Diapositiva 1 - Arcipelago itaca

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Diapositiva 1 - Arcipelago itaca
letterature, visioni ed altri percorsi
ideatore e curatore: Danilo Mandolini
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“Arcipelago itaca” blo-mag è un’iniziativa resa disponibile nel solo formato digitale e
distribuita via e-mail e tramite internet (www.arcipelagoitaca.it), a circa 1.000 tra
associazioni ed operatori culturali, riviste di letteratura e non, critici, scrittori ed
estimatori.
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caso citati gli autori e/o le fonti di reperimento).
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[…]
Ma ei non brama che veder dai tetti
sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,
e poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
Omero, Odissea - Libro I
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Quattordici immagini tratte dalla serie ANAMORFICHE di Danilo Mandolini
commentano questa diciannovesima apparizione di
“Arcipelago itaca” blo-mag
In copertina:
da ANAMORFICHE di Danilo Mandolini (2016)
Echi
Poesie di Sandro Penna Con un estratto da una nota di Cesare Garboli
e da un carteggio tra l’autore e Pier Paolo Pasolini
Cento passi nella poesia (e non solo). Le Edizioni l’Obliquo
di Giorgio Bertelli - Con una poesia di Francesco Scarabicchi
RILETTURE
Da Il lobo dei mostri di Henri Michaux - Con un brano da
Nella ragnatela degli esorcismi di Pasquale Di Palmo
Da L’alfabeto di un poeta di Mark Strand Con una Nota di Damiano Abeni
Voci
Anteprina Arcipelago itaca Edizioni
Da In transitu di Barbara Pumhösel
Da Ornitografie di Pier Franco Uliana
Da Letture di Cristina Babino (su Pasta madre di F. Mancinelli)
e da Pasta madre di Franca Mancinelli
Da Il numero dei vivi di Massimo Gezzi Con note di commento di Martina Daraio e Danilo Mandolini
Antologia dell’opera ed inediti di Danilo Mandolini Con un testo di Renata Morresi
Da Possibile ipotetico di Simone Sanseverinati
Collage Elio Pagliarani
Echi
1 - 29
30 - 41
42 - 53
Poesie di Sandro Penna Con un estratto da una nota di Cesare Garboli
e da un carteggio tra l’autore e Pier Paolo Pasolini
Cento passi nella poesia (e non solo). Le Edizioni l’Obliquo
di Giorgio Bertelli - Con una poesia di Francesco Scarabicchi
RILETTURE
Da Il lobo dei mostri di Henri Michaux - Con un brano da
Nella ragnatela degli esorcismi di Pasquale Di Palmo
Da L’alfabeto di un poeta di Mark Strand Con una Nota di Damiano Abeni
Voci
70 - 84
Anteprina Arcipelago itaca Edizioni
Da In transitu di Barbara Pumhösel
Da Ornitografie di Pier Franco Uliana
Da Letture di Cristina Babino (su Pasta madre di F. Mancinelli)
e da Pasta madre di Franca Mancinelli
85 - 104
Da Il numero dei vivi di Massimo Gezzi Con note di commento di Martina Daraio e Danilo Mandolini
54 - 61
62 - 69
105 - 149
150 - 156
157 - 158
Antologia dell’opera ed inediti di Danilo Mandolini Con un testo di Renata Morresi
Da Possibile ipotetico di Simone Sanseverinati
Collage Elio Pagliarani
Diciannovesima apparizione
echi
Se si afferma, come si afferma, che il lavoro ed il nome di Sandro Penna – tra i numerosi che il novecento letterario italiano
ci ha lasciati in eredità – non sono tra i più ricordati e studiati oggi, nessuno può dire, con ogni probabilità, che si sta
pronunciando un’inesattezza. È così. Anche tra i cosiddetti addetti ai lavori la poesia di Sandro Penna (quella sua
“pronuncia” a lungo considerata, a torto, soprattutto un “divertissement”) non è certamente, e purtroppo, una tra le prime
che “saltano alla mente” riflettendo proprio a proposito della letteratura italiana in versi prodotta nel secolo scorso. È così. Ci
stiamo un po’ tutti dimenticando (anche i lettori appassionati) di quei brevi (meglio: “scarnificati”; essenziali come
all’ennesima potenza) e al contempo alti componimenti nei quali Penna gridava, con toni che diremmo comunque controllati,
tutto il suo disperato desiderio di essere accettato per il proprio esistere da uomo diverso (anche per quella sua omosessualità
x
Sandro Penna
in qualche modo ancora più difficile da dichiarare nel secondo dopoguerra nostrano).
Ad alcune settimane dalla “battaglia” consumatasi (consumatasi, in verità, quasi tutta in superficie e già per molti
dimenticata) intorno ai diritti delle unioni civili in Italia, ci sembra doveroso ricordare, qui, la lotta silenziosa – di resistenza e
di dignità anzitutto – condotta da Sandro Penna attraverso la sua stessa poesia, attraverso una forma di espressione artistica
coltivata in disparte e tenacemente lontana dalle “necessarie” spettacolarizzazioni che la quotidianità odierna tende ad
imporci.
Nelle pagine che seguono - oltre ad una bio-bibliografia di dettaglio dell’autore - un estratto da una Nota di Cesare
Garboli, un’ampia selezione di versi del poeta umbro ed un breve carteggio tra lo stesso e Pier Paolo Pasolini.
Sandro Penna
La vita
e le opere
1
Nasce a Perugia, il 12 giugno del 1906 , da una famiglia borghese.
Compie gli studi fino al conseguimento del diploma di ragioneria, lavora in modo saltuario
svolgendo diversi mestieri. Conduce una vita irregolare, dedicandosi ad occasionali collaborazioni
letterarie e giornalistiche. Per qualche tempo è a Milano, dove trova un impiego come commesso in
libreria. Presto, però, si stabilisce a Roma, dove trascorrerà la maggior parte della sua esistenza.
Nel 1929, invia le prime poesie a Umberto Saba stabilendo con lui un rapporto che, trasformatosi
ben presto in amicizia, si rivelerà decisivo sul piano dell’esperienza letteraria. Importante è anche
l’incontro con gli artisti fiorentini che frequentano il Caffè Le Giubbe Rosse di Firenze.
Nel 1939, grazie all'interessamento di Giuseppe Ferrara e Sergio Solmi, pubblica la prima raccolta di
versi il cui successo lo fa entrare, come collaboratore, nelle redazioni di alcune importanti riviste
dell'epoca come "Corrente", "Letteratura", "Il Frontespizio” e il "Mondo“. Sulle pagine di questi
periodici appariranno, negli anni 40, diverse prose più tardi raccolte (1973) nel volume Un po' di
febbre.
Nel 1950 viene pubblicato il suo secondo libro di versi che esce nelle edizioni della Meridiana con il
titolo di Appunti. Nel 1955 pubblica il racconto Arrivo al mare e nei due anni successivi due opere
importanti
La vita
e le opere
2
importanti che definiranno meglio la sua personalità e lo stile della sua poesia: Una strana gioia di
vivere, edito da Scheiwiller nel 1956, e la raccolta completa delle sue Poesie edita da Garzanti (con
quest’opera ottiene, nel 1957, il Premio Viareggio). Nel 1958 pubblica Croce e delizia (Longanesi) e
nel 1970 appare, presso Garzanti, il suo libro Tutte le Poesie che comprende i versi precedenti e molti
inediti. In questo stesso anno gli viene assegnato il Premio Fiuggi.
Nel 1976 viene pubblicata, sull‘"Almanacco dello Specchio“, una scelta di sue poesie e, a distanza di
poco tempo, vede la luce il volume Stranezze per il quale, a pochi giorni dalla morte avvenuta a
Roma il 21 gennaio del 1977, gli viene assegnato il Premio Bagutta.
Il suo carattere schivo e ritroso lo tiene sempre in disparte rispetto alla “società letteraria”. Ciò
accade anche nei suoi ultimi anni di vita quando, pur conoscendo una certa celebrità, sono altri e
non lui a rivolgere appelli affinché si offra un aiuto concreto al poeta, malato e privo di mezzi di
sostentamento.
• Poesie (Firenze, Parenti 1939);
La vita
e le opere
3
• Traduzione di Paul Claudel, Presenza
e profezia (Milano, Ed. di Comunità
1947);
• Appunti (Milano, Edizioni della
meridiana 1950);
• Arrivo al mare (Roma, De Luca 1955);
• Una strana gioia di vivere (Milano,
All’insegna del pesce d’oro 1956);
• Poesie (Milano, Garzanti 1957);
• Croce e delizia (Milano, Longanesi
1958);
• Tutte le poesie (Milano, Garzanti 1970 Dal 1989 edito come Poesie con
prefazione di Cesare Garboli);
• Prosa in Acruto Vitali, Il tempo scorre
altrove. Poesie 1919-1963 (Milano,
All'insegna del pesce d'oro 1972);
• Un po' di febbre (Milano, Garzanti
1973);
• L'ombra e la luna. Sette poesie (Milano,
Vanni Scheiwiller 1975 - Con sette
acqueforti di Cristiana Isoleri);
• Stranezze
(1957-1976)
(Milano,
Garzanti 1976);
• Segreti, svelati da Enzo Giannelli
(Roma, Don Chisciotte 1977);
• Il viaggiatore insonne, a cura di Natalia
Ginzburg e Giovanni Raboni (Genova,
x
San Marco dei Giustiniani 1977);
• Traduzione
di
Prosper
Mérimée, Carmen e altri racconti
(Torino, Einaudi 1977);
• Il rombo immenso (Milano, Scheiwiller
1978);
• Confuso sogno, a cura di Elio Pecora
(Milano, Garzanti 1980);
• Peccato di gola. Poesie al fermo posta
(Milano, Libri Scheiwiller 1989);
• Appunti di vita (Perugia, Electa 1990 Da una mostra a cura di Elio Pecora);
• Lettere e minute / 1932-1938, con
Eugenio Montale, introduzione di Elio
Pecora, a cura di Roberto Deidier
(Milano, Archinto 1995);
• Umberto Saba, Lettere a Sandro Penna
/ 1929-1940, a cura di Roberto Deidier
(Milano, Archinto 1997);
• Una felicità possibile. Appunti di diario,
a cura di Elio Pecora (Genova, San
Marco dei Giustiniani 2000);
• Cose comuni e straordinarie, a cura di
Elio Pecora (Genova, San Marco dei
Giustiniani 2002);
• Autobiografia al magnetofono, a cura di
Elio Pecora (Genova, San Marco dei
Giustiniani 2006).
