1 INTRODUZIONE

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1 INTRODUZIONE
INTRODUZIONE
Questo che leggerete è un racconto personale dell’autore che ha voluto
descrivere i momenti salienti della sua vana esistenza. È una storia alla quanto
tragica ma pur sempre emozionante, per la sua capacità di saper interpretare una
vita realistica, proprio come in un sogno ricco di situazioni imprevedibili e misteri
suscettibili.
E
ra ormai mezzogiorno di quella domenica del 5 settembre 1982, quando il
chiarore della luce del sole penetrava oltre le finestre di un ospedale,
mentre io stavo nel buio, stretto e rovesciato a testa in giù, immerso in un
fuoco candido di liquido e sangue e sostenuto da un cordone attaccato al ventre,
che univa il mio respiro a quello di mia madre. Da dentro sentivo urla, sospiri e
una forte pressione che voleva rapirmi per farmi uscire dal mio nido più quieto.
Giunse così l’ora della mia nascita della carne e del tenebroso spirito, ammaliato
già dai dolori di parto della mia povera ma felice mamma.
Un pianto forte che mi attraversava la gola diede immensa gioia ai miei più cari
familiari, i quali ebbero subito notizia della mia sessualità. Mio padre, infatti,
aveva da sempre sperato sull’avvento di un figlio maschio, unico erede della sua
generazione. Da questa gradevole sorpresa, dopo un elevato sospiro, le sue
gambe cedettero per l’entusiasmo ricevuto e con le lacrime agli occhi, ancora
incredulo, svenne con passione cristiana.
Fra tavole imbandite e coppe di champagne, del vecchio locale di una trattoria,
ereditata da mio nonno, iniziavano i festeggiamenti più lustri, come quasi a un re
che aveva conquistato la terra. Fu proprio lì che ebbi il battesimo spirituale,
davanti a un esigente sacerdote che, con maestria, prese un libro e piazzandomelo
davanti, mi tirò un orecchio come per sgridarmi di non saper leggerne il testo.
Ero frastornato da quei lungimiranti baci e abbracci che mi tiravano da destra a
sinistra, come se qualcuno dovesse ricevere un premio, strappandolo da mano di
altri. Mi ritrovai alla fine sopra di un letto matrimoniale con un visino rosso per i
lividi dei pizzicotti che i compari di famiglia usavano sulle mie tenere guance. Le
notti passavano tra il silenzio di un cimitero, distante la casa dei miei genitori, e
dagli abbai dei cani nella campagna di un vecchio cacciatore che viveva dall’altra
parte della strada. Una notte però, ci assentammo di casa, riuniti in un’automobile
che attraversava le vie più misteriose della città, nemmeno un palo luminoso c’era
che poteva dar luce alla strada di quei lunghi e stressanti viaggi che mio padre
prometteva a tutta la famiglia, paragona doli a quelli di una vacanza di benessere
per stare meglio insieme. Nel frattempo dei loschi ladri di quartiere misero i piedi
nella stanza, cui in un cassetto era conservata la collanina d’oro, regalatami al
battesimo. Con agile veemenza la nascosero nelle loro tasche già imbottite d’altri
oggetti preziosi, per poi scappare silenziosamente per le strade più deserte.
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Passavano i giorni e iniziavo man mano a conoscere ciò che mi circondava e mi
tratteneva, era quella voglia di vivere ciò che possedevo, mi sentivo un libero
professionista sul quale potevo dirigere i miei sentimenti più forti, manovrare e
comandare tutto ciò che mi teneva in vita, dando la mia anima per giocare con la
possente e meravigliosa realtà vitale di quei giorni. Ero travolto da quelle logiche
emozioni di essere presente a tutto e di stare bene fisicamente, con la mente e
con lo spirito. Insieme con me però, a farmi compagnia o per meglio dire a
inquinarmi l’aria libertina, c’erano due sorelle, Margherita la più grande e Dora, la
seconda più piccola. Il nostro rapporto era come sovrapposto all’amicizia,
eravamo quasi stenti ad amarci per via di liti egoistiche, incomprensioni fraterne
e, talvolta, per burrascosi dispetti che piaceva fare loro su di me. Vivevo dunque in
quella situazione, dove maschi con femmine non andavano sicuramente
d’accordo, nello stile di vivere, insieme, quella fase di crescita che porta a una più
complessa maturità.
D’altra parte, invece, viveva in loro come uno scambio di personalità, dove a volte
sembravano più giuste nei miei confronti e nelle altre di meno. La notte, ad
esempio avevo una forte paura del buio, pensavo timorato che da qualche porta
di una stanza nella cameretta potesse presentarsi qualche spirito maligno. Per la
paura restavo sino alle tre di notte a vegliare accanto al letto di una delle mie
sorelle, fin quando mi decidevo a svegliare una di loro per chiederle il favore di
coricarci accanto. La seconda, Dora, che ne aveva pietà, doveva rassegnarsi a
farmi spazio nel suo piccolo lettino, poiché Margherita, la prima sorella, era
sfacciatamente involontaria alla richiesta. La mia infanzia fu ponderata sulla paura
e sul pianto. M’ingelosivo persino delle mie sorelle, dei miei cugini, di ciò che
facevano, di come si comportavano, di cosa possedevano. Purtroppo i miei inutili
pianti restavano col finire fuori a un balcone di casa e tutte le persone che
passavano per la strada di sotto ne avevano pietà, criticando di volta in volta mia
madre che mi ci chiudeva per non sentire le mie lamentele, invece di trovare un
modo migliore di considerare la giusta soluzione al problema. Dopo alcuni istanti
del mio incomprensibile pianto, di un tratto, mi sentivo avvolto dal dolce cullare
delle braccia di mio padre, appena tornato dal lavoro che, con pietoso ma sereno
sguardo, mi trasmetteva quell’attimo di gioia, reso importante da un nutrimento
amoroso che ogni bambino necessita nella propria vita.
Dopotutto, la mia crescita diveniva sempre più ottimista, come quando
infastidendomi per le mie sorelle che alzavano la voce per litigare tra loro o
quando mio padre aveva intenzione di picchiare mia madre ed io con la scopa in
mano facevo per difenderla. Ciò che più sentivo dentro il mio cuore era il forte
sentimento d’amore che provavo per la mia famiglia. Un giorno mio padre
scavando tra le scatole dei vecchi oggetti, che usava da giovane, tirò fuori
un’agendina della quale io subito m’interessai a possedere, ma vedendo le lacrime
di mia sorella Dora scivolare sul suo viso, come per la perdita di qualcosa di valore
importanza, mi resi conto che ciò che si poteva desiderare era la sola felicità di
una parte di me. La triste sorte volle che di quell’agendina ne dovesse rimanere
solo un inutile ricordo buttato in un cassetto senza che nessuno di noi l’avesse mai
aperta.
Sin dalla prima adolescenza la mia emotività, seppur intelligente e con un forte
carattere, la esprimessi in maniera timida, introversa, impacciata. Ero molto
curioso di portarmi a sempre nuove scoperte, ma fu proprio in quel periodo che la
mente mi offuscava il cervello di pensieri disordinati da espressioni mistiche, da
illusioni immaginarie, le quali mi portarono a subire alcuni tic nervosi, che riuscii a
risolvere, fortunatamente, in tempi più maturi.
Mi restava comunque, per molti della famiglia, l’immagine di un erede maschio
appartenente a una sorte di regime, qual era il ristorante Zi Ferdinando della città
di Gragnano, in provincia di Napoli. Tale locale vedeva la professione lavorativa dei
miei zii, dei miei nonni e di altri parenti. Mio padre, insieme ai suoi tre fratelli,
aveva il compito di gestire il locale tra cucina, forno, sala e mansioni di pulizia. Nel
1989, dopo la morte di mio nonno Ferdinando, il locale iniziò una degna
ristrutturazione di ristorazione ed anche con l’entrata in campo di alcuni simpatici
camerieri. Tra loro c’erano due di buon cuore. Il più anziano di loro, detto
Ugariello, era diventato da subito per me vero e proprio padre modello, pieno di
rispetto. Appena era giunta l’ora di pranzare mi prometteva che se io avessi
mangiato tutto il pasto mi avrebbe dato dei soldi guadagnati con le mance dei
clienti, ma con il suo buon cuore, unico al mondo, rispettava la parola “data”
anche senza che io finissi il pranzo. L’altro, più giovane, si chiamava Maurizio, era
un gran simpaticone, allegro e anch’esso generoso. Possedeva una griffata vespa
bianca che usava per uscire a lavorare nel locale di mio padre. Ogni volta che ci
s’incontrava, era una vera gioia, con i suoi occhi azzurri come il mare e il sorriso
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ammiccante, trasmetteva in me il gusto di quella positiva e tanto aspettata
amicizia. Le lunghe passeggiate in sella a quella vespa dove io restavo davanti, con
le mani poggiate sul manubrio, mi facevano ammirare i luoghi più affascinanti del
quartiere, travolto da quella soffice brezza di vento che mi sfiorava leggermente il
viso. Era sempre continuo ripetermi, ogniqualvolta, una frase che per lui era un
motto reso da un suo scherzoso dubbio, qual era “possedere le donne o vivere
nella speranza di poterle solo immaginare?” Fu proprio quella domanda che mi
spinse a capire fino in fondo cosa mi sarebbe costato di più nella mia vita futura.
Si dice che la vita è bella perché varia, d'altronde esistono amici buoni e amici che
ti rovinano. Amici di quelli che ti entrano in casa senza nemmeno dire permesso o
ci conosciamo. Amici che fingendosi quelli di cuore ti tradiscono poi con l’inganno.
Amici, insomma, sinceramente falsi. Avevo molti amici nel mio piccolo vialetto,
alcuni avevano frequentato la mia stessa scuola, altri abitavano nei pressi della
mia casa. I nostri non erano giochi di divertimento sociale, anzi il contrario. Non
ero gradito nelle loro abitazioni, organizzavano di fare scherzetti ai citofoni dei
palazzi con l’infamante criterio di incolparne me. Qualcuno si divertiva a defecare,
come le galline, in mezzo al giardino dei propri zii. Per altri ancora ero messo fuori
dal gruppo, dai giochi. Solo al momento in cui organizzavo qualche cenetta da me
al ristorante, si prestavano a correre tutti, senza farselo dire due volte, per finire in
bellezza senza pagare. Da me veniva ogni tipo di persona dal carattere strano, in
particolare qualcuno arrivava addirittura a chiedermi di fare del sesso tra ragazzi,
in cambio di un giro in bicicletta. Di solito tra persone, anche adulte, ero
intimamente costretto a improvvisare delle smorfie facciali, che rappresentavano
la bellezza e lo schifo, o anche movimentarmi su balletti cretini e stupidi versi con
la bocca.
Finalmente giunse il momento di andare a scuola, il mio piacere più intimo della
giornata cominciava con il mattino presto, una profumata cioccolata calda che la
mia mamma mi serviva a letto, mentre guardavo fuori dal balcone i primi uccelli
che volavano, il fresco sole del tramonto, il celeste sfondo del cielo e tutti i
meravigliosi suoni della natura mattutina. L’indossare di quel grembiulino blu mi
dava la sensazione di andare a lavorare per qualche fabbrica e con dietro quel
pesantissimo zainetto che mi raddrizzava la schiena e m’indolenziva le ossa.
Passavo le mie giornate chiuso in quell’aula come se fossi in un carcere pieno di
ladri e buffoni, scellerati e svogliati. C’erano però anche i momenti più piacevoli,
dove seduti sul banco con foglio e penna in mano, guardando fuori dalla finestra
quella lieve pioggerellina che batteva sul tetto, mentre noi alunni scrivevamo le
storie che la maestra ci aveva appena letto, proprio come una mamma racconta la
favola della buonanotte a suo figlio. Spesse volte la maestra metteva in prova la
nostra abilità di saper descrivere fantasticamente le nostre qualità emotive, frutto
di esperienze vissute e conoscitive della nostra vita. Per il mio modo sincero che
possedevo nell’esprimermi, riuscivo a completare il tema solo raccontando la
verità del mio vissuto. Questo non era gradito dai maestri né tantomeno dai miei
familiari che avevano timore che io potessi rivelare qualcosa d’imbarazzante.
Dichiarare la verità per me era un vero e originale segno di saper comunicare cosa
realmente desideravo, chi ero veramente e capire quale miglior racconto fosse
stato scritto nella mia esistenza, che nessuno mai sarebbe riuscito a conoscere
meglio. A scuola, infatti, nonostante la mia fredda timidezza, ero un tipo molto
scherzoso, mi piaceva divertire i miei amici con battute ironiche, imitazioni e burla
fatte ai professori. Il mio scopo non era solo quello di far ridere ma anche di
sedurre, come una persona speciale sa fare, alcune ragazzine che mi piacevano,
senza avere il coraggio di presentarmi a loro in modo più diretto.
A tal proposito voglio raccontarvi di quando alle scuole materne, seduti ai tavoli
della mensa, accanto a me occupava il posto, una splendida bimba dagli occhi
azzurri e limpidi come l’acqua dolce e dai capelli profumati di color biondo.
Eravamo circondati da una mista classe di ragazzini che consumavano la loro
pastina, la quale molti trovavano disgustosa e condizionatamente, per vie delle
suore orsoline, doveva riuscire a finire. In un istante io e la bimba, mossi da un
sesto senso, ci girammo come attratti a fissarci negli occhi, mentre dopo un attimo
nacque dentro di noi un coinvolgimento di passione innata che ci spinse a unire,
come due già innamorati, le nostre piccole ma morbide e profondi labbra. Dopo
quel bacio, durato appena qualche secondo, tutti si misero ad applaudire, come
porgendoci i loro più graditi auguri per un nostro sospettato futuro insieme.
