“Gli devo parlare.”
“Siedi,” disse Laura “ti faccio il tè.”
Dio, il tè no – pensò Tis. “Grazie” disse.
“Come stai?” chiese ancora Laura. “Non hai un bell’aspetto,
sei nervoso.”
“Sarà l’età...”
La guardò. Portava una gonna lunga, e Tis risentì la grazia di
quel saluto al quale non si poteva abituare. Sopra la gonna portava un
maglione viola a collo alto e Tis fu pieno di tristezza perché il maglione era pieno di movimenti. Riconsiderando tutto, capiva l’amico.
“Ti vedo bene” le disse pieno di tumultuosa malizia.
“Tu hai l’aria stanca” gli rispose Laura. “Ti faccio il tè.”
Tis si lasciò cadere su un sacco di polistirolo che era una poltrona e sentì la ragazza canticchiare in cucina.
“Mauro torna subito” gli arrivò da lì.
“Dov’è andato?”
“Non so, cercava un libro da un amico.”
“Ti ha detto niente?”
“No. Di chi? Di che cosa?” chiese Laura sembrando così la
risposta del complemento di specificazione.
“Di me.”
“No, perché?”
“Niente. Allora, come va?”
“Bene. Sto per partire.”
“Dove vai?” chiese Tis perso in un sogno di giovanili amplessi
in ostelli e sacchi a pelo.
“A Spoleto. C’è un festival pop. Vuoi venire?”
“Con te?” chiese Tis sussultando.
“Sì, con gli amici. Partiamo domani con un pulmino” trillò la
ragazza.
Nel cuore di Tis tornò la depressione.
“Un’altra volta.”
Nella stanza c’era odore di incenso. Tis si guardò attorno. Il
profumo parve crescere, poi arrivò Laura con il tè. Era quello che
profumava: Tis se ne accorse con disappunto.
“Ecco qua” disse la ragazza.
“Ah.”
“Ti ci metto lo zucchero di canna.”
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“No, grazie” sospirò lui.
“Sei triste?” Laura gli accarezzò una guancia e Tis pensò di
alzarle il maglione.
“No, no” disse più a se stesso che a Laura. “È buono il tè.”
In realtà mezzo litro d’acqua calda dopopranzo gli sembrava
un castigo. Questo, poi, era un tè grigioverde che sapeva di fieno e di
erba medica. Oltre che di incenso. Cominciò a bere.
“È nepalese” spiegò la ragazza.
“Ah ecco,” disse Tis “mi pareva.”
“Sì, vorrei tanto andare in Nepal, a Katmandù.”
“Sono due passi” disse Tis.
“A te piacerebbe?”
“Ormai sono vecchio. Buono il tè”, mentì di nuovo.
“Sono erbe di montagna, aromatiche. Nel Nepal ci sono le
montagne, c’è una natura meravigliosa.”
Carina era, non si poteva negare. E gentile. Forse si era accorta
di come la guardava. Tis rimise il naso nel tè. “Bella la natura del
Nepal” convenne. Guardò l’ora, erano le due e mezza. Sentì di sotto
il motore di un’auto. Lasciò lì il tè.
“Ecco Mauro,” esclamò “gli vado incontro.” Mica poteva parlargli lì, davanti a lei. L’agitazione, per dieci minuti messa in sordina,
lo riprese.
“Ma aspetta...” disse Laura mentre Tis galoppava per le scale.
Nell’atrio Londei non ebbe il tempo di spaventarsi che già Tis lo
aveva inchiodato alla parete.
“Ho visto con questi occhi, due buchi sul collo. Da solo ci sono
andato,” urlò “non puoi tirarti indietro. Ti porto all’ospedale e vedi
anche tu.”
Londei fece cenni disperati di star zitto, di non gridare.
“Ma non capisci?” urlava Tis “può essere un’epidemia se non
la fermiamo, e nessuno capirà niente!”
“Senti, calmati, sta’ zitto, siamo nelle scale, mi hai detto che
non è vero niente...”
“Andiamo a casa mia” disse Tis. “Ho solo detto che per me i
morti non si infettano.”
“Non posso, sta’ zitto.”
“Non vuoi.”
“Vorrei ma non posso. Ma come si può sentire certa roba...”
“Lo sai che è vero tutto” sibilò Tis.
“Sì, è vero. Ma per me è finto.”
“Che amico sei?”
“Mica t’ho sposato. E non urlare: non vedi che siamo dove tutti
possono sentire?”
Uscirono sulla strada. Lì, la breve calma del dopopranzo sotto
le nuvole stava già cambiandosi nel preambolo della sera e faceva
freddo. Il vento portava via le foglie e un giornale roteava in mezzo
alla strada.
“Ho fatto un piano” spiegò convulso Tis “che funzionerà. Ma
devi accompagnarmi.”
“Sentiamo” acconsentì Londei.
Tis glielo espose e Londei disse: “Tu sei matto.”
“Senti, domani ci sono i funerali e domani notte potrebbe essere troppo tardi.”
“Non me ne frega niente.”
Ma già Tis lo andava trascinando via, gli spiegava il visto e
l’immaginabile, diceva, garantiva, giurava, la metteva sul facile.
Avevano fatto a spinte duecento metri quando Londei si divincolò
e fuggì. Tis lo raggiunse e lo minacciò, Londei fuggì di nuovo e Tis
ancora lo riprese.
“Diamoci un contegno” disse Londei con aria sconfitta.
Quando infine smisero di parlare, faceva notte. Tis andò in cerca di un cinema che lo distraesse. Avrebbe aspettato l’infelice Londei
a casa, per il dopopranzo dell’indomani. Avrebbero visto i funerali
e poi, su suggerimento appropriato di Londei, si sarebbero vestiti da
studenti, con giacconi e il resto, portando con loro una bomboletta
spray: così che l’effrazione sembrasse dovuta non alla ricerca del
male ma a indagini di nascoste verità politiche.
Del film non capì nulla.
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CAPITOLO XIII
Un tiepido sole che non c’entrava niente s’ingegnò di rendere ancora più assurde le svelte esequie del giovane Avoli: brillò sul
praticello davanti al cimitero, fece qualche altro ingenuo effetto di
luce sull’edera che ricopriva le tombe più vecchie. Londei e Tis occhieggiarono in giro, scrutarono il canale, annusarono i tristi fiori
in vendita davanti al cancello. Infine entrarono come se andassero
a spasso. Londei, convintosi a seguire il folle amico solo dopo aver
finito una bottiglia che Tis già aveva dimezzato due sere prima, ebbro
dunque nel varcare la paurosa soglia, prese fiato come per parlare,
ma le parole non vennero.
“È tardi”, disse Tis. Prese Londei amichevolmente per il braccio, stringendolo per quanto poteva.
“Vediamo dove mettono la cassa. Poi si farà. D’accordo?”
“Tutto scientifico, capo” rispose Londei che quando beveva era
come un bambino. Come un agnello seguì l’amico collezionatore di
aerei e altre infantilaggini, come se si trattasse di un maresciallo di
Francia.
In chiesa c’era la cassa nel mezzo, due o tre tipi di studenti per
ogni fila, una vecchia, pochi adulti indistinti, chi saranno? I parenti?
– si chiese, e in piedi riconobbe l’alta figura del collega Gladioni che
non poteva mancare ovunque gli paresse di intuire un complotto delle multinazionali o una nequizia dei servizi segreti. Per il lanciatore
di gomme Avoli, giunto alla fine di sua dimora in terra, non c’erano
fiori né corone e quella cassaccia nuda fece subito venire a Tis una
convulsione di paura, pietà e vertigine che gli salirono come un singhiozzo alla gola. Magari, dopo tanto bere, c’entrava anche lo stomaco. Londei lo guardava e Tis gli rispose con un sorriso spaventevole.
L’altro ricadde a sedere. Il prescelto dal destino, invece, restò in piedi
come il forte di S. Leo sotto il vento, sull’orlo dell’abisso.
Pure, nella chiesa, la poca luce crepuscolare era calda e dimessa, con un sapore di pace malgrado tutto, e parlavano di pace anche
le parole che frettolosamente salutarono il fratello Roberto nella sua
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cassa “... dobbiamo essere grati al nostro fratello Roberto che ci ricorda come il nostro sia un passaggio... noi usciamo senza paura
dalla valle del pianto perché è verso la luce... e un’altra vita nelle
braccia del Signore...”
Nella valle del pianto: fin qui ha ragione il prete, si disse Tis,
ma più avanti? La luce, la vita, il riposo: ahimé, quanto ci illudiamo
mentre cadiamo verso questo buio dalle ganasce allentate e senza
memoria, diceva una voce dentro di lui. Gli parve che Londei muovesse appena le labbra.
“Che fai, preghi?”
“No, io no” rispose l’amico dal suo pallore. Il prete girò attorno alla cassa benedicendo, forse spruzzò anche il collega Gladioni,
poi scomparve in sacrestia con la sua schiena viola. Senza che Tis se
l’aspettasse, due uomini col cappotto si avvicinarono alla bara. Questa, che era appoggiata a un carrello, troppo facilmente scivolò verso
l’uscita con un progressivo rombo e rotolio che risuonò nella chiesa
come le trombe del giudizio.
“È finita?” chiese Londei.
“È finita.”
Uscirono, e sulla ghiaia li raggiunse il collega Gladioni.
“Anche voi qui?”
“Anche noi, per caso” rispose Londei.
“Sì, siamo qui di passaggio” spiegò impassibile Tis che pensava alla valle del pianto.
“Qui c’è qualcosa di poco chiaro” annunciò Gladioni.
“Viene notte, difatti” replicò Londei al quale il collega stava
proprio lì.
“Un’ennesima manovra...” cominciò Gladioni.
“Ma dai” disse Tis “sul serio?”
“Avoli aveva fatto parte del collettivo politico di radio Terra e
Libertà ed era stato figura di primo piano nella lotta di contrinformazione sulla droga e siccome quando lo arrestarono fece nomi...”
“Ma dai” disse ancora Tis, “non penserai...”
“Perché lo seppelliscono solo ora? La polizia copre qualcuno.
Perché gli hanno fatto l’autopsia?”
“La fanno sempre,” disse Londei “è obbligatoria in questi
casi...”
“Un compagno ospedaliero mi ha detto che i medici non hanno
trovato molto sangue...”
Quello di Tis e Londei gelò nel profondo, ombre nere calarono
sul cimitero scacciandone i passeri, il sole definitivamente disparve.
“Se tu credi che ammazzino uno solo perché ha parlato per
una radio libera e ha fatto due nomi...” uscì raucamente a Tis mentre
guardava pieno di freddo la salma dell’Avoli entrare nella camera
ardente a fianco dell’entrata.
“I giovani del Movimento rappresentano il vero nemico dello
stato e dei trafficanti di droga,” spiegò Gladioni col dito alzato “e il
compagno Avoli...”
“Il compagno Avoli ballava in piazza, contava i piccioni ed
era pieno di musica e eroina, cosa credi?” disse Londei con aria aggressiva, pallido e incerto di dove fosse, di dove lo conduceva la sua
vita.
“Ce l’hai con me?” chiese Gladioni “io non scendo sul personale.”
“Tu non sei una persona,” disse Londei “tu sei un manifesto.”
“Sentite, almeno al cimitero” intervenne Tis “non facciamo
l’eterno comizio di questo paese.” Prese Londei per il braccio: “È
tardi,” gli disse “non lo sai?”
Ciao Gladioni, ciao, ciao. Si salutarono. “La crescita politica,
il movimento...”, lo udirono ancora mormorare.
“Hai guardato?” chiese Londei.
“Sì.”
“Dove l’hanno messo?”
“Là dentro, come tutti gli altri.”
“Lo vuoi sempre fare?”
“E tu?”
“No.”
“Al mondo deve esserci qualcuno diverso da Gladioni” disse Tis.
“Questo è vero.”
“Ti accompagno a casa e t’aspetto mentre ti cambi.”
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“Hai paura che mi chiuda dentro, vero?”
“Già.”
“Come hai fatto a capire?” chiese Londei.
“Perché io vorrei che un’auto m’investisse per stare in ospedale due settimane e uscire quando è troppo tardi.”
“Mica ci pagano,” tentò Londei “possiamo andare al cinema,
a cena...”
“Siamo uomini” rispose Tis.
“Non fare la retorica.”
Nella grande malinconia della sera comincia a levarsi una leggera nebbia che avanza costante e sembra abbia intenzione di crescere. Il torrente di fianco al cimitero scorre tranquillo. Le sue acque
vengono dalle colline che circondano la città, si raccolgono in solchi
arati e nelle pieghe della terra, passano sotto i ponticelli campestri,
seguono il serpeggiare di stradine bianche, vedono rustici abbandonati, costeggiano file di pioppi, qualche quercia, arcaici equiseti, scivolano fra i nuovi quartieri della città finché, malamente incanalate,
vanno alla foce. Fra poco, come ogni sera, il loro gorgoglio sarà solo
a tenere compagnia ai morti.
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CAPITOLO XIV
Nei crepuscoli del mondo le grandi cause trovano sempre due
uomini generosi e impauriti. La causa in questione ne trovò due per
strada vestiti da studenti e li sospinse al cimitero. La nebbia veniva
calando nell’umidità e nel freddo della sera, propizia forse a quanto
si apprestavano a fare o più facilmente foriera di orrore, guai e ignominia, magari di licenziamento dalla Pubblica Istruzione.
Benché fra i cipressi il traffico fosse subito diminuito e poi
cessato del tutto, Tis non si sentiva tranquillo né gli pareva di poter
trovare un luogo dove nascondersi con Londei. Lo sguardo si imbatteva ovunque in fughe di tombe, in lapidi, in viali di lumini allineati,
in ombre insormontabili dove le siepi si alzavano. Chiudersi in una
cappella, fra le pareti di vecchi morti e un altarino, era da escludere.
Il suono ripetuto della campana era già echeggiato e aveva chiamato
a sé le ultime ombre dei visitatori. Anche il tonfo del cancello che si
chiudeva era giunto fino a loro. Tis e Londei avevano le giacche verdi, i calzoni di tela, Tis si guardava incerto le scarpe da tennis nuove
di Londei. Londei aveva al collo una collana di Laura che Tis aveva
rifiutato. Ma Tis portava comunque un foulard annodato e in qualche
modo s’era scompigliato i capelli e li aveva tirati sulla fronte.
“Be’? Che si prova a essere vestito da ala creativa?” soffiò
Londei quando riprese fiato.
“Sta’ zitto, sta’ zitto!” disse Tis.
Si guardarono attorno restando immobili. Londei osservò la
borsa di pelle che l’altro aveva sottobraccio.
“Di’, sembro uno studente?”
“Certo. Di notte gli anni non si vedono.”
Erano all’estrema periferia del cimitero, dove nessuna luce si
muoveva fra le lapidi e dove i campi cominciavano appena al di là
del muro di cinta. Tis si strinse il fazzoletto al collo e gradì il tepore della giacca a vento sulle mani. Gli sembrò comodo credere che
tremassero ancora per il freddo. Anche dalle scarpe saliva il freddo
della ghiaia. Ma certo era stato meglio vestirsi così, prendere lo spray
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rosso. Se li avessero scoperti, una rapida fuga di giacche verdi nella nebbia e uno spray abbandonato, avrebbero comunque costituito
qualcosa di già visto e – pur nell’orrido – di consueto. Due compagni
che rivendicano, e scoprono e scrivono nella notte, sul muro, la prova che il compagno Avoli non è morto per droga. Ci si poteva ancora
credere. Meglio così. Certo che il rumore dei passi sulla ghiaia faceva una musichetta che sembrava dire andiamo via, non facciamo
questa cosa, scappiamo scappiamo!
Questo sentiva Londei quando prese Tis per un braccio. Tis
sussultò.
“Andiamo via, chi ci paga? Io scappo.”
“Sta’ zitto.”
“Io scappo.”
“Quel che è fatto è fatto,” disse Tis “adesso è tardi anche se
volessi rinunciare.”
“Io voglio rinunciare...”
“Mi lasci qui, da solo?”
“Sì” rispose Londei.
“Senti, adesso è presto. Dopo vediamo, eh.”
“Vedrai tu. Io me ne vado.”
Tis lo prese per le spalle e lo sbatté contro il muro di una cappella con l’ingresso a colonne. Lo fece scivolare a terra e gli si mise
accanto. Londei provò a rialzarsi. “Finiremo in galera.” Sulla galera Tis aveva meditato ieri standole seduto davanti, sulla panchina.
Adesso l’immagine che ebbe della Rocca fu quella confortante dell’inverno prima, con tutta la neve e il fossato bianco, senz’orme. Lì
dietro dovevano esserci segreti meno orrendi di questi che è venuto
a cercare tra lumi e nebbia, con Londei che vuole scappare e batte i
denti.
“Hai paura?” chiese. Neanche gli arrivò la risposta. Tis si chiuse nella propria e guardò il lungo viale che finiva contro la cinta, al di
là di una cappella di famiglia con gli angeli che reggevano il tetto.
Il cielo era già buio almeno quanto i cipressi e le siepi, e anche
dalla strada non arrivava più niente.
“Fra poco è ora di cena. È il momento buono.”
“Qui di buono non c’è niente” rispose Londei. La voce gli si
ruppe dalla paura e il battito dei denti pareva udibile ovunque. Tis
frugò nella borsa e ne tirò fuori una bottiglietta. Passò un braccio attorno alle spalle di Londei e gli fece: “Sta’ buono, sta’ buono,” come
a un bambino “adesso bevi un sorso.”
Tutti e due sentirono il rotolio di un treno crescere, essere su di
loro, allontanarsi.
“Senti dove passa il treno. Qui a un passo,” disse Tis “qui a un
passo.”
Londei bevve un sorso e subito un altro.
“È Caffè Sport, è buono” spiegò Tis.
“Tira su. È vero che tira su?” chiese affannosamente Londei.
Ne bevve un terzo. Bevve anche Tis e subito gli venne da tossire.
La tosse suonò nel cimitero così sfrenata da temere che né buio né
nebbia potessero nasconderla. Si alzò in piedi, e anche Londei che gli
batté sulla schiena come se, invece di aiutarlo, volesse ucciderlo subito, a botte, lì sul posto. La tosse cessò e i due riscivolarono a sedere. Il calore del Caffè Sport arrivò alla testa e al cuore di entrambi.
“Dammene ancora” disse Londei. Ci si attaccò e bevve. Anche Tis mandò giù, sperando nella forza del caffè e nel coraggio
dell’alcol.
“Un tale di nome Della Santa” disse Londei, la cui voce arrivò
forte e chiara, “cadde anni fa davanti al camposanto. Era ubriaco e
aveva i piedi legati nei pedali, una bicicletta da corsa. ‘Aiuto aiuto’,
nessuno lo andava a levare perchè pensavano a un fantasma. Alla
fine chiamarono un prete.” Tis lo scosse e vide che gli occhi gli brillavano.
“Ancora un sorso?”
“Mais oui” rispose Londei. “Senti, se ci prendono lo sai che
diciamo? La verità. Siamo venuti qui a vedere un drogato morto,
ucciso da un conte vampiro. Se il drogato si sveglia, andrà in giro
mordendo anche lui... Questo diciamo. Così ci mettono in manicomio e non ci tira fuori più neanche Basaglia.”
“Vagli a dire a Basaglia, di un vampiro...” sospirò Tis.
Bevve il Caffè Sport senza tossire e con un piacere che gli
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allentava le ginocchia. La nebbia sembrava un vapore caldo. In fondo, era un’impresa difficile ma possibile. L’alcol, lo zucchero e il
caffè avevano allontanato il brutto della cosa: un giorno, magari, ci
sarebbe stato da ricordare quel giorno come quello di uno sbarco in
Normandia. Anche essere lì, al freddo, con le giacche da giovinastro,
seduti tra le tombe di coloro che avevano percorso la via Rossini
prima di loro, era come essere sull’orlo di una vertigine, proclamare
che loro sono forti, pronti a tutto, a scavalcare il muro, menare il
custode, uccidere il male, e poi da domani non saranno più giovani
un’altra volta.
“La testa mi va per conto suo” disse Tis, “non capisco più
niente.”
“Non mi baciare, allora” sghignazzò lo spudorato Londei che
era ubriaco e in viaggio verso la pleurite con la giacca spalancata e
gli occhi accesi di un matto che sente caldo, di notte, a ottobre, in un
cimitero.
Un po’ alla volta il Caffè Sport si disperse per tutto il corpo e
il freddo attenuò le euforie di poco prima. Nessuno poté più negare a
se stesso lo spessore della notte, il panorama circostante. La bottiglia
semivuota tornò nella borsa, urtandone il contenuto. Londei allungò
il collo e un nuovo brivido glielo percorse: aveva visto una specie di
gamba di seggiola, a punta.
“Cos’è quello?” chiese.
“È il paletto di frassino.” L’altro si appoggiò alla tomba, con
gli occhi chiusi.
“Non servirà,” prosegui Tis “non servirà: lo sai quanto me.”
“Io non so niente.”
“Quella cosa è diversa. I vampiri non si riproducono. Non si
riproducono più.”
“Forse non ce la fanno” celiò Londei chiamando a raccolta tutto l’alcol.
“Vedi che non c’è nessun pericolo. Si tratta solo di entrare in
una stanza e di aprire una cassa.”
“Capirai, una cassa... pazzo delinquente!”
“Se fosse giorno” continuò Tis “e tu fossi autorizzato, entrere-
sti, il custode non ti vedrebbe, lo faresti e via. Avresti paura?”
“No.”
“È la stessa cosa. Solo che è notte. Hai paura?”
“Sì.”
“Non hai paura” concluse Tis. Dalla borsa estrasse una pila, un
cero rosso, un cacciavite automatico, una pinza. Rimise a posto e al
succubo Londei sembrò un tristo artigiano dell’ombra. Guardò ancora l’orologio: era ora di cominciare a muoversi. “Andiamo” disse.
Si alzò e Londei non si mosse. Allora si incamminò sulla ghiaia
rapidamente e senza curarsene, e sentì che l’altro lo seguiva. Tenne
la pila e gli passò la borsa. Londei la strinse al petto come uno scudo
e camminò sbilanciato in avanti, con gli occhi vuoti. Avevano raggiunto un viale più vasto, in mezzo alle cappelle di famiglia e ai monumenti: donne con ragazzi tra le braccia, veli di granito, angeli della
morte, aquile cadute. I segni della nostra disperata solitudine davanti
al buio, le cose del mondo dietro il muro che Tis, già a metà della sua
vita, è venuto a percorrere. Nell’oscurità i monumenti uscivano dalla
nebbia e la strada sembrava non portare da nessuna parte. La chiesa
dove dovevano fermarsi, dov’era? Tis cercò un riferimento e alzando
gli occhi lo trovò. Il monumento era dedicato secondo evidenza a un
bambino. Anche Londei s’era fermato. C’era un bambino di pietra
seduto sopra un pacco legato, in alto sopra il basamento.
Malgrado l’ora tutt’e due guardano. È certo la tomba di una
creatura morta troppo presto. Tiene in mano un capo della corda e
sorride nella notte, come chi ha già imparato che nulla vale la pena
e sembra tanto più saggio di Tis e Londei che ancora corrono e si
arrabattano.
“La chiesa è qui vicino, pochi metri.”
“Madonna” dice Londei. Vorrebbe più di ogni altra cosa essere
altrove. Ma siccome non può, è lui stavolta che passa avanti, sotto il
bambino sorridente, sfiora il basamento, si infila tra due monumenti:
un angelo lo guarda passare.
La chiesa emerge dalla nebbia e i due sono quasi allo scoperto.
Con la fronte gelida e i movimenti convulsi Tis fa scattare il chiavistello e entra. Londei è dietro.
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Il raggio della pila illuminò le panche e il vuoto corridoio fino
all’altare. Lì, appena poche ore fa, c’era la cassa di Avoli.
“Aspettiamo qui” disse Tis “dove stavamo oggi.”
“No,” disse Londei “andiamo a casa. È la voce del destino: non
ci dobbiamo provare.”
“Che voce, scemo!”
Tis si mise a sedere e Londei gli si precipitò a fianco.
“Come fai a non avere paura?”
“Ce n’ho un sacco, ma devo provare.”
“Tu non sei normale.”
“Se te ne vuoi andare, vattene” disse Tis. “Però quando esco
anch’io, ti vengo a cercare, non scherzo. E poi dove vai, adesso?”
L’idea di uscire dalla chiesa del cimitero da solo, di passare
sulla ghiaia, di tentare il muro, fece passare la voglia a Londei: stette, nel suo travestimento, con le mani sugli occhi e la testa china,
studente in alta uniforme che piange i suoi peccati. La collana di
Laura gli pendeva dal collo come il segno di una sconfitta. Si perse
a pensare, adesso che il peggio stava arrivando, a come la faccenda
fosse cominciata e come lui, nel pomeriggio, avesse potuto varcare
per la seconda volta l’ingresso del cimitero travestito da diciottenne.
A trenta metri, a cento metri da lui, nel deposito con le piastrelle sul
muro il giovane Avoli dormiva per sempre (o no?) il suo sonno eterno sui cavalletti.
Il freddo e il buio lo intorpidirono e Londei si rese conto che
ormai non sarebbe più riuscito a far nulla, né a fuggire né a proseguire l’impresa, senza l’aiuto di Tis. Lo guardò e vide il suo profilo
intristito, con le nuvolette del respiro che gli uscivano dalla bocca e
le mani abbandonate fra le ginocchia. Tis cominciò a parlare senza
guardarlo.
“Tra poco usciremo. Quando saremo dentro io toglierò le viti e
faremo in fretta perché il tappezziere mi ha dato quest’affare automatico... Mi ascolti? Solleveremo il coperchio e lo metteremo giù piano
piano, non faremo rumore...”
“Stefano, ci roviniamo” lo interruppe Londei.