La scelta dei testi di SANDRO PENNA che segue
è tratta da Sandro Penna. Poesie - Prefazione di Cesare Garboli (Milano, Garzanti 2007)
ed è stata curata da Danilo Mandolini
Da una Nota
Sandro
Penna
La nota di Cesare
Garboli di cui al
presente estratto è
già apparsa in:
http://www.giuge
nna.com/2012/10/0
2/sandro-pennapoesie-e-una-notadi-cesare-garboli/
4
Di Cesare Garboli
La poesia di Sandro Penna […] è fatta del ricordo di cose presenti, nasce dalla vicinanza e dalla lontananza, dal
dilatarsi e accorciarsi gommoso di sensazioni che appartengono a un presente che è sempre già passato e a un passato
fulmineo e istantaneo come il presente. Così la pendolarità di felicità e frustrazione trova un correlativo immediato
nella fatalità meteorologica, e nel rapporto tòpico (che è una specie di spago col quale Penna cuce moltissime delle sue
poesie) interno/esterno, ambiente chiuso e plein air. Mentre tutto il sistema penniano ruota intorno a una solarità che fa
pensare a uno stupore da primitivo («sole» è parola-tema di Penna, le estensioni meteorologicamente metonimiche
dell’oscurità (sera, notte, luna, stelle, pioggia, nubi) si fanno carico dell’interiorità con cui la vita si ritira nell’ombra
dopo le «solari gesta» e le «solari prodezze» del giorno, e rinuncia a se stessa per il bisogno non meno vitale di
ricontemplarsi e di ricordarsi.
Penna si è fatto interprete non della novità del linguaggio poetico italiano del Novecento, ma – che non è meno
importante – del suo destino di putrefazione. Ci sono poeti di tale forza innovatrice da cambiare quasi di colpo i codici
costituiti; e ci sono poeti inamovibili dall’antichità, così fedeli alla tradizione da scenderne giù come le pecore dai
tratturi. Penna è poeta di questa razza; poeta di registro linguistico piccolo-borghese, dannunziano e pascoliano,
inesplicabile in un secolo che ha fatto del linguaggio uno strumento non di lode, ma di concorrenza col mondo. Uno
dei motivi che hanno tenuto Penna lontano dai centri di maggior traffico della cultura italiana negli ultimi
cinquant’anni, è stata la sua disappartenenza al moderno, la sua natura, in contrasto con la sua psicologia, di epigono,
di poeta sopravvissuto. Il fatto è che le radici di Penna si perdono poi così lontano da elevare la potenza del suo
italiano qualunque e da trasformare lo scintillio moribondo in un valore storico, in una contraddizione occulta e
predestinata come una malattia. La poesia di Penna presuppone il grande serbatoio pascoliano – «ascolto i miei
pensieri / piegarsi sotto il vento occidentale» – e nasce dall’oscuro nesso vita-sogno, da perdite di memoria e pronti
rimedi dannunziani di stile panico («Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo»). Ma Penna non fa mai
ricordare i modelli. Penna trascrive direttamente dal vissuto, riducendo a pochi suoni inimitabili una tastiera letteraria
fatta di combinazioni miracolose di grazia visiva, pennello impressionista, traduzione «greca», stile narrativo,
canzonetta sentimentale. Ricchissimo il movimento emotivo, in pendolo tra la meraviglia di vivere e il confuso dolore
da piede gonfio; e mobilissima la variabilità, la temperatura, l’intonazione, sempre in equilibrio fra lo stupore onirico,
la battuta gnomica, il tono fatale, il sottinteso ironico, e soprattutto il decreto di legge esistenziale da idolo
impenetrabile col volto pieno di rughe. Penna è poeta molto chic; col passare degli anni, ha poi sostituito a linee
musicali di una certa evanescenza una franchezza ritmica che si esalta nella precisione di segno degli «appunti», nella
semplicità oracolare, per così dire, del distico e della quartina. […]
Da Poesie
Sandro
Penna
Da
I - POESIE [1927-1938]
Nuotatore
Dormiva…?
Poi si tolse e si stirò.
Guardò con occhi lenti l’acqua. Un guizzo
il suo corpo.
Così lasciò la terra.
*
Le nere scale della mia taverna
tu discendi tutto intriso di vento.
I bei capelli caduti tu hai
sugli occhi vivi in un mio firmamento
remoto.
5
Nella fumosa taverna
ora è l’odore del porto e del vento.
Libero vento che modella i corpi
e muove il passo ai bianchi marinai.
Sandro
Penna
*
Eccoli gli operai sul prato verde
a mangiare: non sono forse belli?
Corrono le automobili d’intorno
passan le genti piene di giornali.
Ma gli operai non sono forse belli?
*
6
Trovato ho il mio angioletto
fra una losca platea.
Fumava una sigaretto
e gli occhi lustri avea…
Sandro
Penna
*
Anche se il vento copre
la primavera, il popolo
canta alla notte.
L’ascolto io dal mio letto. Lascio
«La vita di Gesù». Ardo a quel canto.
*
7
Se mezzanotte viene, ancora gli uomini
sono attaccati al bicchiere e all’amico.
Ma richiamato ai sogni di domani
con lenta grazia già ripiega un volto
adolescente.
Sandro
Penna
Il vegetale
Lasciato ho gli animali con le loro
mille mutevoli inutili forme.
Respiro accanto a te, ora che annotta,
purpureo fiore sconosciuto: assai
meglio mi parli che le loro voci.
Dormi fra le tue verdi immense foglie,
purpureo fiore sconosciuto, vivo
come il lieve fanciullo che ho lasciato
dormire, un giorno, abbandonato all’erbe.
*
8
Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita.
Da
II - POESIE INEDITE [1927-1955]
Sandro
Penna
APPENDICE ALLE “POESIE” (1927-1938)
*
Il mio fanciullo ha le piume leggere.
Ha la voce sì viva e gentile.
Ha negli occhi le mie primavere
perdute. In lui ricerco amor non vile.
Così ritorna il cuore alle sue piene.
Così l’amore insegna cose vere.
Perdonino gli dèi se non conviene
il sentenziare su piume leggere.
9
Da
II - POESIE INEDITE [1927-1955]
POESIE (1938-1955)
Sandro
Penna
*
La mano casta e odorosa di ferro
baciavo… E poi dall’officina un grido
lungo veniva a rapirmi la mano.
*
Era l’alba su i colli, e gli animali
ridavano alla terra i calmi occhi.
Io tornavo alla casa di mia madre.
Il treno dondolava i miei sbadigli
acerbi. E il primo vento era si l’erbe.
Altissimo e confuso, il paradiso
della mia vita non aveva ancora
volto. Ma l’ospite alla terra, nuovo,
già chiedeva l’amore, inginocchiato.
10
*
Fuggono i giorni lieti
lieti di bella età.
Non fuggono i divieti
alla felicità.
Cadeva la preghiera nella chiusa
casa entro odori di libri di scuola.
Navigavano al vespero felici
gridi di uccelli nel mio cielo d’ansia.
Sandro
Penna
*
Quando tornai al mare di una volta,
nella sera fra i caldi viali
ricercavo i compagni di allora…
Come un lupo impazzito odoravo
la calda ombra fra le case. L’odore
antico e vuoto mi cacciava all’ampia
spiaggia sul mare aperto. Lì trovavo
l’amarezza più chiara e la mia ombra
lunare ferma su l’antico odore.
*
11
I treni che languivano una volta
sono muti oramai. Mia vita, è stolta
la tua fame testarda. È solo, e svolta
nella strada notturna l’operaio
con la sua tosse a fine febbraio.
La sera
Sandro
Penna
Indi restammo in pochi – senza donne
nella campagna. Il freddo era cessato.
Ci guardammo in silenzio. Germinava
la terra. E il mio ragazzo ricordò: «L’altra stagione
ho guardato una donna – e tu dicevi:
”Chi ha sete nel sole
Lasci la bicicletta
E aspetti la luna”».
*
Ditemi, grandi alberi sognanti,
a voi non batte il cuore quando amore
fa cantar la cicala, quando il sole
sorprende e lascia immobile nel tempo
il batticuore alla tenera lucertola
perduta fra due mani in un dolce far niente?
Anche a me batte il cuore, e pur non sono
io del fanciullo vittima innocente.
12
*
Ma perché non comprare il bene e il male
di questo giovanetto incatenato
alla tua acetilene, o ciarlatano
del solo bene, idolo popolano.
*
Sandro
Penna
Ero solo e seduto. La mia storia
appoggiavo a una chiesa senza nome.
Qualche figura entrò senza rumore,
senz’ombra sotto il cielo del meriggio.