Durante la mia prima adolescenza ero spesso propizio, ma anche coinvolto, ad
accompagnare mia nonna nelle sue passeggiate salutari in mezzo agli animali, così
come altre volte aveva bisogno di una buona compagnia per andare a far visita
una delle sue sorelle. In mezzo alla strada che portava proprio a quell’abitazione,
c’era un uomo che vendeva palloncini ed io supplicavo mia nonna che me ne
comprasse uno. Lei era solita accontentarmi, ma il problema era quando, una
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volta giunti a quella casa, si presentava un bambino dispettoso che mi rubava il
palloncino e giocandoci finiva per sgonfiarlo. Mia nonna però, rassicurandomi,
trovò una soluzione che peraltro faceva comodo più a lei che a me. Per evitare
dunque che il piccolo scocciatore finisse sempre per distruggermi il palloncino, la
nonna decideva che al ritorno me lo avrebbe comprato comunque, ma vista l’ora
tarda che trascorrevamo in quella casa, al nostro ritorno l’uomo dei palloncini se
n’era già andato.
Prestarmi a fare da compagnia non era solo il desiderio di mia nonna ma anche
quello di mio padre che mi portava con lui in giro per quelle città dove ormai tutte
le strade erano isolate, i negozi chiusi e i cieli bui e spaventosi davano spazio a
maestosi temporali che non avevano nulla d’interessante per i miei occhi. Mi
ritrovavo ad assistere a noiose riunioni d’affari svolte nei freddi uffici dove mio
padre svolgeva il suo secondo lavoro, organizzare corse su strada. Io nel frattempo
me ne stavo seduto dietro un angolo, annoiato e infastidito da quelle ore che
passavano inutilmente tra discorsi illogici e incomprensibili di tutti i riuniti al
tavolo del presidente. Altre volte mi toccava di aspettare, quelle stesse ore, in
auto da solo, che facesse i suoi comodi personali. Con me si mostrava tirchio e non
soddisfaceva quasi mai i miei più logici sentimenti e bisogni di un adolescente
pieno di emotività. Eppure con lui mi mostravo proprio come un vero figlio
modello che aiutava suo padre e rispettava ogni ingiustizia, rifiutando, per lo
stesso, anche le presunzioni più forti, che qualche altro figlio, rivolgendosi in modo
egoista e prepotente, avrebbe presentato al proprio padre. Purtroppo e
vergognosamente il mio mancato lo dava ad altri i quali erano parte della famiglia,
come nipoti e pronipoti.
Era un amante del conservarsi qualsiasi cosa di cui fosse attratto, sia di un regalo
sia di un acquisto o di una proprietà quale, invece di donare a qualcuno che ne
facesse richiesta di un uso concreto, preferiva farne tomba in un suo vecchio
cassetto. Una mattina, ad esempio, avevo dimenticato di acquistare una penna
per scrivere a scuola, in casa non se ne trovava una. Dal taschino della giacca di
mio padre, ancora appoggiata sulla sedia della stanza da letto, trovai un’elegante
penna che misi subito nella mia cartella. Dopo alcune ore, nel bel mezzo di un
importante tema scolastico, sentì bussare alla porta, era mia madre che cercava a
tutti i costi, la restituzione di quella penna che sarebbe stata usata un solo giorno
per non farmi beccare una brutta nota dalla maestra. Alla fine, oltre a rimanere
senza penna, rischiai di fare una grande figuraccia in mezzo ai miei compagni di
classe. Le incomprensioni ingiuste e cattivelle non riguardavano soltanto mio
padre ma anche alcune maestre. Una mattina andai a scuola e nello zaino tenevo
nascosto un piccolo portachiavi a forma di chitarra che suonava appena fosse
premuto. Per un gesto involontario feci suonare l’oggettino, il quale era un regalo
dei miei genitori in ricordo di un viaggio a Milano, e la maestra accortasene me lo
tirò dallo zaino e lo nascose in un cassetto per poi portarlo a sua figlia di otto anni.
La cattiveria peggiore però la fece la maestra dell’ultima ora di lezione, quando
proprio in quel momento che io chiesi di andare urgentemente in bagno, lei mi
negò la libera uscita per una banale decisione del preside cui faceva riferimento di
chiudere i bagni chimici a un certo orario. A quel punto la situazione si fece tragica
e imbarazzante e quindi sia per intrattenuta, sia per dispetto decisi di bagnare
l’aula facendomi la pipì addosso. Subito un’infuriata minacciosa di vergogna si
avventò su di me da parte della maestra e tutti i miei compagni ebbero disgusto
da quella che sembrava una ridicola scenetta da portare avanti per tutto il tragitto
che conduceva a casa mia.
Talvolta qualche maestra indossava, durante le lezioni, una seducente minigonna
che metteva un senso d’imbarazzo più a noi alunni che a lei stessa. Quando però
io, curioso, iniziavo a fissare le sue gambe lisce, accavallate e dall’aspetto
morbido, la maestra, attenta, faceva per rimproverarmi imponendomi, come ci
fosse una legge scritta sul registro di classe, di tenere gli occhi alzati. Immaginavo
benissimo nel mio inconscio che era un segno di provocazione da parte sua e fu
per quello che io non smisi mai di continuare a emozionarmi guardandola nelle
sue parti basse.
In fondo per me era solo una nuova opportunità di crescere e migliorare la mia
tanto tragica timidezza della quale molte persone ne facevano una colpa. Per
andare a scuola la mattina ci si svegliava prestissimo e capitò un giorno che in
classe mi addormentassi sul banco, i miei occhi non resistevano a rimanere aperti
qualche secondo, anche per via di lezioni poco interessanti. La maestra però mi
replicava che la scuola era fatta per studiare, ma come poteva mai capire che un
bambino di soli dieci anni, svegliatosi presto, poteva rimanere attento quando lo
stesso non avrebbe capito la lezione. Anche se io ero solo un pargoletto, facevo
della mia immagine un uomo già maturo, poiché il mio desiderio era di essere
adulto, responsabile, intelligente, padrone di me stesso. Non sopportavo il fatto di
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avere dei pregiudizi inutili, di essere visto come un bambinetto incapace di
sognare e vivere vedendo i propri obiettivi realizzarsi. Mi sentivo padrone del
mondo, della sapienza, della simpatia, dell’eleganza, della socializzazione,
dell’amore e del successo. Questo era anche un difetto che possedevano le mie
due sorelle che molto spesso rimproveravano chi le chiamava bambine. Loro
avevano un gruppo di amiche personali che venivano spesso a casa nostra per
organizzare le mitiche serate, alla ricerca di nuovi amori, facendo lunghissime
passeggiate nel lungo viale del quartiere dei giovani. Spesse volte mi toccava
aprire loro la porta per farle accomodare presso la cameretta dove dormivamo io
e le mie sorelle, dicendogli di aspettare che, quest’ultime, uscissero dal bagno.
Anche se la cameretta era pure mia, ero privo di entrarci poiché loro, essendo
tutte donne, dovevano fare i propri comodi segreti. Alcune delle amiche erano
molto carine ed io m’imbarazzavo solo a vederle. C’era un’amica, in particolare,
che aveva paura di chiudersi a chiave quando andava in bagno. Io non sapendo
che il gabinetto fosse occupato, aprii la porta di butto e la vidi seduta sulla tazza
del water che mi supplicava imbarazzata di uscire. Appena pronte per uscire non si
degnavano nemmeno di salutarmi, ma una volta chiusa quella porta di casa mi
spogliavo dei miei vestiti e iniziavo a masturbarmi, toccandomi il corpo come se
fosse quello delle amiche più belle. In quell’attimo amavo me stesso come se
stessi desiderando loro. Nelle sere d’estate si erano formati già un gruppo che loro
chiamavano comitiva, c’erano ragazzi e ragazze di ogni età che scherzavano e
parlavano di gioventù bruciata, quando invece, gli stessi, se ne stavano seduti su
un muretto come a riscaldarsi il sedere. Io m’immischiavo in mezzo alla folla per
interloquire ma non c’era nulla da fare. Mi chiedevo quale fosse la causa che
motivasse la mia esclusione nel gruppo. Ero più piccolo di loro ma questo non
giustificava per nulla la deviazione a una socializzazione da parte mia verso di loro.
Fu in quei tempi che iniziai la mia fase d’introspezione nel sapermi riconoscere
come tutti gli altri. In certi casi desideravo di mostrare qualità maggiori per
ottenere il meglio, poiché la società già era difficile da conquistare. Mi chiedevo
come comportarmi, quali fossero le regole giuste che dovevo studiare per
ottenere un’amicizia di valore sincero e reale. Il mio essere simpatico era
sottovalutato e apparivo loro, quindi, come lo scemo del villaggio. Decisi quindi
che dovevo farmi valere come una persona molto più che normale. Tutto quello
che desideravo, lo esprimevo attraverso la musica dance e pop, immaginavo di
vivere in un film che mi vedeva protagonista e che, con le mie abilità di maggiore
espressione emotiva e ricca di significato, mi proiettavo in una dimensione di vita
reale della quale pochi conoscevano. Volevo cambiare il mondo, il modo di fare e
di pensare delle persone ignoranti, cattive, incapaci e false. Volevo dirigere un film
che stupisse la gente con emozionanti situazioni di una vita meravigliosa nella sua
esistente creazione, ma alquanto triste, violenta e disordinata dal mondo
immaturo. La musica che accompagnava questo film donava valore alle situazioni
espressive della logica immaginaria. Fu per questo motivo che mi appassionai al
cinema e alla musica. Lo strumento musicale che amavo tanto suonare era la
batteria. Persino sui banchi di scuola improvvisavo con le matite un ritmo che
infastidiva i professori, anche se con la professoressa di musica sapevo battere il
tempo a perfezione. Mio padre era a conoscenza della mia passione per questo
strumento ma pur supplicandolo di acquistarmene uno non ci fu nulla da fare. Una
mattina però io e la mia famiglia ci alzammo dal letto per andare a far visita a un
maestro di pianoforte che conosceva mio padre. Appena entrati nella sua casa le
mie due sorelle, si misero subito a osservare il pianoforte. Il maestro, vedendo il
loro entusiasmo nello sguardo le fece la proposta di imparare a suonarlo. Mio
padre senza pensarci due volte accettò il consiglio del maestro e le iscrisse a una
scuola di pianoforte presso la sua stessa casa. Le mie sorelle andarono a lezione
per alcuni anni poi, per svogliatezza, non riuscirono a completare gli studi e il
pianoforte che gli aveva comprato nostro padre restò come un mobile
dell’antiquariato chiuso in una stanza da pranzo, senza mai più essere usato.
Dalla passione per la musica dance il mio desiderio fu di diventare il più grande
disc jokey d’Italia, ma nel frattempo mi divertivo a creare musicassette remixate
per poi regalarle alle persone cui volevo mostrare le mie qualità. Pregavo mio
padre per molti giorni e addirittura anni di iscrivermi a una scuola di dj ma lui non
amava questo genere di musica. Molte persone, alcune anche amici di mio padre,
mi domandavano spesso cosa io desideravo fare da grande ma non sapevo dargli
risposta poiché qualsiasi cosa mi emozionava, sia nel lavoro, sia nella vita, non mi
era concesso. Molte volte pensavo che se avessi avuto dei soldi mi sarei
soddisfatto da solo, ma ero piccolo e non riuscivo a trovare un lavoro. Mio padre,
nonostante la mia tenera età di soli dodici anni, voleva a tutti i costi che non
rimanessi solo a casa a guardare la tv come facevano tutti i ragazzini, ma che
lavorassi come cameriere nel suo ristorante. Ogni sera quel fastidioso squillo di
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telefono di casa mi faceva alzare dal lettino per rispondere a mio padre che mi
rimproverava di non essere in sua compagnia e a farmi lavorare fino all’una di
notte, per poi guadagnare soltanto le mance dei clienti. Gli stessi clienti trovavano
disgustosa la presenza di un cameriere bambino, non tanto per me ma per chi mi
ci metteva. In questo lavoro a me toccava il peggio delle mansioni, correre a
destra e a sinistra per servire i clienti, apparecchiare e sparecchiare i tavoli,
cercare di ricordarmi tutto quello che decine di tavoli mi ordinavano con
frettolosa esigenza. Evitando di capire il problema che a fare servizio c’era un
bambino, i clienti pretendevano che io facessi bene il mio lavoro senza un minimo
errore o qualsiasi cosa che poteva sembrare ovvia nella mia situazione. I clienti
erano pertanto diseducati, sporcavano ai limiti dell’assurdo i tavoli, rompevano o
rubavano bicchieri, piatti e posate, i loro figli piccoli intralciavano il già faticoso
cammino dei servitori, i quali questi ultimi dovevano avere ogni responsabilità
sulla sicurezza del locale, anche senza averne nessuna colpa. C’erano addirittura
dei ragazzi, appena ubriachi, che si presentavano a mezzanotte per mangiare una
quantità di cibo per cui la cucina, appena pulita e riordinata da tutte le pietanze,
doveva iniziare da capo tutta la preparazione, pur di non perdere i clienti o,
almeno per loro, i beni amati soldi. Finita finalmente la serata lavorativa tutti i
camerieri, me compreso, eravamo ormai a stomaco vuoto, con l’acquolina in
bocca e col desiderio che qualcun altro ci servisse il meritato cibo. Ci riunivamo
tutti davanti a un lungo tavolo, sembrava quasi il rito dell’ultima cena. Nella stanza
c’era un televisore che ogni sera veniva acceso per dimenticarsi della stanchezza
di un faticoso ma nobile lavoro. Io purtroppo ero girato di spalle, ma c’è ne era un
motivo piuttosto serio, la visione di film erotici.
Crescendo, a causa del troppo baccano che facevo in sala per servire velocemente
i clienti, dovetti passare alla cucina e da lì al trasporto delle pizze a domicilio.
Facevo delle lunghe passeggiate a piedi con delle pesanti scatole di pizze a metro
in mano, l’olio che mi colava sui vestiti, le pizze che si piegavano e il calore del
fumo che fuoriusciva dai buchi mi bruciava il viso. Gli ascensori erano stretti e
talvolta ci voleva la moneta per salire fino al settimo piano, appena entravi in casa,
c’era di solito un cane che ti ostacolava il passaggio in cucina e quasi mai mi
elargivano la mancia.