“Non faremo rumore,” riprese Tis “apriremo la zincatura e
vedremo che Avoli è morto davvero e tutto sarà finito lì. Se fosse
vivo...” smise perché Londei lo aveva abbracciato e respirava come
singhiozzando. Tis lo scostò. “A che ti serve, adesso, aver paura? Lasciala per dopo” gli disse duramente. “Se Avoli è morto, richiudiamo
e via. Se non facciamo in tempo, lasciamo lì lo spray e scappiamo
lo stesso. Chi ci può fermare? Se richiudiamo la bara con le sue viti,
nessuno l’aprirà più.”
Londei s’era messo le mani sulle orecchie e scuoteva la testa.
“Mauro,” lo implorò Tis costringendolo ad alzare la faccia “io
lo so che sei bravo. Aiutami.” Londei si tirò su con gli occhi pieni di
lacrime, facendo di sì con la testa. Tis prese ancora la bottiglia e gliela ripassò. Londei ci si attaccò e finì tutto succhiando e sospirando.
Si mise buono.
“Ancora poco” disse Tis. Accese la pila e illuminò la parete
con le lapidi. Il circolo di luce andò rivelando:
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Contessa Beatrice Palma
Nata
Marchesa Bufalini
Vissuta Pia Affabile Benefica...
La luce scese ancora e Tis lesse:
Nel Giardino Celeste
Ove
La Primavera È Eterna
O Avventurata Giovanetta
Prega Pe’ Tuoi Cari...
“Sei pazzo? Fai le luminarie?” Londei gli strappò la pila dalle mani. Ricaddero nel silenzio. Tis guardò l’orologio. Dieci minuti
ancora. Pochi istanti dopo si alzò, invece, di scatto come se non resistesse più dicendo “adesso, adesso”. Londei gli si attaccò al braccio
sussurrando non si sapeva a chi “aiutatemi, aiutatemi...”
Uscirono dalla chiesa e girarono a sinistra tra le prime tombe,
chini, attenti più di un ladro a non far rumore con i piedi. Girarono
ancora a destra, si scostarono da una tomba con troppi lumi e fiori.
Si addossarono alla siepe di pitosforo guardando nella nebbia verso
la casa del custode. Ne usciva la luce azzurrina della televisione. Allora ripartirono e raggiunsero, oltre le prime antichissime sepolture,
il fiume chiaro della ghiaia. Lì si fermarono. Erano allo scoperto e
in piedi, davanti a loro c’era la cortina nera e immobile dei cipressi,
l’ingresso in forma di tempio greco, l’alone del fanale sopra la baracca del fioraio. Proprio di fronte a loro la porta del deposito. La parete
di mattoni è nera e la porta anche di più. Adesso che sono lì davanti,
forse neanche Londei andrebbe via senza provare, senza cercare di
sapere. Quella porta, aprirla almeno e guardare dentro.
È possibile che nell’aria non ci sia nessun rumore? Nel buio
entrambi si voltano di scatto, ma non è vero nulla, non c’è neanche
il vento. E se sembra che un gelo improvviso li pervada, è solo la
loro paura. La ghiaia fruscia, ma poi è alle loro spalle. Adesso sono
arrivati: la porta è lì.
Tis la tentò mentre Londei guardava disperatamente intorno.
Infilò il cacciavite in una fessura facendo forza. Smise quando sentì
che stava per cedere.
“È vecchia,” disse a Londei “è fatta.”
Quando nella strada un’auto fu alla loro altezza, Tis spinse con
forza. La serratura cedette con uno schianto e la porta si spalancò. I
due si precipitarono dentro e Tis riaccostò i battenti forzati. Teneva
Londei per la giacca e nell’oscurità non seppe ordinare alle proprie
mani di prendere la pila. Il respiro di Londei era come quello di un
animale ammalato. Tis pensò allora che il proprio apparente coraggio non era altro che il bisogno di riparare alla paura dell’altro, e
gliene fu grato. Trovò infine la pila.
Ad uno dei battenti della porta erano appesi una scopa, una
pala, una lunga corda. Il bagliore sembrò ancora più inaccettabile
che nella chiesa, e la pila fu spenta. “Siamo entrati” disse Tis a voce
troppo alta. Tacquero e rimasero appoggiati alla porta, spalla contro
spalla. Alla destra di Tis battevano i denti di Londei. “Se il Padre
Eterno mi tira fuori di qui... se mi tira fuori...” Tacque perché aveva
incontrato la corda appesa e un brivido più lungo gli era corso giù per
la schiena. A poco a poco gli occhi si andarono abituando al buio e la
stanza si rivelò nelle sue dimensioni.
Il locale è nero come si conviene, ma da quel poco che filtra
da una finestrella si intravedono le ombre di due corone appoggiate
al muro, sotto i vetri. E un altro tenue chiarore è al centro della stanza, dove dovrebbe esserci una sorta di lucernario. Gli occhi fissano
il buio a mezza altezza e non hanno voglia di abbassarsi al giusto
livello dove ormai, pur fra i battiti accelerati del cuore che non vorrebbe e il sudore gelido fra i capelli, sono evidenti due forme scure,
allungate, che sembrano sospese sul pavimento. Vicino alla seconda
bara c’è una porta aperta che dà su un secondo locale: ma è buio, lì,
come l’inferno e ne viene un silenzio inviolabile. Chi passeggerà
impunemente su quel pavimento?
Alla luce del sole non è che una stanza con odore di chiuso (i
fiori appassiti?): ma adesso è il nero androne del supremo confine,
dove la solitudine è assoluta e al cuore di chi è vivo non sembra di
poter sopportare d’entrarci. Per fortuna non c’è bisogno: la luce della
pila brilla ancora un istante e la prima bara è quella giusta, lo dice un
cartoncino – Avoli Roberto –, non ci sono fiori.
“Eccola.”
“Sì.”
“Sei pronto?” Londei non risponde.
“Comportati da uomo” disse ancora con spezzata solennità Tis.
La borsa venne poggiata ai piedi del cavalletto, ne viene tratto
il cero che fu acceso e posto a terra. La pila finì dentro.
La luce del cero è poca cosa ma fa vedere tutto, anche troppo,
manda ombre verso il soffitto e fa della faccia contratta di Tis uno
scempio. La fiammella non può arrivare oltre il vano aperto vicino
all’altra bara: lì resta l’impenetrabile cortina. Tis le offre le spalle,
ma Londei non ci riesce e si pone all’altro lato della bara. Questa
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è povera, gli intagli sono stampati a macchina e cercano di imitare
le foglie d’acanto. Le viti entrate lungo i fianchi hanno rivelato il
bianco del legno da quattro soldi. Londei, che in tempi lontani restaurò una vetrinetta, nota la spessa vernice scura che tinge ed è mal
colata negli angoli incisi. Il suo sguardo percorre su e giù il legno, si
distrae volentieri. Ma l’altro ha già fatto scorrere il manicotto lungo
il cacciavite e gli dice: “raccogli”. La prima vite è caduta e anche la
seconda. La terza tintinna nell’ambiente e conferma che la discesa
nella profanazione è cominciata. I minuti passano e forse in dieci Tis
ha fatto il giro della bara e le viti sono un mucchietto vicino al cero.
“Prendiamo il coperchio” disse Tis. Era pallido e la pettinatura
in avanti gli stava appiccicata alla fronte. Può darsi che tutta la paura
se ne stesse in angoli che lui stesso non conosceva, può darsi che più
di tutto temesse svenimenti o fughe di Londei.
“Prendi il coperchio” ordinò ancora. Londei mosse la testa per
dire no.
“Vuoi che ti lasci qui?”
“No.”
Tis alzò la mano col cacciavite e lo puntò alla gola di Londei.
“Prendi il coperchio in cima.”
Quello mise una vite in tasca e prese il coperchio. “Sono pronto, abbi pazienza.”
“Senti,” disse Tis con una voce che voleva essere meno fredda
“non si vede niente, ancora: c’è lo zinco.”
“C’è lo zinco” fece eco Londei.
“Qui sotto non c’è un vampiro. C’è solo un morto.”
Londei allargò le braccia a dire che bastava anche così, ma Tis
lo guardò con gli occhi di un pazzo, così rimise le mani sul coperchio
che si mosse e venne via facilmente scoprendo una superficie di zinco gonfia e opaca, con le larghe tracce della saldatura che percorreva
la bara da un capo all’altro. Sotto i patetici intagli stampati del coperchio, con le sue resine brillanti, ecco che le grossolane saldature
anticipavano la realtà dell’uomo fatto a immagine di Dio, quando
questi se lo riprende.
I due pongono il coperchio a terra, dove l’ombra se l’inghiotte.
Sebbene riflessi opachi vengano dallo zinco, la tenebra si è fatta più
fonda, una stanchezza enorme pesa sui movimenti. E poi, nell’aria
spenta, c’è qualcosa di nuovo: non è l’odore di fiori vecchi, non è la
resina, non sono le morte foglie d’alloro: è un’altra cosa che i due
sentono nel buio. O sembra di sentire? Forse è la paura che trasuda
gelida dalle fronti di Tis e Londei? O è forse una promessa di trionfante morte che filtra infine dalle saldature? I loro occhi si incontrano
e adesso sono uguali, perché manca ormai solo quel velo di zinco al
culmine degli orrori, e già tanti ne sono passati. Le mani di Tis, che
premono sul metallo, preparano l’ultimo. La lama del cacciavite si
poggia al centro della saldatura, “dammi la pinza” dice con un gemito Tis. Londei obbedisce, e per quella sera non sentirà più la voce
dell’amico. Una goccia di sudore cade sullo zinco. Poi il cacciavite
preme con forza disperata, sfonda, ci resta, allarga il varco. Un pezzo
della saldatura cede di colpo. Anche la pinza entra tagliando perché
Tis lavora furiosamente, non fa caso a ciò che esce dalla fessura, non
sa più nulla di Londei dietro di sé ma taglia e con le pinze tira e strappa lo zinco, che s’apre come un foglio. Anche l’altro lembo cede. E
non si può che vedere.
Non ci sarebbe neanche bisogno di guardare perché altro aveva
già dato la certezza di quella morte: comunque il giovane Avoli è lì
davanti.
Gli hanno trovato una giacca scura e le mani non sono riusciti
a metterle in croce e nemmeno dritte lungo il corpo che appare rigido
e storto, come quello di un soldato sbilenco che non sappia mettersi
sull’attenti, cacciato dentro in qualche modo. Le bende dell’autopsia,
sulla fronte, non sono più bianche, è meglio non fermarcisi. Anche il
viso è affilato con gli occhi semiaperti e gessosi, come impolverati,
che guardano il soffitto. Sulla faccia le ombre sono macchie bluastre,
poi si vede che non sono ombre. La mano sale verso il petto del ragazzo perchè si deve, a quel punto. Ci si ferma. Non sente nulla: si
vede che la giacca è malamente infilata nel corpo, è stata tagliata sulla schiena. La mano di Tis va verso il colletto disegnandosi tremante
sulla camicia. Sa quel che vedrà, ha già visto all’ospedale. Sale e
sposta la stoffa per scoprire i due fori cui nessuno ha potuto ragio-
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nevolmente credere. Ma ci crede più neanche lui? La stoffa cede e
così Tis vede ancora. Sbagliare, lui sa che non ha sbagliato. Londei
non vede sul collo perchè la mano dell’altro copre. Ma gli basta il
resto: sente che pagherà per quella pace che non si doveva turbare.
Così muove le labbra e Tis lo sente provare a balbettare “...requiem
aeternam dona ei, Domine... et lux perpetua luceat ei...”.
Il lavoro è finito. Che c’era da sapere? Anche Tis pagherà per
quella pace. Da dietro, misto al vago odore di Caffè Sport, gli arrivano le parole in latino e lui capisce quanto sia grande la loro solitudine, quella dell’impaurito Londei che dopo trent’anni prega in latino
come il bambino che fu, e la sua. Allora si volta, stanchissimo, per
abbracciare l’amico.
Ma Londei guarda ancora il morto con i suoi occhi di gesso
e non può sopportare che nulla lì dentro si muova più. Così, senza
preavviso spalanca la porta e Tis sente che corre, sente le sue gambe
rampare sulla ghiaia. Fuggire, fuggire. Col cacciavite ancora in mano
lo segue ciecamente. La nebbia della notte è come un sogno. Vede
Londei già alto sulla cinta, che salta di là. Una tomba gli dà slancio
e le mani artigliano il muro. In ogni caso ce la farebbe: le sue dita,
a quel punto, potrebbero qualsiasi cosa. Anche lui volteggia goffamente e atterra duro sull’asfalto. Londei zoppica come una furia, più
avanti. Nessuno stava passando.
Mentre il cacciavite vola nel canale lungo la strada, entrambi
corrono e Tis ha già quasi raggiunto Londei, quando si fermano di
colpo, tutt’e due, sbalorditi: da una casa è venuto, chiarissimo, il suono del telegiornale che finisce. Le nove. È possibile? Era sembrata
una vita.
Un’auto che passa illumina due studenti immobili, al lato della
strada.
città con la sua gente e i suoi affanni. Anche al giovane Avoli, nella
bara scoperta, almeno finché il custode sbigottito non scoperse il fatto al mattino, quell’aria imprevedibile soffiò sul morto viso, come un
inaspettato ed estremo saluto della vita.
Più tardi, quando già la notte stava per finire, nella stanza del
cimitero rimasta aperta un soffio breve di vento spense il lume che
già vacillava. Infatti dal mare arrivava inconsueta una brezza che
portava via la nebbia e prometteva una mattina chiara d’autunno alla
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CAPITOLO XV
Il medico non gli trovò nulla. La febbre era alta, evidente l’agitazione, i bronchi suonavano bene. Consigliò un antibiotico e riposo.
Nella camera la serranda era tirata su completamente e le tende scostate. Il medico si avvicinò per socchiuderle ma Tis urlò che voleva
luce. Allora dalla valigetta venne fuori una boccettina. “Dieci gocce
adesso, venti stasera” disse il medico. “Lei mi pare francamente nervoso.”
Gli misurò la pressione, lo guardò senza capire. Era pallido e
rosso assieme, la febbre c’era, le mani tremavano. Gli palpò il fegato
per scrupolo. Se ne uscì, infine, scortato dal gatto.
Appena il medico se ne fu andato, Tis si alzò a piedi nudi e
guardò dalla finestra la pacifica luce del giorno. Chissà se la polizia
era stata chiamata al cimitero. O se il custode, temendo guai, aveva
richiuso la cassa così come si trovava. Telefonò a Londei che rispose
con voce alterata: “Ho perso dieci anni di vita. Se vieni qui ti sparo.”
La febbre gli fece venire le vertigini e tornò a letto. Figurarsi,
gli antibiotici per una cosa così. Sebbene di giorno la testa rifiutasse
di ricordare, le ombre del pomeriggio e della sera avrebbero certamente riproposto l’intero ricordo. Guardò il flacone con il calmante
e lo prese. Dieci gocce, quindi, venti. Poi dette al flacone un paio di
scosse e il liquido rosa zampillò nel bicchiere. Bevve senza problemi
il sonno dal sapore d’arancio. Lesse, in un giornale di modellistica,
i segreti di una nuova colla. Ma non arrivò alla fine e gli occhi gli si
chiusero piacevolmente, senza che ricordasse il cimitero.
Anche Londei cercava la quiete di un sonno senza sogni. Non
sapeva che Tis aveva ceduto a un sonnifero, e lo temeva. Lo impauriva l’idea di vederlo riapparire a proporre nuove stranezze, a rifare
spaventose proposte. Sentì che neanche in casa propria sarebbe stato
al sicuro, lo prese un desiderio di conforto e d’abbandono. Non da
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Laura, che quiete non ne portava. Chiamò un taxi e si fece portare a
casa di sua madre. Gli passarono davanti le vie, i semafori, le ragazze
in bicicletta. Nulla era cambiato dall’irreparabile pomeriggio di ieri.
Suonò il campanello e attese, non rispose nessuno. Cercò le chiavi
nel vaso dei gerani e aprì. Di nuovo chiamò a voce alta, ma l’appartamento era vuoto.
Nel salotto vide il pianoforte, croce della sua infanzia, il giradischi che accompagnò la giovinezza della madre, il lume a olio della
nonna. Si sdraiò sul divano a contemplare i fiori della carta da parati.
Qui la stanchezza lo addormentò di colpo.
Lo ritrovò più tardi la madre trasalendo per la sorpresa. Londei
dormiva profondamente. La donna lo guardò a lungo prima di chiudere delicatamente la porta, e pensò con trionfo che Mauro adesso
era lì, e non dalla sciagurata dalle camicette trasparenti. Immaginò
il figlio ritrovato, serate di conversazione, tè e biscotti: desideri già
svaniti da tempo. Riuscì in fretta in cerca di uova freschissime, preparò la sfoglia per le tagliatelle e con un uovo più grosso batté accanita uno zabaione per l’inaspettato reduce.
Tis invece dormì venti ore e si alzò a fatica. Dalla finestra entrava la luce chiara e la sveglia sul pavimento segnava quasi le dieci.
Uscì trascinando i piedi e prese al bar due caffè di seguito.
In piazza si svegliò del tutto e lesse del giornale solo la cronaca
cittadina: ma né la morte dell’Avoli né la profanazione della tomba
vi apparivano. Forse la faccenda del cimitero non avrebbe avuto seguito. Che della morte del giovane non importasse più nulla a nessuno? L’esame necroscopico va per le lunghe, la memoria della gente
è breve e il cronista l’asseconda. In questo caso, pensò solcando uno
stuolo di piccioni, quale migliore complice del silenzio?
Era arrivato alla fine di una pista. L’Avoli era morto davvero e
questo pareva escludere le suggestioni sulla morte alata. Ma i segni
sul collo non se li era sognati. Certamente dell’intera vicenda, poco
a poco, non avrebbe più sentito parlare. L’inchiesta si sarebbe persa
nelle secche degli insoluti: non restava che scegliere di dimenticare.
Ma come può, un uomo solo con troppo tempo? Vide le sue abitudini
e le sue passioni come dovevano apparire agli altri: vuote e infantili.
Chi è andato a strusciarsi alla morte non può più costruire aeroplanini: da questo Tis si sente segnato.
Allora decise. Nella cabina telefonica vicino alla Piazza, al
centro di un mondo normale che scorreva al di là dei vetri, cercò il
numero e alzò l’apparecchio.
“Pronto?” risposero dall’altra parte.
“Buongiorno” disse Tis. “Potrei... Vorrei parlare col conte Baldassarri.”
“Sono io,” rispose la voce “chi parla?”
“Il Conte...” vacillò Tis.
“Sono io, Umberto Baldassarri.”
“È per una ricerca...” inventò.
“Come, scusi?”
Ma già Tis aveva le orecchie di fuoco e l’ardimento infranto.
Riattacco, pensò, non sa chi sono.
“Chi parla, insomma?” lo incalzò perentoria la voce. Allora si
sentì librato in volo.
“Ecco io... io sono il professor Tis, Stefano Tis. Mi sono permesso di disturbarla... perchè sto studiando per una ricerca...”
“Una ricerca?”
“Sì, uno studio sulla nobiltà pesarese.” Dall’altra parte non vi
fu risposta e Tis si augurò di essere credibile.
“Vede, io sono un insegnante... Sto progettando un lavoro sulla
nobiltà pesarese del XVIII secolo e, al momento attuale, il mio interesse riguarda il reperimento delle fonti. Così ho pensato che se lei,
cortesemente...”
“Ma lei,” fu interrotto “lei è per caso l’autore di quel libro sugli
Ebrei nella Restaurazione?”
Ecco dove era finita una delle cinquantadue copie che di quella
cosa si erano vendute. Benché ancora confuso, Tis provò anche una
inequivocabile soddisfazione.
“Sì,” balbettò “sì... È quel lavoretto che ho scritto cinque o sei
anni fa. Lo conosce?”
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“Sì. L’ho letto con interesse e ne ho una copia in biblioteca. Ha
fatto altre cose, poi?” La voce del Conte adesso era cordiale.
“No. Poi mi sono sposato.”
“Una ricerca, ha detto?” chiese il Conte.
“Sì, sui nobili del settecento. Per questo le ho telefonato, mi
sarebbe utile parlarle. Pensavo se la sua famiglia avesse un archivio...”
“Lei lavora per l’università?”
“No. Sono studi che faccio per conto mio.”
“La invidio. Piacerebbe anche a me.”
“Allora posso sperare in un suo aiuto?”
Dall’altro capo la voce tacque e Tis pensò ai giochi in Piazza
del morto Avoli, al breve tempo di chi al cielo è caro.
“Be’, guardi...” riprese il Conte “non so se le sarò di grande
aiuto, ma potremmo discuterne. Quando vorrebbe parlarne?”
“Quando lei può, Conte. Di pomeriggio andrebbe benissimo...”
“Allora... anche domani verso le quattro?” Da cordiale la voce
era diventata simpatica.
Uscendo dalla cabina Tis capiva benissimo che le sue peripezie non erano fiabe. Ma era contento, percepiva l’aspro profumo di
ottobre, sentiva il desiderio che gli accadesse qualcosa di bello. Per
questo si guardò attorno.
Un camion bloccava la via Rossini armeggiando con un lungo braccio meccanico in una finestra al terzo piano del palazzo comunale. Il motore girava con sommesso brusìo, come un calabrone
nero che sondi gli anfratti, i fiori, i solchi umidi dei muri. Il braccio
meccanico scese cautamente col suo peso: un ripiano, una scrivania.
Una pianola, parve a Tis. Osservò mescolato alla folla. Tornò quindi
verso casa improvvisando discorsi convincenti da fare al Conte. Dal
fornaio sotto casa acquistò del pane che pagò 5000 lire al chilo perché dimenticò il resto.
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CAPITOLO XVI
“Lei sa che con la fine dell’impero si frantumò l’unità scrittoria
dell’occidente latino: dal quinto secolo in poi, ogni regno barbarico
sviluppò proprie forme di scrittura derivanti dalla Minuscola corsiva.
Ma questa, a dire il vero, appare già caratterizzata nelle prefetture
dioclezianee e nelle molte diocesi provinciali...”
Il conte Umberto Baldassarri parlava.
Di storia antica, di tachigrafie, di estinti regni. Eccolo, il supposto nemico. Eccolo, dunque, in quella biblioteca di bella quercia,
dove Tis avrebbe voluto passare le sere tra carte, camino acceso e
un’amante accucciata ai suoi piedi. Immaginò che in quella stanza
silenziosa dovesse essere facile raggiungere il fondo inquieto di sé,
quando sui tetti s’agita l’inverno.
Guardando il Conte, dubbi e domande degli ultimi incredibili
giorni parevano dissolti, il solo chiedersi sembrava indegno e l’effrazione al cimitero si allontanava nel limbo delle impossibili cose viste
al cinema. Ma invece, gli sussurrava un allarmato pensiero...
“La grafia beneventana era elegantissima,” stava dicendo il
gentiluomo “e si sparse da Cassino a tutto il Mezzogiorno, fino in
Dalmazia e in Epiro. Poi si estinse col declinare dell’Abbazia e della
Longobardia minore di Capua, Benevento e Salerno. Lei avrà presente quel segno che nei messali sostituiva la congiunzione ET?”
“Sì, credo. Non è quello che adesso si usa solo in commercio: Smith & Wesson, per esempio?” disse Tis tracciando il segno in
aria.
“Proprio. È una sopravvivenza di quella antica grafia: una E
beneventana, appunto... Ma mi dica” continuò il Conte, “lei se ne
interessa?”
“Ascolto con piacere l’esperto.”
“Troppo buono.”
“No, no. Sul serio. Non conosco molto di paleografia ma è un
argomento affascinante, ed è raro trovare chi ne sappia qualcosa. Lo
sa? Mi è successo un’altra volta soltanto, con un prete che catalogava
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un archivio immenso. Peccato che di questa scienza si perda...”
“Il sapere?”
“Il sapere e la diffusione” insistette Tis. “Interessa lei, me e pochi altri: non interessa più nessuno. Gli anni in cui viviamo sembrano
presenti solo a se stessi e rigettano ogni legame col passato. E a me
non piace questo ripudio culturale.”
“Sì, ha ragione, è un ripudio. Ma lei, cosa cerca nel passato?”
Suonò un remoto allarme nella testa di Tis. Più tardi, a ripensarci, avrebbe ricordato quella domanda, nell’ora che volgeva al tramonto, come il brivido che prelude alla febbre, la premonizione.
“Be’, non saprei esattamente... Forse che il passato è cristallino, inerte. La storia non è maestra di vita, oppure noi siamo pessimi
scolari. Ma è molto bello conservare un fatto, rivivere le cause, i dati,
le conseguenze... A volte mi pare” continuò “che nel presente non ci
si trovi. E allora è meglio l’osservazione di vicende che partecipano
del gran flusso della storia, ma ormai hanno il privilegio della fissità
nel tempo.”
Il conte Baldassarri sembrava riflettere. I capelli bianchi erano
ancora folti. È vecchio, pensò Tis, settant’anni portati bene o sessanta portati male. È colto, è un gentiluomo invecchiato, mentre per i
vampiri delle favole e dei libri il tempo si ferma. Potrebbe essere mio
zio, mi è simpatico, eppure...
“Eppure, professore, lei è in contraddizione” disse il Conte alzando lo sguardo. Tis sbigottì. “Mi perdoni, la contraddizione sta
nell’interessarsi di un fatto pensando di ricostruirlo, e insieme credere che questo fatto” fece un gesto con la mano “ormai sia inerte nel
tempo. Nulla di ciò che è stato è completamente finito. E neanche
innocuo, a volte.”
Tis provò nuovo disagio. Che diavolo dice, si chiese, cosa vuol
farmi capire? Pensò a quel che aveva fatto, a quella visita da cui non
poteva venir nulla. Si sforzò, di star calmò ripetendosi che il suo
delirio era assurdo.
“Immagino le sembri assurdo” proseguì il Conte. “Quel che
voglio dire è che il passato ha un peso. Non c’è qualche fatto insolito
che suscita la sua curiosità? Nella storia, voglio dire.”