Nude campane che la vostra storia
non raccontate mai con precisione.
In me si fabbricò tutto il meriggio
intorno ad una storia senza nome.
*
Ecco il fanciullo acquatico e felice.
Ecco il fanciullo gravido di luce
più limpido del verso che lo dice.
Dolce stagione di silenzio e sole
e questa festa di parole in me.
*
13
L’estate se ne andò senza rumore.
Nubi leggere ad una ad una il cuore
gremirono di segni senza nome.
La luna trascorreva ansiosa e onesta.
Lunga distesa sovra un muro nella
canicola dormiva un’altra età.
Nella mano stringeva il suo più caro
oggetto. Non per pudore che non ha pudore
il sonno, e il sogno è solo anche in città.
Da
III - APPUNTI [1938-1949]
Sandro
Penna
*
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
*
Tu mi lasci. Tu dici «la natura…».
Cosa sanno le donne della tua bellezza.
14
*
Poi fu una cosa povera, avvilita,
nascosta da una mano, il segno della vita.
Da
IV - UNA STRANA GIOIA DI VIVERE [1949-1955]
Sandro
Penna
I
La tenerezza tenerezza è detta
se tenerezza cose nuove dètta.
VII
15
Era la vita tua lieta e gentile.
Quando a un tratto arrivò, gonfio d’amore,
un lombrico vestito da signore.
È quieta la tua vita e senza stile.
Sandro
Penna
XI
Il fanciullo magretto torna a casa
un poco stanco e molto interessato
alle cose dell’autobus. Pensa
– con quella luce che viene dai sensi
dei sensi ancora appena appena tocca –
in quanti modi adoperar si possa
una cosa ch’è nuova e già non tiene
se inavvertito ogni tanto egli tocca.
Poi si accorge di me. E raffreddato
si soffia il cuore fra due grosse mani.
Io devo scendere ed è forse un bene.
XVII
Cercando del mio male le radici
avevo corso tutta la città.
16
Gonfio di cibo e d’imbecillità
tranquillo te ne andavi dagli amici.
Ma Sandro Penna è intriso di una strana
gioia di vivere anche nel dolore.
Di se stesso e di te, con tanto amore,
stringe una sola età – e te allontana.
Sandro
Penna
XXVII
Come è bella la luna di dicembre
che guarda calma tramontare l’anno.
Mentre i treni si affannano si affannano
a quei fuochi stranissimi ella sorride.
XXIX
17
Come è forte il rumore dell’alba!
Fatto di cose più che di persone.
Lo precede talvolta un fischio breve,
una voce che lieta sfida il giorno.
Ma poi nella città tutto è sommerso.
E la mia stella è quella stella scialba
mia lenta morte senza disperazione.
Da
V - CROCE E DELIZIA [1927-1957]
Sandro
Penna
*
O mia vita felice in cui confido
ogni mia dolce pazzia solitaria.
*
*
Ragazzi, questa sera
di giugno, non tornerà mai più.
Queste cose sapete.
Ma come dire, come dire a voi
quello che siete
questa sera.
18
Anche se le compagne,
oh quelle non vi ammirano.
Ma voi non vi curate
di loro, veramente.
Girate un po’ lontano
insieme (due gemelli?).
Vi abbracciate e fingete
quello che veramente
qualche volta succede.
Sole con luna, mare con foreste,
tutt’insieme baciare in una bocca.
Ma il ragazzo non sa. Corre a una porta
di triste luce. E la sua bocca è morta.
Sandro
Penna
*
«Lasciami andare se già spunta l’alba.»
Ed io mi ritrovai solo fra i vuoti
capanni interminabili sul mare.
Fra gli anonimi e muti cubi anch’io
cercavo una dimora? Il mare, il chiaro
mare non mi voltò con la sua luce? Salva
era soltanto la malinconia?
L’alba mi riportò, stanca, una via.
Donna in tram
19
Vuoi baciare il tuo bimbo che non vuole:
ama guardare la vita, di fuori.
Tu sei delusa allora, ma sorridi:
non è l’angoscia della gelosia
anche se già somiglia egli all’altro uomo
che per «guardare la vita, di fuori»
ti ha lasciata così…
Solfeggio
Sandro
Penna
20
La giovinezza è ancora mio appannaggio?
Già mi pare di sì ora che il vento
scompiglia dolcemente i miei pensieri
e la finestra è aperta, chiara e onesta,
e morta è nei miei versi la mia noia.
È durata due giorni la mia noia,
la triste noia fatta di parole
e di azioni convulse a mascherare
l’assenza di un amore, la mia prima
tregua nel mondo del mio disonore.
Sono stato due giorni senza amore:
ho veduto il più bello dei fanciulli
morire nel mio cuore senza un guizzo
come fa la candela senza cuore.
Ho poi veduto un tenero, un novizio
rossore su una gota calda e sola
e sola la ho lasciata raffreddare
come un vecchio maestro elementare.
Sorpreso ho infine casualmente il sesso
di un biondo marinaio aperto e onesto
(non domandate, cittadini, dove)
e non gli ho detto che non era solo.
Non domandate, amici, perché tace
anche il biondo battello sotto il sole;
nel beccheggio sono le sue parole
ma il mio silenzio era privo di sole.
La giovinezza è ancora mio appannaggio?
Già mi pare di sì ora che il vento
scompiglia dolcemente i miei pensieri
e la finestra è aperta, chiara e onesta,
e morta è nei miei versi la mia noia.
È durata due giorni la mia noia
…………………………………………..
*
Lungo è il tragitto in autobus. Anche
se la campagna fuori è così bella.
Anzi sognata tra la nebbia. Un rozzo
garzone di fornaio una sua tenera
grazia concede ad attimi e poi nega
facendo di quel tratto una catena
di bei ricordi da sgranare a sera.
Da
VII - ALTRE [1936-1957]
Sandro
Penna
*
Sempre fanciulli nelle mie poesie!
Ma io non so parlare d’altre cose.
Le altre cose son tutte noiose.
Io non posso cantarvi Opere Pie.
* * *
Da
VIII - STRANEZZE [1957-1976]
1
(dal 1957 al 1965)
Guardando un ragazzo dormire
21
*
Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.
Ma più belli di te ragazzi ancora
dormiranno nel sole in riva al mare.
Ma non saremo che noi stessi ancora.
Forse l’ispirazione è solo un urlo
confuso. Ma entro le colonne della
legge, ridendo si masturba ogni fanciullo.
Sandro
Penna
Erotica
Questo corpo che stringo (e mi stringe!)
ha sapore di fango e di stelle.
Ed io non so chi ora mi tinge
(profondissimo giuoco) le stelle
di rosso.
Lavoro di pescatore
22
Sebbene il moto del sole
fosse presente e vivo
sembrava il tempo sostare
eternamente.
Sandro
Penna
*
Non furono questi costumi vilipesi.
Non poterono più essere compresi.
Variante
23
Oh voglia di baciare un bel ragazzo.
Sole con luna, mare con foreste.
Tutt’insieme baciare in una bocca.
Ma il fanciullo non sa. Corre a una porta
di triste luce. E la sua bocca è morta.
Da
VIII - STRANEZZE [1957-1976]
2
(dal 1965 al 1970)
Sandro
Penna
Omosessualità
Le loro brame segrete, le loro
selvagge vittorie sulla carne
si confidavano. Una notte
(avevano il giorno tutto, giorno
di prima estate,
vagato per la campagna
insieme) insieme
di stanchezza dormirono. All’alba s’incontrarono
i loro corpi nudi.
Fu una cosa del tutto naturale.
Ad un amico
24
Dei giovinetti schivo
tu sei un immortale.
Oh bel sogno sportivo
dolcissimo e reale.
Da
VIII - STRANEZZE [1957-1976]
3
(dal 1970 al 1976)
Sandro
Penna
*
Non c’è più quella grazia fulminante
ma il soffio di qualcosa che verrà.
*
25
Laggiù, dove una storia
personale nel sole,
mi parve un superiore
giuoco di dadi...
oggi una vacca senza storia annusa
la nera terra un po' fumante, chiusa
tra i filamenti della pioggia, radi
ma certi fili della memoria.
*
Muovonsi opachi coi lucenti secchi
gli uomini calmi in mezzo agli orti. Il rosso
dei pomodori sta segreto e acceso
nel verde come un cuore. Ma lontano
il mare con le sue luci d'argento,
che sono le campane del mattino,
chiama alla pesca gli uomini che il vino
del ritorno sognavano fra il lento
ondeggiar delle barche, ridestate
quali uccelli sul ramo. L'altalena
ferma nel buio della villa aspetta
il giorno. E il giorno accorderà le varie
e rumorose colazioni. Io resto
fra tanta luce e battere di panni.
Tre rape mezza mela ed una triste
macchina di cucina vecchia d'anni
sonnecchiano su un tavolo non viste.
Da
IX – IL VIAGGIATORE INSONNE [1977]
Sandro
Penna
Sbarco ad Ancona
Dalla nube di polvere di carbone
mi saluta un sorriso tutto bianco.
Ma l’angelo di legno della barca
guarda gli orinatoi tristi e odorosi
improvvisati agli angoli – rivali
o amici cari ai cocomeri rossi.
Amici miei gli orinatoi… Ma io
non tendo forse al monte dove trovo
– lontano il mare e l’odore perverso –
l’adolescente odoroso di fichi?
26
*
Immobile e perduto, lentamente
animava nel buio la mano.
Sandro
Penna
*
Fra le case andavo allegro
già pensando a primavera.
Quando a un tratto un grande negro
mi apparì. Era la sera.