Tornato in pizzeria mio cugino Giovanni prendeva parte dei soldi delle pizze e le
nascondeva in tasca, a me incolpavano che li avessi rubati ma io replicavo che
Giovanni era il ladro. La madre di Giovanni, che era infamante nei miei confronti,
difendeva il figlio dalle accuse. C’era poi un giovane ragazzo, sposato con due figli,
che abitava a pochi metri dalla pizzeria. Di lato alla sua casa abitava sua madre e
sua sorella separatamente. Questo giovane ordinava la pizza per telefono e spesso
si lamentava del ritardo o di com’era condita la pizza. Una sera, ad esempio, feci
un po’ di ritardo e questa vicenda me la rinfacciava, davanti agli altri, con losche
risa, ogni volta che ordinava una pizza. Il bello era che quando portavo la pizza al
giovane uomo, dopo due minuti telefonava la madre per ordinarne una per se e
ancora qualche minuto dopo chiamava la sorella, questo per tutte le sere. Decisi
così di trovarmi un lavoro dove potevo stare più tranquillo e così passai a lavare i
piatti. I miei zii mi davano lezioni e spiegazioni, come a un bambino stupido, di
stare attento alla lavastoviglie, di come lavare e asciugare i piatti, quando io
sapevo benissimo come fare il mio lavoro. Un giorno però c’era molta gente in
sala, mia zia invitò sua figlia a darmi una mano. Quest’ultima sembrava quasi
scocciata dal lavoro, ma anziché dire, non me la sento preferì darmi un aiuto, più
che altro prendendo in mano solo le corde del burattinaio per comandarmi come
il burattino più abile del palco.
C’erano montagne di piatti e stoviglie da lavare, dover manovrare con cura la
lavastoviglie con la sua carrellata di cesti zeppi di pesanti piatti da asciugare e
riordinare nel ripostiglio. A terra c’era abbastanza acqua da farmi scivolare, i vani
dei ripostigli erano alti, le fontane di acqua calda scorrevano a dirotto e si sudava
con torpore, già abbastanza per l’afa estiva, sui vestiti. Dovevo essere veloce nel
occuparmi di asciugare e porre i piatti e le stoviglie al loro posto. Cambiai di
nuovo postazione di lavoro, passando alla pizzeria. Il mastro pizzaiolo era uno di
quelli pesantemente fastidiosi, presuntuosi e arroganti. Mentre mi ordinava di
preparare la mozzarella dovevo occuparmi di riscaldare il forno, per poi
comandarmi a comprargli le sigarette e fargli un buon caffè perfetto. Passavo
mezze giornate a chiudere decine di cartoni di pizze singole e da metri. Un
pomeriggio mio padre se ne stava, insieme al mastro pizzaiolo, a guardarmi
com’ero schiavizzato e così decise di farmi innervosire per poi costringermi ad
andarmene piangendo a casa. Pensavo chiuso nella mia stanza cosa stesse
accadendo dentro di me che non andasse mai bene. Mi accusavano sempre di non
voler lavorare ma quando lo facevo, mi accusavano di non esserne esperto,
oppure alcune volte, mi criticavano che io lavorassi troppo.
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Per la mia famiglia ero sempre il figlio timido che non chiedeva mai nulla, che non
parlava, eppure io lo facevo con tutto il cuore e l’anima, ma il vero problema è che
non mi ascoltavano. Un giorno a una visita psicologica mio padre disse al medico
che ero muto, una specie di down, insomma indossava a me la colpa del mio
stesso malessere, quando invece era lui a non sapermi rispettare da buon padre
che capisse con aiuto un figlio, invece di umiliarlo per tutto il resto della sua vita,
solo per uno stupido orgoglio di una più simile cattiveria nei suoi confronti, subita
nella sua giovane età. Addirittura una delle mie zie, che lavorava al ristorante,
diceva che io me ne stavo sempre chiuso in casa, me lo rinfacciava amaramente. Si
scoprì che dopo alcuni anni s’imprigionò, come in una galera, nelle proprie quattro
mura di casa. Arrivarono i giorni in cui c’era bisogno di un aiuto nel locale, ma lei
non ne mostrava nemmeno il viso. Eppure ogni singolo elemento della mia
famiglia che mi ha condannato per qualche cosa che io non facevo o non ero
oppure non desideravo in realtà era un particolare che apparteneva a loro stessi.
La cosa che più m’infastidiva era il mischiare il vero con il falso, mentre si
discuteva su certe cose importanti, all’improvviso né diventavano il contrario. La
sofferenza peggiore non era questa ma quando mille voci di migliaia di persone mi
mandavano in confusione la mente riferendomi notizie diverse tra loro. In effetti,
era come se io facessi bene, ma in realtà avrei sbagliato tutto.
Faccio adesso un passo indietro per alcune vicende che mi sono capitate, capendo
meglio l’entità di alcuni personaggi già appena citati.
Il mio nonno materno possedeva una casa a pochi chilometri dal ristorante del
mio nonno paterno. Dopo la morte del nonno materno mia zia, sorella di mia
madre, prese la padronanza della casa. Un giorno però mia zia decise di venderla a
suo fratello minore, anziché a sua sorella, cioè mia madre. Il problema è che mia
madre rifiutò l’acquisto, poiché mio padre voleva stare a pochi metri dal
ristorante, pagandosi in questo modo un affitto per una palazzina che affacciava
sul mare. In realtà mio padre non andava a lavorare al ristorante ma prendeva
l’auto per sedersi a una scrivania di un’azienda di tubature che si trovava assai più
lontana dalla nostra abitazione. Mio padre aveva tre fratelli, Francesco, Vincenzo e
Domenico. Il primo scelse la caccia stagionale piuttosto che dare maggior impegno
nella ristorazione. Quando doveva occupare il posto in cucina, litigava sempre con
sua moglie e finiva per trasferirsi in pizzeria con aria di svogliatezza, ma con una
passione di sapersi far valorizzare dai suoi clienti per il più bravo pizzaiolo della
città. Anche lui lavorava insieme a mio padre nella stessa azienda prima di passare
alla caccia. Il secondo, Vincenzo, si occupava di coltivare la terra e spesso sfruttava
povera gente per coprirsi la fatica, pagandoli quasi nulla, ma ordinando loro di
parcheggiare le auto che dovevano andare al ristorante. Solo così facendo
potevano guadagnare qualche soldo da portare a casa per la propria famiglia.
L’ultimo, Domenico, era il più svogliato di tutti. L’unico che non ha mai messo
piede al ristorante, ma preferiva ordinare gli altri come capo di un clan
terroristico. Nonostante i suoi ordini erano svolti, si arrabbiava e protestava con
chi aveva deciso di ascoltarlo, senza che nessuno gli rinfacciasse la sua
svogliatezza. Eppure il più giovane di tutti giudicava il mondo quando lui stesso ne
dava il cattivo esempio. La causa della sua pigrizia lo fece ingrassare talmente da
diventare obeso, fino ad arrivare al diabete che, senza cura e importanza, trasmise
anche ai suoi figli ancora piccoli. Una sera stava in casa con la figlia più piccola,
l’unica a possedere un fisico da silhouette. La moglie era andata in chiesa e gli altri
due figli stavano a una festa tra amici. Lui se ne stava sdraiato sul letto pensieroso
mentre la figlia faceva il bagno. Uscita in accappatoio il padre la guardò con aria
maliziosa e poi le fece una proposta davvero indecente. In cambio di un atto
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sessuale gli avrebbe dato, come a una prostituta, dei soldi che riceveva comunque
dalla società del ristorante.
La figlia, al ritorno della madre, raccontò tutto persino ai suoi nonni. La moglie
quindi lo denunciò e passò ben quattro anni di galera, fin quando un giorno uscì
dal carcere per occupare il posto nella casa di sua madre, distante al ristorante.
Questo avvenne poiché ricevette il carcere domiciliare. Nel frattempo colto da
depressione, cercò una compagna che lo aiutasse nella vita a superare, crisi,
malattie e stress. La triste sorte volle che il secondo fratello, Francesco, morisse
pochi anni dopo per un tumore ai polmoni e qualche anno più tardi né morì anche
la madre. La coppia si stabilì perfettamente in quella casa promettendosi in
matrimonio, il quale non fu mai avvenuto. I miei genitori persero un’altra
possibilità di abitare in una nuova casa senza però pagarne l’affitto.
Riguardo al ristorante, per seri problemi di contributo economici, i fratelli
dovettero decidere di cambiare gestione e quindi passare tutto nelle mani dei
propri figli. Al più grande gli fu data l’amministrazione societaria mentre ad altri ne
ricavavano la proprietà dell’immobile. Purtroppo qualcuno decise di andare a
lavorare in un negozio di telefonia, qualche altro, diplomandosi come infermiere,
prese posto in ospedale, uno dei più piccoli iniziò il giro della droga e le figlie
femmine pensarono al matrimonio e al riposo, pretendendo anche un ottimo
futuro. Infine rimase solo l’amministratore a dover gestire tutto il servizio di
ristorazione. Dopo alcuni anni anche quest’ultimo ebbe l’opportunità di aprirsi una
nuova società di ristorazione a Roma e quindi ritornò la vecchia società, intestata
stavolta a mio padre. Mio padre però non sosteneva solo il ristorante ma era
anche organizzatore di maratone sportive podistiche di corsa su strada, cioè
l’atletica leggera. Tutto iniziò quando mio padre, ormai ingrassato, si mise a fare
jogging presso un vialetto dove praticavano il vero sport agonistico, allenandosi e
lì iniziò a fare amicizia proprio con alcuni di loro che lo convinsero di praticarlo con
passione. Siccome mio padre non ha mai avuto il principio di comandarsi da solo,
poiché ogni cosa gli si diceva, ci cascava subito. Ogni ordine era un suo comando
valevole per altra gente, mentre per me qualsiasi cosa o suggerimento gli facessi,
scuoteva la testa per dire di sì, ma in realtà non mi dava mai ascolto. Per anni ogni
mattina all’alba faceva allenamento e di pomeriggio partecipava a gare fino a
quando un giorno qualcuno lo invitò a organizzare di proprio le maratone sportive.
Subito si fece un ufficio preso da un vecchio cellario dove erano posti i prodotti
alimentari del ristorante. Inizialmente usava me e le mie due sorelle
nell’organizzazione, nel volantinaggio e nella segreteria. Un giorno però mi misi al
computer per gioco e di seguito imparai a usarlo da vero esperto, fino a che mio
padre decise di usarmi per scrivere milioni d’incessanti e inutili lettere che si
ripetevano, si correggevano, si rifiutavano. Insomma era un lavoro duro ma a volte
quasi una fatica sprecata. Mi faceva alzare molto presto la mattina per scrivere
documenti per lui urgenti, quando invece restavano accumulati nella sua borsa,
talmente imbottita da far fatica a chiuderla o per trovare altri documenti, per mesi
interi e dopo di tutto ciò me li ripresentava per delle correzioni di banale
importanza. Mio padre era spesso mostrarsi come più intelligente di me in certe
situazioni ma alcune volte era talmente negato che finiva persino di darne il
merito a me.
Una sera conobbe un giornalista arrogante e maniaco del successo. Il suo compito
era di aiutarmi a scrivere documenti al posto suo, poiché ne aveva più maestria
nella scrittura. In realtà ne approfittava per farmi scrivere dei lunghissimi articoli
di giornale che riguardavano le stesse manifestazioni di mio padre. Era assillante
nel dover farmi battere a macchina di un computer, piuttosto veloce. Mentre
scrivevo, doveva rileggere i suoi testi appena battuti, senza farlo alla fine, per poi
pormi un elenco di correzioni ortografiche e di grammatica da lui stesse, dettate,
seppur un giornalista. Oltre alla scrittura dovevo occuparmi di gestire i propri siti
internet con testi, immagini e video.
Un giorno mio padre decise addirittura di farmi realizzare della grafica
pubblicitaria, senza che io ne avessi mezzi e licenze. Per me doveva esserne un
orgoglio ma fu ancora lì che ne ebbi una tremenda delusione. Ero sempre più
sottomesso a comandi senza pace, ancora più assillanti, proprio come se avessi dei
maestri a fianco a dirmi come dovevo svolgere il mio lavoro, quando loro non
sapevano nemmeno cosa significasse accendere un computer.
Una sera mio padre invitò il giornalista a cena nel ristorante e stava la televisione
accesa trasmettendo un programma di sport. Mio padre si accorse che della
conduttrice, che si mostrava piuttosto prosperosa nel vestire, ne aveva una lunga
conoscenza. Papà decise quindi, insieme al giornalista, di prendere contatto con la
conduttrice per fargli conoscere il direttore dell’emittente sportiva. Il motivo era
di produrre una trasmissione volta all’atletica leggera, di cui il giornalista ne
doveva fare da conduttore. Una volta concordato il progetto a mio padre serviva
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un cameraman che gli facesse le riprese delle gare organizzate da altre persone,
che chiedevano la produzione televisiva. Mi prestai io, essendo amante della
videocamera, a fare le riprese di migliaia di atleti che correvano lungo le strade
per circa ventuno chilometri e qualche volta anche il doppio. Mi ricordai però
quando, da piccolo, mio padre la videocamera me la negava per divertirsi a fare lui
le riprese. Tornando al nuovo lavoro, tutto iniziava di mattina presto, era
abitudine di mio padre chiudersi per ore in bagno senza che io capissi cosa stesse
mai facendo. A volte mi toccava fare i miei bisogni nei vasetti delle piantine che
mia madre teneva fuori al balcone. Ci mettevamo in partenza nella sua
automobile che mi dava il netto senso di capogiro, già iniziato per via del precoce
risveglio del mattino. Dovevamo andare a chiamare anche il giornalista sotto casa
sua, che per il suo ritardo si rischiava di far comunque tardi. Una volta giunti a
destinazione dovevamo aspettare che tutto era pronto per iniziare le riprese.
Giunti ai nastri di partenza gli atleti erano intervistati appunto dal giornalista ed io,
dinanzi a loro e accanto a quest’ultimo, dovevo eseguire le riprese.
Un motorino di poco cilindrato mi accompagnava, girato di spalle, per le strade del
percorso a inquadrare gli atleti in corsa. Tutto ciò mi era difficile poiché il mezzo
era veloce e le strade sdrucciolevoli, la videocamera mi rimbalzava tra le mani e le
riprese rischiavano l’ondeggiamento. Io ancora insonnolito poi dovevo stare
attento sia al mio equilibrio sia a tenere molto ferma la videocamera. Alcune volte
rischiammo persino di cadere dal motorino senza, per fortuna, subire gravi danni.