“Sì...” replicò Tis. Mi legge dentro? si chiese. Con affaticata
disinvoltura proseguì: “L’impero di Trebisonda. Quando... all’università chiesi di fare un monografico su Trebisonda: mi affascinava
quel relitto bizantino che sopravviveva a Costantinopoli...”
“E ha fatto l’esame?”
“No. L’assistente quasi mi rise in faccia: allora non si potevano
cambiare i programmi ufficiali.”
“Certo, certo. Immagino...” fece il Conte. “Confesso di essere
stupito: Trebisonda? I Turchi si sono attardati qualche anno ad assediarla: erano nel pieno della loro espansione e certamente per loro è
stata una guerra secondaria. Ma non si può mai sapere... Vede,” disse
alzandosi dalla poltrona dietro la scrivania “gli storici seri storcono
la bocca a sentir chiedere cosa sarebbe successo se.... È il “se” che li
disturba. Io però ho sempre pensato che la concatenazione di eventi
che noi chiamiamo Storia sia tale, come dire?, solo se percorsa dal
passato verso di noi...”
“Si può percorrerla alla rovescia?” chiese Tis. L’ansia non
c’era più.
“No, non si può,” escluse il Conte “Ma il problema è nella libertà di scegliere. È come... come una trappola dove i topi scelgono
di entrare. È come nella mattanza, il tonno entra nella prima rete e
crede di essere ancora libero. In realtà, capisce, è già obbligato. E in
realtà è già morto.”
Tis seguì con lo sguardo il Conte che si dirigeva verso una finestra. Lo vedeva in piedi, la statura slanciata, l’abito sobrio, la fede
nella mano dietro la schiena. Il sole volgeva lentamente al tramonto e
appariva ogni tanto tra squarci di nubi, sempre più basso verso il colle del faro. I vampiri dei film di giorno dormono, pensava Tis, perché
la luce del sole li riduce in polvere, la stessa luce che ora giocava tra
le nuvole. Ma pesanti tendaggi coprivano altre finestre e una diffusa
penombra ne risultava nello studio.
“Stiamo per avere un tramonto magnifico” disse il Conte girandosi. “Sa, dal terrazzo di sopra una volta si vedeva tutta la valle,
fino a Colbordolo dove avevamo dei poderi. C’erano solo i molini
Albani a coprire un po’ la vista. Ma la città è cresciuta...” Tornò a se-
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dersi. “E così, egregio professore, lei vorrebbe fare uno studio sulla
mia famiglia e la nobiltà provinciale di questa piccola città?”
“Vede, il fatto è che da anni penso a un lavoro sulla nobiltà
locale. Magari con l’ambizione di saper mettere a fuoco il solito quadro d’epoca. La sua famiglia è molto nota...”
“E ha avuto della pubblicità, recentemente: quel giovane che è
venuto a morire qui di sotto. Ha letto i giornali, immagino.”
“Sì, certo: un fatto davvero increscioso,” disse Tis sentendosi
avvampare. “Ecco, allora ho pensato... voglio dire che da tempo pensavo di interessarmi alla Casa dei Baldassarri... Se lei fosse così gentile da permettermi qualche indagine e fornirmi delle informazioni...
Vedo che ha una biblioteca immensa.”
Il Conte distolse lo sguardo e lo condusse sui libri che coprivano le pareti, e sui quadri. Ne indicò uno.
“Ecco, quello è Cesare Baldassarri, un mio antenato del XVII
secolo” disse. Il ritratto raffigurava di tre quarti un gentiluomo dal
volto triangolare, con occhi ardenti che parevano esprimere un’incostanza o un rovello, baffi e barba a punta e vestito come Don Rodrigo, una mano sull’elsa e l’altra che indicava lo stemma di famiglia, scudo partito in verde e argento sormontato da corona comitale.
“Combatté alla Raab col Montecuccoli, ed era già vecchio. Invece
visse ancora a lungo e morì nel 1695, quasi centenario” disse ancora
il Conte.
Dai libri i suoi occhi salirono oltre il ballatoio che correva attorno alla sala, poco sotto gli stucchi del soffitto. Tis ne seguì lo
sguardo. Gli stucchi bianchi ornavano la biblioteca con discrezione:
quattro conchiglie rastremate, agli angoli della sala, reggevano un
tondo centrale dove una dea in trono riceveva una coppa dalle mani
di Amore alato.
“Finzione e persistenza” uscì detto a Tis. Il Conte si girò e attese incuriosito.
“Eccola, un’altra cosa che mi chiama dal passato” riprese Tis
più tranquillo che incerto, sebbene la notte crescesse dall’angolo
orientale del mondo. “Guardi gli stucchi centrali: immagino siano
settecenteschi, o più tardi ancora. E invece, cosa rappresentano? Una
fiaba mitologica, una forma classica, forse Venere e Amore: insomma, una ideale classicità già spenta da secoli, che però nella cultura
si continuò a fingere viva per un tempo così lungo che per l’uomo era
l’eternità... E oggi quella persistenza di valori, finti o vani che fossero, mi pare possedesse qualcosa di rassicurante.” Il Conte sembrò
consentire.
“Caro professore, lei è molto giovane e insieme molto vecchio. Finzione rassicurante del mito...” continuò con garbata ironia
“a scuola parlate di queste cose?”
“Non solo il mito,” riprese Tis. “Voglio dire, la persistenza della finzione riguarda anche altre cose. Pensi all’idea di Roma, che nel
Medio Evo divenne il sogno di una cristianità unita. Pensi quanto
fu lunga a morire anche dopo la fine dell’impero. Dante, gli Ottoni,
Cola di Rienzo... Può darsi che gli uomini trovassero rassicurante
fingere qualcosa anche se non esisteva più.”
“I moderni studiosi della mente umana gioirebbero a sentirla,
professore,” lo prese in giro il Conte con sguardo divertito “e darebbero a questo suo atteggiamento, che condivido, un nome elegante... ecco, complesso di Odoacre per esempio, che come sa conquistò
l’Italia ma finse di governarla da romano.” Sorrise anche Tis. “Una
sigaretta?” chiese Baldassarri.
Il Conte tirò fuori dalla tasca un portasigarette d’osso e lo aprì.
Dispose sul tavolo le sigarette, le tagliò a metà. Le mise a triangolo,
poi a quadrato. Ne accese una.
“Pare che così si fumi meno” disse. “Si fa notte, professore.
Lei è venuto a trovarmi per un modesto favore e io l’ho trattenuta
divagando e ho abusato della sua pazienza. Sarò lieto di aiutarla,
per quel poco che mi sarà possibile. Venga quando vuole. Nella mia
famiglia non troverà fatti eccezionali. Si dice, è vero, che sia molto
antica e abbia tratto origine dalla Francia, ma vive qui, nelle Marche,
da almeno tre secoli...”
Si faceva notte. Sempre più grandi salivano le ombre dal mare.
Si faceva notte davvero. Mentre lo studio scivolava nella penombra,
il Conte aveva acceso una lampada sulla scrivania. Ora quell’unica
luce riempiva via via di recessi la stanza, approfondiva i giochi del
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soffitto e degli stucchi, sottolineava le rientranze della biblioteca, imprimeva ai pallidi lineamenti dell’avo Cesare maggiore rigidità.
La notte rotolava alta sulla città, sui colli e le campagne. Solo a
ponente un residuo di luce macchiava ancora le nubi di colori smorti.
Tis pensò che una trappola non era diversa da questa.
“Devo andare” disse bruscamente, alzandosi e interrompendo
il Conte che parlava di un palazzo a Senigallia. Il Conte assentì con
comprensione.
“Certo, deve andare: è tardi.”
“Mi scusi, è vero. Solo ora ho guardato l’orologio...”
“Naturalmente,” fece eco il Conte “solo ora... È lei che deve
scusare me. Venga per di qua.”
Il Conte si voltò, manovrò una maniglia che Tis non vide e spostò un intero riquadro della libreria. Aprì una porticina dietro la quale
scendeva una scala. Si rivolse agli occhi inquieti di Tis.
“Lei ha fretta” disse indicando la nera entrata, “venga di qua:
facciamo prima.” Accese la luce e l’entrata schiarì.
Tis gli andò dietro meccanicamente. Erano in una scala ripida,
stretta e male illuminata. Tis si sentiva come chi non vuole ma non sa
negare. Il Conte non pareva imbarazzato dagli alti gradini, e al primo
gomito si girò. Tis si appiattì d’istinto contro il muro.
“Tutto bene, professore?”
“Sì... sì, tutto bene.”
“Siamo quasi arrivati.”
Ecco, pensò Tis cercando sui muri un crocifisso, un appiglio,
armi che non vide, ecco che scende simile alla notte. Se fuggo indietro, che farei in stanze sconosciute? Il Conte arrivò a un’altra porticina e armeggiò sulla serratura. A quel punto Tis si sentiva male.
“Questi vecchi palazzi hanno sempre qualche risorsa contro i
creditori. Eccoci arrivati” sorrise il gentiluomo mostrando l’atrio del
palazzo.
Benché l’immagine del riverso Avoli si riaffacciasse alla mente
di Tis, i rumori della strada dissiparono l’angoscia. Le luci dei negozi, il chiasso, furgoni, biciclette, vigili: tutto seguitava normalmente,
e a venti metri da lui.
“Dunque, la saluto, professore” disse il Conte, “mi ha fatto piacere chiacchierare con lei.”
“Anche a me” rispose Tis.
“Allora... venga quando vuole. Però i documenti che la interessano li conservo in una villa a Trebbiantico...”
“Avete ancora quella villa” chiese Tis nel cui cervello si chiudeva un altro circuito e appariva evidente la gaffe.
“Oh,” proseguì imperturbato l’anziano gentiluomo “è di famiglia da quasi duecent’anni. Una volta era il centro di un grosso podere, ma sa, i tempi cambiano... Ci vado domani per una decina di
giorni. Veda lei, per me va bene sempre. Professore,” continuò “le
pongo, una sola condizione. La stessa, del resto, che le farebbero
all’Archivio di Stato se lei vi svolgesse una ricerca. Vorrei una copia
del suo lavoro, se farà un’altra pubblicazione.”
Il professor Tis volò via dall’atrio respirando a pieni polmoni
l’aria chiara della sera. Aveva accettato, “certo, lei mi onora.” Ma
intanto giurava che mai sarebbe andato in villa né in archivio, né più
altrove, in questa storia.
Il profumo della pizzeria gli ricordò il frigo sguarnito e Tis entrò ad acquistare qualcosa. Uscendone già a bocca piena, incontrò degli alunni di terza al cui saluto rispose con un grugnito. E quell’altra
storia di cui gli parlò lo zio, il morto della prima guerra mondiale?
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Tis vi pensa, tra un boccone e l’altro, solcando la folla del passeggio serale. Una cosa per volta, si dice, facciamo con ordine. Così
mentre passa davanti alle luci della Standa ripensa alle carte di Baldassarri a Trebbiantico, e gli pare che l’ordine cominci proprio da lì.
Nel brusìo del passeggio il giuramento è già dissolto né Tis, come il
tonno, si sente in alcun modo obbligato.
CAPITOLO XVII
La pioggia che si abbatteva sulla concava vetrata della biblioteca, nella villa di Trebbiantico, seguiva un’armonia solo ad essa
nota. Ad intervalli forse proporzionali, cresceva e diminuiva come
imitando le onde del mare, che in serie di grandi e poi di piccole vengono a infrangersi sulle scogliere della città dove sorgono bar chiusi
e stanno nelle macchine gli invernali amanti. Il terrazzo di mattoni
ad arco che circondava la vetrata con le sue colonnine di marmo e i
due angioletti settecenteschi, era cosparso di foglie cadute. L’acqua
le aveva spinte verso gli scoli delle gronde, chiudendoli, e adesso le
pozze si ingegnavano a diventare lago e le foglie navigavano spinte
dalle raffiche. Nel terrazzo si specchiavano così gli angeli guardascala macchiati di muschio, e si specchiavano anche il cielo con i lampi
e le cime mosse dei cipressi.
Seduto di fronte ai vetri, Tis guardava le pergamene che aveva
distrattamente sfogliato: grafie sempre più vecchie e facce di nobili
imparruccati chiusi nell’ovale di libri la cui fodera di cuoio mostrava
chiazze d’umido e accenni di muffe. Inutile cercare in quei visi una
traccia, una costante: non c’era niente. Tutta gente scomparsa quando
alberi adesso giganteschi erano appena nati. Quel che di loro restava
nelle carte, era scontato e fisso come le lodi di una pietra tombale.
E anche il Conte, guardargli la faccia, i capelli, gli occhi bonari e
intelligenti, a cosa era servito? Un uomo che conosce le monete e le
iscrizioni dei Romani antichi e meno antichi, una figura di professore
universitario di tempi non sospetti, un lettore di buoni libri. Se una
sensazione dava, era quella di essere appena un po’ troppo nobile, un
po’ stanco, uno che tirato fuori dalle sue traduzioni non sapesse come
muoversi, né riparare una valvola saltata né compilare una cartella
delle tasse. Giusto come Tis. E poi di giorno stava in piedi, la luce
non lo feriva, tagliava a metà le sigarette per fumare di meno, come
se un mostro potesse curarsi della salute e correggersi un vizio.
Non credere alle parole scritte nei documenti per Tis era impensabile. Non sapeva fare quasi altro che frugarci in mezzo. Ma
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quella sera i metodi della storia, le testimonianze, le parole gli apparivano vane e senza senso. E il Conte, non lo aveva neanche visto.
Era andato in città e di lui aveva trovato un biglietto che gli augurava
buon lavoro. Sulla scrivania vari libri, uno rarissimo con i ritratti a
penna degli antenati, una bottiglia di cristallo col brandy. Se questo
gentiluomo avesse avuto una faccia verde e l’espressione maligna,
tutto si sarebbe semplificato. Invece pareva un monumento, e aveva
anche comperato il primo e ultimo libro di Tis. Così era anche simpatico, per forza, e meritevole di stima.
Comunque veniva notte. Tis non lo aveva veduto né gli aveva
parlato, e se anche lo avesse potuto fare gli sarebbe mancato il coraggio per chiedere la verità. La quale, come è noto, neanche Pilato
sapeva cosa fosse. Raccolse le sue armi, rappresentate da due penne
e un quaderno, e rimise a posto i libri.
La luce del giorno è ormai finita e piove senza sosta sui vetri.
Gli angeli guardascala sono quasi scomparsi nel buio, si intravedono appena sopra le colonne che prendono l’ennesima pioggia
dei loro duecent’anni. I misteri di Trebbiantico: fuori diluvia, ma la
biblioteca è calda, il legno di noce accoglie i libri con i pannelli incisi, anche qui il ballatoio e la scala a chiocciola che da sola costerà
milioni, la grande e sognata biblioteca.
La pace, la pace. Non andare a scuola a sentire la gente accanirsi sulle pagliacciate della didattica, non vedere più cartelloni con
appese stupidaggini. Avere i soldi da mandare alla moglie. Comprare
file di libri rilegati in cuoio e svernare davanti al caminetto... I libri:
non che siano sempre innocenti. Basta pensare alle rovine, che qualche libro provocò in tempi non lontani. Però averli, e leggerli, col
gatto sulle gambe.
Non gli riuscì di ricordare se il gatto suo fosse in casa o vagasse
adesso sotto il diluvio. Bisognava portargli da mangiare. Nutrire una
bestia può essere l’ultimo bastione che resiste in una vita aggredita
dalla sorte. Così si alzò per andarsene.
Sullo scrittoio, nella cornice argentea, una bambina sorrideva
sopra una bicicletta con le rotelle. Sicuramente la figlia. Ma si poteva immaginare questo settantenne battere le ali e suscitare l’ululato
dei lupi a Trebbiantico? E questa strada asfaltata, percorsa avanti e
indietro da gente in cerca di piadine e ristoranti rustici, fra pergolati e prati dove mandrie di domenicali mangiano e cantano, proprio
questa strada dovrebbe essere nel mezzo dell’inferno? Forse non è
vero niente: ma questi morti? Questo sangue che ha lasciato tracce
solo nei documenti di un archivio e che, alla fine, è andato a segnare
il lastricato di un palazzo del centro: con il drogato così ovvio che
muore a due passi da una pizzeria e dalla questura? Valeva la pena di
domandarsi tante cose?
Tis alzò il brandy verso gli angeli invisibili del terrazzo. Se tutto
era rimandato, poteva anche essere che finisse da sé, che qualcosa lo
costringesse a non occuparsene più. In realtà, tutto continuava come
prima a correre verso il nulla, Londei verso un prossimo viaggio, lui
stesso verso la vecchiaia, suo figlio verso il primo ottobre di scuola.
Dove Tis prestò il suo primo servizio, fra le montagne, la neve avrà
già chiuso i sentieri più alti e fra poco arriverà sulla pianura. Come è
regola da sempre. Nel buio presente, battuto dalla pioggia, scivolano
via tante cose: il Conte e i suoi misteri, la macchina di Tis da rivedere, il gatto che aspetta la cena, il tempo, il sogno e il male di tutti.
Forse anche questa storia è prossima alla conclusione. Si girò per
andarsene e vide sulla porta il Conte.
Gli rinacque la misteriosa paura.
“Buona sera, professore” disse il Conte. Anche Tis rispose con
il quaderno stretto al petto. Una penna gli cadde per terra nel silenzio.
Il Conte aveva ancora l’impermeabile: quando Tis riuscì a mettere a
fuoco la cartella che quello stringeva sottobraccio, l’ombrello e altri
fogli bagnati, il timore si attenuò. “Sono andato a parlare dall’avvocato” spiegò Baldassarri. “L’inverno porta umidità e fastidi.”
“Quanta acqua...” provò a dire Tis. Raccolse la penna e gli cadde il quaderno.
“Alla mia età questi giorni sono nocivi. Queste case antiche
non si riescono mai a scaldare veramente.”
“Neanche la mia” disse Tis. Ripensò al termostato che si rom-
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peva nei giorni pari, ai filtri che si intasavano nei giorni dispari.
“Stava andando via?”
“Sì, veramente. Ho abusato anche troppo...”
“Dieci anni fa ho fatto mettere il riscaldamento nuovo. Tutto
l’impianto. Nafta, gasolio o metano, è sempre la stessa musica. Ogni
inverno si rompe qualcosa. La caldaia da pulire ogni autunno... Se
telefono in agosto mi ridono in faccia, a settembre hanno già da fare
e non vengono mai. I tempi sono questi.”
Il Conte si mise in poltrona e Tis si sedette anche lui. Ancora
una volta paura, senso del ridicolo e dell’assurdo gli rivoltarono coscienza e stomaco. Eppure per correre dietro a questa nera chimera
ha violato persino una tomba.
Il Conte guardò la pioggia sulla vetrata con preoccupazione.
“Stare al caldo, a questa età, non serve neanche più. Sto invecchiando male,” disse guardando Tis dritto in faccia “e prima ho
vissuto anche peggio. Non per colpa mia, intendiamoci.”
Tis non ebbe parole.
“Non vivo granché bene” continuò il Conte. “Non sono più
neanche veramente ricco. Lo ero, ma oggi la terra, sa come va... Ho
questa villa, un palazzo a Pesaro, qualche altra cosa qua e là, e molti
guai” indicò la cartella. “Il linguaggio degli avvocati non lo capisco... Forse avrei dovuto costruire alberghi anch’io.”
“Molti l’hanno fatto.”
“Io ho cercato di mantenere uno stile” disse il Conte. “Ma è
poi stato uno stile? Forse non era che disinteresse, incapacità di occuparsi di denaro... Il non saper far soldi è una tradizione nobiliare.
È anche logico: si disperde quel che si ha, lentamente o alla svelta,
ma è difficile aggiungere qualcosa. C’è differenza, non crede, fra un
feudo e un albergo?”
“Sì” disse Tis.
“Un’autocarrozzeria, un mobilificio... Forse dovevo provare.
Ho una villa al mare. La costruì mio padre quasi sulla sabbia. Oggi
mi offrono qualsiasi cifra e io non ci vado mai e non la vendo. E questo, vede, forse più per pigrizia che per stile.”
Tis non parlò. Guardava fuori come aveva fatto per tutto il
giorno, come se la pioggia gli potesse rispondere. Il Conte sembrava
uno che ha trovato da parlare ed è disposto a fare notte. Ma io non
voglio restare qui, pensava Tis, io ho paura.
Guardare una belva fuori della gabbia non fa capire se la bestia
ha ucciso o no, se è pericolosa o no. Nella gabbia lui c’era entrato e
non capiva.
“E lei?” chiese il Conte. “Lei cosa fa della sua vita?”
“Non mi piace, tutto qui. Faccio anche un mestiere sbagliato. A
me piacciono cose che è proibito insegnare. Mi disinteresso del quartiere e delle inchieste nei mercati o in comune... sono cose che invecchiano dopo una settimana che le si è fatte, noiose e irrilevanti.”
Il Conte levò dalla tasca la forbice tronca e tagliò in due una sigaretta. “Fuma?” Tis fece cenno di no. “Di sera non resisto. In questa
casa mi nascondono le sigarette.” Sbuffò con soddisfazione il fumo
che salì verso il bel soffitto. “Cos’è fondamentale, per noi, allora?”
chiese a Tis.
Tis strinse le spalle. “Non lo so. Fondamentale forse è non correre dietro a tutto, riconoscere il pessimo gusto dell’attuale... non lo
so. Due libri, il cinema americano...”
“La storia?”
“Anche, certo.”
“Perché si interessa della storia di questa nobiltà provinciale,”
chiese Baldassarri “cosa pensa di trovarci? Necessità, ragione, qualche mascherata? O stupidità? Un mistero o due?”
“Un mistero”, suo malgrado esclamò Tis. Di che parlava il
Conte? Sapeva benissimo. Si nascondeva dietro la sigaretta, ma Tis
immaginava che faccia dovesse avere. Invece lo guardò e non vide
minacce.
“Non lo so che ci trovo... non lo so. Non so fare altro che leggere libri.”
Abbassò gli occhi sulle piastrelle di marmo. Le sue scarpe
coprivano una mezza venatura che poteva sembrare un albero, un
fungo, una costellazione perduta nello spazio. Spostò il piede e fece
simmetria. Il Conte si era alzato e veniva più vicino. Tis sentì l’odore
del fumo e gli sembrò che passasse un secolo.
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“La storia è per metà piena di cose stupide, per l’altra metà di
cose atroci” disse il Conte. “Ha vecchie maledizioni e gravami che
non interessano nessuno. Proprio come i libri. Certi libri diventeranno patrimonio di una setta, di un’accolita di pazzi. Chi leggerà, sarà
una sentinella davanti al deserto. Come noi due.”
Tis alzò gli occhi e vide che il Conte si era allontanato di nuovo
verso la vetrata e il fumo saliva da sopra una spalla. “Se mi consente
un’immagine retorica,” continuò Baldassarri “abbiamo la divisa di
un esercito che non fa più paura a nessuno, parliamo di cose che nessuno capisce più. Facciamo la guardia a una fortezza abbandonata...
Ha letto quel libro, no?”
“Sì,” disse Tis “molte volte.”
Il Conte guardava fuori e per un pezzo parve dimenticarsi di
lui, come se esitasse davanti a qualcosa che era costretto a fare. Certo che era gentile: gentile, solitario, un po’ fuori posto nel mondo,
studioso del Basso Impero e paleografo. Ma il suo personale fardello
non lo avrebbe spinto a dar morte anche a lui? Tis fissò la porta aperta, conto fino a dieci poi scappo: è una trappola. Strinse i pugni nelle
tasche ma il coraggio lo abbandonò.
“Si è fatta notte, quasi” il Conte si era girato. “Ho dimenticato
che ero venuto per invitarla a cena. Io spero che lei voglia.”
“Io?”
Tis sentì che non solo il momento di fuggire era passato. Per
poco tempo la verità era stata vicina, e anche scappare verso la porta
sarebbe bastato a rivelarla. Adesso il Conte teneva in mano il mozzicone acceso e cercava infastidito. “Mi nascondono anche i portacenere” disse. Andò alla vetrata, l’aprì e buttò fuori la sigaretta. Una
folata di vento umido arrivò alla faccia di Tis.
“Allora, professore? Spero che lei voglia...” riprese il Conte.
“Mi sento male,” disse Tis che balbettò come un bambino,
“guardi, mi sento male, ho il bruciore di stomaco... sarei onorato,
altrimenti.”
“Vuole un Alka Seltzer? Per me è la cosa più indicata. Forse
poi si sentirà meglio.”
“No, la prego, non s’incomodi... non posso accettare.”
“Io non vorrei insistere, se lei non si sente. La mia è la voglia
di conversare di un egoista. Ha bisogno, non so, di...”
“Solo di andare a casa.”
“Se non sta bene” disse il Conte “mi permetta di accompagnarla. Un’altra volta sarò lusingato di averla con me.”
Tis indietreggiò lentamente verso la porta e il Conte lo guardò
con un mezzo sorriso divertito.
“La precedo, non posso trattenerla.”
Nell’atrio che portava al piano superiore comparve con un ombrello anche l’uomo che già aveva aperto nel pomeriggio.
“Giacomo, che il professore non si bagni. Arrivederla, a presto.”
La porta che si apriva lasciava vedere il diluvio che furoreggiava, la bufera che piegava i cipressi come nelle poesie di Pascoli, e
l’acqua che correva sulla ghiaia e sull’aria.
“Notte da lupi” disse Giacomo. Tis sussultò e lo guardò di traverso. La macchina luceva finalmente nella pioggia e sotto il piatto
di smalto con la lampada l’acqua precipitava giù.
“Omaggi al Conte. La ringrazio,” disse Tis a Giacomo. Giacomo si inchinò brevemente protendendo il volto dietro l’ombrello
lucido, e si allontanò.