L’indomani che a quel nero
ripensavo in mezzo all’oro
del mattino; oh che pensiero
folle entrò nel cuore: un coro
Di soldati, tutto stretto
fra le case della sera,
fu il dolcissimo biglietto
che annunciò la primavera?
*
27
Esiste ancora al mondo la bellezza?
Oh non intendo i lineamenti fini.
Ma alla stazione carico di ebbrezza
il giovane con gli occhi ai suoi lontani lidi.
Un carteggio con Pier Paolo Pasolini
Sandro
Penna
[Roma, febbraio 1970]
Caro Sandro,
In:
http://www.pierpa
olopasolini.eu/sag
gistica_PPP-aSandroPenna.htm
28
non è forse giusto ch'io dica a te cose che riguardano te, e che ti dipingono con tanto amore. Io ho un culto
di te. E, come tutti i culti, mi dà il rimorso di non essere così forte e fedele da praticarlo degnamente. Ciò lo
dico come se ambedue fossimo morti, e la vita non ci toccasse dunque più con la sua miseria, che giorno per
giorno, ora per ora, contraddice ciò che tu sei e ciò che io penso tu sia. È la vita nella sua totalità, come se
noi l'avessimo del tutto adempiuta (e di fatto è quasi così) che ora io guardo. In questa vita tu ti sei tenuto in
disparte, a contemplarla, come un animale buono, che qualche volta deve pur nutrirsi, e allora è costretto a
predare, non potendo vivere di pura contemplazione, di «gioia e dolore di esserci». Avrai dunque compiuto
anche tu i tuoi peccati, e anche la tua coscienza avrà laboriosamente lottato per giustificarsene. E ciò ti avrà
reso patetico come il personaggio di una grande opera, che quasi non canta. Questa tenerezza della miseria
umana ti circonda come un'aureola terrestre intorno a un capo celeste. Non dico che queste parole ti
rappresentino del tutto fedelmente, e che possano prestarsi a qualche equivoco, per un estraneo che legga
questa nostra lettera intima: sì, infatti oltre che miseramente patetico, sei anche un po' buffo. E ciò
contraddice alla tua immagine santa che sto delineando.
Contraddice, intendo, nei termini usuali con cui si discorre: in realtà tutti i santi sono patetici e buffi. In cosa
consiste la tua santità? Nel silenzio con cui hai rinunciato alla vita e al suo godimento così come è inteso
nella nostra parte di storia in cui siamo apparsi su questa terra. Ripeto, hai cercato il tuo godimento altrove,
in cose considerate da tutti futili, remote, incomprensibili, infantili e sconvenienti. Anche tu sei stato, ripeto,
un po' predone di quella realtà che forse dovrebbe essere unicamente contemplata. Ma è proprio da questi
tuoi momenti di peccato in cui sei venuto meno alla regola della rinuncia e della umile, silenziosa,
monastica protesta contro il mondo, così sublime e così inaccogliente che tu hai trovato le aspirazioni per la
tua poesia. Essa consiste nell'osservazione lieta e priva di ogni speranza delle cose (per te pochissime, anzi
forse una sola) che si possono cogliere nel mondo per sopravviverci; ma questa osservazione è compiuta nel
silenzio del luogo dove non si vive più ma, appunto, si contempla soltanto. La tua esclusione di te stesso da
un mondo che del resto ti escludeva è stata una lunga ascesi, fatta di notti e di giorni, in cui si ride e si
xxxxxx
piange, come ingenui personaggi di opere romantiche senza né principio né fine, con le loro croci e le loro
delizie: una lunga ascesi in cui, anziché pregare, hai cantato le forme del mondo lontano.
Sandro
Penna
Che ciò abbia fatto di te - oltre che un santo anarchico e un precursore di ogni contestazione passiva e
assoluta - forse il più grande e il più lieto poeta italiano vivente - è un discorso che si svolge su un piano
molto più basso di quello di questa lettera incerta e incompleta, che riguarda più la tua poesia vissuta che la
tua poesia scritta. È la prima infatti a contare, per chi, appunto perché educato e come tolto a se stesso da
un lungo amore per la poesia, riesce a intravedere ciò che vale al di fuori di ogni valore: la santità del nulla.
Minuta dattiloscritta con correzioni autografe conservata nell'Archivio Pasolini. Per la seconda edizione delle Poesie di Penna,
aumentata di Croce e delizia e di altri inediti (cfr. Tutte le poesie, Milano, Garzanti 1970), Pasolini ha steso questo scritto sotto forma
di lettera all'autore, che, trasferito in terza persona e con alcuni ritocchi, sarà inserito nei volumi come “segnalibro”.
***
[senza data]
Caro Pier Paolo,
grazie, tanto più che mi credevo proprio non ti fosse possibile. Avevo anche scherzato con Milano
(Garzanti) che eri preso da mille cose con un Brasile che ti aspettava.
Glielo mando subito e, credo non ti offenderai, gli chiederò «cosa farete con Pier Paolo? Lo pagate o gli fate
un bel regalo in libri?» So che a te non interessa, ma il lavoro deve essere compensato. Ti pare. Ma dovevo
solo scriverti «grazie» sul cuscino. L'idea è di Elsa [Morante] ma io tanto sapevo che a Graziella si può dire
tutto.
29
Digli di Porcile: ho pianto di entusiasmo come a Ladri di biciclette o [illeggibile]. Ma quelle sono cose ormai
incolori di fronte alla stupenda visione (ma lo hai sognato?) di Porcile. È bello anche se non si può capire o
spiegare. Ma da Mallarmé... Godi il Brasile.
Poco santo ma molto affezionato, tuo Sandro
Il saggio è più sublime, cioè è sublime quanto affettuoso. Lo leggerò tutta la notte. Non lo imposto subito.
Elsa ne è entusiasta.
Cento passi nella poesia (e non solo)
Giorgio Bertelli, fondatore e titolare delle Edizioni l’Obliquo di Brescia, è uomo laborioso e di poche parole. Con poche
parole, quindi, parlerò qui del suo lavoro.
100 sono i libri di poesia che sono stati pubblicati dalle Edizioni l’Obliquo, con la collana “Ozî”, in trent’anni di attività (quasi
300, se si considerano tutte le collane, è il numero totale dei lavori dati alle stampe)!
Tutte le opere sono curatissime nella loro realizzazione e per lo più accompagnate da un’opera d’arte visiva; le scelte editoriali
sono sempre state attentamente ponderate e, tra queste, molte sono da considerarsi come delle vere e proprie “primizie”.
Tutto questo: nell’ambito di un catalogo che oggi risulta essere una perfetta sintesi tra autori nazionali ed internazionali di
assoluto rilievo ed autori emergenti.
Tra le “primizie” alle quali ho poco fa accennato, ce ne sono due che, forse – “forse”, perché è veramente difficile scegliere –,
possono essere considerate come più autentiche delle altre. Sto parlando de Il lobo dei mostri di Henri Michaux (versioni e
saggio introduttivo di Pasquale Di Palmo, Collana Polaroid, 2006) e de L’alfabeto di un poeta di Mark Strand (versioni e
nota di Damiano Abeni, Collana Ozî, 2001).
Ecco: secondo chi scrive queste poche righe, il miglior modo per celebrare la lunga e proficua attività delle Edizioni
l’Obliquo è certamente quello di dare visibilità, insieme ad altri piccoli omaggi, alle “primizie” di cui appena in precedenza.
Nelle pagine che seguono, dunque: una poesia (Lo sguardo) di Francesco Scarabicchi, dedicata a Giorgio Bertelli; biobibliografia di dettaglio di Henri Michaux; un brano dal saggio introduttivo di Pasquale Di Palmo a Il lobo dei mostri di Henri
Michaux, sei prose scelte da questa stessa opera; notizia bio-bibliografica di Pasquale Di Palmo; bio-bibliografia di dettaglio di
Mark Strand; sette prose scelte da L’alfabeto di un poeta di Mark Strand; nota di Damiano Abeni; notizia bio-bibliografica di
Damiano Abeni.
Danilo Mandolini
http://www.edizionilobliquo.it/
Le Edizioni l’Obliquo di Giorgio Bertelli
Le Edizioni l’Obliquo di Giorgio Bertelli
In questa pagina, qui a destra:
• riproduzione della copertina del volume
realizzato in occasione del trentennale delle
Edizioni l’Obliquo (Galerie Bordas, dicembre
2014).
Nella pagina successiva:
• riproduzioni della copertina del primo libro
stampato dalle Edizioni l’Obliquo - Collana “Ozî” e
dell’opera a questo allegata (in basso a sinistra Iridi di Francesco Scarabicchi e serigrafia di Giorgio
Bertelli);
• riproduzioni della copertina dell’ultimo volume
stampato dalle Edizioni l’Obliquo - Collana “Ozî”
(in alto a destra - Bestiario gotico di Attilio Lolini e
linoleum di Giorgio Bertelli);
• i luoghi, le località e le date di svolgimento delle
mostre celebrative del trentennale delle Edizioni
l’Obliquo.
Cento passi nella poesia (e non solo)
ATTILIO LOLINI
BESTIARIO GOTICO
Galerie Bordas, Venezia 13 dicembre 2014 / 10 gennaio 2015
EDIZIONI
DIZIONI
L’OBLIQUO
L’OBLIQUO
Biblioteca Civica di Verona - 18 giugno / 18 luglio 2015
FRANCESCO SCARABICCHI
IRIDI
Casa delle letterature, Roma 24 settembre / 22 ottobre 2015
EDIZIONI L’OBLIQUO
Di Francesco Scarabicchi
***
Lo sguardo
A Giorgio Bertelli
«Guardo da quest’altura della luce
chi sceglie l’altra via per risalire
verso le case bianche nella nebbia
e i nomi, consonanti di vie brevi,
Musiche che non so, stanze serene
di piccole tendine e sedie amiche,
Cibo nei piatti pronto, fuoco acceso,
È qui che ho visto addormentasi il tempo,
scegliere di una sera il suo giaciglio,
dedicarsi alla voce che non mente,
Conquistare per sempre senza armi».