Dopo questa invalida esperienza passai a un più sicuro mezzo di trasporto,
l’automobile. Poco prima dello start degli atleti dovevo mettermi in automobile
per seguire la corsa, evitando il rischio di essere travolto dalla fiumana di uomini e
donne che facevano quasi a botte per avanzare il passo in avanti. Molti di loro,
infatti, cadevano.
Alcuni minuti prima, dicevo, una volta aver schierato la videocamera, piuttosto
comoda e sicura, il giornalista fa subito per chiamarmi a scendere dall’automobile
per fare le solite interviste iniziali, ma i tempi erano brevi e quindi, vista la discreta
organizzazione della nostra troupe, mi ritoccava risalire in macchina, correndo con
tutti gli attrezzi pesanti in mano, rischiando pure di farmi male. Alla fine della gara
mio padre spesso mi sgridava per non essere sceso in tempo dall’automobile per
riprendere gli arrivi finali dei podisti. Mi ritrovavo poi su un palco, in mezzo a
centinaia di persone che assistevano alle premiazioni dei vincitori. Io mi sentivo
imbarazzato, osservato in malo modo, per via del mio viso pallido, triste, timoroso
e incompreso. Mi sentivo un robot che stava ai comandi violenti di un padre e alle
burle del giornalista che al microfono mi sminuiva per via di un microfono non
funzionante, attaccato alla videocamera. La colpa di questo però non era mia e
anche mio padre lo sapeva, infatti, era lui che la sera prima aveva il compito di
caricare il microfono senza fili, ma nonostante ciò mio padre non si dichiarava
colpevole, dandone il bene merito a me.
Alcune domeniche non avevo voglia di alzarmi per andare a fare le solite e ormai
diventate noiose riprese. Mio padre mi tirava dal letto prendendomi in braccio,
poiché lo respingevo dicendogli che non erano mia volontà e benessere vivere
un’esperienza simile a un giorno infernale. Mio padre stesso aveva la possibilità di
fare lui stesso le riprese o addirittura aveva amici che potevano sostenerlo, ma per
quel solito cattivo orgoglio di padre scellerato preferiva che andassi io,
dimostrando agli altri quanto ero buffo e quasi psicolabile.
Da quell’orribile esperienza, che già la vita in passato mi aveva sconvolto, iniziai ad
avere timore della realtà che mi circondava, dal torpore per le notti insonne, dalle
paure e insicurezze per le fobie dei miei sempre più confusionali pensieri
disorganizzati. Giunse così nel mio inconscio la fobia sociale, cioè la paura di stare
in mezzo alla gente, di non essere né capito, ne aiutato, ma solo deriso e lasciato
in abbandono e sfruttato, proprio come si fa a un cane imbastardito. A un certo
momento della mia vita ho cercato delle risposte alle mie sfortune nella religione.
Mi sentivo come Gesù sulla Croce, umiliato, giudicato, picchiato, deriso,
abbandonato, disturbato e scemato, ponendomi le stesse colpe su di me, poiché
la gente mi dava continuamente torto senza conoscere la mia vita, la mia anima, le
mie emozioni, i miei pregi qualitativi, il mio essere grande giovane ragazzo o uomo
della vita, come mi definivo già all’età di quattordici anni.
La notte mi alzavo da un sonno quasi profondo e vedendomi in torno credevo che
tutto ciò non fosse reale. Mi assaliva la paura e l’euforia, i battiti del mio cuore
aumentavano sempre più forti. Credevo di sognare qualcosa che non fosse
l’esistenza ma un’illusione, una visione allucinante della cognizione di essere
presente alla vita. Mi sentivo morto nell’anima, bloccato nel pensiero, chiuso in
me stesso per l’incapace volontà di credere ancora a qualcosa di realizzabile,
poiché tutto ciò che volevo esprimere, si rivelò un insuccesso già da parte di altre
persone. La mia timidezza, le mie crisi autistiche, il mio lesionarmi da contorti
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pensieri di forme contrariate alla normalità della giustizia, di una logica realtà
perfetta e presente, che non mi riusciva risolvere in modo pacifico e possibile, mi
dava la consapevolezza di aver bisogno di un’autostima maggiore. Trasformavo le
mie torbide idee di realtà, che spesso mi mettevano ansia accumulata da
successioni mistiche illogiche che si disorganizzavano da paure sentimentali e
affettive, al rancore, al rifiutato possesso di libertà di scelta, al mio
incomprensibile ragionamento intellettivo, che contrariamente si ribatteva su di
me per via di qualche persona che non l’avesse riconosciuto in modo giusto.
Per superare tutto arrivavo addirittura ad accettare le cose più gravi della mia
personalità, ormai offesa e delirata da tutti. La mia auto guarigione non servì quasi
a nulla, tentavo di sfogarmi a modo mio, poiché mi assaliva sempre più la paura di
uccidere, sentire delle voci, di impazzire o di ottenere, comunque, tutto ciò che,
inutilmente poi, avrei già superato e per non cadere in qualcosa di veramente
anomalo e gravoso.
Avevo riscosso, da parte dei medici, un disturbo della personalità causato perlopiù
da chi mi circondava. Ero una persona con un carattere, con dei pensieri personali,
con una vita appropriata, ma questo non andava bene perché il mondo voleva
farsi guerre, litigi, discussioni ragionevoli, presunzioni, egoismi, arroganze e tutto
ciò non permettevano che il mondo facesse il suo giusto e ottimale corso. In verità
quindi era il mondo che voleva fare tutto ciò che era assurdamente ingiusto,
scorretto e irrealmente anormale.
Mio padre voleva da me che fossi un figlio migliore, furbo, attento, duro con gli
altri quando serviva, ma lui a me ne dava l’esempio contrario, cioè di un padre
scettico, ingiusto, negligente, presuntuoso, orgoglioso e che si faceva soggiogare
dagli altri.
Quello che maggiormente non gradivo sia di lui come di altri suoi cari amici, ma
anche di miei parenti, era il mostrarsi francamente falsi nei miei confronti fino
all’età adulta. Mi facevano credere che i loro complimenti su di me fossero sinceri,
quando nemmeno dei gesti benevoli degnavano di mostrarmi, ma soltanto finte
risate di un sano coinvolgimento a farmi vedere la vita in modo meno egoistico,
proprio come loro spesso usavano essere.
Tornando alla mia infanzia, come spesso mi capitava di tornarci per capire meglio
come affrontare il mio futuro, mio padre si prendeva molta cura di me,
certamente non era quella che io desiderassi per la mia buona pedagogica
crescita. Voleva che io imparassi a mangiare tutto ciò che mi mettevano dinanzi a
tavola, anche se non mi piaceva o che mi dava disgusto e senso di nausea.
M’insegnava a nuotare lasciandomi da solo in mezzo al mare, a circa 2 metri dalla
spiaggia, quando l’acqua era ancora profonda, rischiando così di annegare.
Quando faceva caldo e avevo sete, mia madre mi comprava dei succhi di frutta,
ma mio padre la rimproverava facendogli credere che era una cattiva azione nei
miei confronti. Quando andavo al catechismo, mi toccava attraversare delle strade
buie e quasi deserte, io avevo paura e mia madre quindi non mi ci faceva andare
da solo, ma sempre mio padre non era d’accordo, poiché io da solo dovevo
superarne le paure. Preferiva che avessi più dei nemici che dei veri e sinceri
accompagnatori sani e umili di cuore, cosa che a lui non era stata regalata.
Ormai ragionare con le persone, come studiare per capirle, era diventato inutile
poiché dovetti accettare il loro carattere, i loro soliti e continui pensieri, i modi di
fare, le azioni nauseanti, le parole instancabili e i difetti personali non curanti.
Durante un pomeriggio stavo giocando in un cortile, dove c’era una bacheca su cui
posavano dei colombi, io e il mio amico dispettoso decidemmo di colpire i colombi
con dei sassi. Lanciando uno di quei grossi sassi verso la bacheca ne prese una
direzione inversa, la quale mi segnò quasi di un delitto incomprensibilmente
compiuto, facendolo cadere in testa al mio amico. Esso sapeva che non era stata
colpa mia ma dichiarò lo stesso la mia infamante impresa, non solo di colpire gli
animali ma anche lui stesso. Lo stesso amico, quale anche compagno di scuola, mi
fece un altro simile ma meno grave scherzetto. Una mattina noi alunni andammo
con la classe a una gita in visita agli scavi di Pompei, a un certo punto, dopo un
lungo tragitto in autobus, sentivo che la mia vescica stava per scoppiare. Entrati
negli scavi, dissi al mio amico, dove potevo fare i miei urgenti bisogni, poiché non
c’era un bagno distante. Lui mi rispose di accostarmi dietro ad un reperto
archeologico e liberarmi dal mio peso urinario. Nel momento in cui stavo per
abbassarmi la cerniera dei pantaloni, il mio amico furbo chiamò subito la maestra
per confidargli quanto stava succedendo. Tutta la classe scoppiò in un mare di
risate e la maestra, per punizione, mi promise che alla prossima gita sarei rimasto
a casa.
Un altro pomeriggio ancora stavamo io e il mio amico in un campo con delle
grosse montagne di terreno e con le nostre biciclette dovevamo fare la gara a chi
saltasse meglio l’ostacolo. Dopo alcuni salti era giunto il mio momento di
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prendere la rincorsa e svolazzare su due ruote uno dei massi più grandi di terreno.
Capitò che perdendo l’equilibrio mi rivoltai a terra con il petto. Non riuscivo quasi
più a respirare, mentre il mio amico, guardandomi impallidito e sconvolto, si mise
a ridere a crepapelle di quanto era appena accaduto. Fortunatamente, dopo aver
visto la morte in faccia, bastò un colpo di tosse per liberarmi dal pericolo o
almeno, visto gli insuccessi, dalla fortuna di perdere la vita.
Avevo un altro amico simile, il quale era figlio della padrona del palazzo in cui
abitavo con la mia famiglia. Questo non voleva, a tutti i costi, che io entrassi nella
sua dimora dicendomi che nemmeno la mia casa mi apparteneva, per cui lui ne
era padrone a tutti gli effetti. Spesso era solito farmi delle proposte per rimanere
amici, cioè rubare i soldi dal cassetto di una delle mie sorelle per andare a
comprare delle patatine in un bar, altrimenti mi avrebbe causato dei problemi.
Altre volte il mio amico m’invitava ad andare a fare a botte con dei ragazzini più
piccoli. Un giorno trovai per terra una piccola pietra, come quelle che si trovano
spesso sulle rive del mare, non so il motivo ma me ne innamorai facendone di essa
una pietra preziosa. Il mio amico mi pregò di fargliela soltanto vedere, ma nel
momento in cui la pietra capitò nelle sue mani, non me la volle più restituire. Ci
stetti molto male a tal punto di spezzare un’amicizia che non avesse neanche, poi,
tanto valore.
Persino alle scuole superiori avevo i miei buoni nemici. Frequentavo il primo anno
di scuola alberghiera, il giorno iniziale occupai subito il posto nel primo banco,
dove c’era ancora una sedia vuota. La classe doveva ancora formarsi del tutto,
mentre io già analizzavo quelli che potevano essere i miei futuri migliori alleati a
una conquista scolastica di successo. Alle mie spalle sedevano due loschi individui
che iniziavano già a prendermi in giro. Dopo alcuni minuti entrò una ragazza molto
carina che subito si sedette accanto a me. Tanto fecero quei due dietro di me a
sfottermi che dovettero far cambiare posto a quella bella ragazza di cui, per modo
di dire, me ne ero innamorato a prima vista.
Gli studi non andavano per niente bene. Sia agli amici sia ai professori non stavo
tanto simpatico, infatti, spesso mi divertivo a scherzare creando degli spettacolini
ironici ma anche molto interessanti, quasi più delle stesse lezioni. Questo lo
facevo, appunto, per tirare un po’ su il morale a coloro che si annoiavano dalle
lunghe spiegazioni, di materie che non centravano nulla con la nostra futura
professione, fatte da professori immotivati nel condurre gli alunni ad apprendere
con interesse le lezioni, quanto più a necessitare il desiderio di essere pagati per il
loro mestiere di professori. La professoressa di matematica invece mi era
simpatica, perché non ci dava mai i compiti da svolgere a casa. Quello d’italiano
invece, senza che ci dava istruzioni e spiegazioni in materia, pretendeva che
svolgessimo degli articoli di giornali su un foglio bianco, ma del resto si sa per
scrivere da buon giornalista ci vuole istruzione.
Nelle ore di svolgimento pratico, dove noi alunni dovevamo imparare a cucinare, i
miei amici ne approfittavano per infastidirmi, per togliermi l’attenzione e persino
di picchiarmi dinanzi ai professori che non facevano nulla per calmare le brusche
situazioni.
Gli orari scolastici terminavano dopo sette ore di lezione, ma siccome ero poco
istruito, a causa dei miei compagni che m’impedivano di studiare, i professori
dovettero decidere di farmi assistere a un prolungato corso di recupero, che
terminava alle diciotto di sera.
Siccome mio padre a scuola non poteva accompagnarmi e gli autobus non
rispettavano gli orari giusti per arrivare a scuola, c’era un servizio taxi che
abusivamente portava un gruppetto di noi presso l’istituto. Un giorno però ci
fermò un’auto delle guardie di finanza siciliane che ci chiesero prima tutti i nostri
documenti e poi ci portarono in centrale, dove il taxista dovette restare in
caserma a compilare e firmare dei moduli e noi chiusi tutti la giornata, senza
avvertire nemmeno un parente dell’accaduto, a stressarci perlopiù preoccupati di
cosa potesse ancora accaderci.