Tis si mise a sedere dentro la macchina, girò la chiave e sul
cruscotto apparvero obbedienti le solite spie, la dinamo, l’olio, la
benzina in riserva. Tirò la leva dell’avviamento e il motore girò regolare pochi secondi, prima di spegnersi. Tis tirò l’aria e di nuovo andò
al motorino: ci furono due o tre rugli sforzati e il motore non partì. La
benzina, pensò. Almeno un po’ ce ne doveva essere. Non devo perdere la calma. Si attaccò al motorino e schiacciò a fondo l’acceleratore:
il motore non si accese. Rifece tutto da capo, e questa volta notò con
angoscia che le luci del cruscotto si affievolivano. Lasciò cadere la
leva. Oddio, la batteria. La maledetta batteria. Passarono due minuti
e riprovò con furia. Questa volta il motore nemmeno prese a girare e
le spie si spensero del tutto. È fatta, pensò, è fatta: la mia vita è tutta
una barzelletta.
Quando adesso tirava la leva, sentiva un soffocato ronzio. Uscì
e guardò verso la villa con le luci accese. In un istante sentì la pioggia
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bagnarlo fin nel profondo. Si rimise dentro e chiuse con la sicura.
Torrenti d’acqua correvano sul tergicristallo fermo. Com’era ovvio,
riapparve dopo qualche minuto Giacomo con l’ombrello. Prendendosi l’acqua sulla testa, Tis gli uscì incontro. Eccolo lì, il complice
del destino, il malaugurio che a lungo cercato infine si trova.
“Il signor Conte la attende” disse Giacomo. Mi aspetta sì, pensava Tis incurante dell’acqua e restio a cercar spazio sotto l’ombrello. Il signor Conte era sulla soglia.
“Donne e motori, gioie e dolori,” disse. “Che possiamo fare
per lei, caro professore?”
“Che possiamo fare?” rispose Tis ebetemente.
“Non c’è l’autista, Giacomo non ci vede, io non so più guidare.
L’autista tornerà tardi.” L’accompagnarono in casa e Giacomo sparì
dentro i suoi antri, lasciandosi dietro una scia d’acqua. Tis guardò i
pavimenti incerati rovinati dall’acqua e pensò alla moglie.
“lo ho un autista” il nobiluomo aiutò personalmente l’inebetito
Tis a togliersi il cappotto macchiato d’acqua. “Giacomo?” Si guardò
attorno. “È vecchio anche lui. La meraviglia che io abbia un autista? Non ha la divisa, naturalmente, comunque ce l’ho. Da giovane
guidavo io e l’autista era un vero somaro: gli lasciavo l’automobile
mal volentieri, ma era una tradizione di famiglia, come tante altre.
Questo è bravo, invece. Venga, si accomodi.”
“Che devo fare?” chiese Tis.
“Ma si dovrà almeno asciugare un po’. Giacomo! Giacomo!”
chiamò il Conte.
“Non fa niente, giusto i capelli. Un po’ d’acqua...”
“Lei è giovane: si tuteli finché può. Questo tempo è assurdo...
Le va un brandy? Venga in salotto. Giacomo!” chiamò di nuovo invano.
“Bagno per terra” si scusò Tis con lo sguardo vuoto sul pavimento.
“Faccia, faccia. Qui nessuno ci bada e questo tempo infame mi
regala ancora un po’ della sua compagnia. Sono le otto e mezza.”
“È tardi, vero?” chiese Tis come un bambino.
“Non c’è più tram dopo le otto e venti” rispose il Conte “ma lei
può disporre della mia casa a suo piacimento.”
“Posso fare una telefonata?” chiese Tis pensando a Londei che
poteva venirlo a prendere.
“Si accomodi,” disse il Conte “usi della mia casa senza cerimonie, glielo ripeto. Giacomo!” chiamò ancora senza che Giacomo
apparisse. “Venga, qui c’è il telefono.”
Lo guidò a un mobile, certamente autentico, dove accanto all’apparecchio, nelle tenui tinte della ceramica di Capodimonte, Dafne pareva illudere Apollo in un fiorire di foglie d’alloro. Tis fece
il numero. Il segnale suonò dentro a lungo, come la campana della
sciagura nel tunnel dove egli era finito. Lo rifece daccapo.
“Maledetto,” disse piano fra i denti “non sta a casa, lui, a guardare la televisione come tutti i cristiani...”
“Non c’è nessuno” disse al Conte con desolazione e quasi
aspettandosi qualcosa da lui.
“Ci dovremo far compagnia ancora un po’.”
Come rifiutare, adesso? Pioveva come nel diluvio, non c’era
modo di andare giù. Colpa della batteria. Londei non c’era. Come
fare a dire di no? Una notte in casa del vampiro? Era gentile, era
vecchio ma aveva ucciso, e custodire il suo segreto poteva pur valere
la vita di un professore.
“Chi si preoccuperà di me?” balbettò a se stesso. “Era uno
scherzo: abbiamo parlato di tante cose. Come potrà...?
“Si sente male?” La voce gli arrivò preoccupata. O sarcastica?
“Ecco, sì... sì.”
“Le chiamo un medico?”
“No, no... per carità.”
“L’accompagno alla camera, allora...” il Conte suggerì. “Non
la voglio trattenere se non sta bene... Lei avrà bisogno di riposo. È
sicuro di non voler mangiare qualcosa?”
“Sì, ma... Può darsi che adesso la macchina, cioè la batteria...
si sia ripresa.”
“La batteria? Cosa dice, professore? Giacomo!” Questa volta
Giacomo si annunciò con uno strusciare di passi, lontano nel corridoio. “Ha timore di qualcosa?”
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Aveva parlato con un’inflessione che non poteva sapere che di
sorpresa. Cercò di capire cosa fosse cambiato sul viso del suo ospite:
ombre, malignità, volontà di compiere il male, non c’era nulla. Ma
perché doveva apparire quel che lui temeva? Tanti inferni ci sono,
nell’anima dell’uomo, che nessuno dovrebbe riuscire a tenerli nascosti. E invece, di solito, niente si vede e niente si capisce.
Sul proprio viso invece Tis sente il freddo e il caldo del timore
passare e ripassare. Anche imbarazzo: comunque si sente a disagio
e fuori posto nell’accettare l’ospitalità del nobiluomo. D’altra parte, mica può partire a piedi. Né chiedere al Conte garanzie di non
essere morso, perché sarebbe ridicolo, né può restare ancora come
un cretino con il telefono in mano. Così: ricomparso Giacomo con
aria di brontolio e disapprovazione, sentendosi Tis sulla soglia di
una camera operatoria, invano rimpiangendo il lontanissimo gatto,
a causa della propria bugia egli stesso affamato senza speranza, non
gli resterà che subire il destino e seguire il Conte e Giacomo verso
la camera. Che almeno non ci siano, pensa puerilmente Tis, passaggi
segreti e trabocchetti.
Al riparo in una quieta stanza nella piena notte, Tis rifletteva
sulla pioggia e sul clima furibondo che avevano dato l’ultimo colpo
alla batteria e costretto lui, lì, in una bella situazione. Fortuna che
almeno la camera non era antica e tenebrosa, ma moderna e senza spaventosi tendaggi. Di fronte al letto matrimoniale, sulla parete,
un’antica stampa dell’H.M.S. Victory dispiegava vele al vento portando il monco ammiraglio al suo destino. Sotto c’era uno scrittoio,
con tutti i libri di Roth che Tis già conosceva e due testi sui giardini
che non avrebbe letto. Dalla seggiola di paglia di Vienna pendeva la
giacca e sul pavimento di parquet camminava in bretelle, nervoso,
l’involontario ospite.
L’armadio senza specchio, piccolo, con due cornici di legno
più scuro conteneva stampelle e, in un cassetto, una maglia stirata da
calciatore col numero dieci, misura ragazzo, con le strisce rossonere
del Milan. Nient’altro. Per chi Giacomo aveva stirato quella maglia?
Un nipote, un amico della figlia, un ospite?
Tis è grato a quella maglia che parla di folla, urla, stadi, e sembra dirgli di non pensare al male. Certo, è vero. Che cosa dovrebbe
succedere? In quella stanza ha dormito un giovane calciatore, che
l’avrà pur fatto senza angosce. Al resto si penserà domani. Dormire, dormire, forse anche sognare: l’impedimento è qui. Il sogno può
essere un tristo figuro vestito di nero, comparso in piedi davanti alla
porta. Al suo passaggio l’ululato dei cani s’è chetato, perché gli animali hanno fiutato la morte. Certo, pensa Tis, che cattiva letteratura.
Ma allora, gli altri morti? Infrequenti, ma pur sempre morti: gli
archivi hanno registrato il loro breve passaggio sulla terra. E i segni
sul collo del giovane Avoli? La sua faccia, il suo corpo contorto? Tis
li ha visti: non deve essere tranquillo. E non deve dormire. Questo
mai, a nessun costo. Non è difficile star sveglio una notte. Dormire
no. Mille volte è stato sveglio, in questi mesi. Non è difficile. Basterà
logorarsi un po’ nei soliti pensieri.
A questo punto, dietro al lampo che irrompe dalla finestra, la
luce va via e la stanza piomba nel buio. Non è servito fare un piano:
l’imprevisto accade fulmineo. Spalancare la porta? Questo no: nel
corridoio non si avventurerebbe mai. Sente alla nuca il familiare formicolio. La casa è silenziosa, troppo per l’ora. Non si sente più nulla.
Scricchiolerà la scala che Tis, il Conte e Giacomo hanno salito? Si
sentiranno i passi su per i gradini?
Altrettanto violentemente di come era scomparsa, la luce riapparve. La Victory sul muro sembra esplodere con le sue vele. Il cuore
smette di accelerare ma Tis sa che la paura non riuscirà più a controllarla. Non ci si abitua alla gabbia delle tigri. Eppure, sul comodino c’è il tubetto dell’Alka Seltzer. Mentre Tis già chiudeva la porta,
Giacomo aveva bussato e messo sul tavolino una bottiglia d’acqua, il
bicchiere. “Questo glielo manda il Conte,” aveva detto posando sul
piattino l’Alka Seltzer “a lui fa bene. Buonanotte, professore.” Una
certa deferenza? Pareva proprio di sì.
Tis pensa che doveva dormire nella casa di un vampiro, per
sentirsi salutare con rispetto dopo dieci anni di ben altri richiami.
E che creatura del male può essere chi manda premurosamente un
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tubetto di Alka Seltzer? Sul letto c’è un pigiama fresco di stiratura,
a righe, di bella stoffa: un pigiama paterno, come erano i pigiama
prima che si travestissero da abiti da sera e alludessero assai.
Quanto il giorno è stato lungo. Dormire in quella stanza, mentre fuori batte la pioggia. Credere che tutto non sia vero... Però c’è
stato il cimitero, e con la febbre, a casa, Tis sentiva dal letto le grandi
ali nere pendere sopra di lui. L’angelo della morte, l’ultima stazione
dove andrà a precipitarsi tutto: quel buio attorno alla bara di Avoli,
anche quello era vero. Due volte ha osato toccare quel morto, all’obitorio e là. Risente il freddo sotto le dita e non è possibile non ricordare i due fori sul collo. Uno scherzo, un romanzaccio: lui ha visto,
e nessun altro sa. Ciò lo rende l’uomo più solo che ci sia sulla faccia
della terra. È davvero una sentinella, come diceva il Conte.
Ma adesso che la stanza è il personale bastione da difendere, il
nemico arriverà? Chi avanza nella desolata pianura? Non ci deve credere. Auto sfrecciano nella notte, i treni corrono in ritardo e gli aerei
sono fermi per il solito sciopero, fra pochi mesi il carnevale impazzerà per le strade, satelliti ripetono in diretta olimpiadi e corse. E lui
è il solo che sa del misterioso ratto, della bestia nera che ha piantato
due zanne in un collo, come mille anni fa: e questo è reale più del
legno del pavimento e del letto invitante. Può un mostro della notte
andare a giustificarsi in questura? Se anche non volesse uccidere più,
quest’ultima morte, la morte di chi lo può svergognare e esporre, gli
potrebbe comunque scappare dalle mani. Questa storia dei Baldassarri è fin troppo aperta: il segreto è nella parola “vampiro”, la chiave
per capire tutto. Ma nessuno può usarla perché farebbe ridere. Solo
Tis, che ama le vecchie carte, è arrivato alla verità: e una stirpe di
vampiri deve avere il sospetto come virtù familiare.
Giacomo non ha chiuso le persiane e il violento ticchettio che
pervade tutto è quello dell’acqua sui vetri. Tis apre la finestra e tira
a sé le imposte prendendosi in faccia la tempesta. Mentre accosta i
vetri si rende conto del pericolo e chiude con frenesia. Se dietro ai
vetri ci fosse... Non deve aprire nulla per tutta la notte. Né la porta
né la finestra. Un vampiro non è un’ombra: non solo, almeno. Pesa,
è un uomo pesante, lui e la sua maledizione, da un buco della serra-
tura non può passare. Quanto può resistere un uscio chiuso a chiave?
Sposta a fatica lo scrittoio verso la porta. Poi cerca passaggi e fessure
nella stanza: anche sotto il letto e dietro la Victory.
Forse chiudere le persiane non è stata una buona idea. Con i
vetri scoperti poteva guardare fuori, nei viali del parco. Si avvicina
alla porta. È di legno pieno. Dà ancora un giro alla chiave e spinge
ancora lo scrittoio. Quasi per miracolo trova nel cassetto una mezza
candela e una scatola di fiammiferi. Questa è una vera fortuna: la
luce che può interrompersi non è adesso un’eventualità tanto tremenda. Tis cerca senza trovarla una croce sopra il letto. Lui non ne porta:
in verità ha una catenina al collo, ma vuota, segno e qualificazione di
laico pensare. Però occorre altro: trovare una croce a difesa del nulla.
Prende il portachiavi, toglie dal mazzetto la chiave del garage, ci mette sopra quella di casa sul pavimento di lucido parquet davanti alla
porta. La croce brilla. Come potrà prevalere il male su quel segno?
Poi prende i fiammiferi e li dispone sul pavimento, tutti in piccole
croci intorno alla finestra. Si vergogna: è lui a fare questo? Questa
storia è nata dalla follia. Nessuno lo aiuterà in questa notte. I legnetti
in croce forse, terranno lontano il buio più della sua ragione.
Adesso Tis si accuccia sul letto aspettando. Non deve dormire.
Se non dorme tutto andrà per il meglio. Non dormire è il primo dovere. Deve restare attento. È cosciente. Fuori la pioggia continua a
impazzare. Adesso che ci pensa s’accorge d’avere molto sonno.
In quella camera che spinge all’abbandono, sotto la coltre profumata, Tis potrebbe addormentarsi cullato dalla pioggia, libero di
sognare le campane del suo paese. Ma anche solo il desiderio del
sonno è pericoloso: è già la prima fessura nel muro della veglia e
della ragione. Dalla fessura passeranno la confusione dei ricordi,
passato e presente mischiati assieme, e il consueto incubo: è come se
lo vedesse di nuovo con la faccia scura di principe delle tenebre, gli
occhi scuri di perfidia, che si leva immobile vicino a chi ha scelto, il
maledetto vampiro. Ma certo non passerà, basta la croce, basterà non
dormire. Vegliare, attento a non confondere la realtà con i film dell’orrore. Possibile che piova ancora? Il mondo sembra un imbuto.
È passata appena la mezzanotte, le tenebre cominciano a riem-
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pirsi dei fumi del male: incubi vani in cerca del sapore che persero
nell’ombra perenne, morti rancorosi e fluttuanti che si levano dai
camposanti, fruscii nella stanza dove morì la Contessa. Quasi si potrebbe ridere, se si fosse di giorno. Ma Tis cammina nei corridoi bui
della sua infanzia, dove l’attaccapanni è il malevolo brigante che è
venuto a giudicare le tremende colpe dei bambini: esistere, aver rotto
un bicchiere, aver perduto un quaderno.
Poi adesso si accorge di un’altra inquietudine. Una sensazione
assai pericolosa, non ora ma certo fra un po’. Ha fatto male a non
andare a cercare il bagno in fondo al corridoio, quando Giacomo
gliel’ha detto. Tutta l’acqua che corre giù per tetti e gronde gli ricorda che fra due ore potrebbe torcersi in un terrestre spasimo insoddisfatto. Uscire nel corridoio, neanche pensarci. Dalla finestra? Quanto
ci potrà volere a pisciare dalla finestra? Due minuti, venti secondi?
La finestra non l’aprirà. Gli altri sono morti sul serio, uno l’ha
visto e non dimenticherà: morto fra maneggi di siringhe e lacci di
gomma. Adesso Tis è seduto sul letto. Il tempo continua a passare,
i liquidi del corpo vanno inevitabilmente verso il basso. Sa benissimo che una soluzione non c’è. Inutile guardare ancora. Scende e
passeggia. Si accosta alla porta e dietro non sente nulla. La maniglia
è immobile. Se quel giorno non avesse guardato in mezzo ai documenti, se avesse continuato a consumare la propria vita tra modellini,
vernici, grigi caccia dell’autunno ’44... Partito in quarta per questa
guerra, è adesso vicino a morire e nessuno lo sa, nessuno ne ricorderà la gloria. “Ecco, arrivano gli Orchetti” dice la nonna, “piccolini e
cattivetti. Se cattivo tu sarai, fra i lor denti finirai...” Anche l’intrepido Soldatino di Stagno, mentre correva nella barca di giornale verso
la fogna, udì il ratto gridare: “Soldato dove vai? La morte incontrerai!”
Mentre torna nel letto, avverte il primo spasimo e si rattrappisce su se stesso. Come farà fino alle sei, fino a che il gallo canti e
faccia tornare la verità sulla terra? Il sonno e lo stimolo combattono
in lui e si attenuano a vicenda, ma ad uno dei due, guai se cedesse.
È tardi, si è nel pieno della notte. L’alba è lontana. A Tis sembra che
una bava di luce potrebbe cambiare tutto: vedere che dietro il viale
c’è una collina, un’autostrada, una circonvallazione, traffico, polizia
stradale. E se dormisse? In fondo, si sveglierebbe al minimo rumore.
In questa situazione anche il sonno potrebbe essere meno ingannevole della veglia, chi può dire?
Un altro lampo fulmina l’interno della stanza abbagliando tutto.
Il buio e il crosciare del tuono vengono assieme. Tis balza dal letto.
Tremante, con le spalle che sente nude ed esposte, accende la candela
dopo aver spezzato fiammiferi su fiammiferi. Un chiarore stentato,
da cripta, arde nella stanza. Questa volta la luce sembra non voler
più tornare. Tis si angoscia da almeno un’ora, ma sente che fra sonno
e l’altra cosa una delle due dovrà comunque scegliere. La fiamma
lentamente oscilla nell’aria. Non ne può più, ma adesso meno che
mai si avventurerebbe nel corridoio. Va a toccare il termosifone, è
caldo. Farla lì sopra uniformemente? Il calore asciugherebbe tutto...
E il parquet? Come può rovinarlo e passare per una bestia incivile e
impazzita? Ma la sola idea di potersi liberare equivale a una rottura degli argini. Tutto sta per crollare, esplodere. Frenetico afferra la
bottiglia dell’acqua minerale sul tavolino, la versa a piccoli spruzzi,
sempre più soffrendo, sul termosifone, lentamente e con spasimo.
Poi va alla finestra e versa un po’ d’acqua a terra e sul muro, come
se la pioggia fosse filtrata, mezza bottiglia. Riempie il bicchiere sul
comodino e il resto rapido lo beve di colpo. Non ha più nessuna paura: nessuna: si sbottona e con qualche difficoltà, sospirando, piscia
nella bottiglia. Demonio maledetto, pensa, crepa crepa crepa. La luce
torna e lo fa sobbalzare.
Tis come un bambino quasi lascia cadere la bottiglia e si bagna
mani e calzoni. L’umiliazione gli sale alla gola. Ma adesso il ridicolo
e la paura sono uniti assieme e la sua tragedia è roba da ridere. Come
la bottiglia, l’Alka Seltzer, il suo digiuno, la batteria vecchia, il Conte
misterioso e i suoi delitti. Si rimette a letto. Capisce che è più difficile
restare sveglio. Il sonno attacca su tutta la linea, una strada di città
muta poco per volta i suoi muri in alberi, siepi, canneti, diventa una
caverna muschiosa poi un pozzo umido che ha in fondo il cielo invece dell’acqua. Si riscuote e batte la testa sul legno della testiera.
Che farà la moglie in quel momento? Sono le tre. Certamente
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dorme col figlio accanto. Lei sì che è saggia, lei si che accetta di
invecchiare, lei mai dormirebbe in casa di un vampiro... Ecco che
sua moglie scivola piano nel sonno: Tis vede a occhi chiusi una luce
arancione, un piano attorno al quale girano frecce argentee con perfetto moto ellittico. Questa, questa è la chiave del mondo e di tutti
i suoi perché, i suoi destini e le sue robe: un perenne girare intorno
a un centro che irradia luce. Il volto di sua moglie, che lo abbandonò sotto una deserta coltrice in compagnia di un gatto bizzarro ed
egoista, si appiattisce allontanandosi e diventa argento che prende
a girare. Anche il bambino col pigiama e col morbillo diventa luce
che gira. Con la madre appare e scompare, è tutto semplice per Tis.
Se anche lui, accettando l’abbandono, girerà come una freccia d’argento, li rivedrà entrambi o troverà una pace più fonda e pietosa di
un breve sonno.
Un lampo e un tuono lo fanno rialzare di scatto. Dormivo, ho
dormito, pensa con rimprovero, non era dormiveglia: era sonno. Tuona e lampeggia più di prima. Forse che il margine del diluvio comincia a lasciare la terra? Il sonno ridiventa più forte di tutto e come un
gorgo vuole i suoi pensieri per appiattirli. Si sono sentiti dei passi nel
corridoio, forse che la maniglia della porta si muove? Non importa
più niente, neanche quello. E del resto il corridoio è completamente
silenzioso, anche il vampiro è meno forte di questo sonno, di queste
palpebre che sono piombo, come la testa e i pensieri che vogliono
scappare giù, acqua in una vasca.
La notte è fonda ma è alla fine. Se si fosse d’estate, qualcosa sul
mare comincerebbe a schiarirsi e la luna impallidirebbe come nelle
canzoni. Fra due ore, se sarà forte, Tis avrà vinto. Se si addormenterà
sarà una vittima dell’ultima ora prima dell’armistizio. Signore, pensa
Tis, aiutami, mio figlio non può sapere che il suo babbo è morto, chi
glielo dirà? Quanto ci metterà a scordarmi, chi si occuperà del suo
elicottero rotto? Tis lo vede con il morbillo sul volto, che dorme con
l’elicottero nuovo che lui ha rimesso a posto.
Non tuona più. Il sonno sembra filtrare dal pavimento, dalle
finestre, da dentro la povera coscienza atterrita di Tis. Anche il suo
solitario e misconosciuto ardire di solo uomo che si confronti col
buio diventa sonno. Se cede, tutto diverrà pace come un fiume che
scorra nella nebbia e Tis si addormenterà. Signore, prega, non farmi
dormire queste due ore. Ma fuori, assieme alla pioggia che cade sul
mondo, sulla città, sulle circonvallazioni, sulle strade del porto, Tis
sente scendere l’immenso ed eterno silenzio di Dio. Non ci crede ma
come tutti ha provato a chiamarlo e risposte non ne ha avute: né per il
matrimonio né per il figlio, non avrà risposta neanche adesso. Il suo
rancore scivola in una freccia argentea, anche il figlio col morbillo,
anche il passato diventa un’orbita serena nello spazio. Tutto appare
logico e chiaro e il male è anch’esso una cosa che gira diventando
bene, tranquillità. Non dà più pena. Il fiume scorre sereno e Tis finalmente s’addormenta.
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CAPITOLO XVIII
Il tempo della mattina, col sole e la relativa limpidezza, illuminò le stanghe delle persiane dando idea di verde solare, di infanzie
felici, di estati passate in vecchie case di campagna.
Tis si svegliò con la luce delle finestre che pareva più o meno
quella di tanti anni prima in casa della nonna. E non appena si ricordò
che s’era d’ottobre, e in casa di chi, lo sbalordimento se lo portò via.
Eppure raramente s’era sentito così bene. Spalancò la finestra e vide
che il viale con i cipressi luceva e scintillava di foglie bagnate e di
sole, e luccicante vide l’auto dei suoi destini davanti al cancello. Una
fame precisa e sana lo teneva sicuro del suo essere nel mondo dei
vivi e rendeva superflue le ispezioni che Tis si praticò sul collo. Fece
sparire nel gabinetto il contenuto della bottiglia e considerò ridicola
la paura della notte. La vita continuava e il sole mandava via la sua
autunnale depressione.
Scese per le scale, trovò l’ingresso nella casa ancora silenziosa,
si godette il fresco del parco, la luce, il cielo azzurro. Tutto quell’omerico crosciare della notte piovosa, i lampi e i tuoni, era lontano
e non sembrava accaduto. Se non fosse stato per le pozzanghere dove
si specchiavano i già agitati cipressi, Tis non avrebbe pensato che a
una notte in cui il cielo, appena, avesse lasciato cadere sulla terra poche gocce senza importanza. Camminando nel viale, quasi si attese
un gridio di rondini e non riuscì a liberarsi della falsa idea pasquale
che si accompagnava all’inizio di quella giornata.
Davanti alla sua auto, che la pioggia aveva reso meno simile a
un fangoso relitto, un giovane dall’aria efficiente andava mestando
fra cavi muniti di pinza e batteria, nel suo cofano. Tis mise a fuoco il
mestiere dell’autista.
“Buongiorno” disse.
“Buongiorno a lei” rispose il giovane.
“Non vorrei averle recato disturbo.”
“Nessun disturbo. Ho caricato la batteria per quel poco che basterà per partire,” spiegò l’autista “certo che bisognerà cambiarla.”
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“Cambiarla?”
“Eh, non è che sia una cosa da farci l’inverno” disse colui staccando le pinze anodizzate dall’ammasso nerastro della batteria di
Tis. “Ce ne vuole una nuova.”
“Povero me” fece Tis allegramente.