Da L’esperienza della neve (Roma, Donzelli 2003)
Patrizia Cavalli
Riletture
Henri Michaux
La vita
e le opere
30
Nasce a Namur, in Belgio, il 24 maggio del 1899.
Trascorre la sua infanzia in un'agiata famiglia di fabbricanti di
cappelli, a Bruxelles. Dopo l’esperienza in un pensionato della regione
di Anversa, prosegue i suoi studi presso il Collège Saint-Michel dove,
tra i suoi compagni, figura il futuro poeta Geo Norge.
Adolescente angosciato, le sue prime esperienze letterarie sono
segnate dalla lettura di Tolstoj e Dostoevskij. Anche se legge molto, nei
suoi iniziali studi presso i Gesuiti non si orienta verso ambiti letterari,
ma verso la medicina, che abbandonerà però abbastanza presto per
imbarcarsi come marinaio nella Marina militare.
Naviga tra il 1920 e il 1921 ma è poi costretto a sbarcare quando la sua
nave viene disarmata. All'incirca nella stessa epoca, a spingerlo a
scrivere è la lettura di Lautréamont. Il risultato di questo incontro sarà
il Cas de Folie Circulaire, del 1922: un primo testo che già rende l'idea di
ciò che sarà il suo stile. In seguito gli scritti si succedono (Les rêve et la
jambe, nel 1923, Qui je fus, nel 1927) e gli stili si moltiplicano. Nel 1928
si stabilisce a Parigi; qui dirige la rivista "Hermès". Nel 1929 ricomincia
a viaggiare. Dal 1955, anno in cui viene naturalizzato francese, si
dedica alla sperimentazione degli allucinogeni, in particolare della
mescalina.
La sua opera (si è anche occupato di pittura) è spesso posta in
relazione con il Surrealismo, sebbene non abbia mai fatto parte di
questo movimento.
Muore a Parigi il 19 ottobre del 1984.
HENRI MICHAUX
IL LOBO DEI MOSTRI
EDIZIONI L’OBLIQUO
Tra i suoi molti lavori si ricordano:
La vita
e le opere
31
• Chi fui (Qui je fus, 1927);
• Ecuador (Ecuador. Journal de voyage, 1929) - Trad. Guido Neri e Jean
Talon, Macerata, Quodlibet 2005;
• Un certo Piuma (Un certain Plume, 1930) - Trad. Alfredo Giuliani,
Milano, Bompiani 1971;
• Un barbaro in Asia (Un barbare en Asie, 1933) - Trad. Diana Grange
Fiori, Torino, Einaudi 1974 - Trad. di Alessandro Giarda, Milano, O
barra O 2015;
• Tra centro e assenza (Entre centre et absence, 1936);
• Viaggio in gran Garabagne (Voyage en grande Garabagne, 1936), in Altrove
- Trad. e cura di Gianni Celati e Jean Talon, Macerata, Quodlibet 2005;
• Nel paese della Magia (Au pays de la Magie, 1941), in Altrove - Trad. e
cura di Gianni Celati e Jean Talon, Macerata, Quodlibet 2005;
• Esorcismi (Épreuves, exorcismes, 1944);
• Qui Poddéma (Ici Poddéma, 1946), in Altrove - Trad. Guido Neri e Jean
Talon, Macerata, Quodlibet 2005;
• Altrove (Ailleurs, 1948), trad. Liliana Magrini e Carla Vasio, nota
introduttiva di Claudio Rugafiori, Milano, Rizzoli 1966 - Trad. Guido
Neri e Jean Talon, Macerata, Quodlibet 2005;
• Poesia per potere (Poésie pour pouvoir, 1949);
• Passaggi (Passages, 1950) - Trad. Milano, Adelphi 2012;
• Miserabile miracolo (Miserable miracle, 1956) - Trad. Enrico Filippini,
Valeria Riva e Claudio Rugafiori, Milano, Feltrinelli 1967;
• L'infinito turbolento (L'infini turbulent, 1957), in Miserabile miracolo Trad. Enrico Filippini, Valeria Riva e Claudio Rugafiori, Milano,
Feltrinelli 1967;
La vita
e le opere
• Conoscenza dagli abissi (Connaissance par les gouffres, 1961), a cura di
Jean Talon - Trad. Mario Diacono, introduzione di Emanuele Trevi,
Macerata, Quodlibet 2006;
• Venti e polvere (Vents et poussières, 1963);
• Le grandi prove dello spirito e le innumerevoli piccole (Les grandes épreuves
de l'esprit et les innombrables petites, 1966);
• Lo spazio interiore (L'espace du dedans. Pages choisies 1927-59, 1966) Trad. Ivos Margoni (Torino, Einaudi 1968);
• Modi di un risvegliato (Façons d'éveillé, 1969);
• Modi di un addormentato (Façons d'Endormi, 1969);
• Trave angolare (Poteaux d'angle, 1971), a cura di Diana Grange Fiori,
Padova, Liviana 1988 (supplemento a “In forma di parole”);
• Momenti (Moments, 1973);
• Braccio rotto (Bras cassé, 1973);
• Giorni di silenzio (Jours de silence, 1978);
• Brecce (antologia personale), a cura di Diana Grange Fiori, Milano,
Adelphi 1984 (Biblioteca Adelphi n. 145);
• Sulla via dei segni, a cura di Lucetta Frisa (Genova, Graphos 1998).
***
32
La scelta dei testi di HENRI MICHAUX che segue
è tratta da Il lobo dei mostri (Brescia, l’Obliquo 2006)
ed è stata curata da Danilo Mandolini
Da Nella ragnatela degli esorcismi
Henri
Michaux
Di Pasquale Di Palmo
Lo dico per il vostro bene, un visionario
non può durare a lungo.
Henri Michaux
33
La raccolta di prose Le lobe des monstres esce per i tipi de l’Arbalète nel 1944, in un’edizione numerata di
235 esemplari, contenente un disegno di Michaux. In seguito confluisce, insieme alle altre due opere
risalenti al periodo bellico intitolate Exorcismes e Labyrinthes, uscite presso Godet nel 1943, nel progetto di
Épreuves, exorcismes (1940-1944), pubblicato da Gallimard nel dicembre del 1945. Le lobe des monstres subisce.
secondo la tipica prassi adottata dall’autore di rielaborare in continuazione i propri scritti, alcuni
emblematici rimaneggiamenti, tra cui la soppressione delle tre prose intitolate rispettivamente La maison et
le canon, Une pluie d’hommes e Un nerf fait une rencontre. Ma altre e significative varianti intervengono a
scombussolare il primitivo disegno della raccolta, sia nell’ordinamento delle prose sia nelle variazioni di
alcuni titoli o passaggi. Nella lezione della silloge gallimardiana, ad esempio, Après la mort diventa Après ma
mort, Dans l’échafaudage céleste si tramuta in En plein ciel, Le vautour envahissant si trasforma nel più lineare Le
vieux vautour.
Ma non ci preme in questa sede effettuare una circostanziata analisi filologica dell’opera bensì
addentrarci nel laboratorio alchemico di Michaux, in quanto queste varianti costituiscono una sorta di
indicativo segnale teso a mettere in luce il suo particolare modus operandi, il suo continuo, indefesso
ritornare sui propri testi al fine di depurarli da ogni possibile scoria linguistica. È sintomatico che i curatori
delle Oeuvres complètes di Michaux, edite in tre volumi nella prestigiosa collana della Bibliothèque de la
Pléiade di Gallimard, siano stati costretti ad allestire una serie di tavole sinottiche mirate a fare chiarezza
sulle vicende intricatissime riguardanti il percorso bibliografico dell’autore belga. Uno stesso scritto infatti
viene ripreso e rielaborato a più riprese, piegandosi alle particolari esigenze espressive dell’opera in cui
figura. In tal senso risulta fondamentale il lavoro di Raymond Bellour che, in collaborazione con Ysé Tran,
nelle sezioni relative all’apparato filologico dei volumi succitati della Pléiade, riesce a ricostruire il disegno
originario del mosaico: numerosissime risultano infatti le collaborazioni del poeta ad antologie e riviste sia
le pubblicazioni di singole plaquettes confluite in raccolte più organicamente strutturate.
L’opera di Michaux rappresenta uno scavo nei precordi compiuto nel tentativo di riportare a galla la
xxxx
Henri
Michaux
1
HENRI MICHAUX, Un
certain Plume, Paris.
Éditions du Carrefour
1930, seguito da Plume,
précedé de Lointain
intérieur, Paris,
Gallimard 1938. Cfr. le
versioni italiane Un
certo Piuma, a cura di
ALFREDO GIULIANI,
Milano, Bompiani 1971;
Le disavventure del signor
Plume, a cura e
traduzione di FIDELIO
BONAGURO, Viterbo,
Stampa Alternativa
2000.
2 E. M. CIORAN,
Michaux. La passione
dell’esaustivo, in Id.,
Esercizi di ammirazione.
Saggi e ritratti,
traduzione di MARIO
ANDREA RIGONI e
LUIGIA ZILLI, Milano,
Adelphi 1988, p. 157.