La scuola non era fatta proprio per me in tutti i sensi possibili e immaginabili. Così
decisi di continuare a lavorare insieme a mio padre. Il lavoro era appunto quello di
scrivere documenti battuti al computer per dare una mano a organizzare le gare
sportive ed anche quello delle riprese televisive o della grafica, di cui ho citato in
precedenza. Peraltro questo lavoro, considerato inutile, non mi dava guadagno da
parte di nessuno, non perché io non lo chiedessi ma poiché mio padre aveva
abbastanza debiti da poter pagare anche me. Siccome ero bravo nello svolgere il
mio lavoro e poiché nessuno lo avrebbe potuto fare al posto mio, che ci credevo,
veramente, nelle possibili realizzazioni di mio padre, decisi così di accettare di
aiutarlo anche gratuitamente. Sinceramente la vera motivazione era quella che se
avrei disubbidito a mio padre, sarei stato sconsiderato da lui, oltre che accusato e
punito davanti agli altri di errori che, in realtà, non commettevo per niente. Avevo
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dunque le mie buone ragioni per denunciarlo e molte volte ci provai ma fu del
tutto inutile, ogni qualvolta che lo minacciassi faceva per diventare buono ai miei
occhi per ammaliarmi. Mi domandavo, però, come mai con tutti i lavori che gli
facevo, gratuitamente, bene, dopo avermi rinfacciato davanti agli altri che non ero
stato un buon figlio ma uno svogliato, si faceva comunque interesse a rubare i
miei lavori facendoli realizzare ad altri più esperti, pagandoli addirittura. In fondo
se non erano i soldi che gli mancavano per organizzare, allora perché mettermi in
mezzo su dei lavori che davano solo tempo perso sia a me sia a lui, denaro
nascosto e soprattutto un continuo farmi del male, invece di amarmi e
valorizzarmi, per vedermi davvero migliorare, come voleva, almeno così diceva, lui
stesso.
Il giornalista, intanto, era il vero malvagio che si approfittava di me e di mio padre
pregiandosi di guadagni maggiori per mezzo del nostro lavoro e facendosi ogni
volta accompagnare a casa poiché, nonostante tutti i suoi sporchi guadagni, non
possedeva nemmeno un’automobile. Era ospitato da mio padre a mangiare nel
ristorante senza pagare nulla. Insomma faceva una vita da ricco e a noi umiliava e
malediva.
Un giorno però mio padre si rese conto dell’assurda cattiveria di questo giornalista
e così lo cacciò dopo avergli liquidato una grossa somma di denaro che in realtà
spettava a me. Siccome io ero molto scettico su quelle persone che vivevano la
vita facendo del male senza ragione, senza un motivo, che le valutasse come
giuste, invece di essere menefreghiste persino della loro vita più tragica e sporca,
decisi di parlargli al telefono per capire la situazione, dandolo persino in parte
della ragione per potersi riavvicinare a mio padre. Questo però creò solo un altro
sconforto nei confronti di papà che mi accusò di averne il merito del loro assurdo,
ma allo stesso tempo comprensibile, litigio d’affari. La vera motivazione per la
quale mio padre decise di licenziare il giornalista, egli stesso me lo rivelò, era
quella di un personaggio che recava fastidio alla mia persona. Da quelle sue parole
rimasi sbalordito, poiché poi una volta liberatici di quel soggetto mio padre ne
conobbe ancora di peggiori, che veramente mi potevano mandare al manicomio
per tutto il resto della mia vita. D’altronde io davanti ad un computer ci sono stato
quasi mezza parte della mia vita, ma senza la libertà di poter avere un ufficio tutto
mio, un lavoro personale da svolgere da solo. C’erano sempre accanto a me, ogni
anno, tremendi disturbatori che mi costringevano a chiudermi a chiave, facendo
sembrare alle persone, che vedevano la porta chiusa, chissà cosa nascondessi. Mio
padre giustificava questo male perché diceva che io stavo troppo spesso al
computer e non uscivo. In realtà era lui che mi ci metteva per ore a scrivere
incessanti lettere inaccettabili. Se per caso avevo la possibilità di ottenere un
lavoro diverso, più aperto al mondo, che mi dava la possibilità persino di cambiare
interiormente, lui non acconsentiva poiché era necessario che aiutassi più lui che
ad altre persone, le quali mi avrebbero pure pagato, ed anche soprattutto a me
stesso, alla mia scelta di vita, al mio futuro. Mio padre mi ripeteva di essere adulto
e vaccinato e di scegliere della mia vita. Allora mi domandavo perché dovevo
rimanere fino a trenta anni ancora vicino ad esso per obbligo?
Quello che ancor più m’infastidiva di mio padre era l’auto insufficienza e la non
padronanza di se stesso. Si faceva spesso odiare dai suoi più cari amici, oltre che a
farsi trarne a suo profitto un tale beneficio che neanche lui immaginasse di
possedere. Era diventato lo zimbello di tutti, quello che regalava tutto, lo sciocco
del gruppo che era umiliato di non saper organizzare bene le manifestazioni, non
avendo le responsabilità e gli attrezzi giusti per poterlo fare.
Mio padre è sempre stato colui quale mi rendeva sempre le cose più difficili da
apprezzare. Se c’erano cose belle da vedere, da fare e da vivere provvedeva da
solo a ottenerle, mentre in quelle più noiose e difficili richiamava subito anche me.
Ricordo che da bambini, insieme a mio padre e mia madre, io, le mie due sorelle e
i miei tre cugini, entravamo tutti nell’automobile di mio padre per andare al mare
d’estate. Un caldo torrido si prestava a diffondersi dal sole battente nei finestrini
mezzi aperti di quell’automobile con otto persone incastonate e con addosso delle
pesanti borse contenente ogni tipo di oggetto, che si utilizzava per la spiaggia.
Insieme cantavamo pure stornelli romani conosciuti da tanti zotici. Qualcuno
vomitava per strada, altri sostavano per prendere dei panini al prosciutto per fare
merenda o scendere solo per dei bisogni personali. Ovviamente le spese erano
sostenute tutte da mio padre. Arrivati in spiaggia, mentre noi ragazzi prendevamo
il sole sulla sabbia bollente, mio padre restava sulle forti rocce con un
asciugamano e la brezza di vento che gli massaggiava appena il corpo dalle
scottature. Mia madre aveva subito il dubbio che se ne stava seduto accanto a
qualche bella donna per fare con lei il bagno insieme. Per questa vana gelosia mia
madre piangeva sempre tutte le notti, anche perché ciò non accadeva solo in
spiaggia. Mio padre la notte si presentava tardi e vedeva mia madre in lacrime, ma
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questo a lui non importava per niente, anzi non ne dava nemmeno motivazioni o
giustificazioni che potessero far sembrare ciò che non si volesse pensare.
Io invece me ne stavo tranquillo nella mia cameretta a guardare un programma
sexy intitolato “Colpo Grosso”, condotto da un simpatico conduttore e umorista.
In realtà era un gioco da tavolo dove delle ragazze si esibivano con balletti
mostrandone il seno. Era una trasmissione che mi metteva serenità,
accompagnandomi nell’addormentamento. Una notte però mi sentivo male e non
avevo voglia di guardare la tivù in particolare, i miei genitori e con le mie sorelle si
meravigliarono del mio strano rifiuto di guardare quel programma malizioso,
come se mi avessero associato già qualche malattia, seppur a quei tempi essere
malati significasse proprio guardare le donne nude. A me non interessava per
niente che le ragazze si spogliassero, anzi quasi per nulla lo facessero, era proprio
la serenità di quel programma che mi metteva a mio agio, protetto da film di
horror, da immagini forti di canali musicali viscidi e da programmazioni che mi
tenevano sveglio.
Alcune notti le passavo in mezzo al letto dei miei genitori, mi giravo tra le lenzuola
fino fare quasi a botte con chi mi circondava. Nei miei risvegli notturni vedevo mia
madre che poggiava la testa fuori dal letto, come nel vuoto. A me spettava il
compito di riportarla sul cuscino, ma testardamente si valutò un’inutile azione.
Una notte feci un incubo tremendo. Stavo alzato sul divano del mio salotto e
saltavo gioioso su di esso, a un tratto arriva mia sorella che si mette davanti a me
per capire cosa stessi facendo. All’improvviso i miei capelli crescono fino a
raggiungere mia sorella che era catturata come dalle braccia di una medusa.
Mentre io iniziai a strillare mia sorella piangeva, intrappolata dalla mia lunga
chioma possente. Mi alzai spaventosamente dal letto che era tutto bagnato di
pipì, svegliai subito mia madre che si accorse del laghetto in mezzo alle coperte
ormai rovinate. Non feci nemmeno in tempo a raccontargli l’accaduto che subito
s’infuriò per ciò che avevo commesso. Neanche la mia paura la impietosiva. Il
giorno successivo decise, insieme a mio padre, di comprarmi un lettino da mettere
accanto alla loro stanza matrimoniale, così da stare tranquillo e sicuro di non
bagnare il loro letto.
Mia madre ci teneva molto a mantenere la casa ordinata, seppur non fosse
entrato mai nessuno. In realtà era un suo passatempo della giornata, data la
mancanza di lavoro.
Il mio lettino, di giorno, lo trasformava in un comodo divano mentre il letto
matrimoniale lo cambiava continuamente dalla sua direzione, tant’è che una notte
mio padre, ritiratosi dal lavoro, non accese la luce della stanza da letto, per non
svegliare mia madre, e non conoscendo lo spostamento che aveva fatto, cascò
letteralmente a terra.
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Ora voglio raccontarvi alcune storielle che, a me più di commuovermi, hanno reso
i nervi rigidi.
A far del bene si moriva ucciso
Un giorno arrivò dal Venezuela un’anziana signora che portava con sé un piccolo
bambino autistico. Giunse nel ristorante e conobbe me, le mie sorelle, le mie
cugine e i miei cugini. A tutti affidò un compito, quello di badare al bambino
durante la loro vacanza in Italia, presso di noi. Io ero quello che stava più vicino al
piccolo che perlopiù non parlava nemmeno l’italiano. Mi sentivo come un padre
per lui, gli volevo dare tutto ciò che la mia famiglia mi aveva negato. D’altra parte
ero molto amante dei bambini e della loro emotività, ma ero soprattutto curioso
di come si comportavano, di come vivevano le conoscenze e le nuove esperienze
che la vita gli donasse.
Dopo qualche settimana l’anziana signora e il suo piccolo dovevano ripartire per il
loro paese. La madre salutò tutti con uno speciale dono, per via di aver sostenuto
al meglio il pargoletto. Alle ragazze mise in mano 20 dollari e a noi maschi solo 10,
eppure, ricordando bene, chi avesse accompagnato di più il bimbo nei suoi giochi
eravamo proprio noi ragazzi.
Il vecchietto dei palloncini
Un’altra vicenda curiosa era quella di mio cugino Giovanni, il quale aveva il pregio
dell’invidia. Da noi al ristorante veniva spesso a pranzare un anziano signore che
vendeva palloncini. Io e mia sorella avevamo entrambi vergogna di andargli a
chiedere qualche palloncino, il quale ci regalava per bontà sua. Facevamo quindi a
turno, andando da quel signore, a chiedergli con cortesia quel simpatico omaggio.
Eravamo finalmente felici di poter giocare con quel palloncino colorato, anche se
ce ne regalava soltanto uno. All’improvviso balzava fuori nostro cugino Giovanni
che, spaventandoci, faceva infine per romperci il palloncino. Era chiara la sua
invidia nei nostri confronti, ma più che invidia era un segno di prepotenza e
divertimento personale. Se avesse voluto anche lui un palloncino, come noi,
gentilmente lo avrebbe chiesto al buon vecchietto, vi pare no?
Un rigore mancato
Un giorno mio padre iscrisse me e mio cugino Giovanni alla scuola calcio per la
categoria pulcini, quella riservata agli esordienti ragazzini dei dieci anni. C’era un
mister molto spassoso che durante gli allenamenti mi dava incoraggiamento
gridandomi la parola “Damo! Damo!” che significava in lingua italiana “Forza!
Forza!”.
Dopo gli allenamenti, la partita cominciava. Tutti in posizione si scambiavano i
ruoli di attaccanti e difensori, senza includermi nel progetto. Il fischio d’inizio
partiva, tutti inseguivano la palla e anch’io insieme con loro cercavo di prenderla,
o almeno di farmela passare. Il gioco si faceva sempre più aperto ed io più che un
calciatore sembravo un arbitro che seguiva il gioco. Finalmente mi arrivò la palla e
stavo quasi per calciarla fin quando un avversario fece uno scivolone e mi mise a
terra. Calcio di rigore per la nostra squadra e ancora lì la fortuna di avere la
possibilità di sostenere il gioco era nelle mie mani o, per meglio dire, nei miei
piedi. Mi concentrai sulla porta che aveva dinanzi un grasso portiere dai capelli
ricci. La sua posizione era dritta e lo sguardo ben attento sul pallone. Presi la
rincorsa e dopo il fischio del mister feci il mio primo calcio di rigore.
Un rigore che sbalordì il folto pubblico e tutti i calciatori. Che cosa fosse accaduto
di così forte? Per sbaglio tirai con la punta delle scarpe e il pallone finì dritto nello
stomaco del portiere, che si dovette ritirare negli spogliatoi, dopo essersi
accasciato per quasi dieci minuti. Da quel giorno nessuno mi passò più la palla ed
io, stanco di correre inutilmente a vuoto nel campo, mi sedevo sul terreno e
iniziavo a fare dei disegni, poi alla fine, quando tutto era finito, un giovane ragazzo
faceva con una carriola delle strisce sul bordo campo, come se fosse un
commerciante di cocaina. Tutti andavano alle docce ma a me faceva schifo lavarmi
con altri ragazzini, anche perché io con la pulizia non c’ero tanto amico.
14
Un’abbronzatura speciale
Una mattina mio padre decise insieme con me e mia sorella di andare al mare, la
destinazione da raggiungere era la spiaggia più bella della nostra zona, anche
seppur lontana. Ci preparammo con asciugamani e costumi in zaino. Mio padre, in
particolare, si portò appresso una rete da pesca con una busta di plastica, degli
occhialini subacquei e un berretto. Ci incamminammo in automobile sotto un sole
impetuoso e chiaro. Le strade già profumavano di acqua salata, l’aria era piuttosto
estiva e dalla stessa si udivano le voci dei bambini che allegri giocavano a
indossare il salvagente. Dopo alcuni chilometri davanti a noi c’era una grossa
montagna da scalare a piedi per raggiungere la spiaggia che vistava qualche
chilometro più in giù. Parcheggiammo l’auto e ci incamminammo fino a scalare la
stessa.
Colto da uno strano dubbio, domandai a mio padre perché si stesse tentando di
scalare una montagna quando c’era la possibilità di entrare per l’ingresso
principale. Mio padre, dopo qualche attimo di silenzio, mi rispose che facendo in
quel modo non avremmo pagato l’ingresso, poiché conosceva una scorciatoia
segreta.