“Anzi,” riprese l’autista “ci vorrebbe una macchina nuova.”
“Povero me,” ripeté Tis “credevo che le Cinquecento fossero
come il vino: più sono vecchie e meglio sono.”
“Questa,” disse l’autista con prontezza “è un vino che ha preso
d’aceto.”
“Ah...” disse Tis con qualche imbarazzo. “Le devo qualcosa?”
“Per carità. Proviamo a mettere in moto.”
Al primo colpo, come un sussulto di giovinezza di un vecchio
atleta, l’auto andò in moto, l’autista sorrise e Tis partì col cofano
aperto, rincorso dall’efficiente giovane. Partì di nuovo e l’auto scese
allegramente verso la città, condotta con insolita disinvoltura dal riposato padrone. Si fermò davanti a un bar.
“Un caffè” chiese. Poi vide altro, dietro il vetro di fianco al
bancone. “Aspetti” disse. “Due panini col prosciutto.”
Mangiando pensò al Conte che di nuovo prendeva i caratteri di
vecchio assassino. Si può immaginare un vampiro dopo avergli dormito in casa e aver avuto non morsi ma Alka Seltzer e la riparazione
di una batteria? La vita è un sogno, pensava Tis.
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CAPITOLO XIX
L’idea del tribunale tornò a Londei. Il suo stato d’animo, ancora oscillante tra curiosità e esasperazione, finì per metterlo in una
situazione contraddittoria. Incredulo per fede (e in fondo al cimitero
non aveva visto nulla), si accorse di essere però ancora in risonanza
con l’apprensione di Tis.
Guai al materialista che troppo a lungo, in una notte di luna
piena, indulga a discutere di spiriti e lupi mannari stando in campagna o sulle rive di un fiume, se dappresso non lo conforti almeno
un rombo di una autostrada. Potrebbe accadere che il canto dei grilli
sembri d’un tratto sovrastare ogni altro suono: e allora chi ci dirà se
l’ombra sotto gli alberi è appena uno scherzo del vento e della luna?
Londei, fra un inseguimento di Laura e l’acquisto di un cachemire, sapeva che troppe cose dormono quiete in noi finché qualcosa
non le chiama facendole affiorare. Fra queste la paura, come anche la
gelosia: si possono controllare, non impedir loro d’esserci.
Fu con questi pensieri che Londei rientrò in casa verso le undici
di sera, sotto un nuovo acquazzone, bagnato e collerico. Scrollò l’acqua dall’impermeabile, fermo nell’atrio del palazzo. Dall’ora di cena
aveva ascoltato per l’ennesima volta Tis sugli ultimi fatti. Il Conte,
gli spaventi vani dell’altra notte, l’automobile riparata... Infine, cosa
era successo? Niente. Il gentiluomo aveva dispiegato una cortesia
da manuale, raffinata e accattivante. Le ansie erano in Tis, non nelle
cose. Si poteva davvero credere che i Conti vivessero nei secoli uccidendo ogni tanto qualcuno per succhiargli il sangue? – perché, si
sa, i vampiri vivono di sangue, ma anche dormono di giorno, odiano
l’aglio e la luce, hanno i denti lunghi e i mantelli neri foderati di rosso... Cosa gli era capitato, povero Tis, da mettergli in testa una così
straordinaria imbecillità?
“Ma io?” si passò la mano sui capelli bagnati. Vide ancora la
bara, le lunghe saldature, Avoli.
Il ricordo acutizzò il malessere appena attenuato dalla certezza, ormai, che conseguenze penali non ve ne sarebbero state. Invano
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Londei s’era affrettato a scorrere la pagina locale dei quotidiani, il
giorno dopo e i successivi, temendo con differita angoscia di leggere
del cimitero e delle indagini. Invece, nulla. Che il custode avesse
pensato a una burla macabra, che avesse richiuso la bara maledicendo i tempi? Forse per quieto vivere aveva fatto finta di nulla e ora il
giovane Avoli consumava, in un loculo marmoreo, il suo destino di
disfacimento e uscita dalla memoria.
Lui, Londei, stentava a tornare l’uomo di prima. I giorni trascorrevano senza gli ambigui doni del tempo che va: assuefazione e
oblio. Adesso dormiva con la luce accesa e di sera passava di stanza
in stanza, nel suo pur piccolo appartamento, chiudendo la porta alle
spalle. Si era giurato di non volerne sapere più nulla. Ma proprio stasera aveva rinviato alle undici l’appuntamento con Laura per sentire
da Tis cosa era successo l’altra notte: come se qualcosa fosse davvero potuto accadere.
Vide i fari di un’automobile che accostava al marciapiede davanti all’atrio in cui era fermo ad aspettare. Stava per schiacciare il
pulsante dell’apriporta, quando l’auto ripartì sotto la pioggia scaricando una persona che sparì di corsa. Londei guardò l’orologio: le
undici e venti.
“Fosse mai puntuale” imprecò.
“La puntualità è una virtù borghese” gli rispose Laura nei suoi
pensieri.
Quanto restava di vero analizzando l’intera storia? Un morto di
morte violenta più di cent’anni fa, sul quale corsero dicerie bizzarre.
Un secondo morto qualche giorno prima, per droga, forse, o per collasso cardiocircolatorio o per il morso sul collo o per la forte perdita
di sangue o per tutte queste cose messe insieme e altre ancora, lo sa
Dio e ce lo dirà la relazione necroscopica, anzi io me ne frego e non
voglio neanche saperlo... Il documento del secolo scorso parlava di
pallore intenso. Ma tutti i morti sono pallidi: quand’è che un pallore
diventa eccezionale? E il nesso che lega i due morti, pensava Londei,
è un tenue filo che conduce ai Conti, cioè le voci di cent’anni fa e il
rinvenimento della salma dell’Avoli nell’androne del palazzo Baldassarri, qui al centro... Ma quale giudice rinvierebbe a giudizio con
indizi così labili? E quale assassino, diciamolo, quale vampiro sarebbe così stupido da lasciarsi il corpo della vittima sotto casa? O così
astuto... Via, c’è pure una questura che si occupa di queste cose...
Guardò l’orologio: le undici e mezza. Prima che potesse imprecare ancora, la luce delle scale si spense per l’ennesima volta.
Londei si avvicinò al pulsante segnalato da una debole spia rossa. In
quel momento risuonò alle sue spalle una voce maschile.
“Professore? Ho un biglietto per lei.”
Amone, portiere ficcanaso e mastriccione, carabiniere in congedo, aveva parlato. A Londei l’adrenalina fluiva in tutto il corpo e
per lo spavento si appoggiò al muro. In quella fiacca positura apparve al portiere, quando questi riaccese la luce.
“Professore,” chiese costui “qualcosa non va?”
“No... no, va tutto bene” stentò Londei. “Mi ha un po’ spaventato. Non l’ho sentita arrivare.”
“Ho un biglietto per lei” disse il portiere con limato accento
meridionale.
“Un biglietto?”
“Sì. L’ha portato una... la signorina, verso le otto e mezza”,
disse Amone con tono e sorriso complici, “per lei. Mi ha detto che
l’avrei trovata qui, dopo le undici...”
Non viene, ringhiarono i pensieri di Londei, e mi fa fare la figura del cretino con il portiere. Questi stava tornando dalla guardiola
col biglietto in mano. Londei lo ringraziò un po’ seccamente.
“Non doveva disturbarsi, so che lei va a letto presto.”
“Per carità, professore. Dovere...”
Attese che se ne andasse, poi aprì il biglietto. Il foglio era naturalmente senza busta, color rosa confetto, stampatello vergato a lampostil. “Caro Cipciop,” (Londei risentì il soprannome amato-odiato
dell’intimità, ignorato anche da Tis e tanto più odiato, adesso, perché
ora noto certamente anche al portiere) “scusami non mi aspettare
vado a Venezia con Gegia e Beba a trovare Cri torno tra una settimana bacissimi Laura”.
Londei cacciò stizzosamente il foglio in tasca. Ma benché sentisse che avrebbe dovuto arrabbiarsi moltissimo e in cuor suo già pre-
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gustasse la parte di amante deluso e scorato che avrebbe recitato con
maestria, s’accorse, salendo le scale, che questa impreveduta pausa
sessuale quasi lo rincuorava. Stava invecchiando, come il maligno
Tis volentieri suggeriva.
A Venezia, in una notte da lupi come questa con Gegia e Beba
a trovare Cri; – Cri? Chi diavolo era Cri? Al diavolo davvero, pensò,
dovrò guarire da questa donna.
In salotto accese la radio e sprofondò in poltrona col libro della
battaglia di Verdun e un bicchiere di Porto, nell’attesa del sonno e
nel disappunto, se non nel dispiacere, dell’appuntamento mancato.
Tornò con rabbia allo spavento causato dal portiere, giù di sotto. All’apprensione, mai prima conosciuta, di essere solo in casa, attento
al buio delle altre stanze. A quella assurda storia di morti che voleva
farsi ascoltare anche da lui.
“Che gran sciocchezza,” si trovò a dire a voce alta “un morto è
un caso, due può essere ancora una coincidenza...”
E quell’altro crimine? Chiuse il libro. Ne avevano pur parlato
quindici, venti giorni fa. Durante la Grande Guerra era morto qualcuno, Tis lo aveva saputo dallo zio. Una domestica dei Conti? Fra
tutti e due erano riusciti a non andare a vedere. Ma troppe cose erano
successe e ne bastava una per essere stravolti.
Questa e poi basta. Pensò a Venezia, alle stanze dove i compagni di Laura dormono tutti ammucchiati. E lei? Dormiva sola? Meglio non pensarci. C’era modo di tenerla legata? Andare a Venezia
domani, chiudere con questa pazzia di cadaveri e ali nere. Questa e
poi basta. Mancava poco a mezzanotte, quando andò al telefono e
compose un numero. Immediatamente qualcuno rispose.
“Si?”
“Ciao, avvocato. Fai sempre gli straordinari?”
“Oh, Mauro. Come mai a quest’ora? Sono nel casino, ho ancora da fare ma adesso esco perché sono stufo. Vieni a farti una pizza?”
chiese l’avvocato Cassiani.
“No, scusami. Domattina ho la prima ora e sto andando a letto.
Senti, ti ho chiamato per una informazione...”
“A quest’ora? Non ti basterà metà stipendio.”
“Come si fa a sapere se in un dato anno c’è stato un omicidio,
o comunque una morte sospetta?”
Dall’altra parte del telefono ci fu silenzio. Poi, come Londei
temeva, la voce di Cassiani riprese con sarcasmo.
“Su andiamo. Confessa tutto al tuo avvocato. Cos’hai fatto?”
“Ma niente, figurati. Mi servono solo delle informazioni su
come fare per cercare un probabile morto del Venti o del Ventidue”
mentì. “Non so il nome né la circostanza. A dire il vero, non sono
neanche sicuro se c’è... Insomma, queste cose le devo scoprire io. Da
dove si comincia?”
“Dal tempo pieno per gli insegnanti, che almeno avreste altro
da fare” sogghignò l’avvocato.
“Dai, sul serio. È un caso che... forse si ricollega con l’antifascismo” inventò Londei seccato, sapendo che mai Cassiani avrebbe
osato scherzare sulle cose sacre.
“Ah, ho capito” riprese l’avvocato subito serio. “Be’ puoi provare in tribunale. Devi chiedere le rubriche del Registro generale che
riporta tutti i dati di rilevanza penale della giurisdizione. Però devi
essere parte interessata o avere il permesso di...”
“Aspetta. Prendo nota. Un momento.”
Londei venne ammaestrato sulle segrete cose della Giustizia.
Il problema più grave, a parte Cassiani che insisteva a minacciare
salate parcelle, era che qualcuno lo introducesse a titolo di amicizia,
visto che Londei mostrava troppa fretta per un regolare permesso né
poteva vantare relazioni di parentela col morto, sempre che un morto
ci fosse. A questo pose rimedio la promessa dell’amico di telefonare
l’indomani a un conoscente in tribunale.
Così, la mattina dopo, poco prima delle undici, il professor
Londei saliva le ampie scale del Palazzo del Tribunale, con il pensiero già a Venezia.
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Tis beveva il caffè. Lo zucchero era finito e lui aveva dimenticato di comprarlo. L’amarezza della bevanda gli fece sentire dolorosamente il peso della trascuratezza e del suo sbando. Alla porta
bussarono, lasciò la tazzina sul tavolo. Era Londei.
Entrò in casa con dei fogli in mano. Aveva corso. “Non ho
neanche pranzato” disse “sono stato in tribunale.”
“Fino ad ora?”
“Sì. Per quella tale.”
“Quale tale?” chiese Tis.
“Non ti ricordi neanche tu? Stasera parto per Venezia: vado via
per pochi giorni ma per la faccenda è come se partissi per sempre.
Non voglio più sentire questa storia. A me piace vivere su altri binari...” trasse di tasca fogli che gettò sul tavolo piegati “... tanto più
che certe ombre si può credere che abbiano un nome. Mettiti seduto”
ordinò poi. “Queste sono le fotocopie degli allegati.”
Tis si sedette mentre Londei proseguiva come un torrente in
piena.
“Mi è tornato in mente ieri sera, dopo che ci siamo visti. Ne
avevamo parlato una volta, prima che morisse Avoli. Ricordi, quella
domestica del Baldassarri di cui si ricordava tuo zio? ... bene, era
una certa Quinta Pagnoni di Tomba (che poi sarebbe Tavullia). Trovi
tutto qui.” Batté sulle fotocopie sul tavolo. “Era stata da poco assunta
dal conte Baldassarri, quello di allora, Carlo Alberto, quello morto
sul Montello. I suoi erano contadini dalle parti di Tavullia. Una volta
che andò a trovarli non tornò più. La ritrovarono uccisa verso il Boncio, la mattina del 19 ottobre 1917. La relazione dei Carabinieri che
condussero l’inchiesta dice che era una brava ragazza (a proposito,
era del 1894: neanche ventiquattr’anni), che non aveva nemici, eccetera eccetera, insomma tutto il campionario di questi casi. Le malelingue pensarono al fidanzato, che invece era al fronte. Il maresciallo
scrive che la madre accusò il Conte che, guarda il caso, era a Pesaro
in licenza e che, secondo lei,... era capace di trasformarsi in animale
ed era un uomo malvagio. La presero per pazza: sai, il dolore...”
Fece una pausa. Prese la tazzina di caffè che Tis s’era dimenticato e la tracannò.
“È amaro... E così, come vedi, ci imbattiamo per la terza volta in un fatto analogo. Adesso diventa un po’ troppo per essere un
semplice caso... Non hai lo zucchero? Il maresciallo, come vedrai tu
stesso, registrò quelle accuse per dovere d’ufficio, aspettandosi forse
un’azione penale contro la donna: infatti scrive con minuzia quello
che la poveretta disse, benché aggiunga che il Conte non era neanche
indiziabile. Non ci vuole molto a immaginare la scena, le chiacchiere, quello che avrà pensato la gente: una povera contadina impazzita
dal dolore, che sparge accuse più ridicole che infamanti. Se avesse
detto che il Conte le aveva sedotto la figlia, magari l’avrebbe creduta.
Ma una cosa del genere... E qualcuno avrà pensato che una seduzione c’era stata davvero” continuò Londei “e che la poveretta cercava,
chissà...” Londei raccolse il gatto, si sedette sulla poltrona e cominciò a grattargli il mento con visibile compiacimento dell’animale.
“Di’, ma lo zucchero non c’è, in questa casa?” ripeté accennando
alla tazzina.
“E allora,” chiese Tis “cosa accadde allora?”
“Niente, naturalmente” rispose Londei. “Il Conte non presentò querela. Forse comportandosi da gentiluomo, o forse perché sarà
tornato al fronte. Perché cinque giorni dopo, il 24 ottobre, ci fu Caporetto... nel cui clamore si deve essere perso il chiasso di questa morte
provinciale. Come sai, poi il Conte morì al Montello. Gli hanno dato
la medaglia d’argento, alla memoria.”
Si alzò, posando delicatamente a terra il gatto e andando verso
il tavolo. Il gatto balzò di nuovo sulla poltrona e vi si acciambellò.
“Ti ho fotocopiato la relazione per non farti perdere nulla, nessun particolare. E anche il referto medico” lo estrasse dagli altri fogli
“che parla di... ecco, – ferite letali da punta alla regione latero-cervicale all’altezza della carotide... Finì che il delitto fu attribuito a ignoti
e archiviato nei termini prescritti. Questo è tutto.”
Si alzò, raccolse un panino dalla tavola sommariamente apparecchiata e con esso si diresse in cucina. Tis rimase a contemplare la
porta d’entrata. “Cosa ne deduci?”
“Assolutamente nulla” rispose Londei. “Ma ho cercato queste
notizie perchè, dai e dai, m’ha colto il desiderio di sapere. E contemporaneamente ho avuto paura... Io abbandono, me ne vado a Venezia
o dove diavolo è, tanto è lo stesso. Quando mi rivedi non una parola.
Non voglio sapere come finisce. Questa storia, per quel che mi ri-
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guarda, non esiste e quindi non può avere una fine.”
Bevve un po’ d’acqua osservando sul televisore tre modellini
identici, ma dipinti con mimetiche differenti. Di nuovo si rivolse a
Tis e gli lesse sul volto un’ansia di cui provò pena. Ma finalmente si
sentì liberato e personalmente fuori.
“Belli, li dipingi davvero bene. Ma a che ti serve... Lascio a
te ogni... Continua tu, se hai voglia. Ma ricorda, Stefano,” aggiunse
“le ombre si avvicinano solo se glielo permettiamo. Forse basta non
prestarvi attenzione, non più che a questi giochetti...”
Aprì la porta, benché Tis rimanesse seduto i gomiti sul tavolo
e gli occhi fissi sulle fotocopie piegate.
“Ciao. Se è possibile non pensarci più, e se grazie a Dio diserto, non volermene.”
prenderà il treno. Stanotte dormirà sulla laguna.
Si guarda attorno, contempla la riva deserta, vede in lontananza i colli verso Fano e fuma tranquillo nella consapevolezza che la
città è restituita dall’autunno ai suoi abitanti, e che il suo ruolo in
questa storia si conclude. Ciò sottolinea la sabbia che il vento ha
spinto sull’asfalto del viale. Il vento l’accumula e passa oltre. Anche
Londei se ne va.
In fondo all’ultimo viale, dalla parte del porto, la sabbia è separata dalla strada solo da un marciapiede. Sulla spiaggia, intorno
a un vecchio stabilimento, crescono tamerici e cespugli, e l’erba si
mischia alla sabbia.
In quella parte di arenile che Londei ora percorre, fu memorabile anni fa un’invasione di coccinelle che si pestavano a mucchi,
un’altra ve ne fu di maggiolini, che ronzarono una settimana sullo
sfondo del porto e delle sue acque, segno certo di imminente fine
del mondo. Londei cammina sulla spiaggia più aperta della città e le
acque del mare, nel tramonto d’ottobre, sono così luminose. Anche
il porto pare più bello del solito. Forse a causa della pioggia notturna
l’aria è come cristallo, e le poche nubi appese al cielo fanno quadro
manierista.
Anche in lui c’è pace. La luce dell’ultimo sole lo conforta e la
decisione lo rassicura. Stasera Londei parte. Frappone vacanze e ferrovie fra sé e il delirio di Tis. Andrà a Venezia. Ma Laura o non Laura, non era questo il problema. Il problema era altrove, nell’inquietudine che si alzava come polvere dalla ragione frastornata. Londei
si sentiva vacillare, e non ha voluto. Così adesso passeggia perché
ha bisogno di fumare in pace, ma tra poco andrà a casa e alle 19,16
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CAPITOLO XX
Quando uscì dal consorzio con le scatole di conserva, il tonno e i detersivi biodegradabili, Tis si bloccò con le borse in mano
a guardare il suo preside che lo fissava dalla nebbia della strada. Si
salutarono con reciproco imbarazzo. Si sarebbero rivisti a scuola,
quando il permesso per malattia del sanissimo Tis sarebbe scaduto.
Mica mancava tanto. Che, come ogni gioco confuso, anche questo
andasse schiarendosi, era ovvio: ma la chiarezza che ne risultava era
forse peggiore della confusione. Scese la scalinata e viaggiò senza
fretta verso l’elettrauto.
Nella nebbia apparivano i primi stivali della stagione, molte
ragazze avevano un’aria accesa e mostravano i nuovi abiti invernali.
Una incontrò lo sguardo miope di Tis e lo ricambiò distrattamente
per un istante, con occhi che fuggirono dimenticando. Per il Corso
volarono giù per la discesa due in bicicletta: con le maglie rosse e la
tuta seppero di ostinazione e di freddo. Tis li invidiò freddoloso. Al
cinema era tutto un apparire di prime visioni, ma lui si sentiva distante da ogni desiderio.
Quando arrivò, l’uomo dell’elettrauto stringeva i morsetti della
batteria proprio alla sua macchina. Nella tuta blu, con la sciarpetta al
collo e gli occhiali che contemplavano senza soddisfazione il lavoro,
aveva un’aria altrettanto malinconica di quella di Tis. “L’ho ricaricata, non durerà” lo informò. Tis pagò nella bottega dove brillava una
preistorica stufetta elettrica. Si chiese se l’omino avrebbe passato
l’inverno con quella. Uscì presto dalla confusione del centro dirigendosi verso le colline. Passò per Trebbiantico senza guardare ai lati,
fisso sull’asfalto lucido. Passò veloce, con un’idea di incoscienza
persino, e sbandò davanti al ristorante del suo pranzo di nozze. Anni
sei, allegria... mezza parte della vera vita se n’è andata da allora, e ci
si è aggiunto questo casino.
Con un’altra scivolata che smuove la macchina, Tis gira per le
melme delle strade non asfaltate dell’entroterra. Bisogna farla finita.
Vuole andare a vedere la tomba di famiglia del conte Baldas164
165
sarri. Che ne trarrà? Niente, vedrà dei nomi sul marmo. E allora? È
chiaro che corre a cercarsi emozioni: è un po’ come se non potesse
più fare a meno di spaventarsi e di frugare fra quelle cose orribili che
per ora l’hanno risparmiato. Che la gran corte degli inferi neanche
si curi di lui? Poteva ragionevolmente dedicare più tempo all’infermiera, alla Luisa, convincerla a dormire con lui cercando di superare
il confronto col ballerino della psicomotricità. Perchè non le ha più
telefonato?
La tomba dei Baldassarri non stava nel cimitero di Trebbiantico ma in quello, ancora più piccolo e lontano, di Sant’Andrea, messo
in cima a una collina e nascosto da un muro di cipressi che apparvero
dopo un paio di curve. Quella che in città era stata umida nebbia, qui
era pioggia che andava crescendo di intensità e rovinava sferzante contro l’inadeguato tergicristallo. La strada era tagliata dentro il
fianco della collina. La parte inferiore, il fondovalle e la costa della
collina di fronte erano sbancati e cosparsi di enormi cumuli di terra.
Tre o quattro ville in costruzione mostravano i loro stili disparati,
portici a colonnette, merlature, fortini messicani, un’idea di gotico
in una quarta. La grande difformità delle costruzioni in mezzo agli
sbancamenti rendeva ridicola tutta la collina, l’acqua che percuoteva
gli orrendi progetti li faceva sembrare frutti di una desolata fungaia.
Nei pressi della cima una superstite galleria di alberi accolse
la macchina. I cespugli di rovi stillavano acqua e una lepre schizzò
veloce sparendo nel folto. Un vialetto portava al cancello del cimitero, in mezzo a uno spiazzo d’erba dove Tis lasciò l’automobile. I
cipressi sorgevano al di là del lato opposto all’entrata. Lì vicino, un
grosso pino inclinato faceva entrare vezzosamente la chioma sopra
il muro di cinta. L’acqua gocciolava a terra dagli aghi del pino che
voleva somigliare a un salice piangente.
Entrò senza poter impedire che la famosa notte gli tornasse
alla mente: quasi gli parve di risentire l’odore del Caffè Sport, la
fatica di trattenere l’onesto Londei, la fuga finale oltre il muro di
cinta. Ma questo era un cimitero di campagna, forse non più grande
di due campi da tennis assieme, che portava tombe solo ai lati. Nel
portico centrale, al riparo dalla pioggia, c’erano i fiori e i lumini e la
costellazione di lapidi vecchie e vecchissime che per tutto l’anno non
avevano omaggi né ceri e che forse solo a novembre avrebbero avuto
la loro tre giorni del ricordo. Ammesso che nelle campagne attorno
restasse, per ricordarsene, qualcuno delle vecchie famiglie contadine
i cui capostipiti orgogliosi giacevano là sotto.
Nel mezzo del camposanto Tis guardava in giro, con l’acqua
che trovava infine modo di farlo rabbrividire entrandogli nel collo. Il
nome Baldassarri non figurava nello stipite delle due uniche cappelle
che vedeva. Poi notò, al centro di uno dei lati, una sorta di timpano di
tempio, due bassi gradini, una catena attorno. Fatti pochi passi lesse
BALDASSARRI sotto il vertice del timpano.
Una grande lastra di pietra grigia, pesante, cupa e già corrosa
dal tempo, schiacciava i due gradini fra l’erba. Al centro, nella sua
gabbietta arrugginita col vetro rosso lavato dalla pioggia, si torceva
senza mai spegnersi un lumino. Un lato della tomba era coperto di
edera. Tis scavalcò la catena bassa, in una minima – adesso – profanazione, e lesse spostando le foglie dell’edera:
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LEONIDA BALDASSARRI
1895
Più sotto, invece, c’era un altro nome:
CARLO ALBERTO conte BALDASSARRI
Trebbiantico, 10-VII-1880
Crocetta del Montello, 8-V-1918
CADUTO PER LA PATRIA
aspettami
non mancherò di incontrarti
in quella valle silenziosa
Ebbe paura. Uscì fuori dalla catena e da lì, dall’altro lato della
pietra distinse:
TIZIANA BALDASSARRI
nata AURELI
orbò di sé lo sposo
e la tenera vita della figlia
20 gennaio 1960
Eccoli tutti qui – pensò – il nonno, il padre, la moglie, sotto
questa enormità di pietra...