3 HENRI MICHAUX, Le
lobe à monstres, in Id., Le
lobe des monstres, Lyon,
L’Arbalète 1944, p. n.n.
34
parola perduta, operazione che non presenta alcun carattere di gratuità derivante da mere esigenze di tipo
estetico o letterario ma che si fonda su un consapevole, quanto rischioso, esercizio di decrittazione di una
realtà dai tratti sempre più aberranti e incomprensibili. Non è un caso che , proprio durante le
peregrinazioni dell’autore compiute durante la seconda guerra mondiale, si accentui la predisposizione a
sondare quel mondo popolato da mostri di cui, già con le prove fondamentali di Un certain Plume, edito in
prima edizione nel 1930 e successivamente rielaborato, Michaux ci offriva un rappresentativo campionario1.
Ma, mentre le varie stesure ispirate al personaggio di Plume sono dominate da una sorta di provocatorio
humour nero (quello che Cioran ha felicemente definito come uno «humour da scorticato»)2, le
frammentarie vicende legate alle carrellate teratologiche de Le lobe des monstres sembrano attenuare quel
sottofondo di umorismo macabro presente nelle prove precedenti a favore di una più angosciante, una più
allucinata visione del mondo. I mostri che popolano le pagine di questo libretto rappresentano, per l’autore
che li ritrae, presenze incomprensibili. Anzi, spesso si tratta di parvenze di mostri, di ectoplasmi che si
rinnovano e modificano senza sosta, che subiscono una ininterrotta, straniante metamorfosi priva di
qualsiasi giustificazione e senso.
Dal marmo abbagliante delle statue si passa agli esseri bicefali, dagli uomini-tronco all’avvoltoio che, in
una trasformazione di ascendenza kafkiana, presta il suo profilo rapace al volto di un amico o di uno
sconosciuto. D’altronde sembra che la pietas sia bandita in questo universo dalle sembianze disumane, che il
sentimento ricorrente sia quello della sorpresa, del medesimo straniamento che si prova davanti alla visione
enigmatica di Odradek. A volte i mostri si insinuano, in forma evasiva ed eversiva, quasi
impercettibilmente, all’interno di un determinato organismo, contaminandone in maniera irreparabile la
funzionalità, come nel caso del brano a cui è ispirato il titolo della raccolta, in cui si afferma
perentoriamente: «Era dunque saldata alla vita, la vita dei mostri»3.
[…]
Da Il lobo dei mostri
Henri
Michaux
Le mie statue
Ho le mie statue. I secoli me le hanno tramandate: i secoli della mia attesa, i secoli dei miei avvilimenti, i
secoli della mia mancanza di oppressione, della mia infinita speranza. Ora sono là.
Come fossero antiche rovine non sempre capisco cosa rappresentino.
La loro origine mi è sconosciuta e si perde nella notte della mia vita, dalla quale soltanto le loro forme
sono state preservate.
Ma sono là e ogni anno che passa indurisce più a lungo il loro marmo, biancheggiante sul fondo oscuro
di sagome dimenticate.
35
Henri
Michaux
Un lobo da mostri
Dopo la mia terza ricaduta vidi, attraverso la vista interiore, il mio cervello dalle spire vischiose e, in
maniera macroscopica, i suoi centri di cui quasi nessuno funzionante, laddove mi sarei aspettato di veder
piuttosto del pus o un tumore.
Come mi misi a cercare un lobo che fosse ancora in buona salute, ne vidi uno smascherato dal
raggrinzimento degli altri. Era in piena attività e dei più pericolosi; in effetti era un lobo dei mostri. Più lo
fissavo e più ne ero sicuro.
Era il lobo dei mostri, abitualmente ridotto a una condizione inattiva, nel cedimento degli altri,
attraverso una sostituzione potente, saltuariamente mi assicurava in vita; Era dunque saldata alla mia, la vita
dei mostri. Ora io avevo già avuto, durante tutta la mia vita, il più grande male a riportarli al rango di
subalterni.
Forse rappresentavano adesso gli estremi tentativi compiuti dal mio essere per sopravvivere. Su quelle
mostruosità, non oserei dirlo, io prendo sostegno. Chi avrebbe creduto che, a quel punto, tenessi alla vita?
Andavo aggrappandomi di mostro in mostro, di bestia in bestia…
36
Henri
Michaux
Scrive
Scrive…
La carta cessa d’essere carta, a poco a poco diventa un lungo, lungo tavolo sopra cui arriva, diretta (lo so,
lo sento, lo intuisco) la vittima ancora sconosciuta, la vittima lontana che gli è destinata.
Scrive…
Il suo orecchio fine, fine, il suo unico orecchio ascolta un’onda che sopraggiunge fine, fine, e un’onda
successiva pronta ad arrivare da un’età e da uno spazio remoti per spingere la vittima ancora sconosciuta
che dovrà subire.
La sua mano si accinge…
E lui? Guarda fare.
Coltello che proviene dall’alto della fronte e arriva fino in fondo a se stesso, veglia, pronto a tranciare,
nella massa che l’Universo straripante spinge verso di lui, la vittima che gli è destinata.
Scrive…
37
Henri
Michaux
La grande mano informe
Mi sembra di veder passare spesso sulle cose che mi stanno davanti una gigantesca mano informe.
Sulle cose, sui monumenti stessi, sulle facciate dai cento piedi di altezza; essa ha come l’aria di voler fare
enormi danni. Ma va soltanto a tentoni.
Ecco quello che un’esperienza già sorpassata mi autorizza a dichiarare, che va a tentoni. E senza finezza.
Senza nemmeno un’autentica massa, se non per essere dove appare, ha dovuto attraversare e attraversa
ancora al presente mura solide, i cui mattoni non combaciavano nella confusione; nondimeno non si
producono, che io sappia, danni particolari. Ragion per cui adesso non mi inquieto più degli architetti che,
a quanto mi assicurano, non ne tengono praticamente conto.
38
Henri
Michaux
Un nervo effettua un incontro
Quando il pus incontra un nervo, si tratta di un incontro insignificante per il pus, subdolo per il nervo,
folgorante per il ferito.
Già durava da sei giorni e noi eravamo sempre là, tutti e tre, il pus, il nervo e io e, sebbene facesse parte
di una zona poco estesa, la sofferenza aveva molteplici spade e tra le più lunghe e veloci che si vedessero in
molti rinomati combattimenti.
A me fu data battaglia a causa del vizio del mio sangue e del mio scarso nutrimento; dovetti subirla,
fronteggiando incomparabili attacchi, durante sei giorni senza tregua, sotto una gragnuola di colpi di
picche che mi avevano reso, se si fosse potuto vedere, famoso allo stesso modo dei capitani più grandi, i
quali non ne subirono di così forti. Ma non lo si vide e nascosi sotto un’aria tanto fredda quanto miserabile
la grandezza del duello che continuava freneticamente, in un subdolo e tetro silenzio.
39
Henri
Michaux
Il mare
A ventuno anni evasi dalla vita delle città, mi imbarcai e divenni marinaio. C’erano lavori da fare a
bordo. Ne ero meravigliato. Pensavo che da un battello si guardasse il mare, si guardasse senza fine il mare.
I battelli furono messi in disarmo. La disoccupazione dei marinai aveva inizio.
Non dissi niente, me ne andai, avevo il mare dentro di me, eternamente intorno a me.
Ritrovai il mare.
Quale mare? Nonostante la sua evidenza non riesco a spiegarlo.
40
Pasquale Di Palmo
È nato al Lido di Venezia nel 1958 ed ha pubblicato le raccolte di poesie Arie a malincuore in Poesia
contemporanea. Secondo quaderno italiano (Guerini e Associati 1992), Quaderno del vento (Stamperia
dell’Arancio 1996), Horror Lucis (Edizioni dell’Erba 1997) Ritorno a Sovana (Edizioni l’Obliquo 2003), Marine
e altri sortilegi (Il Ponte del Sale 2006), Trittico del distacco (Passigli Editori 2015) e varie plaquettes, tra cui
Addio a Mirco, con illustrazioni di Pablo Echaurren (Il Ponte del Sale 2013). Sue poesie sono apparse in
numerose antologie e riviste, tra cui “Nuovi Argomenti”, “Poesia” e “Paragone”. Ha stampato i saggi I libri
e le furie (Joker 2007) e Lei delira, signor Artaud. Un sillabario della crudeltà (Stampa Alternativa 2011). Ha
curato e tradotto diversi volumi, tra cui opere di Artaud, Corbière, Daumal, d’Houville, Gilbert-Lecomte,
Huysmans, Metz, Michaux e Radiguet. Ha inoltre curato I surrealisti francesi. Poesia e delirio (Stampa
Alternativa 2004), I begli occhi del ladro di Beppe Salvia (Il Ponte del Sale 2004), Neri Pozza. La vita, le immagini
(Neri Pozza 2005), Saranno idee d’arte e di poesia. Carteggi con Buzzati, Gadda, Montale e Parise di Neri Pozza
(Neri Pozza 2006) Album Antonin Artaud (Il Ponte del Sale 2010). Ha curato per Mondadori Electa i volumi
dedicati a Goethe, Majakovskij e Verlaine nella collana dei “Classici della poesia” allegata a “Il Sole 24 Ore”.
41
Mark Strand
La vita
e le opere
42
Nasce a Sommerside, nella Prince Edwards Island, in Canada, l’11
aprile del 1934.
Cresce negli Stati Uniti d’America.
È un appassionato visitatore dei paesi latini (sud America ed Europa
meridionale). Insegna in numerose e prestigiose università statunitensi
(in particolare si ricorda l’esperienza pluriennale presso il Committee
on Social Thought dell’Università di Chicago e l’incarico di professore
di Inglese e Letterature comparate alla Columbia University).
Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti spiccano la MC Arthur
Fellowship, la nomina a Poeta Laureato degli U.S.A. (1990), il Premio
Pulitzer per la Poesia (1999, con l’opera Blizzard of one), il Premio
Wallace Stevens (2004) e la Gold Medal in Poetry dell’American
Academy of Arts and Letters (2009).
Oltre a numerosi volumi di versi pubblica opere in prosa, traduzioni,
libri per bambini, “letture” di opere pittoriche e cura diverse antologie
di poesia.
In Italia, oltre alle preziose plaquette uscite per l’Obliquo (L’alfabeto di
un poeta - 2001, 89 nuvole - 2003, La denarrazione - 2005, Pollo, ombra, luna
& altro - 2010), sono disponibili, tra gli altri: L’inizio di una sedia
(Donzelli 1999); Il futuro non è più quello di una volta (Minimum Fax
2006); Uomo e cammello (Mondadori 2007); L’uomo che cammina un passo
avanti al buio - Poesie 1964-2006 (Oscar Mondadori 2011 - Traduzione di
Damiano Abeni); Quasi invisibile (Mondadori 2014 - Traduzione di
Damiano Abeni); un volume di scritti d’arte (Edward Hopper - Un poeta
legge un pittore, Donzelli 2003); la favola Il pianeta delle cose perdute
(Beisler 2002).
Muore il 29 novembre del 2014 a Brooklyn, New York.
MARK STRAND
L’ALFABETO DI UN POETA
A cura di Damiano Abeni
EDIZIONI L’OBLIQUO
La vita
e le opere
Tra i suoi molti lavori si ricordano:
Poesia
• Sleeping with One Eye Open, 1964;
• Reasons for Moving, 1968;
• Darker,1970;
• The Story of Our Lives, 1973;
•The Late Hour, 1978;
• Selected Poems, 1980;
• The Continuous Life, 1990;
• Reasons for Moving. Darker & The Sargentville Notebook,1992;
• Dark Harbor, 1993;
• Blizzard of One, 1998;
• Chicken, Shadow, Moon & More, 1999;
• 89 Clouds, 1999
• Man and Camel, 2006;
• New Selected Poems, 2007;
• Almost invisible, 2012;
• Collected poems, 2014.
Prosa
43
• The Monument, 1978;
• Mr. and Mrs. Baby, 1985.
Saggistica
• The Weather of Words. Writings on Poetry and the Imagination, 2000.
La vita
e le opere
Traduzioni
• The Owl's Insomnia , 1973 ( Poesie di Rafael Alberti);
• Travelling in the Family, 1986 (Poesie di Carlos Drummond de
Andrade, con Thomas Colchie).
Scritti sull' arte
• Art of the Real, 1983;
• William Bailey, 1987;
• Edward Hopper, 1993.
Libri per bambini
• The Night Book, 1985The Planet of Lost Thing, 1982;
• Rembrandt Takes a Walk, 1986.
Antologie
• The Contemporary American Poets, 1969;
• New Poetry of Mexico ( con Octavio Paz), 1970;
• Another Republic ( con Charles Simic), 1976;
• Best American Poetry, 1992;
• The Golden Ecco Anthology, 1994.
***
44
La scelta dei testi di MARK STRAND che segue
è tratta da L’alfabeto di un poeta (Brescia, l’Obliquo 2001)
ed è stata curata da Danilo Mandolini
Da L’alfabeto di un poeta
Mark
Strand
A sta per assenza. A volte – ma non sempre – è piacevole pensare che altre persone forse parlano di voi
quando non siete presenti, che siete oggetto di una conversazione che non avete pilotato su di voi e la cui
evoluzione dipende dalla vostra assenza. È quello che accade alle celebrità. E ai morti. Possono essere
animatori di una festa senza mai nemmeno farvi apparizione. Per coloro che non sono né celebri né morti,
al fondo dell’anelito di essere assenti è la speranza che si sentirà la loro mancanza. Far sentire la propria
mancanza viene commisurato all’essere amati. Vero, non essere il destinatario attivo o vivo di ciò che
qualcuno desidera ardentemente può sembrare un ben misero destino. Ma non richiede alcuno sforzo.
Statevene lì e interferirete con l’amore che potrebbe esser vostro; morire, e dischiuderete uno spazio tutto
per voi.
45
Mark
Strand
H sta per Hades, l’Ade, che mi piace ritenere mi abbia influenzato perché di tutti i luoghi mi colpisce come
il più poetico. Ultima località di soggiorno, regno stretto tra alte mura, ha un grande difetto – il clima, che è
ventoso, buio, e freddo. Il suo maggior pregio è la grande abbondanza di tempo libero che offre. È a picco
giù, sotto il mondo, ed è l’immortale luogo di riposo di riposo delle anime. Ancora di maggior rilievo: è il
luogo in cui i morti attendono una nuova vita, una seconda chance, dove attendono di essere ricordati –
rinati nelle menti dei viventi. È un luogo di speranza. E Thanatos, o ciò che noi pensiamo come la
personificazione greca della morte, non è in realtà una personificazione, ma una bruma o velo o nuvola che
separa la persona ancora in vita dalla vita. Per i greci, che non avevano un vocabolo per «morte
irreversibile», una persona non moriva, s’oscurava.
46
Mark
Strand
I
sta per immortalità, che, per alcuni poeti, è una forma necessaria e credibile di ricompensa,
presumibilmente infelici in questa vita, saranno ricordati quando noi altri saremo da tempo dimenticati.
Nessuno di loro chiede quale sia la qualità di quella rimembranza – come sarà il restarsene accucciati nei
corridoi bui della mente di chissà chi fino al momento in cui il ricordo ha luogo, o assurgere d’improvviso e
per sempre ai pascoli dell’ombra. La maggior parte dei poeti sa fin troppo bene come vada il mondo per
preoccuparsi di cose del genere. Sanno che ci sono più che buone possibilità che le loro poesie muoiano
quando muoiono loro e non se ne saprà più niente, che verranno sostituite da poesie che sfoggiano un
nuovo look in un linguaggio più attuale. Sanno anche che se pure le singole poesie muoiono, sebbene in
alcuni casi lentamente, la poesia continuerà: che i suoi argomenti, i suoi temi costanti, sono meno disposti al
cambiamento delle mode del linguaggio, e che questo è il punto in cui un’immortalità alternativa, meno
insigne, può trovarsi. Sappiamo tutti che una poesia può influenzare altre poesie, restare viva in quelle,
proprio come poesie precedenti sono vive in lei. Non potremmo dire, allora, che le singole poesie
conseguono il massimo successo con lo stimolare revisioni di se stesse e con l’indurre il proprio
annullamento? Sì, ma questa è immortalità, o solo un modo pieno di significato d’esser morti?
47
Mark
Strand
N sta per Neruda, che era un genio, ma nella cui scrittura bellezza e banalità sono intrecciate in modo
inestricabile. Le sue poesie sono una specie di pio desiderio. Leggere Neruda è partecipare alla correzione
verbale di quelle che sono universalmente ritenute diseguaglianze sociali o naturali. Materiali triviali,
accompagnati da aggettivi che connotano il prezioso o il celestiale, vengono elevate a sfere di valore
superlativo. Un rospo è malinconico, il vino è intelligente, un limone è come una cattedrale. È un’estetista
del mediocre. Quando lo leggiamo ci sentiamo contenti perché tutto ha conseguito una condizione di
privilegio. L’universo, dopo tutto, è buono. L’utopia verbale di Neruda, dipendendo dalla dabbenaggine di
chi legge, è un antidoto innocuo a un secolo di tormenti. Le sue geniali semplificazioni hanno mosso la
gente verso atteggiamenti semplicistici e accondiscendenti nei confronti della poesia, la quale altrimenti ne
potrebbe senz’altro fare a meno. N sta anche per nulla, che nella sua modestia onnicomprensiva, è la docile
sorella del tutto. Assenza che non conosce confine. Climax dell’inazione. Ha esercitato l’influenza
predominante nella mia scrittura. È il sonno primigenio e la fine della vita.
48
Mark
Strand
P sta per il passare del tempo. Sta anche per il passaggio segreto che porta fuori dal tempo nell’immobilità
di ciò cui non è ancora stato dato nome perché esista, il passaggio che porta al luogo dove nascono le
poesie. Sta per il passaggio che è il percorso del mio passare, il mio essere stato. E per il passaggio dei
luoghi all’interno della storia e, attraverso la storia, nell’oblio.
49
Mark
Strand
U sta per Utah, la cinta occidentale del mio indispensabile tedio e, sotto molti aspetti, sua ispirazione. Lo
Utah è tutto ciò che la mia vita non era prima che vi andassi ad abitare. È lento, il che conferisce al mio tedio
il requisito della mancanza di energia. Charles Wright, non so dove, dice: «C’è così poco da dire, e così tanto
tempo per dirlo». Beh, lo Utah ci dà questa sensazione, con l’aridità e l’asprezza della sua terra, la vastità del
suo cielo, il suo essere giallo-rosso.