Giunti sulla riva del mare si continuava a percorrere un lungo tragitto, senza mai
toccare la sabbia. La gente, che stava sdraiata sulla spiaggia, fissava incuriosita il
nostro passo sostenuto. A un tratto ci fermammo dinanzi a delle grosse rocce che
avevano l’odore dei frutti di mare. Mio padre aprì la rete, fece mantenere la busta
di plastica a mia sorella e mise me a fare la guardia che arrivasse qualcuno. Intanto
mio padre cominciava a riempire la rete di cozze che subito dopo passava a mia
sorella per metterle nella busta, in quell’istante però i padroni della spiaggia si
accorsero di noi e subito avvertirono la polizia. Papà spiegò alla polizia che
nessuno di noi tre stesse occupando il suolo della spiaggia, ma che eravamo
immersi nell’acqua del mare, il quale non era proprietà di nessuno, anzi fosse di
tutti.
Dopo qualche minuto di una più demenziale sceneggiata napoletana, che si
manifestava al pubblico di tutta la spiaggia, mio padre invece di restituire ciò che
aveva rubato preferì rigettare tutto in mare, compresa la busta. Riscalata di nuovo
la montagna trovammo sull’automobile di papà una bella multa per sosta vietata.
Il giorno dopo, io e mia sorella acquistammo una piscina gonfiabile per passarci
tutta l’estate, senza subire nuovi danni.
Il mio corpo che cambiava
Sin da piccolo avevo il vizio di mangiare lentamente e poco. Ero, per questo
motivo, molto magro, tipo scheletrico. Tutti m’invitavano a mangiare di più,
qualcuno credeva che la mia silhouette sarebbe stata causata dal motivo per cui io
mangiassi lentamente o poco. Mi preoccupavo del mio peso e guardavo invidioso
quei ragazzi pieni di carne e muscoli che arricchivano i loro corpi speciali. Era
diventata per me addirittura una colpa essere di aspetto magro e la gente
pregiudicata finiva di farmi somatizzare in corpo un pezzo di carne mancata, come
se Adamo dovesse lamentarsi di quel pezzo di costola toltagli da Dio.
Dopo molti anni di agonia mentale e anoressia nervosa, nel cuore di una notte
sentivo dentro il mio petto, una forte pulsazione cardiaca che continuava
incessantemente a battere. Sembrava che dovessi morire, pregavo addirittura le
mie ultime parole, i miei quasi mancanti respiri. Passai tutta la notte sveglio a
commemorarmi da quel battito cardiaco che non rallentava nemmeno se provavo
a rilassarmi. Finalmente giunse l’alba e subito svegliai mio padre con una forte
tensione addosso. Ci recammo dal medico che mi consigliò una visita cardiologica.
Fatta la visita, il cardiologo mi prescrisse dei farmaci per rallentare le pulsazioni.
Ritornammo dal medico di famiglia per farci prescrivere la ricetta per quei farmaci,
ma il medico ci sconsigliò di acquistarne poiché se ne avrei presa una sola pillola,
sarei stato in coma. Infatti, il medico di famiglia mi diagnosticò una forte ansia che
si somatizzava dalla gola fino al petto e finiva per ostacolarmi il metabolismo.
Andai quindi a farmi una visita endocrinologica e l’esame riscontrò una leggera
forma di tiroide ingrossata. Feci così una cura per alcuni mesi e subito dopo
acquistai la voglia di mangiare, sempre più velocemente rispetto a prima e in
quantità maggiori. Iniziavo a ingrassare fino a crescere una pancetta che mi faceva
sembrare che aspettasi un figlio. Da quel momento ero finalmente realizzato,
felice, emozionato, libero dai pregiudizi di quella brutta gente, che spesso era
fisicamente peggiore di me e dall’aspetto brutto.
Tutto ricominciò dalla mia famiglia che mi accusò di essere troppo grasso,
avvertendomi di mangiare di meno altrimenti nessuna ragazza mi avrebbe preso
in sposo.
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Giocando con mia cugina
Siccome di amici ne avevo pochi e pure stronzi, iniziai a passare le mie giornate a
giocare con i miei due cuginetti, Antonio di otto anni e Raffaella di dodici. Erano
quei giochi sociali che ogni bambino desiderava fare nella propria dimora di casa.
Costruivamo delle specie di capanne fatte con le lenzuola dei lettini su cui
attaccavamo con delle mollette tra i pizzi di quattro sedie. Preparavamo dei
cocktail speciali a base di succhi fruttati e vari stuzzichini. Lì sotto ci divertivamo a
raccontare barzellette e storielle demenziali, associate molto spesso a certe simili
realtà di vita vissuta. Al telefono facevamo scherzi telefonici prendendo in giro i
più rincoglioniti. Quando si andava a fare la spesa con le nostre madri ci
divertivamo a rubare le caramelle dai cestini del supermercato. Passavamo i
pomeriggi a guardare i film della Disney e alcuni comici e del genere west. Un
giorno però Raffaella mi mostrò delle bambole con cui giocare insieme. Ci
inventavamo delle storie di fidanzamento tra Barbie e Ken. A lei piaceva andare
più nell’intimo della coppia, ad esempio farli baciare, accoppiare e sposare.
Arrivata la sera, eravamo stanchi ed io rimanevo spesso a dormire da mia cugina,
avendo nella sua stanza un letto libero. La notte mentre lei dormiva io giravo i
canali della tivù e spesso trovavo film sexy o addirittura le solite “ragazze porche al
telefono”. Il giorno dopo raccontavo di cosa avevo visto a mia cugina Raffaella e lei
sembrava interessata di voler vedere anche lei cosa succedesse su quei canali.
Sfortunatamente non riusciva mai a vedere nulla poiché cascava sempre dal
sonno. Mio padre non voleva che io dormissi da mia zia poiché era geloso, ma
quando restavo a casa nostra, lui non era quasi mai presente.
Una sera Raffaella decise di giocare al dottore e, quindi, prendendo un libro
dell’enciclopedia medica, ne sfogliava le pagine fino a raggiungerne una
particolarmente interessante. Erano rappresentati tra due pagine un uomo e una
donna nudi. Lei subito s’imbarazzò, ma non più di tanto, poiché si divertiva a unire
le pagine del libro molto spesso.
Qualche anno più tardi Raffaella con la sua famiglia dovettero acquistare una
nuova casa e quindi trasferirsi per qualche chilometro. La nuova cameretta di
Raffaella era molto accogliente e aveva una piccola veranda che affacciava sui
monti. Lì i giochi diventavano molto più personali, come ad esempio una sera ci si
promise di analizzare una sorta di scoperta scientifica, cioè mostrare a ciascuno i
propri membri genitali. Nel momento in cui stavo per aprirmi la cerniera dei
pantaloni, arrivò mia madre che mi chiamò per andarcene.
La sera successiva giocammo a fare il marito e la moglie. Ci sposammo con la
presenza del sacerdote recitato dal piccolo fratello Antonio. Finita la funzione, ci
baciammo sul viso poiché eravamo cugini ma soprattutto perché a Raffaella
faceva schifo la saliva delle labbra. Una sera però prese una decisione e senza
ritegno accettò di baciarmi sulla bocca, ma alla condizione di tenerla chiusa in tutti
i sensi. Nella sua stanza aveva un comodo divanetto, dove mi faceva accomodare
e spesso si sedeva sulle mie gambe e a volte anche più in alto. Poi una sera mise
una musica dallo stereo della sua cameretta, facendo finta di portarmi a ballare in
una discoteca. Durante il ballo eravamo abbracciati in un lento ed io ero quasi
rigido nel muovermi per l’imbarazzo e la mia solita timidezza, che lei subito iniziò a
sciogliere. Mi fece portare la gamba in avanti tenendola in mezzo alle sue e
incominciò a strusciarci sopra. Da quel momento capii quali fossero le sue
intenzioni. Quello che pensate non accadde mai, visto che ogni volta che stavamo
silenziosamente a massaggiarci o fingere di fare l’amore entrava qualcuno nella
cameretta, ma non preoccupatevi, non eravamo nudi e non c’era nulla di osceno
nelle nostre mosse. Soltanto qualcosa riuscì a preoccuparmi, quando quella sera
stessa Raffaella si fece mettere dalla madre una crema antiarrossamento sul suo
pube. Fortunatamente la mamma non volle sapere la motivazione di quel bruciore
particolare.
Arrivò l’estate e le nostre famiglie decisero di farsi una vacanza di villeggiatura
nella scenografica città di Agropoli, in provincia di Salerno. Era un posto molto
carino con una villetta e un parco giochi per bambini, un lungomare con tanti
negozi e bancarelle illuminate, una piazza zeppa di giovani che restavano fino a
tarda notte a bere qualche drink o a mangiare un cornetto. La mattina ci si alzava
per andare in spiaggia. Io, Raffaella e Antonio ci divertivamo a sguazzare
nell’acqua, imitando la serie Baywatch, della quale io ero Mitch, Raffaella
mascherata in Pamela Anderson e Antonio nel figlio di Mitch, il quale chiamavamo
buffamente Micciarello.
Dopo due ore in acqua uscivamo con le labbra viola, la pelle invecchiata, i muscoli
scesi, gli occhi a palla e con lo stomaco zeppo d’acqua e senza cibo. Aspettavamo
qualche oretta per mangiare dei gustosi panini, mentre mio zio organizzava delle
partitine a carte, dove io ero seduto di fronte a Raffaella, mentre Antonio e il loro
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padre di fianco a noi. Raffaella non sopportava gli abiti bagnati addosso, ma di
questo io non ne ero a conoscenza, me ne accorsi durante quella partita di carte,
quando lei, sedutasi da indiano, mostrava di non portare il costume sotto quel
vestitino dalla gonna corta. Era la mia prima volta che ne vidi una da vicino, dopo
milletrecento film erotici sulla mia carriera di spettatore. Avevo paura, però, di
fissarla troppo per via del padre e del fratello che avevo di fianco, giacché a lei,
sicuramente, non dispiaceva per niente.
Discoteca sicura
Era il mese di giugno e con la mia famiglia andammo a visitare la bella città di
Firenze. Con noi c’era anche la nonna, simpatica e giocherellona ma soprattutto di
buon cuore. La sera la trascorrevamo nelle varie piazze della città, camminando
per strade e vicoletti, trovavamo, a ogni paio di chilometri, qualche anziano
signore che vendeva le caldarroste. Mi divertivo a gustare quelle morbide e dolci
castagne appena tolte dal fuoco, mentre ammiravo le ricche vetrine di varia
esposizione, dove dalle lastre s’intravedevano le prime graziose ragazze che
rimanevano a fissare i negozi più interessanti. La sera si andava a cenare nei
ristoranti più costosi della città, c’erano dei camerieri molto cortesi che avevano
quella curiosa parlantina toscana che a me divertiva molto.
Una sera, dopo aver cenato, mio padre mi portò in discoteca, io avevo solo tredici
anni. Era un enorme locale dove migliaia di giovani, maschi e femmine, ballavano
scatenati. Dall’altra parte della pista c’era un bar che serviva le bibite gassate e i
vari liquori miscelati con frutti tropicali. Luci, colori, frastuoni, gas fumanti
riempivano la sala per creare effetti piacevoli tra il pubblico e i protagonisti. Ci
fermammo davanti a tre cubi sui quali stavano in piedi a ballare delle sexy ragazze
con abiti molto attillati e trasparenti. Una di loro invitò mio padre a salire su un
cubo ed io per non perdermi lo seguii anch’io su quel grande scalino, che non dava
abbastanza spazio da muoversi in tre. Le ragazze ci spronavano a ballare,
attraverso certi movimenti maliziosi che ci facevano vivere il paradiso con gli
occhi.
A un certo punto ero stanco di ballare, anche perché non vi era motivo di
conquistare una di quelle conturbanti ragazze immagine, ma immaginate voi cosa
dovevano essere. Chiamai subito mio padre che ormai si era imbambolato su
quella pedana, cominciava quasi a dare uno spettacolo osceno, per via della
ridicola immagine di un uomo con mezza età che mostrava il suo corpo e lo
agitava come se avesse preso già due chili di cocaina. A farlo scendere però ci
pensò il buttafuori e finalmente potei andare al bar a bere qualcosa di fresco. Sul
banco trovai un cestino con delle bustine tipo quelle dello zucchero e avevano il
disegno di un famoso cartone animato. Al quel punto chiesi a mio padre cosa mai
ci fosse in quella bustina così umoristica. Mio padre mi rispose di non saperlo,
mentre quelli dietro al bancone del bar si misero a ridere. Dal modo in cui
ridevano, capii subito che si trattasse di droga. Ovviamente scherzo, sapevo
benissimo che erano caramelle, secondo me! ;)
Vendesi zia
Un giorno veniva da me una delle mie zie più buone che avevo. La gente la
chiamava la mandragola, ma sinceramente io non né ho mai capito il motivo. Mi si
avvicinò e mi disse che possedeva un vecchio locale, dove lei stessa vendeva della
biancheria femminile appena qualche tempo prima. La sua offerta nei miei
confronti era di farmi ottenere un lavoro in quel negozio, il quale prima bisognava
pulire da tutta l’immondizia, ancora sparsa per l’ambiente.
Io accettai orgogliosamente, senza pensarci due volte, così ci dirigemmo presso il
negozio da rinnovare. Una volta entrati c’era una montagna di oggetti rotti, alcuni
mai usati e altra immondizia varia. Mi spiegò che lì potevo svolgere qualsiasi tipo
di professione. Lasciandomi le chiavi in mano potevo aprire e chiudere
personalmente il negozio come un vero proprietario. Passammo mezza giornata a
pulire e alcune cose, che erano rimaste ancora buone, m’invitò a portarle a casa.
Il giorno dopo mi chiamò al telefono per domandarmi quale negozio vendesse il
cartello con la scritta “Affittasi-Vendesi”. Io gli risposi che era il cartolaio e lei
m’invitò ad accompagnarla. Comprammo il cartello e me lo fece compilare con il
suo numero telefonico, per attaccarlo sulla saracinesca del suo amato negozio,
che doveva dare a me.