“Qui riposano tutti” disse una voce alle sue spalle.
Tis si voltò di scatto e dietro di lui, a qualche metro, vide il
Conte. L’autista, con una giacca a vento militare, gli reggeva l’ombrello sulla testa. Non trovò le parole.
“Mi sono permesso...” balbettò più volte. Il Conte fece cenno
all’autista. “Ci aspetti in macchina.”
L’autista si girò lasciando, con evidente assurdità, senza ombrello sotto la pioggia il Conte che parve non accorgersene. Nell’impermeabile e con il berretto di plastica sulla testa, costui sembrava
un infelice colonnello estromesso dal suo ufficio del reggimento. Si
avvicinò a Tis e gli voltò le spalle, guardando verso la tomba. Tis ne
udì la voce insolitamente aspra:
“Questo non c’entra più molto con la storia della nobiltà pesarese, vero?”
Non ebbe risposta.
“Può darsi che lei metta a dura prova la mia pazienza.”
Ancora Tis non rispose. Il Conte si girò con un sospiro. La
faccia era stanca, ma non più scura.
“Qui dormono tutti” ripeté, “sono morti. Veri morti. Come a
tutti deve toccare, ragazzo. Cosa credeva di vedere.”
“Niente...” uscì appena a Tis.
Nel camposanto sotto l’acqua non c’era nessuno, l’autista era
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uscito. Baldassarri ebbe un mezzo sorriso.
“Lei ha paura” asserì.
“No.”
“Ha paura.”
“Sì, ho paura” ammise Tis.
“Che c’è da aver paura davanti a un po’ di morte? Mi dica...
Noi abbiamo bisogno di parlarci, è vero?”
“Sì... Non credo di poterlo evitare” si decise Tis.
“Non sono qui per caso” disse il Conte.
La pioggia gli correva sulla visiera del berretto e gli andava
giù, davanti al naso aristocratico, come da un’alta gronda.
“Quelle parole” disse il Conte con un cenno “le fece scrivere
mia madre per mio padre, eroe di guerra... Le danno qualche idea?”
“Nessuna, no...” mentì Tis.
“A me ne dettero, invece... C’è la solita speranza di chi resta di
rivedere qualcuno che ci fu caro... Metà della letteratura cimiteriale
è scritta su questa illusione... Normale illusione direi.”
“Senta...”
“Parleremo, parleremo presto. Presto davvero... Ma non qui.
Fa freddo e prima di parlare lei dovrà leggere ancora qualcosa. Vada
a casa. Troverà delle carte che l’aspettano. Avrà di che saziare la sua
smania... Arrivederla a presto.”
Tis, come a un ordine, si allontanò verso il cancello del cimitero. Dopo pochi passi si girò e vide il Conte sotto la pioggia,
che lo seguiva con lo sguardo. Aveva la mano tesa per salutarlo. Tis
accennò a fermarsi, cavò la destra dalla tasca, rimase anche lui con
la mano stesa alla pioggia, ridicolamente, ma non ebbe la forza di
tornare indietro.
Al solito bar sotto casa bevve il tè bollente. Il barista gli consigliò di asciugarsi i capelli. Il gatto lo accolse con salti da fame e Tis
lo prese in braccio mettendo il viso nella pelliccia calda della fida
bestia. Come faceva, lui, a restare così asciutto anche nel diluvio, il
signore delle cantine?
169
Col gatto in braccio entrò in casa: sul tavolo c’era il pacco
delle carte. Passato dai muri? O dai vetri? C’era qualche demone in
soggiorno?
Tis si sentì devastato dalla stanchezza. Cedette al gatto il suo
tonno di qualità. Sedette ancora zuppo, dimenticandosi di togliere
l’impermeabile. Aprì la busta e si asciugò le mani per istintivo rispetto del documento. Il gatto si appollaiò di fronte a Tis: già a occhi
chiusi faceva le fusa e si era mangiato milleduecento lire di tonno.
Sulla busta, di traverso, c’era scritto: Manoscritto di Luigi Baldassarri, Uffiziale del Piemonte Reale, che già ferito a Custoza il 29 giugno, cadde per la Patria a Novaledo di Valsugana il 21 agosto 1866.
Tis cominciò a leggere.
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CAPITOLO XXI
*** Non so se sarà utile lasciare queste righe di cui non posso
immaginare il destino. Ma in questo momento, ora che mi accingo a
raggiungere il Reggimento Piemonte Reale in qualità di Sottotenente e il rombo della guerra s’avvicina, sento la necessità di lasciare
qualche traccia di me, qualche indizio delle scoperte allucinanti degli
ultimi mesi non più sereni. Anche se ritengo che nessuno s’avvedrà
di quanto personalmente rinvenni (così sottili sono le trame dell’attenzione umana e breve la nostra vita per fatti che si dispongono radi
nel tempo), non mi celo che forse mi giudicherà pazzo chi dovesse
leggere queste note. Ma lascio il futuro al futuro, per mio conto già
troppo compreso dei fantasmi che dal nostro passato risalgono. Attesto comunque qui, in Pesaro, oggi 9 di giugno 1866, di essere pienamente sano di mente e che quanto scriverò corrisponde al vero.
Il principio risale al 10 del trascorso marzo. Quel giorno mi
recai a Trebbiantico per rasserenarmi delle amarezze di alcuni fatti
personali che non è necessario narrare qui, e per ristorare lo spirito
contemplando in solitudine la tranquillità della natura. Ma all’imbrunire – già m’accingeva al ritorno –, cominciò a cadere la pioggia
ch’avea minacciato fin dalla mattina, dapprima forte poi turbinosa.
Fu necessario fermarsi colà e attendere, sperando che cessasse. Ma
tale scroscio persistendo, il fattore mi pregò di restare per la notte,
offrendo egli di accompagnarmisi l’indomani. Ciò che, parendomi
giudizioso, risolsi d’accettare.
Ma la pioggia continuò per ore. Io, che con essa dormo profondo, era già assopito quando fui svegliato da grida. Il fattore adunava le genti della casa perchè l’acqua allagava le cantine e doveasi
scendere a salvaguardare provviste e attrezzi. Scorgemmo forzato
dall’acqua e malfermo il vecchio muro che chiudea una nicchia già
tenuta per pericolante, e si dovette abbatterlo. Ma in essa nicchia, anziché vuota, trovammo ciarpame d’ogni genere: abiti, legni, stracci,
carrucole, arnesi. Tutto giacea colà infradiciato dal tempo e dall’umido guastato, che molte cose rovinavano come le toccavi. Le pareti e il
171
soffitto si scorsero ricoperti da uno strato bianco di muffa, soffice in
apparenza ma indurito dall’età. Trovammo una teca in cui giaceano
frammenti d’osso senza nome e una cassa che, per essere di legno e
ferro, meglio avea retto allo sfacelo. Da essa fui subito attratto, benché la ragione dicesse di no, e apertala con qualche fatica vi rinvenni
libri, incunaboli e manoscritti coperti da polvere, in istato discreto.
Il fattore, che mi vuole gran bene fin da quand’era piccino, vedendomi laggiù al freddo e all’umido, tra l’acqua alta un palmo, mi
pregò di risalire che non pigliassi un malanno. Ma io non volli finché
la cassa non fu preservata e tratta meco.
Il dì appresso scesi in città con essa, e sbrigati certi doveri cominciai sul tardi a ispezionarne il contenuto. Erano libri e manoscritti
su cui vegliai fino all’alba.
Non sono in grado, adesso, non ne ho l’ardimento, di descrivere lo stato d’animo di quella notte, curioso dapprima, incredulo e
sbalordito poi. Ciò del resto è irrilevante pei fini di questa relazione.
Trascorsi le ore nel mio studio. Per tutta la notte piovve ancora e a
vento sui grandi vetri, e udivasi il mare in tempesta non lungi dalle
mura. Quando al mattino riflettei su quanto avea letto, attribuii anche
a quella condizione tempestosa della notte la confusione in cui versava: ma i fogli, i libri erano lì. E riflessi nello splendore meridiano
rivelano lo stesso incredibile contenuto.
Sfogliai, quella notte, opere antiche di storia, di scienza e di
magia. L’Opera Omnia del Parc; l’Historia de Gentibus Septemtrionalibus del Wierus; i Prolegomena ad Goticam Historiam del Grozio;
un’edizione tarda (Lugduni, MDCLXIX) del Malleus Maleficarum;
l’Abrégé de l’Histoire Universelle di Claude de l’Isle; una Silva de
varia lecion (dedicata, codesta, alla “Sacra C.C.M. del Emperador
Rey nuestro señor Carlos quinto deste nombre”); la Scuola de’ Principi e de’ Cavalieri; e altre ancora, su cui mi attardai con viva curiosità.
Ancora più affascinanti, però, alcune venerande carte manoscritte in Cancelleresca, forse del 16° secolo: quinterni consunti, vacchette ricoperte di pelle polverosa.
Così, la sera dopo, preso congedo da mia madre, ancora mi
ritirai a decifrare alcuni di que’ fogli, procedendo man mano più speditamente e scoprendo che trattavasi di un archivio di famiglia, lettere di personaggi a me ignoti, cenni e fatti spesso sconosciuti. Mi
attrasse un quinterno dal titolo “Rerum Gestarum Memoria Nobilitatis Nostrae & Scelesti Facinoris a Comite Alphonso Peracti A.D.
MDCX”, che altre mani aveano più sotto trascritto
172
173
MEMORIE DELL’ANTICA FAMILIA NOSTRA
E DEL SCELLERATO DELITTO
CON CHE LA PERDETTE
IL CONTE ALPHONSE B.
1610
L’anonimo manoscritto, redatto in latino, citava antiche storie
e leggende secondo le quali antenati di nostra famiglia furono i Baldi, stirpe antica de’ Goti da cui que’ barbari scelsero re Alarico. Quei
Baldi si condussero in Settimania, e da loro avrebbe nome la città
di Baux, presso Arles, i cui signori – quasi omaggio ad antica prosapia – nel Medio Evo dominavano settanta terre, franche di tributo
ai Conti di Provenza. Da là, narrava l’autore, alcuni partironsi per la
gloria: tra costoro Lattaro, caduto ai Campi Vogladensi per difendere
il Regno visigoto; Remigio, che fu compagno di Ruy Diaz all’assedio
di Zamora. Ma queste, che pur lessi con interesse, pareano leggende
antiche. Più certo, invece, che Albericus Balthassarius fosse in Gerusalemme, alla fine della prima crociata, vassallo del Signor di Graye;
e che suo figlio Gautier fosse vestito Cavaliere di S. Giovanni.
Mi colpì allora, per la prima volta, che dove l’autore ignoto
narrava di Stephano B., Cavaliere templare, e dell’oscura impresa
che portò alla distruzione di quell’Ordine, qualcuno avesse annotato
a margine “Silva p CIC”. In un lampo passai al volumetto che dissi,
e che era nella cassa a portata di mano. La citata pagine 199 trattava
invero della fine de’ Templari ed era sottolineata:
“... y mas que elegian su maestre secretamente, y con supersticiones impias y malas. Item que en algunos articulos eran erejes, y
que hazian tambien su profession ante una estatua o ymagen vestida
con cuero o pellejo de hombre, y que beuian sangre humana en su
profession, y assi se guardauan secreto y jurauan de ayudar los unos
alos otros. Poniase les mas el pecado abominable contra natura, per
lo qual se hizo processo con tra su maestre...”
Rimasi interdetto! Chi dunque avea letto e confrontato? Rammentandomi, tornai indietro di alquante pagine, ed ecco che, dove
l’autore avea detto de’ Baldi passati al Regno di Napoli, la stessa
grafia avea chiosato “Grotius Got Hist p LII”. E a pagina 52 de’ detti
Prolegomena trovai sottolineato un cenno, invero di poco conto, a
questo proposito.
Non solo dunque aveva innanzi un’antica storia di famiglia
bizzarramente accertata in ogni asserto, anche meschino, ma altresì
erano raccolti nella cassa libri e atti, allo scopo come per un diligente
lavoro. Che il tutto si fosse inteso nella nicchia occultare, già premoniva il cuore; ma ormai più forte era il tarlo della curiosità.
Allora trovai il “facinus scelestum”, il delitto orrendo cui accennava il titolo medesimo. Se n’era macchiato Alphonse Balthasar,
cavaliere francese che visse a metà del secolo decimosesto. Questa
la vicenda:
Di Carlo IX, re di Francia al tempo della Strage di S. Bartolomeo, narrasi da secoli che facesse una mala morte gridando che
s’allontanasse da lui, ormai nel delirio dell’agonia, “quella testa”,
che tutti i cortigiani immaginarono fosse quella del Coligny, assassinato nonostante la parola data. Ma le cose, secondo il manoscritto,
andarono altrimenti. Vi si racconta, infatti, che Caterina de’ Medici,
madre del Re e per lui minore Reggente, poi sempre influentissima
sull’animo debole del reale figliuolo, vedendone appressarsi la fine
e temendo una diminuzione del potere, cercasse di procrastinare la
morte con preghiere al Cielo e, ove occorresse, all’Oscurità degli
Abissi. Fu così che a Vincennes, dove il Re languiva, ella decise di
sperimentare s’altro ancora si potesse tentare, non esitando a ricorrere al mostruoso espediente dell’Oracolo della testa.
Si cercò, e fu presto trovato, un fanciullo nemmeno dodicenne,
d’animo e forme soavi e innocenti. Egli fu prontamente istruito per
la S. Eucarestia da un Elemosiniere di palazzo, e al giorno stabilito
in fretta, un prete apostata, dedito a magia, iniziò sul far della mezzanotte una messa davanti all’immagine del Dimonio, nella camera in
cui giacea Sua Maestà, presenti la Regina-Madre e pochi fidi. Dopo
che furono consacrate due ostie, una bianca e una nera, fu introdotto
candidamente vestito e ignaro il fanciullo, che fu comunicato. Ma
immediatamente, mentre inconsapevole stava raccolto, gli fu di netto
troncato il capo.
Ancora sanguinava la testa del fanciullo né gli occhi erano vitrei, che fu posta sopra l’ostia nera tra il crescere di musiche e luce di
lampade che illuminarono l’empietà. Il Dimonio fu messo in istato
di pronunziare profezie per il tramite di quella bocca sanguinante
che ancora vibrava. Non si sa cosa gli chiese il Re, che fu lasciato
solo con quel funereo orrore, né cosa l’abisso rispondesse tramite
quel varco mostruoso. Ma non migliorò la sua salute fisica e peggiorò quella mentale, se ai cortigiani che rientravano, scellerati, urlava
“quella testa, quella testa, allontanate quella testa!”, né altro disse
fino alla morte.
Il fanciullo, raccontava il manoscritto, era figlio di Alphonse
Balthasar. Costui fu creato conte e premiato, per quel baratto contro
natura, con una ricompensa enorme. A margine del foglio la solita
grafia aveva tracciato “J Bodin Démon p CXLV”.
Lessi queste cose nella mia stanza, circondato da cose familiari. Confesso tuttavia che mi sentii trascinato in fredde latitudini:
forse era la tempesta che sollevava onde amare; forse i demoni della
coscienza cui la veglia prolungata indica malchiuse porte; o forse
proseguiva il meccanismo tremendo che avviava le sue ruote, e me
con loro.
Mi precipitai sulla cassa, che vuotai gettando i libri polverosi
sul pavimento. Trovai ciò che m’aspettava: la Démonomanie, out
Traité des Sorciers, che Jean Bodin stampò a Parigi nel 1587. A pa-
174
175
gina 145, un dettagliato resoconto del fatto atroce.
Il manoscritto proseguiva ancora non molte pagine. Più oltre
narravasi la fine d’Alphonse, tornato nelle terre verso Avignone,
dove visse “conscius sceleris & turbatus inopinatae poenae ferendae
quasi perustus; quam primus pro domestico sanguine dedit die 27
Octobris 1575”.
Inorridito, non potei comprendere: che lo scellerato Alphonse
fosse vissuto conscio della atrocità compiuta, non era dubbio. Qual
pena era dunque parsa inopinata e inattesa? Che castigo potea venirgli, al sicuro della giustizia degli uomini, se non un tormentoso
e preveduto rimorso? Come avrebbe egli scontato il fio del delitto il
27 Ottobre 1575 (“primus”: per primo rispetto a chi?), e se in realtà
una tremenda fine lo avea sì colto, narrava l’ignoto autore, ma più
tardi, nel 1584, quando bruciò vivo durante uno scontro tra Ugonotti
e Lega nel palazzo incendiato da cui si disse non cercasse scampo
(“flammam evadere negavisse tradunt”)?
Allora la famiglia avea abbandonato il contado Venosino, fuggendo nelle terre italiane della Chiesa.
Le ultime righe erano oscure, retoriche, pensai allora; cifrate,
crederei oggi. L’inferno, esortavano, non si provochi impunemente,
che chi ne patteggia i favori mai conosce le clausole rivolte a danno
e rovina nostra e de’ discendenti (“ad nostram nostraeque progeniei
perniciem & interitum”). Nostra, dicea l’autore, con ciò svelandosi
anch’egli della famiglia. Io, concludea, pagai il prezzo del sangue il
2 Ottobre 1604.
Su quelle parole mi fermai smarrito, che le tenebre sul mare
si trasformavano in caligine, il vento e la pioggia cessavano, e dalla
strada salivano le prime voci. Chiusi la porta alle mie spalle.
Il giorno appresso mi levai dubitando d’aver sognato. Ma la
luce meridiana, che dissipa le larve della notte, rimase incerta su
quelle carte, come la mia credulità. Il pomeriggio andò nel rileggere
il manoscritto, e non lui solo.
Riconfermo qui, strenuamente, d’essere sano di corpo e mente.
Fui cattolico d’educazione, come ogni Italiano; fui troppo giovine
pei moti di rigenerazione della Patria, ma oggidì pronto a dare ogni
stilla di me per la grandezza e libertà d’Italia. Ciò affermo, che non
mi creda il futuro lettore, se mai ve ne sarà, uomo pusillanime e da
nulla, che di leggieri crede alle fole e in esse versato. Tanto ribadisco,
prima di procedere.
Degli altri documenti dirò sol quanto basta: essi son qui, aperti
sul tavolo ove leggo. Trascrivo una lettera a Mons. Grimani, Vescovo
di Sinigallia:
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Eccellenza Rev.ma
Tardi pur non men care mi giunsero le Sue esortazioni, perciocché godendo Ella di ciò che stimammo mio bene, mi porge chiarissime dimostrazioni che veramente m’ama.
Amarmi ancora, sarà egli possibile? Ciò che tememmo è accaduto, ed è fame, lussuria, sete e amore insiem sommantisi. Ora comprendo la vitalità del Nonno Cesare, e forse anche la di Lui morte.
So quel che sono, non come il pargolo che sarà vegliardo, ma come
il vegliardo che ricorda e pensa a sé giovinetto.
Ella, Monsignore, m’esortava a confidare nell’Ausilio del Signore Iddio; ma altro signore me tiene in possesso, e ne cangia sostanza, se non anche forma e volontà. Che son dunque io divenuto,
un dimonio? E tale stato orrendo che spinge al sangue, offre pur
lusinghe e più raffinate sensualità. Se è esso peccato, qual Battesimo
redimerà questo fallo che si perpetua?
Ciò che feci ò dovuto. Ella, Monsignore, agisca secondo coscienza. Ma qual ch’essa sia, conservi dell’amico il ricordo di ciò
che fui, non che sono.
Sinigallia, ai 20 di Settembre 1700.
Alippio Baldassarri
Ma tra le cose che quel giorno ebbi innanzi, inesplicata dapprima poi sin troppo esplicita, fu una vacchetta di pregiata pelle, senza
frontespizio né titolo, contenente quaderni di pergamena. Mani diverse vi avean scritto qualcosa, una formula di insolito latino che
rinnovavasi ogni pagina.
Nel primo foglio
23 Aprilis 1630 Cae B
e così via, con mutata grafia e sigla, e con una data più prossima: AL
B, 30 Augusti 1700; LO B, 9 Januarii 1741; G B, 1795; F B, 1819; e
ultima, così presente da gelarmi il cuore, A B, 6 Octobris 1857.
Nove anni! Meno di nove anni fa!
Ripensai in un attimo all’accaduto, al muro crollato, alla nicchia forse non così abbandonata come si credea, alla teca col suo
sinistro contenuto, alla cassa non tanto polverosa... “A B”? Dunque,
“B” per Baldassarri, “A”... “A” per Alfeo, mio cugino?
Ha il lettore compreso? Ha egli intuito che da secoli un’ombra
scura è levata a inseguire, per le vie degli uomini, qualcuno del nostro casato? Un’ombra corre le vie del tempo come un lupo quelle
del bosco, una larva sin qui sempre ha raggiunto la preda, come il
lupo inseguendolo raggiunge il viandante, questo che s’affanna per
la via maestra, quello uso ai sentieri traversi.
Per me fu come se le tessere di un mosaico, vedute qua e là sotto un intonaco, rivelassero subitamente la loro trama. “Al B”? Certo:
Alippio Baldassarri, che credea d’esser divenuto un demone: le date
coincidevano. “Cae B” era dunque il Conte-Nonno Cesare. “A B”
chi altri se non Alfeo, che attualmente porta il titolo di famiglia.
Ma la trama del mosaico scopriva adesso la tessera più san-
guinosa, il ricorrente prezzo del sangue cui ora attribuii immediata
forma. Nove anni fa, io aveva dodici anni, ricordo il clamore che
s’ebbe per la morte di un poveretto assassinato sul nostro confine, a
Trebbiantico. Fu nell’autunno del 1857. Una morte insoluta per cui
corsero bisbigli sul parroco, i gendarmi, la plebe sciocca. Rumori
inspiegati, a me adolescente, che troncarono l’uso di villeggiare.
Dunque mio cugino avea scritto per ultimo la formula, né io
poteva più celarmi cosa significasse. Ma ciò che adesso vedo con
chiarezza, se lecitamente parlasi di chiarezza in tanta oscurità, in quel
momento parvemi impossibile e irreale. Certo, nella mia famiglia si
compì un grave delitto. Ma cosa fosse accaduto, che maledizione
scaturita, come si propagasse, perché, e con che patimenti, tutto ciò
non riuscii a comprendere.
A chi rivolgermi, pensai, a chi chieder consiglio. Ebbi in mente
Don Mazzoli, canonico del Duomo, che un tempo ebbe in cura la salute della mia anima. Ma poteva io ora, dopo anni, presentarmi a lui?
Per chieder, io “giacobino”, a un prete, se stimava possibile...
Ne parlai invece con Emilio Donzelli, che dalla cacciata dei
Pontifici è giudice qui a Pesaro. Emilio, che ci onora della sua amicizia, fu nel 1849 a difendere la Repubblica Romana avendo lodi da
Garibaldi stesso.
Rammento quel pomeriggio. Erasi a metà marzo e la città si innevava di nuovo. Di trovare un legno neanche parlarne, così dovetti
andare a piedi da porta Salara a S. Giovanni. Più volte fui tentato di
tornarmene temendo l’imbarazzo di cose insensate, di coprirmi di
ridicolo. Ma quando il domestico m’annunziò e Emilio parve lietissimo di vedermi, mi rincuorai. Emilio chiese e diede notizie, volle
il mio parere su Massimiliano e i Francesi in Messico, finì con l’invitarmi a cena. Accettai sperando in un caso opportuno di rivelargli
le mie angustie. Ma credo s’avvedesse egli stesso: offrendomi il sigaro davanti a un caminetto che non riusciva a scaldarmi il cuore, fu
lui a chiedere cosa m’angustiasse. Domandai, allora, se mai avesse
pensato o inteso che la mia famiglia fosse luogo di qualche inusitata
stranezza.
Ricordo, come l’avessi innanzi ora, che Emilio chiese grave
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HOC EST LOCUM ALPHONSI
nel secondo
NOCTIS COGNOVI LABEM & REDEMI SANGUINEM
2 Octobris 1604 JA B,
cioè “ho conosciuto il fondo della notte e ho riscattato il sangue”.
Nel terzo, con altra grafia
NOCTIS COGNOVI LABEM & REDEMI SANGUINEM
se a me stesse accadendo qualcosa. A me, risposi, a me no: ad altri,
forse. E pel bisogno di confidarmi gli raccontai di quegli ultimi giorni. Ascoltò senza interrompere la storia intiera: il muro, la pioggia,
la cassa, i manoscritti. Si scosse quando esposi le mie deduzioni,
qualche antenato e anche Alfeo, qualche anno fa, quel tale trovato
morto...
“Rammento,” mi interruppe, “il casanolante di Trebbiantico.”
Benché allora non potesse esercitare (il cessato Governo lo vietava),
disse d’aver seguito il caso. Ma che aveva io creduto, aggiunse. Alfeo? Si potea anche sol pensarlo? Egli un assassino? Una maledizione ereditaria? Tanto varrebbe credere alle streghe e che gli Inquisitori
giustamente ardessero vivi i malcapitati convinti di magia.
Certamente arrossii. Quelle parole quante volte non m’era ripetuto tra me? Lo ammisi: ma i fatti, i documenti, aggiunsi, esigevano una spiegazione ch’io non sapeva. A lungo discutemmo, Emilio
disquisiva con la perizia che molti gli invidiano. Io consentiva al suo
ragionare, ma sapeva ch’altra era la verità. Più tardi, poi, nell’accomiatarmi disse sorridendo: “Ma infine, che ne direbbe Voltaire?”, e
con ciò trionfò urbanamente di me.
Ma per breve momento. Emilio, il buon amico, s’era appellato alla ragione con consumata dialettica e l’oratoria del verisimile.