Gli domandai come mai avesse fatto questa scelta dopo di tutto quello che
avevamo concordato il giorno prima e lei mi rispose che non era tanto sicura che il
mio lavoro potesse funzionare, visto che ci volevano molti soldi per acquistare
tutta la mobilia per il negozio e le varie licenze per il lavoro da svolgere.
Credetemi, quel giorno, avrei tanto voluto vendere mia zia al posto del negozio!
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Ragionare, meglio che ragioniere
Come ben sapete, poiché raccontato in precedenza, mio padre non ha mai voluto
soddisfarmi dei miei desideri, di quale scuola frequentare e di quale futuro fosse
migliore per me.
Un pomeriggio venne a trovarci un caro amico di mio padre arrivato da Roma.
Dopo aver mangiato nel ristorante di papà, venne a salutare anche me che stavo
nell’ufficio a pochi metri distante. Facemmo quattro chiacchiere insieme parlando
del più e del meno. Finalmente se ne stava per tornare al suo paese e quindi andò
a prendere la sua automobile, che aveva posteggiato nel parcheggio. Mise in moto
il motore e ci stava facendo gli ultimi saluti. Come solito fare mio padre gli volle
dare un omaggio del paese, per ricordarne le prelibatezze della nostra terra, con
due bottiglie di vino rosso. Lui ringraziò e nel frattempo, guardandomi ancora, si
ricordò di informarmi su una scuola che lui conosceva, dove andava a studiare
anche la figlia maggiore. Era una scuola per ragionieri e dato che io con la
matematica e il commercio non ci andavo d’accordo decisi di accettare, anzi fu
proprio mio padre a forzarmi di frequentare quell’istituto. All’inizio credevo si
trattasse di una vera e propria scuola quinquennale dove imparare il mestiere, con
tanto di diploma appeso al muro. Mi accorsi, solo dopo, che era una scuola
paritaria, cioè che dovevamo pagare una grossa somma di denaro per potersi
diplomare.
Insieme con me doveva venire quella zia che era solita causarmi dei guai e quindi
in quest’avventura sicuramente non poteva di certo venir meno di farmene subire
un’altra. Ci si doveva alzare alle sei di mattina per fare appena un’ora di auto, per
raggiungere la scuola. Una volta arrivati mi misero subito a copiare dei compiti che
quasi non finivano mai. Dopodiché, quando la mia mano non la sentivo più sulla
pelle, il preside ci segnò su un foglio gli orari in cui dovevamo essere presenti per
le lezioni, le quali si trattava del solito scopiazzare da altri compiti. Mia zia mi
raccomandava davanti al preside di rispettare severamente quegli orari.
Il secondo giorno di scuola mia zia mi disse di avere un appuntamento e che
quindi non poteva essere presente alle lezioni e che, con una giustifica, ci si
sarebbe andati qualche altra volta. Un altro giorno non mi rispondeva neanche al
citofono e per la seconda volta rischiammo l’assenza. Ancora una volta trovò la
scusa di un forte mal di testa. Al quinto appuntamento mi venne un forte dolore
allo stomaco, ebbi la diarrea e mi girava la testa. Subito mia zia mi chiamò al
telefono e innervosita disse che per colpa mia rischiavamo di prendere brutte
note e di fare cattive figure con il preside. Per un periodo non frequentammo la
scuola, ma ci furono anche dei giorni nei quali eravamo presenti e i professori non
ci spiegavano assolutamente nulla di ciò che dovevamo fare, capire e portare
all’esame.
Solo a due mesi di distanza dall’esame ci diedero una cartelletta contenente delle
tesi che andavano dall’italiano alla matematica e così via. Alcuni professori ci
raccomandarono di non studiare proprio tutto ma solo alcune cose che ci
elencarono loro. In due mesi non c’era tanto da capire, poiché quei cinque anni
mai frequentati non ci permettevano di possedere quel lusso intellettuale che
aveva Einstein. Finalmente arrivò l’esame ed io non sapevo assolutamente nulla,
anche se avevo letto, non capivo il significato di quello che dovevo dire e quindi lo
dimenticavo. Restai quindi ad aspettare il mio turno, cercando di ripassare
qualcosa di più intuitivamente facile da ricordare.
Quel giorno feci scena muta davanti alla commissione, che voleva sapere ogni
cosa da me, anche quelle che non mi avevano raccomandato di studiare. Io però
ero orgoglioso dentro di me, prima di tutto perché non era mia volontà
frequentare quella materia, secondo di tutto perché era un diploma comprato ed
io non avevo istruzione e obiettivi giusti che mi dessero l’opportunità di diventare
ragioniere, quindi, anche se fosse stato un mio sogno sarebbe andato male. Terzo,
quello più importante, era perché tutti sapevano che il loro unico scopo viveva nel
intascare i soldi e non di provarmi sulla conoscenza di una materia comprata.
Il caso volle che una volta diplomatomi mio padre, mi riempiva di ridicolo davanti
agli altri, poiché un tipo come me sarebbe riuscito a diventare ragioniere, anche
seppur il diploma rimanesse conservato nei ricchi cassetti del preside della scuola.
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Un’estate al male
Eravamo in vacanza io, mio zio e mia nonna. Una mattina si decise di andare al
mare in una di quelle paradisiache spiagge da sogno, in qui il sole batteva forte
sulla sabbia, che si mostrava sempre quasi deserta dai bagnanti. Avevo sempre
desiderato di immergermi in quelle acque limpide del mare di Calabria. Siccome
mio zio e mia nonna erano anziani e quasi acciaccati, mi toccava portare addosso
la sdraio, l’ombrellone e il borsone fino alla spiaggia. Una volta giunti sul posto, a
noi preferito, e sistemati gli abbordaggi perfettamente, non mi restava che
sdraiarmi. La sabbia era talmente calda che sembrava come se stessi camminando
sui carboni ardenti. In balia di questo cercai di stendere a terra un asciugamano,
ma non servì tanto. Dovevo dunque sopportare il bollore sul mio corpo sia del sole
sia della terra, che faceva filtrare da sotto l’asciugamano. Sopra la mia testa
c’erano i piedi insani di mia nonna che sprigionavano uno strano odorino di
formaggio perso. A un certo punto, dopo un maestoso silenzio e una concentrata
distesa abbronzante, un alveare di vespe giunse verso di noi. Mia nonna e mio zio,
ponendomi delle pantofole in mano, mi spronavano a cacciarle mentre loro,
distesi sotto l’ombrellone, si godevano il riposo. Sembrava che tutto era finito e
potevo quindi rilassarmi e tentare ancora una volta di godermi il sole che quasi mi
baciava tutto. Era passato solo qualche minuto che le insidiose vespe si
ritorcevano di nuovo contro di noi ed io risvegliato, in preda al panico, dovevo
ricacciarle. A un certo punto dissi ai miei cari che, poiché c'era troppo caldo,
preferissi fare un bagno nelle acque cristalline. Mia nonna, invece, ebbe un’idea
migliore. Mi portò con sé a farci un bagno depurativo nelle acque sulfuree che
distavano qualche tre chilometri da dove eravamo posteggiati. Appena misi solo le
dita dei piedi in quelle acque, puzzolenti m’iniziò a girare la testa, a tal punto che
presi la decisione di farmi una nuotata più a largo, mentre la nonna mi pregava di
non lasciarla sola.
Dopo un’oretta circa ritornammo sulla nostra spiaggia e vidi mio zio interessato a
fissare il mare. Quello che stava vedendo era una coppia di amanti svedesi che
giocavano, disinvolte, nelle acque. A un tratto la donna, una ragazza bionda con gli
occhi verdi e dal fisico da modella, uscì dal mare completamente nuda. Pensai a
quel salvadanaio a forma di porcellino che aveva una fessura sopra le spalle, la
quale era molto più piccola di quella che aveva la svedese tra le gambe. A vederla
subito mi sedetti a terra di scatto, dimenticando che la sabbia era bollente, per via
che il mio costumino, era diventato rigido e lussuoso. Il mio urlo per il bruciore
della sabbia fece credere alla giovane che mi ero sconvolto dal suo bel vedere e
subito indossò gli slip. Mio zio poi mi chiese di andare a prendere l’anguria
dimenticata in auto che ormai era diventata calda e secca. L’auto si trovava in
mezzo ad una siepe, dove strisciavano alcuni serpenti. Con scampo presi l’anguria
dall’auto e per la velocità, mi chiusi la mano nello sportello, causandomi un dolore
atroce. All’improvviso un cane di grossa statura iniziò a inseguirmi per via di quella
specie di pallone che mi trovavo in mano ed io a fuggire a gambe elevate fino a
che non raggiunsi la sabbia sempre più bollente. Avendo dimenticato di indossare
le pantofole, per via delle vespe attaccate sopra, nel correre, presi una scivolata e
mi scappò dalle mani la grossa anguria che si aprì in mezzo alla sabbia, dove
qualcuno ci aveva rimasto qualche cicca con una sigaretta. I miei cari, ancora
affamati, preferirono lo stesso gustare quell’amata anguria che era diventata
acquosa e salata. Dovetti mangiare per forza e con disgusto quelle fette che
persino i maiali dalla fattoria avrebbero rifiutato. Sfortunatamente i miei cari
avevano portato una boccetta d’acqua che bastava a dissetare soltanto loro due.
Finalmente dopo alcuni minuti feci il bagno in quel mare tanto desiderato,
purtroppo ero capitato proprio in mezzo a quell’acqua un po’ gialliccia di colore,
per via di quella coppia che aveva lasciato anche un bel regalino. Mi allontanai da
quella zona per lavarmi bene il corpo, ma giunsi sopra uno scoglio che mi fece
scivolare e annegare. Per fortuna mio zio era stato un ottimo nuotatore e mi
riportò sulla riva, ma essendo grasso ci arrivammo in un tempo più lungo. Il
problema più grande era che aveva l’alito cattivo a causa di quell’anguria
mangiata assieme a qualche altro strano alimento. Ingerii tanto di quell’acqua che
a un certo punto dovevo fare pipì. Siccome era una spiaggia libera, non c’erano né
cabine, né toilette e farla in zone pericolose, dove abitavano animali randagi, era
assai rischioso. Iniziavo ad agitare tutto il corpo per trattenermi, alcune persone
che erano appena giunte sul posto, vedendomi saltellare su me stesso, mi
mostrarono che la sabbia ormai non scottasse più. Dopo circa un’ora di auto per
arrivare a casa feci uno scatto in camera, ma trovai il bagno occupato. Stavo
scoppiando, così presi una bottiglia di tè da due litri e la feci li. Dopo qualche
minuto mio zio vedendo questa bottiglia piena pensava che avessi comprato del
tè con la dimenticanza di metterla nel frigo e così ce la pose lui. Giunse la sera e
cenammo tutti insieme, ma dopo tutta quella schifezza che avevo mangiato, mi
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venne una forte diarrea che dovetti fermare bevendo del tè freddo, il quale mi
aveva preparato la mia cara nonna.
Un barista sprecato
Una mattina, girando per strada con mio padre, si andava in cerca di un buon
lavoro che mi potesse soddisfare la giornata, attraverso amicizie, collaborazioni e
tanta voglia di fare e soprattutto che mi darebbe la possibilità di ottenere un
ottimo guadagno mensile. Ci fermammo in un noto bar della nostra città, dove
trovammo, subito disponibile, una brava ragazza ad accogliermi presso il proprio
servizio di trasporto caffè a domicilio. Tutto iniziò con la descrizione di cosa
dovevo svolgere durante tutta la giornata lavorativa.
Mi svegliavo alle sette di mattina, prendevo il mio motorino, che a volte faceva
fatica a partire, causandomi un ritardo in più. Arrivato al bar, mi offrivano cornetto
e cappuccino e poi subito ero pronto per servire i clienti. Il mio compito in
particolare era di essere subito pronto a versare dell’acqua nei bicchieri e
preparare un piattino con il cucchiaino sopra. Tutto questo doveva essere fatto
per ogni ordinazione. Se non fossi veloce, il mio ruolo era bloccato con l’entrata di
qualche altro ragazzo che faceva parte del bar. In quello stretto spazio lavorativo
eravamo in tre, a volte pure quattro. Era difficile compiere il proprio compito con
una persona che mi parlava da un lato, un’altra che mi diceva di spostarmi, i clienti
che mostravano la loro esigenza a un buon servizio al banco. Il caffè non mi era
permesso di farlo quasi mai, solo a volte quando c’era qualche amico che non
doveva pagare. Oltre a riordinare i frigoriferi e a pulire per terra, mi ritrovavo nella
mano un guinzaglio con attaccato il cagnolino della padrona del bar, che spesso
dovevo portare a fare i propri bisogni, per arrotondare le spese.
Non toccavo mai nulla dalla vetrina del bar, la cassa non la guardavo nemmeno e il
frigobar spesse volte lo trovavo già pieno. Eppure i proprietari avessero timore
che io rubassi qualche moneta, quando qualcuno di loro fosse assente. Il problema
era che qualcuno si dimenticava di pagare e la responsabilità era mia. Questo
accadeva perché a volte non sapevo dare il resto e quindi i pagamenti erano
segnati su un blocco di un quaderno, il quale spesso scompariva.
Un giorno la proprietaria, non fidandosi del tutto di me, prese la decisione di
cacciarmi quasi dal bar, ma lo fece con modi ostili e educati. Io, che di quel posto
di lavoro non ne ero particolarmente soddisfatto, accettai la sua proposta di
licenziamento.
Decisi di passare allora nel mio ristorante dove proprio in quel periodo stavano
facendo i lavori per aprire un servizio bar, posto all’ingresso del locale.
Mio padre mi diede il ruolo di barista, ma per fare ciò bisognava attendere
qualche periodo piuttosto lungo, poiché c’era bisogno di documenti in regola per
esercitare la mansione. Passati alcuni mesi, una mattina formammo un gruppo tra
camerieri, baristi e altri esercenti per dirigerci a un corso di prevenzione sanitaria.
Superammo l’esame ma non finì lì la faccenda. Bisognava avere dei documenti,
fare delle fototessere, aspettare ore negli uffici per firmare documenti.