Eppure non avea risposto a’ miei quesiti, né altro avea potuto che
dimenticarli e farli dimenticare, asserendo così l’impossibilità di ciò
che è impossibile che sia. Ma avea pur trasalito, Emilio, chiedendo
se fosse qualcosa successo a me. Sorridendo m’avea chiesto se credessi, per caso, al vampirismo, come i contadini che accendono i
fuochi della miseria, a S. Giovanni, per proteggere sé e il bestiame.
Vampirismo, chiesi, era codesto il caso?
Gli scorsi allora un’ombra di disappunto, quasi che la facondia
l’avesse tratto con troppa foga. Superstizioni popolari, avea pur continuato, come il barante e lo sparvingolo, alimentate anche dai preti
che più il volgo è sciocco meglio gli comandano. Credenze ch’allignano nel popolo, disse, cui manca appena un eccentrico scrittore
che inventi al vampiro forme umane e stirpe antica, in un remoto
castello. M’avea congedato vinto, non convinto; e oggi credo inten-
desse guadagnar tempo.
Di quella notte non ricordo nulla. Ma l’indomani non nevicando oltre, risolvetti di recarmi a Trebbiantico. Voleva conferire col
Curato, ma potei trovare solo il sagrestano. Casualmente gli chiedetti
da quanto tempo fosse il Curato in quella Parrocchia, e seppi che
v’era giunto nella Pasqua del 1858. Ma sicuramente avea conosciuto
l’altro, chiesi. Don Bacchiani? Certo, mi disse, una persona assai
istruita, quasi trent’anni era stato lì, avea quistioni con l’arciprete di
Novilara per via d’alquante decime usurpate, ma sempre timorato,
modesto. Era morto a S. Leo, dove era stato trasferito. E come capitò
ciò, chiesi.
Il sagrestano abbassò la voce con gesto della mano, quasi a
dire ch’eran cose da uomini, e segrete. Mi bisbigliò essersi trattato
d’una punizione, scardinare un prete dalla diocesi non essendo cosa
da poco, era per certe cose... Per via di quel morto?, domandai. Egli
si ingarbugliò, arrossì, ammise; aggiunse trattarsi di chiacchiere, eccetera. Mi parve l’angustiasse quella conversazione, ma non osava
ritirarsi senza congedo. Fui io, allora, a forzarlo. Alfonso, gli chiesi,
voi credete ai vampiri? I contadini di qui ci credono?
Egli balbettava e l’invitai a chetarsi. Poi nuovamente chiesi
cosa la gente pensasse. Mi guardò con sospetto, si guardò attorno,
poi pezzo a pezzo cominciò a dire: il vampiro è un dimonio esiliato
dall’inferno, costretto a vivere delle cose della terra; è un uomo che
vendette l’anima prima di suicidarsi e poi risorge a bere il sangue;
à ucciso i figli o la moglie chiudendone l’anima in un reliquario; se
vive nel tronco di un lauro ne esce solo al rifluire della marea; se si
insedia in un campo di grano, resta prigioniero nell’ultimo covone;
ma se vive in forma umana, comanda ai lupi ed è il peggiore.
“Ma voi ci credete,” gli chiesi.
“Io no, signoria.”
“Neanche Don Bacchiani ci credea?”, insistetti. “E non si dice
che mio cugino abbia ucciso quel tale per il sangue?”
Ancora guardò attorno e stette senza dir nulla a capo chino.
“Voi, signoria, perché fate queste domande?”, riprese. “Don Bacchiani sì, lui ci credea. Dicea che il signor vostro cugino (perdonate)
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era tutt’uno col diavolo e prima o poi avrebbe preso il sangue di
qualcuno: per l’acqua benedetta lo giurava. Quando morì l’Andreoni, cosa disse in chiesa! Per quello lo trasferirono, poveretto, vecchio
com’era, e lo mandarono sui monti”.
Gli chiesi allora se lui pure credesse a queste cose. “Io, signoria, so appena leggere e scrivere,” rispose.
Richiedutone mi mostrò l’archivio della Parrocchia, raccomandando discrezione massima, che era vietato e ci volea licenza del Vicario. Gli incartamenti di Don Bacchiani erano là, legati a spago, con
parte del suo carteggio. Chiesi perché non li avesse tratti seco. “Non
so, signoria,” mi rispose, “egli era assai infelice quando se ne andò;
da mesi non parlava con alcuno, sortiva solo per le Funzioni, non era
più lui. Sapemmo poi,” aggiunse, “ch’era morto di febbri l’inverno
prima che arrivassero i Piemontesi.”
“Gli Italiani,” corressi.
“Sì, signoria: gli Italiani.”
Ora le carte di Don Bacchiani sono anch’esse con me. Promisi
ad Alfonso di rimandarle segretamente e domattina adempirò la promessa. Di esse non darò conto dettagliato: basti dire ch’egli avea per
altri segni da tempo compreso.
Quella sera, dallo studio contemplava la luminescenza de’
campi che innevati scendeano dalla città al mare, cercando di porre
nel mio animo quella pace che sentiva ormai perduta. Forse eran le
dieci, quando al portone giunse una carrozza. Ne scese Alfeo che
chiese al domestico di me, salutò mia madre e salì nello studio. Il
cuore mi batté all’impazzata. Mai io l’aveva così veduto: le colonne
del mondo schiacciavan le sue spalle e i geli degl’inverni solcavan
la sua fronte. “Ho veduto Emilio,” cominciò; e rimase con me del
tempo. Congedandomi disse: “Vedi dunque che chi cerca ciò che non
deve, trova ciò che non vuole.” Su tutto ciò che dicemmo mi fece
giurar silenzio.
Silenzio, sì, che scenda su di me e questa vicenda. Ma il silenzio, che tutto placa e riconduce a quiete, mi pare stanotte insoffribile. Per ciò ho deliberato di stendere questo resoconto che domattina
occulterò tra le carte di don Bacchiani. Assieme a loro, così, tornerà
alla Parrocchiale di Trebbiantico e vi riposerà nei decenni a venire.
Nessuno, si può presumere, avrà interesse a leggere que’ fogli sempre più ingialliti, e questi con loro. Nessuno, mi auguro. Ma se ciò
accadesse, sarà esclusiva incombenza del lettore soppesare e valutare i fatti, risolversi a più attenta indagine o concludere con l’ironia
de’ mediocri che disprezzano ciò che valica la loro meschinità.
Io sarò polvere, lontano dal gioco beffardo della sorte. Lontano
anche da ciò che sarebbe capitato a me, se Alfeo fosse perito la volta
che a Chiaserna gli alani gli sbranarono il cavallo; o da ciò che erediterei ancor oggi, assieme al titolo, s’egli morisse o fosse estinto.
Per queste cose ho chiesto l’arruolamento e fra tre giorni sarò
a Piacenza, al Reggimento. Se, come pare, la Patria affronterà presto
nuovi cimenti che completino il rinascimento nazionale, appena in
linea sembrerò sprezzantemente temerario.
Pesaro, alba del 9 giugno 1866.
Luigi Baldassarri ***
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CAPITOLO XXII
Tis vide da lontano uno che lo aspettava davanti al portone,
sotto un ombrello che gli ricordò vagamente qualcosa. Un postino?
L’uomo del contatore? Si avvicinò e riconobbe Giacomo.
Giacomo gli porse una busta. Tis lo pregò di entrare. “Non s’era
mai visto un tempo tanto cattivo...” divagò.
“È vero. La saluto, professore, il Conte non aspetta risposta.”
“Le posso offrire qualcosa. Salga per un caffè... non so...”
Il gatto si era avvicinato e passò dalle gambe dell’uomo a quelle
del padrone.
“Grazie ma devo andare. Arrivederla” disse Giacomo.
Prima che Tis potesse insistere era già in strada che camminava
verso il centro. Aperse subito la busta e l’inchiostro si sbavò, per due
o tre gocce d’acqua, in macchie celesti.
Caro professore,
sono convinto che le Sue più recenti letture sulla storia della
mia famiglia rendano per entrambi proficuo un colloquio. Spero vorrà onorare con la Sua presenza la mia tavola, domani sera alle nove.
Ho già significato al cuoco i miei gradimenti e ho personalmente
cercato nelle cantine il meglio che ancora vi si nascondeva. Non mi
neghi il piacere della Sua conversazione e del vino bevuto in compagnia, in questo piovosissimo autunno.
Con cordialità,
Umberto Baldassarri
Dove trovo un abito scuro? – si chiese subito Tis. Aprì il portone e a mezza scala pensò: questo mi ammazza. Il gatto lo precedette
e cercò inopportunamente di farsi notare. L’indomani. Comunque, di
tutta la storia questa era la fine? Sì, certo era la fine: una spiegazione
o un tentativo di ucciderlo. Però Tis si fidava della cortesia del Conte.
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Aveva dormito una notte dentro casa sua e il Conte gli aveva fatto
riparare anche la macchina. Adesso non si poteva più giocare. Sicuramente bisognava dichiarare, aprire, chiudere, dirsi reciprocamente
quel che si sa, salutarsi e chi s’è visto s’è visto. Tanto Tis che può
fare? Andare in questura? Lo metterebbero in manicomio. Andare dal
vescovo? Dall’esercito, andare in vacanza? Bisogna concludere: intanto comprerà un crocifisso da tenere in tasca perché non si sa mai.
Tis ha profanato una tomba. Ha dormito con un vampiro. Ha
rivisto un vecchio amore. Ha pianto. Ha sentito il gran peso della
morte: che altro gli può capitare? Forse è tempo di chiudere davvero.
E di provare a vivere una vita normale, con o senza moglie. Anche il
permesso a scuola sta per scadere.
Diede da mangiare al gatto. Come in un film di amori finiti, la
pioggia correva sui vetri. Che avrebbe ricordato a primavera di questi giorni piovosi? Tenne gli occhi sulla strada finché non smise di
piovere e i negozi si chiusero per il pranzo. Alle tre uscì in cerca di
qualcuno che gli prestasse un abito scuro. Londei non c’era, questa
storia aveva dato quindici giorni di paga a due supplenti in un colpo
solo. Telefonò a uno di musica, a un altro di disegno.
“Vado a cena con una tedesca” mentì.
“Di questa stagione?” aveva chiesto l’altro. “Beato te.”
Andò a prendere il vestito che era largo e i calzoni sventolavano
come bandiere. Promise al collega i particolari. La moglie li considerò entrambi, schifita. Tis uscì con la divisa sottobraccio. Entrò in
una cartoleria e comprò un crocifisso. La commessa vide stupita Tis
provarne di varie misure che entrassero nella tasca della giacca senza
troppo apparire. “Prendo questo” disse infine.
Il malinconico dio di plastica lo guardò dalla sua croce.
La sera del giorno dopo, già dalle cinque Tis era in giro con i
calzoni blu sventolanti sulle gambe e il naso che fiutava il mutare del
tempo. Castelli di nuvole qua e là, nei colori del tramonto, passavano
sopra la città spinti dal vento di terra, e l’aria s’era fatta calda. Ad andarci, sulla spiaggia, si sarebbero visti vortici di sabbia alzarsi e l’ac-
qua avrebbe avuto un bel colore cupo di mare indifferente alle umane
vicende. I vari pezzi di cielo già buio, ma sereno, che bucavano le
nuvole, facevano sentire a Tis il sollievo della fine. Come quando
ancora dava gli esami e il giorno prima passeggiava per il porto e per
il mare pensando: domani tutto sembrerà più bello.
Questa faccenda, iniziata col residuo sole estivo dentro un archivio, finisce con tutte le foglie per terra dopo un mese di pioggia, in
mezzo a progetti di vendemmia e di castagne col vino. Ecco arrivato
l’esame. Forse sarà perfino una cosa piacevole, e da questo Conte,
col crocifisso in tasca, Tis si recherà per l’ultima volta, almeno spera.
Che pensare di questa avventura? Raccontarla non potrà. Il mondo è
pieno di confusione e di torvi studenti in movimento: di queste cose
di Tis nessuno sa niente. Anzi, a vederlo camminare col trench sopra i
calzoni lunghi e larghi, che urta la gente ed è nervoso, magari c’è chi
lo prende per matto. E va detto che Tis ha già bevuto un grappino. Da
domani non toccherà liquore. Il grappino gli ha dato l’acidità e Tis si
sente solo e malato. E chi gli dice che s’alzerà dal letto, che sarà vivo
e cercherà un aereo-silurante nel negozio del Corso? Proprio lui che
non reggeva l’alcol, adesso non ha fatto che bere. Bell’esempio per
suo figlio, se ci fosse.
Entrò nel bar dove era già andato a darsi forza quando aveva
capito, lui solo, come era morto il giovane Avoli.
“Buonasera,” disse “un caffè corretto.”
“Un caffè, subito.”
“Dieci gettoni” chiese ancora Tis, d’istinto.
Il telefono era in fondo.
“Pronto?” rispose la moglie.
“Allora come sta? Gli hai curato la tosse?” chiese Tis.
“Non sei partito?” La domanda lo lasciò sorpreso. Sentì i primi
gettoni rotolare nell’ordigno. “Ho telefonato a scuola e so che hai
preso dei giorni. Ti pensavo in vacanza.”
“Tu mi controlli,” disse Tis “tu mi spii.”
“Potevi venire a vedere tuo figlio” sospirò la moglie.
“Ci vengo domani.”
“Se sei comodo.”
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“Non ho potuto,” spiegò Tis “se tu sapessi...”
“Non voglio sapere” disse la moglie.
“Non essere cattiva” disse Tis. Arrivò il suono di fine gettoni.
“Altri dieci,” urlò al barista “per favore.”
“Che devo pensare di te?” chiese la moglie meno dura.
“Come sta il bambino?” chiese ancora Tis.
“La tosse è finita, il morbillo è passato. Chiede di te. Ho detto
che sei andato a Napoli a far scuola ai bambini.” Napoli era per il
figlio il confine del mondo.
“Domani parliamo” disse Tis con pena, infilando i gettoni.
“Che c’è da dire?” chiese la moglie. E poi ammise: “È vero,
sono cattiva.”
“Non è vero: anch’io ho tante colpe.”
“Tutte” disse la moglie. “Il bambino sta imparando a leggere,
legge – caffè Foschi – quando passa in Piazza.”
Tis si intenerì: “Ha preso dal babbo.”
“Spero di no. Come vivi?” chiese la moglie.
“Sono stanco,” disse Tis “anche di questa pagliacciata.”
“Ah, sarebbe una pagliacciata? E chi l’ha voluta?” La moglie
alzò la voce.
“Non urlare,” gridò Tis “non ti fare conoscere, tu mi fai diventare pazzo.”
“Vai con le donne?”
“No.” Tis pensò alle bellezze della Luisa che amava il ballerino. “C’è ancora questo vincolo, finché morte non ci separi.” Sorrise
al telefono e pensò che anche la moglie, dall’altra parte, sorridesse.
Dal telefono, per una volta almeno, venne un quieto silenzio.
“Allora vieni su domani,” disse la moglie “così vedi...”
I gettoni finirono lì senza preavviso.
“Per la SIP Urbino è l’America. Mio figlio impara a leggere”
comunicò al barista.
“Quanti anni ha?”
“Quattro e mezzo.”
Il barista tirò su la bottiglia per correggere il caffè. “Questo
allora l’offro io.”
“Grazie.”
“I figli sono l’unica cosa” disse il barista.
“Mille preoccupazioni” sospirò Tis “col mondo d’oggi. Lei
ne ha?”
“Due grandi. Lei è pallido,” il barista lo scrutava.
“Sono un” po’ esaurito” spiegò Tis.
“Non esiste” disse il barista.
“Che cosa?”
“L’esaurimento. L’ho letto sul giornale.”
“Non mi dica,” rispose Tis “ci contavo tanto. Se non è esaurimento, allora è peggio.” Lasciò i soldi sul banco.
“Auguri” disse uscendo.
“Di che” disse il barista.
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Nell’amata-odiata città della sua vita erano scattate le otto e un
quarto e, come a un segnale, le strade si erano vuotate, neanche più i
giovinastri stazionavano con le collanine al collo, davanti ai portici.
Le edicole chiudevano e il vento inseguiva i suoi segreti itinerari per
le vie e attorno alla fontana. In anticipo, con ansia e spinto dal vento,
Tis si diresse verso la casa del Conte.
CAPITOLO XXIII
Il palazzo dove il giovane Avoli aveva concluso i suoi viaggi
non mancava d’atmosfera. Non c’erano muri di cinta né un gobbo
custode, né a sera potevano venire dal giardino lamenti di gufi e civette. Ma stava sopra una strada stretta e da nessun punto lo si poteva
vedere intero, che non fosse schiacciato dalla prospettiva o da altre
case. La facciata era sì orgogliosa, ma anch’essa tormentata dai secoli: scura, cespugli verdi avevano trovato di che vivere sopra gli scoli
rugginosi delle gronde, il grande portone mostrava la vernice corrosa
e le sfingi dei battenti anche loro mangiate dalla ruggine. Le finestre
dei primi piani avevano la consueta aria di ciò che è nobilitato dal
tempo, dal fatto che era già lì quando i nonni dei bisnonni giocavano
ai cerchietti e Luigi XVI pensava infastidito alla convocazione degli
Stati Generali. Ma più sopra, al di là di un consunto ballatoio, girava
attorno al palazzo una ringhiera, lasciando così poco spazio tra sé
e una specie di attico rientrante che più facilmente l’avresti detto
percorso dal fantasma della Perfida Contessa che non da uomini in
carne ed ossa. E il passante, alzando lo sguardo, era colto da perplessa curiosità.
Il portoncino laterale era aperto come l’Avoli doveva averlo
visto a magnificargli il bisogno dell’oscurità e dell’isolamento per i
suoi maneggi. Quando Tis lo varcò, vide subito, non distante, la porta
del fondo, un paio di biciclette e, in terra, la striscia del gesso che aveva segnato il profilo del cadavere e l’ultima sua impronta terrena.
Più avanti il cancello che dava sul cortile con le piante era
chiuso da una motocicletta coperta da un telo. L’umidità sull’ammattonato aveva favorito il crescere del muschio e chiazzato di verde lentamente anche i muri. Così, a Tis, la casa del nobile solitario
sembrò un palazzo semiabbandonato, di quelli difficili da mantenere
belli e puliti, che un po’ alla volta vedono andarsene o morire i vecchi
abitatori e che vengono riabitati da altri solitari, da famiglie di immigrati, o da gente che cerca le dubbie verità dell’Avoli con i materassi
ammucchiati per terra e il portone di casa dipinto di rosa.
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Ascoltando il rumore dei propri passi Tis saliva le scale. Chi
avrà la ventura di parlare con uno che è l’ultimo di una stirpe maledetta, condannata dal demonio a eterna solitudine, oggi che il male
assume forme così grandiose, numericamente vaste, volgari?
Cercò in se stesso paura, ma non ne trovò. Adesso che sapeva
il perché degli accaduti, gli mancava questa finale chiacchierata, poi
basta. Ecco Tis pronto a un confronto diretto e non mediato, con una
croce in tasca, una moglie lontana che non ne saprà mai nulla, sullo
scadere di un permesso a scuola, sullo scadere, anche, di ciò che è
stata la sua giovinezza. Dover dare un esame, l’ultimo atto. Poi non
ci penserà più.
Suonò il campanello. Il Conte in persona aperse la porta. Era
vestito di scuro, a Tis sembrò che sapesse del vestito preso a prestito.
La prima regola del gioco era rispettata e i due si salutarono con cortesia. Il Conte l’aiutò a togliersi l’impermeabile.
“Spero che non abbia oggi più paura di me di quanta ne avesse
giorni fa” disse. “Come ha trovato i miei documenti?”
“Da non crederci... Però ci credo.”
Il Conte era vecchio come la bella casa e le sue poltrone. Tis
vide che anche il suo vestito scuro era largo e cadeva un po’ dalle
spalle.
“Da non credere,” ripeté Tis “non so come guardarla.”
“Mi guardi senza timore. Vorrei che lei passasse una serata piacevole, e vorrei parlare un po’. Mi creda,” prosegui “ci sono... mostri
abbastanza domestici. Venga di là” disse ancora il Conte. “La precedo, così eviterà di doversi guardare le spalle.”
“Non mi permetterei mai” annunciò stupidamente Tis.
“Vede,” disse il Conte “per certi versi io sono... io sono stato
per un istante proprio quel che lei direbbe...”
“Un vampiro?” sospirò Tis infilando la mano in tasca.
“Esatto. A parte che... come dire? non temo il giorno, di notte
dormo in un letto, soffro di vari disturbi... e tutto ciò pare ridicolo
anche a me.”
“Questa storia è stata un delirio,” affermò Tis “di ridicolo c’è
poco.”
“Ho fatto anche il servizio militare,” continuò il Baldassarri
precedendo Tis in sala da pranzo “Bir El Gobi, la Tunisia... non ero
immortale, come lei già sa, né io né gli altri.”
La tavola era lunga e stretta, apparecchiata ai due estremi con
l’argenteria, i candelieri, i cristalli e dei larghi vassoi già colmi di
delizie. C’era pure un secchiello d’argento da cui uscivano i verdi
colli di due bottiglie di champagne. Nel camino ardeva la fiamma e
il tappeto pareva anch’esso incandescente. La stanza dava più sensazione di antico che di ricchezza, gli scarsi soprammobili erano messi
irrazionalmente in giro e sul tappeto troneggiava un brutto cesto di
vimini colmo di carte e riviste. Sulla parete c’era una larga e velata
stampa dei laureati dell’anno 1934, con una miriade di teste piccole e
attonite. E sotto questa, appeso incurantemente, Tis vide un quadretto con una striscia di mare e spuma, una striscia di cielo e un po’ di
spiaggia con un arbusto curvato dal vento.
“È autentico,” disse il Conte “è proprio un Fattori.”
Tis si avvicinò e fissò la pelle azzurra del cielo, emozionandosi
per quella limpidezza piena di vento che aveva cent’anni.
“Lo comprò papà” proseguì il Conte. Offrì un bicchiere a Tis
che non si staccava dal quadro.
“Prima di cominciare?” disse Tis.
“Sì.”
Il fuoco gettava la lunga ombra del Conte sul pavimento e fino
al pizzo della tovaglia. Tis guardò, e il Conte disse, rivolto al camino:
“Ogni cosa manda la sua ombra: demoni e vecchi conti anche. Lei
vuole divertirmi?”
“Non penso di divertire nessuno. Ho paura.”
“Le do la mia parola che non le accadrà nulla.”
“Grazie.”
“Di niente. Cosa crede che potrei farle? Vuole venire vicino a
uno specchio con me?”
“No grazie” ripeté Tis con imbarazzo.
“Mi ci vedrebbe riflesso, sa?”
“Lei chi è allora?” chiese Tis.
“Posso dirle chi non sono,” disse il Conte “non sono Mefisto-
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fele, non potrei offrirle felicità a nessun prezzo. Lei vede qui una
persona anziana con il vizio del fumo. Le cose che vuole sapere, lei
già le conosce.”
Tis tenne in mano il bicchiere dell’aperitivo senza sapere dove
metterlo.
“Vogliamo accomodarci?” Baldassarri gli prese dalle mani il
bicchiere e lo posò sulla tovaglia. Giacomo entrò e lo tolse guardando con disapprovazione. Mise altre bottiglie di cristallo con l’acqua,
e uscì.
“Siamo qui perché...” disse il Conte.
“Perché?” chiese Tis.
“Forse perché dopo mezzo secolo speravo che un giorno qualcuno mi accusasse. Magari volevo che qualcuno arrivasse da me a
chiedere conto dei miei antenati. Volevo difendermi... Dovere attaccare mi avrebbe distratto, reso più forte...”
“Nessuno, prima di me...?”
“Nessuno. E da lei non devo difendermi.”
“Chi gliel’ha detto?”
“Lei... lei non è venuto qui per accusarmi né per sapere la storia della mia maledizione. Lei è venuto per altro, credo.”
“Per cosa sono venuto?”
“Perché ci siamo cercati. Io per sollievo, e lei perché si è
precocemente stancato della vita e di questa vuole capire il suo
contrario: con me crede di poter scoprire una delle tante leggi della
morte.”
“Io sono venuto perché... ma adesso non so perché sono
venuto...”
“Lei è pieno di innocenza. Ma non vogliamo cenare? Quando
si comincia ad avere una certa età, molte certezze cadono e ci si innamora dei segreti del destino.”
“Stiamo facendo della retorica” disse Tis.
“Sì, certamente” consentì il Conte. “Tanta retorica. Ci accomodiamo?”
Posò la mano sulla spalla di Tis e lo guidò verso la tavola piena
di bagliori.
“A tavola mangio sul giornale” confessò Tis con ripetuta timidezza.
“Lo farei volentieri anch’io,” disse il Conte cortesemente “ma
ho un tutore noioso.”
Si sedettero. Baldassarri, con le mani sotto il mento, guardava
Tis fra le bottiglie. Prese da un flacone due capsule.
“Un moderno veleno per lo stomaco. Forse il fernet sarebbe
meglio. Ne vuole?”
Tis scosse il capo. Giacomo riapparve. Tis si accorse che era
vestito come in maschera: la faccia piena di rughe sopra l’abito nero
e la camicia plissettata col fiocchetto al collo, trasudava la stessa
soddisfazione di un veterano che, dopo anni, rimetta la divisa del
reggimento. Anche lui appariva vecchio: apparteneva al passato e
sembrava festeggiare la solennità di una cena con argenti e cristalli.
Baldassarri lo lodò. Tis disse frasi esageratamente complimentose. Il
Conte concluse che si sarebbero serviti da soli.
“Quando ne parliamo?” disse Tis. “Perché non ho più paura?
Perché ho fame?”
“Perché meravigliarsi, piuttosto? Non è triste cenare tra amici
senza appetito? Ci beva sopra e pensi che tutto è un sogno.”
Fu davvero un sogno. Gli antipasti dai mille colori che Tis
mangiò, come se da quando era solo avesse dimenticato quel tipo
di gioia. Il vino era troppo buono per il casuale bevitore che era lui:
profumava e brillava con le sue promesse di felicità e il ricordo di
antiche vendemmie. Chi aveva colto quell’uva era polvere e il vino
gli era sopravvissuto. Certo che era un sogno. Il Conte mangiava
anche lui, accendendo fra un piatto e l’altro le sue mezze sigarette.
Ogni piatto il suo vino, le temperature diverse. Ci fu un vassoio coi
tartufi bianchi d’Alba e quelli neri dell’Appennino: a questi si accompagnò il Barolo delle Langhe, 1964. A Tis sembrò di rivedersi tra
le montagne dove aveva fatto scuola e non riusciva mai a credere che
l’inverno fosse finito. In quegli anni riceveva lettere dalla moglie,
impostava le sue in cassette coperte di neve in strade strette, nei paesi
dove non esiste un vino che sia cattivo.
Il Conte in persona fece cadere sul suo riso le lamine sottili del
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tartufo, come la caduta di foglie chiare sulla ghiaia di un viale. Il profumo stordiva più del vino. Disse al Conte che da anni non vedeva
un tartufo. Il Conte rispose che un tartufo è assai più degna visione
di tante altre faccende umane, e Tis convenne. Nel solito argento
uscì dalla cucina il fagiano arrosto. Messo come se fosse vivo, con
le penne dorate composte ad arte fra funghi e patate lucenti, rappresentò il culmine della serata e Tis ancora lodò, si confuse, si schermì,
si servì.
Ma infine, come un treno che rallenti per la stazione e vi si
fermi, si guardò attorno. Non ebbe più voglia di mangiare e un primo accenno di torpore e di sonno si insinuò fra le bottiglie. Sebbene
non fumasse, accettò una delle mezze sigarette del Conte. Rifiutò il
dolce.
“A questo punto, ahimè” disse il Conte “ecco il momento in cui
si chiacchiera volentieri. Sebbene le nostre non saranno chiacchiere
allegre...”
“Siamo arrivati alla fine” disse Tis alle prese col fumo.
“No. C’è ancora da bere le cose migliori. Occorrerà brindare.”
“Occorrerà?”
“Direi di sì” continuò Baldassarri. “Cosa ha imparato frugando
fra la polvere?”
“Mi sono perduto. Ho avuto paura,” disse Tis, “ho avuto paura
di non capire più niente.”
“C’erano più cose di quanto lei credesse, vero, sotto il sole?”
“Parecchie.”
“Ma sono proprio queste che l’hanno colpita, e in fondo tutta
l’idea del buio, i mostri che possono entrare, il nostro vivere quotidiano che poggia mutabilmente sopra...”
“Sì.”
“Bravo giovane” ghignò il Conte con un’aria appena sarcastica, meno benevola. “E se avesse trovato qualcosa di meno pacifico
di me? Lei è la mosca che ha trovato il solo filo che pendeva da
un’immensa volta, e non ha saputo resistere alla vertigine di cercare
il ragno.” Lo fissò negli occhi. “Ci pensava che ne avrebbe potuto
trovare uno giovane, assetato, e non un vecchio, più stanco di lei
– continuò. – Ci pensava? In questo mondo i Baldassarri non sono
gli unici, né i peggiori.”
“Signore,” citò con palese non senso e ubriachezza Tis “io ero
libero fra tutti i tuoi fiori ma scelsi le tristi rose di questo mondo...”
“Le tristi rose...” disse il Conte. “Ma nessuno sceglie nulla, sa?
Né lei le sue rose né io le mie. Se ne freghi della morte, guardi: viva
tranquillo, fugga con una ballerina. Lei non è originale, neanche la
sua incoscienza, le sue croci, la sua stessa innocenza...”
“Lei invece è colpevole?”
“Di che?” Baldassarri ebbe uno scatto nella voce. “Di che? Io
non ho chiesto nulla. Non ho avuto vantaggi, non ho avuto lusinghe,
sono invecchiato con una maledizione da portare alla fine in mezzo
a gente che andava al mare in vespa e cantava canzoncine. Io sono il
dinosauro sopravvissuto nella foresta impenetrabile. Pensi che vita:
l’ultimo di una specie. È arrivato lei e crede di capire tutto.”
“È lei che deve farmi capire.”
“Non c’è molto da capire, né da sapere.” Cambiò discorso: “Mi
permette di brindare alla sua signora?”
“Le permetto. A mia moglie, donna maligna” disse Tis.
“Pare che non potrà farne a meno.” Il Conte dall’altra parte del
tavolo versò il vino come se si divertisse.
“Non ne so fare a meno,” disse Tis “ho anche un figlio, che
devo fare? Mi ci vede in una comune?”
“Certamente no” fece il Conte.
“Non ce la faccio più a mangiare,” proclamò Tis “e bere
basta.”
“Diciamo tutti così. Andiamo avanti, per una sera.”
“Guardi, lei che può tutto, mi faccia passare l’effetto del vino e
mi racconti, perchè io per questo sono venuto” concluse con una certa solennità. Persino l’elegante Baldassarri sembrava adesso un po’
scomposto, un’idea appena: il colletto allentato, la cravatta gualcita.
“Ma è meglio davvero farlo passare, l’effetto del vino?” suggerì a Tis. “Facciamo un po’ di scena, un tribunale... Io sono l’ultimo di
una disgraziata famiglia, l’ultimo. Mia figlia perderà questo cognome. Su quel che significhi chiamarsi come me, la sua anacronistica
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passione per i documenti le avrà già detto abbastanza... Mi creda,
quando secoli fa qualcuno abbatté degli argini, irruppero cose che lei
non immagina neppure. Da allora, una volta almeno nella vita uccidiamo e una volta nella vita generiamo. Il simbolismo è anche troppo
evidente: fummo costretti a dare e togliere vita in un crescendo di
stanchezza e, alla fine, come una sorta di meschino dovere, come la
schiavitù inevitabile di un vizio. Noi abbiamo molto sofferto.”
“Noi?” chiese Tis. “Noi, chi?”
“I Baldassarri sono una vecchia famiglia” rispose il Conte.
“Ancora le ripeto: non gli unici né i più cattivi.”
“Mi dica il nome dell’altro contraente” disse forte Tis. “Chi è
stato il padrone, il creditore... Lo chiami come vuole ma lo dica.”
“Ma io non lo so,” rispose il Conte pacatamente “non credo di
saperlo. E dargli un nome che senso avrebbe? Lei immagina questa
storia in termini che non sono i suoi. Non c’è un padrone da chiamarsi con un nome.”
“Come, non c’è?”
“Oh, io non so se ci sia. Non credo. Questa storia non è stata
per me come lei l’ha pensata. Non c’è stato romanticismo, non è una
storia gotica. Non a caso anche lei ne è stato protagonista, lei che
adesso cerca un padrone, un demone, una colpa. Lei mi accusa?”
“Sì...”
“Veda. Un professore di lettere che costruisce aeroplani viene da un anziano possidente e lo accusa di un delitto, di una magia
nefasta, non so. Lo chiama con un nome, fra poco gli chiederà se sa
trasformarsi in pipistrello... Cosa le pare?”
“Una follia,” disse Tis “un po’ comica...”
“I miei antenati ebbero qualche soddisfazione da questo destino. Avevano poteri, certo. Tutte cose che si sono perdute un po’ alla
volta, per mancanza d’esercizio o per distrazione. Appartenevano,
diciamo così, a un’età superata. In principio credo che fosse diverso.
Adesso non lo è più: io e lei siamo uguali.”
“Io non ho ucciso nessuno...”
“Lei è un uomo giusto.” Il Conte si versò del vino e accennò
verso Tis: “Ma vede, noi non fummo mai immortali. I miei antenati,
le dicevo, ebbero qualche vantaggio, qualche ebbrezza, la signoria
della notte. Immagina?”
“Immagino” disse Tis.
“Fu possibile prolungare la giovinezza col sangue. Ci provarono, ma non era per sempre. Prima o poi venne la stanchezza e
fortunatamente la libertà di morire non ci era negata. Di questa concessione approfittarono tutti, una volta pagato il prezzo. Con me è
finita. Per sempre. Tutto il debito è stato pagato.”
“A chi?”
“Non lo so” disse il Conte.
“Non lo sa?”
“No. Quando quel primo delitto di cui lei sa venne compiuto,
uccidere divenne inevitabile come il generare. Uccidere portava anche vantaggi. Ma già da tanto il dovere è stato assolto col minimo,
con molta sofferenza. È tutto finito.”
“È stato il destino?”
“Lo chiami come vuole. Al mondo succede ben altro che questa povera maledizione dei Baldassarri, le sue letture non glielo insegnano?” chiese il Conte.
“Io sono un pover’uomo,” disse Tis “ma lei cosa ha più di me?
Lei sa fare... Lei dovrebbe sapere...”
“Lei pensa a vortici oscuri, ai morti viventi. Io ho un letto normale” disse il Conte “e ci dormo tutte le notti, per quel poco che
dormo. Se non dormo prendo il Valium... Però qualcosa c’è. C’era.
Poteri abbandonati, andati perduti. Quasi tutti erano legati a una visione del mondo, come dire?, démodée, aristocratica...”
“Lei saprebbe trasformarsi in pipistrello?” lo interruppe Tis
pensando ai film che non sarebbe più andato a vedere (gli sembrò
di aver già fatto quella domanda). Giacomo entrò con una bottiglia
ancora appannata per il freddo.
“Lei è laureato in Lettere” rispose il Conte “ma non scrive madrigali. Volendo, forse, lo potrebbe fare... Questo vino è un po’ diverso. È migliore.”
“Lei mi prende in giro.”
“Dio mi guardi” negò fermo il Conte. “Vogliamo fare ancora
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qualche brindisi?” propose. “Ha gradito la cena?”
“La migliore della mia vita, se ci sarà un seguito.”
“Forse dovrei ucciderla” disse il Conte facendosi appena sentire. “Ma lei avrà preso le sue precauzioni.”
Tis estrasse con qualche impaccio il crocifisso di plastica e lo
parò all’aria, senza sapere che farne.
“Vede?” disse il Conte divertito. “Mi consentirà di non indietreggiare facendo smorfie. Bevo alla sua salute. Provi questo vino:
non starà male, stasera. Glielo prometto.”
Il vino scese giù e Tis sentì allarmato un brivido, e una vertigine rispondergli.
“Cos’ha questo vino?” chiese al Conte.
“Non tema. È una piccola magia.”
“Non bevo” disse Tis.
“Beva,” ordinò il Conte “avrei potuto farle del male già prima,
non crede? Lasci che mi esibisca un po’. Pensiamo a una primavera
lontana, non vuole?”
“Non ho capito.”
“Coraggio. Beva, adesso.”
Tis bevve un sorso di vino gelato e chiuse gli occhi: apparve
il corridoio di una casa ora distrutta che subito riconobbe. Passò suo
fratello con i calzoni corti, il volto degli undici anni, la giacca e la
cravatta con l’elastico. Era pettinato con la riga, i capelli tirati e lucidi d’acqua come li pettinava la nonna la mattina della festa. Suonavano le campane, evidentemente era domenica. Tis sentì il fratello e
la nonna che lo chiamavano. Un pettine gli passò fra i capelli, riconobbe la mano come se fosse viva. Il fratello gli venne vicino. Sentì
le voci di venticinque anni prima.
Allora aperse gli occhi e le lacrime indegnamente gli caddero
sulla cravatta.
“Perché mi fa questo?” chiese al Conte, senza voce.
“Mi perdoni,” disse il Conte “beva ancora.”
Tis bevve ancora, senza pensare, e si trovò in un’altra primavera dentro l’aula del Liceo. Il professore di filosofia, quello che morì
l’anno seguente, diceva che chi sa di non sapere è saggio. Fuori della
finestra sventolava un pesce d’aprile appeso al palo della bandiera.
Certo: in quel giorno avevano rotto due fialette di gas lacrimogeno
garantito. Ottimo prodotto, infatti: nella classe tutti piangevano serenamente. Il professore con vasto fazzoletto in mano spiegava Socrate
con dignità, anche lui lacrimando come se niente fosse. Le finestre
erano tutte chiuse e nessuno avrebbe osato aprirle. Tis ricordò. Il professore di filosofia, allora, con tutta la classe, sbiadì e disparve.
“Cosa ha visto, adesso?” chiese il Conte.
“Altre lacrime,” rispose Tis “una lezione di stile. Bevo a chi
non c’è più.”
“Salute,” disse il Conte “beviamo al passato.”
“Cosa ha voluto dirmi?” chiese Tis senza guardare.
“Niente,” rispose Baldassarri “niente. Un po’ di vita che è trascorsa. E non ho molto d’altro nel repertorio... Ma mi lasci dire ancora una cosa banale. C’è qualcosa sopra di noi, io credo, contro cui
non si può niente. Non è Dio...”
“Che cos’è?” chiese Tis.
“È una cosa che non dà spiegazioni” rispose il Conte. “Forse
è una statua di pietra e contro di lei si abbattono le nostre ridicole
bufere, le tempeste...”
“Anche lei ha bevuto” disse Tis. “Ancora retorica...”
“Io sono vecchio. Perché crede che la mia vita sia stata avvelenata da una maledizione? Lo chiedo a lei, io non lo so. Sono
stati quattrocento anni di pene. Il male non mi ha dato nulla, è stato
un dovere. Lei capisce che al nostro secolo si addiceva il delitto di
massa: uccidere una sola persona è stato orribile.” Il Conte bevve dal
bicchiere. “Ancora un sorso?”
“Ho paura di quel che vedrei.”
“Ancora un po’ di questa varia vita. Vedo che lei non è ancora
sazio di sapere” continuò il Conte come leggendogli dentro. “Venga
con me. Beva da quel bicchiere.”
Tis finì il vino. Il sapore era diverso. Aveva un che di irreparabile, di pericoloso: come il veleno che il suicida mandi giù di colpo
dopo lunga e notturna meditazione. Davanti a lui camminava il Conte, in piena oscurità. Dove stavano? In una cava, in una miniera? Nel
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buio crescente un’ombra gelida saliva incontro. “No,” urlò “no. Non
voglio.”
Come se si svegliasse guardò la tavola. Le candele che si erano
abbassate ripresero a brillare.
“Non mi faccia fare il mago,” disse il Conte “abbia compassione del tempo che è passato. Mi risparmi questo odioso repertorio: la
mia stanchezza è enorme. Finisca il suo vino. Non vedrà più nulla.”
Bevve e ascoltò i vetri tintinnare per il vento. La strada, la
Piazza, la città, la valle verso l’Appennino, tutto investiva il vento.
Ma Tis era sopra una nuvola persa e viaggiava per lontane pianure,
dove non c’è perché per quel che accade.
“Pensi quanto tempo” disse il Conte. “Anni su anni di questo
buio del cuore che solo adesso se n’è andato... Sarà come togliere
cenere da pochi libri. Non è rimasto molto. Vuole dare un’occhiata
al futuro?”
“No.”
“Non sarà brutto, vedrà. Anche se lei ha già le sue brave
ombre.”
Il Conte s’era alzato e fece cenno a Tis verso le poltrone. Lui
andò alla finestra. Guardò nella strada. Tis si alzò: la testa non girava,
ogni cupezza era scomparsa, le ginocchia erano salde, il vento correva per le vie. Guardò di fuori e vide che la luna splendeva nel cielo
limpido, sopra il profilo dei tetti. Da un abbaino veniva luce come
in una scenografia dell’Ottocento: in un dicembre di cent’anni fa, in
una soffitta di Parigi, Mimì perdeva la chiave della stanza. Amore e
poi morte. Si lasciò cadere in una poltrona.
“L’amore,” disse il Conte quasi cadendo nell’altra “l’amore
nelle soffitte, la giovinezza... Ho bevuto anch’io.”
“Non è onesto leggermi nel pensiero” lo ammonì Tis alzando
un dito come a scuola. La mano pesava, il fuoco ardeva nel camino.
Ah, i tetti di Parigi!
Entrò Giacomo con in mano una bottiglia polverosa, bicchieri
napoléon, un sorriso di benessere.
“Questo” disse il Conte “è il vero miracolo di questa sera: viene dal 1815. La vera magia... E questo, se permette, è il regalo per
lei: il cognac dell’imperatore. Berremo con lei, se ce lo permetterà,
perché forse anche noi meritiamo un sorso di questa bottiglia. Coraggio, Giacomo.”
Tis si sentì confondere e guardò la bottiglia immaginando gli
ussari a Fontainbleau, la disamata Maria Luisa, la sera di Waterloo, il
gran fiume della vita e tutte le balle degli ubriachi. Scese quindi nei
bicchieri il miracolo di ottobre.
I tre uomini bevvero e una grande felicità calò nel cuore del
professore: non era sogno, chissà cos’era, ma grande divenne la fiducia nel domani e fu facile pensare a tenere cose: la neve, il bambino
sulla bicicletta nuova, il gatto orgoglioso ammesso a dormire sul letto del figlio la sera di Natale. Perché angosciarsi? Sembra davvero
che quel che si vive non sia nuovo per nessuno e molto sarà anche
bello, di quel che passerà sotto il sole.
“È magia” disse Tis.
“È magia” convenne il Conte. Giacomo si ritirò.
“Vorrei brindare alla sua cortesia, con questo cognac dell’imperatore... 1815: nessuno ci crederà mai.”
“Nessuno crederà a nulla, e lei non parlerà” disse il Conte.
“Anche questa è magia: un poco alla volta dimenticherà queste cose.
I documenti che le ho fatto trovare sul tavolo non ci sono già più...”
“Come!” esclamò Tis. “Pagine e pagine...”
“Siamo ben passati in questi secoli grazie a qualcosa” disse il
Conte. “Non è difficile far sparire delle carte: la polvere se le riprende come già farebbe, solo un po’ più in fretta. È poca cosa.”
“Ma il perché, me lo dica” chiese ancora Tis, metà lucido e
metà svanito. “Qui lei uccide uno tra festival e motorini...”
“Lei è proprio ostinato” disse il Conte. “Che vuol sapere, ancora? Se avessi dovuto esserle davvero nemico poche mura avrebbero
potuto proteggerla. Le ripeto, non so nulla... Noi oggi non crediamo
più né al bene né al male, e per questo forse non capiamo. Ma il primo Balthasar, lui sì. Lui ci credeva, e con forza, al bene e al male. Al
male si rivolse sapendo quel che sceglieva...”
“Lei dice che dimenticherò” chiese Tis, “la cena, il giovane
Avoli, questi giorni?”
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“Lei ha già cominciato a dimenticare. E il suo amico, che adesso è a cena a Mestre, già si chiede da cosa è fuggito.”
Il vento suonò ancora sui vetri e il fuoco si rianimò. Dalla strada venne il rumore della serranda della pizzeria che stava vicino al
palazzo.
“L’ultimo” propose il Conte. Versò appena nei bicchieri. “Vogliamo bere alle nostre solitudini?”
“Salute,” augurò Tis “alla sua.”
“La sua invece non durerà” disse Baldassarri. “Al suo futuro,
lei che ne ha uno.”
“Al futuro.”
“Era davvero l’ultima goccia,” disse il Conte “alla mia età del
resto non potrei.”
Si era alzato con forza e aveva lasciato Tis a bere. Passeggiò
davanti al camino con le mani dietro la schiena. “Il futuro, il futuro...” continuò a mormorare. Davanti alla finestra vicino alla porta
si fermò a guardare la strada. Passò la mano sul vetro appannato e
sospirò. Tis vide che disegnava qualcosa sull’altra lastra, prima di
ritornare.
“Ora toccherà alzarsi” fece Tis. Si trovò in piedi anche lui, allargò le braccia senza sapere che dire.
“L’accompagno alla porta. L’inverno sta arrivando, ma la sera
è calda.”
“C’è garbino” annunciò Giacomo che era apparso con l’impermeabile e la sciarpa di Tis.
“Non so che dire” ammise quegli.
“Vogliamo dire che questa storia si perde nel silenzio?” propose Baldassarri. “Giacomo la luce delle scale. Arrivederla, addio”
disse poi.
Gli occhi di Tis caddero sulla finestra dove pochi istanti prima
il Conte s’era fermato. Con vista più acuta del prevedibile lesse sul
vetro appannato:
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noctis cognovi
labem et
redemi sanguinem
UB
Le lettere già colavano e si cancellavano in acqua leggera.
“Addio”, disse allora stringendo la mano del Baldassarri. Si
voltò e cominciò a scendere le scale.
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CAPITOLO XXIV
Il signore delle situazioni letterarie e degli ubriachi guidò Tis
per le strade dove il vento s’ingolfava cercando le vaste aperture del
mare. Questa città, col suo vivere e il suo intrico di strade, i suoi
abitanti rintanati e quelli intenti nella notte al poco amore consumato
dimenticando rancori e arrabbiature, questa città era l’ultimo ostacolo che il vento incontrava prima di perdersi sopra l’Adriatico.
In questo, pensava Tis, anche il vento come il poker imita la
nostra illusa esistenza: si impiglia nel piacere e nel dolore e poi scompare dove nessuno lo sente più, nel gran buio del mare e della morte.
Perché sebbene Tis sia allegrissimo, è ben consapevole della verità
che il cognac dell’imperatore, e prima il suo padrone, e prima ancora
il giovane Avoli, gli sono andati rivelando, cioè che pur nell’euforia
della magia del cognac, è la morte che si trascina i nostri destini. È
lei la più importante regina.
Forse, a ben guardare, la si potrebbe riconoscere in una figura
sotto i lieti portici della piazza. Ciò nonostante meglio non girarsi,
perché la chiamata è certa ma forse non prossima, forse addirittura
lontana, e a Tis nessuno nega l’effimera felicità piena di vento di
questa sera.
Così, col peso del cognac in tasca, cammina infine libero verso
la fontana dove una sera fu sfiorato dai giochi del morituro Avoli.
Basta passare davanti alla questura, ed ecco la Piazza: mulinelli del
vento, due bar, la fontana, tre o quattro giovani e giovinastri nel portico, l’orologio delle Poste alle spalle. Questa è piena felicità: il corpo è leggero, forse sul serio Tis ha già cominciato a dimenticare. Se
davvero c’è una figura fra i portici che lo guarda, Tis non la vede e
imbocca la via Rossini.
All’incrocio c’è il collega Gladioni, contornato da ragazzini
incollanati: a larghi gesti Tis lo saluta. I palazzi nella stretta via, le
case, le vetrine, i balconi, sono immersi in una luce verde e serena.
Ci pensate: i lunghi silenzi dell’inverno, le lunghe notti che si passeranno a parlare fra queste vie di ciò che non si ha. Lontano e gelido il
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mare si romperà a riva e riempirà di salmastro le costruzioni allusive
che la sezione culturale del comune disperse per il lungomare.
Felicità, pace, riposo.
Ecco per la via comparire alcuni di quelli che le notti di vento
non mancano di chiamare per le strade della città. Ecco il funzionario di partito che corteggiò il movimento e ora sembra stancamente
rifluire; ecco colui che negli anni Sessanta amò riamato: sempre ne
parla e fantasmi di donne del nord lo seguono nella notte rimproverandolo silenziosamente; ecco il meccanico dai capelli rossi che
esce dal motoclub; ed ecco anche finalmente una donna: ma è alta e
magra, è pazza a detta di tutti. Passa sorridendo, Tis la saluta.
Davanti al duomo beve un sorso del cognac dell’imperatore.
Perché sembra che tanto tempo sia passato? Da quando apparvero
quei fogli insoliti nei documenti dell’Archivio di Stato, meno di due
mesi sono trascorsi. Le sere allora erano lunghe e adesso il buio si
prende ancora un po’ di luce. Ma Tis già pensa al solstizio d’inverno
non lontano, poi alle piogge primaverili, ai profumi che riempiranno
l’aria. E alla prossima notte di garbino già ci sarà chi s’illude, già si
sogneranno vacanze, la morosa di Londei partirà ancora a rintracciare superficiali amicizie. E una mattina, miracolosamente, vedremo
sulla spiaggia segni di attività, bagnini con le giacche a vento che
stuccano e verniciano. Così saremo di un anno più vecchi.
Ah, il cognac dell’imperatore!
Autotreni sfrecciano sulla nazionale. Tis l’attraversa diretto al
mare. Il vento lo spinge alle spalle, la serata è propizia a sagge meditazioni e nottambuli in coppia seguono i marciapiedi dei viali. Saluti,
saluti. Ferma nel vento, ecco la Palla di Pomodoro. Tonda e rientrata,
informa il volenteroso sul nome dei militari, sui loro amori. Né mancano esortazioni a far questo e quello, ci sono rime e persino numeri
di telefono. Ma qualcuno li chiamerà davvero?
Tis siede sulla panca con le sfingi, sono decenni che lo fa. Fra
i piedi rotolano pezzi di carta, buste di fotografie e l’inevitabile siringa. Dov’è Londei? Lui non c’è e non berrà di questa delizia. Tis
beve. Ma da domani basta, certamente.
Poche settimane fa cominciava questa storia. Ma se il vento
avesse occhi vedrebbe, adesso, questo professore di spalle nel mezzo
della panchina con le sfingi, che beve e rimette la bottiglia in tasca
come per nasconderla. E questo è quanto resta. Che altro si potrebbe
vedere? Delle carte d’archivio, dei documenti scomparsi o il giovane
Avoli per sempre rinchiuso che nessuno guarderà più?
Viene facile dire, pensa Tis, che è stato un sogno. E poi quell’altra cosa, come disse al Conte, che questa è stata la sua grande
Avventura, ma che non potrà mai raccontarla a nessuno, e che, gira
e rigira, pare che la giovinezza sia veramente finita con questa sera.
Come la storia tutta intera. Intanto occorrerà finire il cognac dell’imperatore e godersi il silenzio. Infatti nessun rumore è attorno. C’è
soltanto il vento che soffia controsenso sul mare, verso il largo, e le
onde vanamente cercano di andargli dietro.
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(Gennaio-Ottobre 1979)
FINE
INDICE
Capitolo
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Capitolo
Capitolo
Capitolo
210
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XIV
..........................................................
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17
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165
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