Finalmente, con la mia tessera di riconoscimento, che portavo sulla giacca, potei
esercitare la mia professione di barista. Si cominciava di mattina a svolgere le
pulizie del bar per poi tornare la sera a mettermi a lavoro. Non avevo un vestito da
barista ma i miei soliti vestiti che usavo durante la giornata. Spesse volte trovavo il
bar in disordine. C’erano camerieri che circolavano in continuazione nel bar per
farsi da soli il caffè, senza chiederlo direttamente a me. Gli chef della cucina mi
chiamavano per aiutarli nelle proprie imprese e così, lasciando la mia postazione,
rischiavo di far attendere qualche cliente al bar.
Passavo dalla pizzeria alla sala, sembravo il caposala di un lussuoso albergo.
Dovevo fare cose che poteva esercitare benissimo e molto facilmente chi ne aveva
la responsabilità di doverlo gestire. Se mi ribellavo, rischiavo persino di averne
torto.
Una sera in cucina il cuoco preparò un piatto da servire a tavola, una volta pronto
presi il piatto e lo stavo per portarlo al tavolo. Il cuoco si arrabbiò perché non lo
dovessi ancora servire. Lo riposi, quindi, in cucina e mentre mi chiamarono alla
cassa per ordinare una pizza, poiché non c’era neanche un cassiere, il cuoco mi
richiamò sgridandomi di aver lasciato il piatto raffreddare, poiché in quei pochi
attimi di assenza sarebbe stato finalmente completato. Il cuoco di cui vi sto
parlando era mio cugino Ferdinando, quella stessa persona che si trovò a gestire
da solo il ristorante, il quale poi se ne andò a Roma per aprirsi una nuova società.
In realtà, quando il ristorante non aveva molti lavoratori, lui usava me e mio padre
per gestire tutto, mentre lui si vestiva da cameriere e poi passava le serate davanti
ad un computer, proprio lui che per anni giudicò me di starmene al computer e di
non voler sentirne nemmeno parlare del lavoro.
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Dopo la sua buona uscita, il ristorante passò nuovamente a mio padre che doveva
gestire da solo, ma come non riusciva a organizzare una gara sportiva di certo non
ne poteva essere specializzato nella ristorazione. Il locale quindi, già con pochi
operai e con le enormi spese da poter sostenere, andava sempre più nella miseria.
L’unico giorno dove si guadagnava era il sabato e la domenica. Tra un cameriere
ubriaco, che usava parole sgradevoli contro i clienti, un pizzaiolo scortese, un
cuoco nervoso, un’inserviente schizofrenica, mio padre doveva portare avanti la
baracca, insieme a mia zia e suo figlio Giovanni, il drogato.
Quest’ultimo, appunto, era il più considerato e apprezzato da tutti, nonostante gli
errori che commetteva, i soldi che rubava o chiedeva prepotentemente, le cattive
frequentazioni che incontrava per strada e per i cattivi, errati e bruschi
ragionamenti che faceva. Io, intanto, a rispetto di lui, avevo bisogno di aiuto, di
essere capito, di farmi valere, ne avevo tutte le colpe. Immaginate ora quale fosse
il motivo per il quale Giovanni veniva trattato meglio di me? Per il semplice fatto
che era furbo e pericoloso.
Sorelle che troppo bene mi volevano
Vi è mai capitato di vivere situazioni già vissute o che avete dovuto ripetere nel
raccontarle? Ecco, appunto, quello che, ancora una volta, mi tocca fare per
raccontarvi l’ennesima storia della mia vita.
Sin dalla mia prima infanzia ho sempre desiderato che arrivasse quel fortunato
giorno dove mi sarei liberato dalla sfortuna di vivere, non con una ma, con due
sorelle. Avendo ottenuto il miglior lusso dalla vita, contrariamente a me, si
mostravano libere di comandarmi a bacchetta, di prendersi tutte le ragioni, di
sottomettermi, con la difficoltà che non avessi anch’io un fratello per
controbattere alle loro minacce, che spesso usavano farmi, come ad esempio
andargli a comprare cibi sfiziosi, bevande e quant’altro loro interessava ricevere,
altrimenti me l’avrebbero fatta pagare. Siccome una delle mie sorelle collezionava
la famosa casa delle bambole, che ogni settimana andava ad acquistare in edicola,
un giorno decisi, per evitarle la scocciatura, di comprarne una edizione con i miei
soldi, per poi contraccambiarmi. Appena mi guardò arrivare, avendo in mano un
numero della sua costosa collezione, per dispetto decise di non restituirmi il
favore, poiché a lei dava fastidio che io m’intromettessi nella sua vita. Secondo voi
era davvero questo il motivo? Niente affatto, lei era molto tirchia come il padre e
se poteva cavarne profitto di guadagno o di risparmiare subito era pronta a farlo.
La sua collezione fu terminata e dopo aver speso montagne di monete, richiuse in
una grande scatola tutta la casa, maledicendo il giorno che l’avesse acquistata.
L’altra mia sorella invece era molto presuntuosa e arrogante. Odiava tutto ciò che
in certi casi poteva essere salutare, come il vino, la birra, i salumi. Litigavamo
spesso per diritti e doveri che lei poteva possedere ed io no. Il motivo non l’ho mai
conosciuto. Eppure io la difendevo sempre prendendomi cura di lei, proprio come
un fratello modello.
La sera preferivo stare da solo per via di alcuni film che mi piaceva vedere rispetto
a loro, che avevano altri gusti, ma ero condannato a restarci insieme e molte volte
raccontavano in giro che io volevo starmene da solo perché odiavo la compagnia.
Se avevo un problema, invece di aiutarmi, lo ingigantivano ancora di più, con
strane logiche e discorsi assurdi, quali non le davano ragione. A volte sembrava
loro persino strana una mia emozione o un mio stare un po’ giù di morale, senza
interessarsi della motivazione per cercare di capirmi meglio, preferivano invece
rendermi ancora più anomalo, per poi rinfacciarmi le volte che io mi lamentavo, di
non essere capito dei miei problemi, poiché non li esprimessi bene.
Qualunque cosa accadesse era colpa mia e tutto ciò era addirittura evidente,
senza conoscere la vera realtà dei fatti. Se avevo bisogno di dormire per loro era
un fastidio, anche perché dicevano che si mi alzassi presto la mattina la notte avrei
dormito meglio. Loro invece dormivano la mattina, il pomeriggio e la sera. Mi
criticavano di non avere un lavoro quando le stesse, non ne volevano sentir
nemmeno parlare. Dicevano che non uscissi con gli amici e allo stesso tempo mi
dichiaravano un incapace che non poteva avere amici.
Desideravo, quindi, una stanzetta tutta mia, anche perché dovevo crescere la mia
mascolinità, il mio essere forte e possente, la mia aria libertina, il mio sfogo
sociale, la mia verità.
Le mie sorelle si sposarono ed io ne ero molto soddisfatto. Si costruirono una casa,
ma siccome mia sorella Dora non sapeva cucinare, e a imparare neanche sentirne
parlare, prese la decisione di pranzare ogni giorno a casa nostra, occupando poi la
mia cameretta per tutto il pomeriggio con il suo piccolo figlio, il quale mi metteva
in disordine la casa, lamentandosi, inoltre, che io fossi disordinato. Mi
comandavano sulle mie cose personali, vietandomi addirittura l’accesso.
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Un parcheggiatore di troppo
Per il ristorante di mio padre avemmo, nel corso degli anni, centinaia di
parcheggiatori molto simili tra loro. Alcuni dei quali sfruttavano la mia voglia di
aprirmi a una più sincera comunicazione con il mondo degli adulti.
C’era chi mi chiamava al telefono per far finta di uscire, conoscendo qualche bella
ragazza per strada, con la mia automobile. Quando però raggiungevo quest’amico
parcheggiatore, che mi spronava a liberarmi dalle mie timidezze, sciogliendo di più
la mia anima chiusa a nuove esperienze, mi diceva che era troppo stanco dal
lavoro che aveva svolto tutta la giornata e, con una scusa, si faceva
riaccompagnare a casa, poiché non possedeva un’auto sua e non voleva pagarsi
un taxi.
Ci fu un altro giovane parcheggiatore che era solito ridere di me per certi aspetti
del mio comportamento, quando poi mi raccontò, di essere stato in una clinica
psichiatrica qualche anno più giovane. Invece di capire le mie condizioni,
avendone la sua massima esperienza, finiva col mettermi ancor più giù di morale.
Il parcheggiatore che veramente superò se stesso si chiamava Carmine. Era un
anziano signore dai capelli brizzolati e dall’aspetto non curato. Passavamo,
durante le serate, in cui doveva fare da guardiano alle automobili del parcheggio,
a parlare in continuazione. In particolare a lui piaceva umiliarmi ponendomi delle
curiose e volgari domande del quale mi vergogno ancor oggi a parlarne. Mi
chiedeva se da piccolo vedessi le mie sorelle mentre si spogliavano e se facessi
cattivi pensieri con loro. Da quel momento mi offesi talmente che decisi di non
frequentarlo più.
Passato del tempo, l’anziano parcheggiatore, mi chiamò ad avvicinarmi presso di
lui e sottovoce si mise a parlarmi in segreto di alcune giovani ragazze della mia
stessa età, le quali era intenzionato a farmi conoscere per fare amicizia con loro e
magari fidanzarmi. Fissammo insieme un appuntamento per l’incontro e si
presentò con un vestito elegante, quasi come se dovesse essere lui il
conquistatore. Mi si avvicinò a me ponendomi una curiosa domanda, della quale
iniziai a preoccuparmi. Mi chiese se avessi in tasca qualche soldo per pagare alle
ragazze almeno un gelato. Quello che mi dava il maggior sospetto era che
pretendesse da me qualche cifra alta di denaro, come se dovessi per forza
regalarle alle ragazze. In fondo era la mia prima conoscenza e soprattutto una mia
decisione riguardo ai miei guadagni. Fortunatamente mio zio, che lo conosceva
troppo, mi rivelò che, con l’inganno, mi stava portando da quelle ragazze di strada
che chiedono la carità per qualche ora di sesso. Il giorno dopo lo incontrai, era la
sua ultima volta che faceva il parcheggiatore, mi sedetti accanto a lui e lo
ringraziai di cuore per aver pensato a me, ma gli confidai che in realtà a me le
donne non interessavano proprio, non perché fossi omosessuale, ma poiché nella
vita c’era di meglio da pensare per affrontare il mondo sconosciuto e improbabile.
La mia auto lussuosa
Un giorno, appena fresco patentato, mio cognato mi portò da un suo caro amico
per farmi acquistare un’automobile usata. In particolare mi consigliò di sceglierne
un modello che a lui interessava molto e che per fortuna costava solo duemila
euro. L’auto sembrava molto interessante nell’aspetto, era di un grigio
metallizzato e con gli interni molto decorati. La provai e subito mi convinsi ad
acquistarla. Poiché era un’automobile molto richiesta, avrei rischiato persino di
perderla.
I primi mesi sembrava andasse tutto per il verso giusto, fino a quando ci furono
dei giorni che mi ritrovavo con le ruote bucate. Feci allora una decina di bucature
alle gomme per colpa di certi bambini che molto spesso si divertivano a usarci un
coltellino sopra. Decisi, dunque, di chiudere l’auto nel mio parcheggio in modo più
sicuro. Un mese dopo l’auto ebbe problemi alla batteria che m’imponeva una
volta di accendere i motori, un’altra di usare le frecce. Di lì a poco anche il cambio
ebbe i suoi problemi, il tubo di scappamento si staccò completamente dalla sua
posizione, l’auto perdeva benzina per via di un galleggiante che si era bucato col
tempo, dovevo riparare anche alcune ammaccature e lo stereo che non
funzionava per via di difettosi fili di corrente.
Alla fine misi a nuovo la mia automobile, non potevo più riscontrare nessun
problema, se non quello di aver pagato l’auto come se l’avessi comprata, in un
negozio, nuova.
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Lo psicologo matto
Un giorno decisi di andare a fare una visita psicologica da uno psicoterapeuta
molto curioso nell’aspetto. Mentre io gli spiegavo i miei problemi, si metteva
davanti a me a fumare. Dopo mi faceva sdraiare su un lettino di una stanza chiusa
e buia per alcuni minuti o anche mezz’ora. Alla fine mi domandò come mi fossi
sentito e io, che non avevo capito quella terapia, gli risposi che era andato tutto
come sempre. Mi spiegò allora, banalmente, che dovessi vivere la vita che mi
piacesse di più ed essere più felice. Questo io lo sapevo già e per l’appunto mi
trovavo lì, ma mentre lo stavo per spiegare subito, interruppe la mia
conversazione dicendomi che la seduta era terminata. Presi allora dalla mia tasca
cinquanta euro le posi nelle sue sporche mani di truffatore per poi non rivederlo
mai più.
Il Giglio di Carmela
Presso la strada in cui abitavo c’era una casetta rosa dal quale viveva una giovane
donna, sposata con due figli. In giro si mormorava di lei che, quando il marito era
assente per lavoro e i figli erano andati a scuola, dava prestazioni sessuali a gente
di ogni genere. Quest’affascinante segreto lo conobbi anch’io attraverso qualche
voce in giro.
La donna aveva un bell’aspetto che entrava a far parte di quell’erotismo insano, il
quale ogni uomo desiderasse di soddisfare nella propria mente.
Un giorno la donna entrò nel mio ufficio e con aria gentile e quasi provocatoria mi
chiese di fargli una ricerca al computer, altre volte veniva per altri favori dei quali
le ponevo gratuitamente. Ogni volta che se ne andava dal mio ufficio, mi
ringraziava chiamandomi tesoro. Man mano che passavano i giorni sembrava
come se stesse nascendo un vero sentimento tra noi due, tant’è che decisi di
scrivergli una lettera d’amore, alla quale lei non rispose. Intanto nella sua casa
continuavano a entrare uomini di ogni specie e di ogni età, cui lei invitava a salire
con un ottimo caffè.
Mi chiedevo allora cosa ci fosse in me che non andava nel poter entrare, una sola
volta, nella sua camera. Un giorno, con grande coraggio, gli posi questa leggera
domanda cui lei rispose che non era niente vero di quello che la gente raccontava
nei suoi confronti. Io allora le chiesi scusa ma lei mi perdonò con un torbido e
sensuale occhiolino.
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