50
Mark
Strand
W sta per what…, quello che sarebbe
potuto essere o quello che avrei potuto scrivere. Posso subire
l’influenza di quello che avrei potuto fare ma non ho fatto? – come se la scelta di scrivere quello che non ero
in grado di scrivere o che comunque non ho scritto fosse ancora davanti a me. Non è che quello che potrei
aver scritto io esista, anche solo come possibilità. Eppure a volte mi dico che se non avessi fatto questo avrei
fatto quello, anche se non so cosa “quello” sarebbe potuto essere. Quello che avrei potuto scrivere resta
come ombroso e pensoso giudizio su quello che ho scritto. Raccoglie qualsiasi sé abbia – e viene, non
invitato, a farmi visita. W sta anche per what…, quello che non avrei mai scritto perché non sarei mai stato
in grado di farlo, nemmeno in mille anni. Possibile fonte di infelicità, è invece un sollievo. Pensate se avessi
scritto il primo centinaio di versi del 13° libro del Prelude del 1805, che gran poeta sarei stato. Dovrei
distruggere ogni altro mio scritto per evitare che la gente esclami: «Che caduta c’è stata nell’opera di
Strand!». A quel modo, non sarei me stesso, non avrei le mie poesie, e non avrei nulla di cui preoccuparmi.
W sta per Wordsworth, che ha scritto quello che io non ho scritto e non sono in grado di scrivere e che non
scriverò.
51
Nota
Mark
Strand
Di Damiano Abeni
Mark Strand mi ha inviato l’estratto di A Poet’s Alphabet, dal primo numero della rivista “Literary
Imagination”, il 18 agosto 1999. Nella lettera che l’accompagnava mi diceva solo «è il saggio che aprirà il
mio volume di prose scelte». The Weather of Words (Il clima delle parole) è uscito poi nel febbraio 2000 presso
l’editore Knopf. Mark non è di molte parole. L’alfabeto di un poeta è quanto di più esplicito si possa sapere da
lui sulla sua idea di poesia. Non sarò certo io ad aggiungere altro.
La traduzione ha preso corpo tra i parchi di Roma e la spiaggia e le colline di Giulianova, e deve la sua
veste finale anche ai delicati interventi di Elisabetta Luchetti, che ringrazio.
È dedicata a Ross, Ale Ale e Popescu, Carlulk e Marcolik, che a fine agosto 2000 l’hanno letta, riletta e
ascoltata con me sulle scogliere di Cala Pietrino (toponimo assolutamente personale, indispensabile per
preservare l’incontaminata magia del luogo) nei grandi giorni del Maestoso Maestrale & Capichera.
52
Damiano Abeni
È nato a Brescia nel 1956. È epidemiologo. Conduce da anni un’intensa attività di ricerca clinica
testimoniata da numerosi articoli apparsi su riviste internazionali.
Traduce poesia americana dal 1973, anno in cui ha vinto una borsa di studio che gli ha permesso di studiare
in Arizona.
Collabora con numerose case editrici (ha pubblicato oltre cinquanta libri tradotti dall’inglese) e riviste
letterarie. Fa parte della redazione di ”Nuovi Argomenti” e del lit-blog “Le Parole e Le cose”.
È stato Fellow della Fondazione Bogliasco (2008) con un progetto di traduzione delle poesie di argomento
italiano di Anthony Hecht e Fellow della Fondazione Rockfeller (Bellagio, luglio 2010, con Moira Egan), per
la traduzione dell’opera di Charles Wright. Nel 2009 è stato ospite al Civitella Ranieri Center.
È cittadino onorario della città di Tucson, in Arizona, e di Baltimora, nel Maryland, per meriti culturali.
Vive a Roma, vicino alla chiesa di San Clemente, con sua moglie, la poetessa Moira Egan.
53
voci
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
In transitu
di Barbara Pumhösel
1a edizione Premio “Arcipelago itaca”
per
una raccolta inedita di versi
€uro 12,00 - ISBN 978-88-99429-07-2
Il volume è composto da 48 testi, dalla motivazione della 1a edizione del
Premio “Arcipelago itaca” per una raccolta inedita di versi e dalla notizia
bio-bibliografica dell’autrice.
Il libro è in formato 12 (base) x 19 cm (altezza), consta di 68 pagine in
carta Sahara avorio g/mq 120 e di una copertina stampata in 4 colori su
carta Acquerello avorio g/mq 240.
A seguire, oltre alla bio-bibliografia dell’autrice: la motivazione del
Premio e 8 testi dalla raccolta.
Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume
e alle modalità di acquisto dello stesso:
http://www.arcipelagoitaca.it/wp-content/uploads/2016/04/scheda-intransitu.pdf
http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/
Da In transitu di BARBARA PUMHÖSEL (Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016)
Barbara Pumhösel
54
È nata in Austria nel 1959.
Laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Vienna, vive vicino Firenze e scrive in
italiano e in tedesco.
Per bambini ha pubblicato La voce della neve (Rizzoli 2013), L’orchestrosauro (Giunti 2013), La principessa
Sabbiadoro (Giunti 2007, una storia sull’io e l’altro, sulla pace e il nemico nello specchio) e, insieme a Anna
Sarfatti, la serie de La Calamitica III E (Edt 2007-2009, protagonisti i bambini di una classe multiculturale). Di
recente (gennaio 2016) è uscito un libretto per primi lettori dal titolo Gli errori di Croccodillo (Il Castoro).
Nel 2009, il suo scritto La frontiera li attraversa: appunti sulla poesia transculturale austriaca è stato inserito nel
volume I colori sotto la mia lingua: scritture transculturali in tedesco a cura di Eva-Maria Thüne e Simona
Leonardi (Aracne, Roma).
Poetry Fellow della Fondazione Bogliasco (Centro Studi Ligure, Genova) nella primavera del 2010, ha vinto
vari premi e partecipato a festival, letture e convegni in Italia e all’estero tra cui “Voci Lontane, Voci Sorelle”
(Firenze), “Romapoesia”, “Parmapoesia”, “Parole spalancate” (Genova) e, insieme alla Compagnia delle
Poete (fondata da Mia Lecomte, www.compagniadellepoete.com), al Festival Poestate 2012 (Lugano,
Svizzera). Fa parte del comitato editoriale di “El Ghibli. Rivista di Letteratura della Migrazione”
(http://www.elghibli.org) ed è socia dell’ICWA (Associazione Italiana Scrittori per Ragazzi - www.icwa.it).
Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Dammar (con immagini di Walpurga Ortag-Glanzer,
Literaturedition Niederösterreich 2013); Parklücken (Verlag Berger, Horn 2013); gedankenflussabwärts.
Erlaufgedichte (con litografie a colori di Walpurga Ortag-Glanzer, Edition Thurnhof, Horn 2009); prugni
(Isernia, Cosmo Iannone 2008).
Barbara
Pumhösel
Motivazione opera vincitrice ex aequo,
Sezione C - Raccolta inedita.
1a edizione Premio nazionale editoriale di poesia
“Arcipelago itaca”
Il lavorio instancabile della parola passa per vie trasversali. È come un fiume che si dipana tra interno ed esterno, tra
intimo e pubblico, tra compromesso e lacerato; il percorso è accidentato, («non ci sono garanzie», recita un verso della
raccolta), e allo stesso tempo docilmente affabile, («la poesia … / ha bisogno di una base / precisa e di un collegamento /
con la terra sicuro»; in una lirica successiva). Tra l'urgenza del dire e la pacatezza del mirare la metà/meta, questa
silloge si dispone in una costante ricerca della musicalità sotterranea e di una misura raffinata nella sua friabile e
franta discontinuità. Il gioco allitterativo, l'uso reiterato delle spezzature, le anaforiche formule iterative sono solo
esempi che mascherano una voce che cerca di mediare lo slancio lirico verticale, con il tono basso e colloquiale. Ne
scaturisce un colto gioco di contrafforti e voci, dove è possibile incontrare, nella loro pur distante collocazione
spaziotemporale e semantica, Borges e Cervantes, Cartesio e il Danubio - grande fiume della parola segreta -,
l'Alzheimer e la “piantaggine", Gerda del Regno delle Nevi e la Thailandia, in un in transitu continuo che tra
slittamenti e delocalizzazioni crea un delicato ricamo, quasi un rizoma. Non manca, infine, quel qb di ironia ed
autoironia, a rendere fresca e leggera una poetica che così risulta morbidamente sapienziale.
Renata Morresi - Manuel Cohen - Martina Daraio Danilo Mandolini - Alessio Alessandrini - Mauro Barbetti
55
Da In transitu
Barbara
Pumhösel
Da Bestiarium
*
come negli animali notturni nel mio
buio si raffina l’olfatto l’udito
il sogno arriva con lunghi peli tattili
con vibrisse e passi da felino, accende
colori e angoli dimenticati
nonostante che sia egli stesso a rovesciare
le immagini, il rapporto tra cacciatore
e vittima, il suo incedere regale si fa
incerto all’apparire di una preda
la vedo
attraverso l’angoscia del suo sguardo
56
Barbara
Pumhösel
*
temi che certi caratteri
viaggiando si trasformino
in mostri grafici dai la colpa
agli accenti al trattamento
alla tastiera infine decidi per il
silenzio che si fa avanti bianco
feroce e subito artiglia
paralizza anche le parole pronte quelle decise a partire
(still life)
57
sulla tela
di una natura morta
ho trovato
un'alzavola ancora viva
con lo specchio delle ali
intatto e adagio e attenta
l'ho portata
in salvo verso un'altra
lingua
Da Dice Borges
Barbara
Pumhösel
*
di sera l’acqua trasporta
nitida tersa trasparente la voce
sull’altra riva e dà sostegno
alla risposta che torna
si può tessere una rete di sera
sopra l’acqua
di parole sospese
una rete che tiene
ma per il mattino dopo
non ci sono garanzie
conviene andare più a valle cercare
un banco di sabbia e raccogliere
ciò che si arena
58
Barbara
Pumhösel
*
sul Danubio è ferma la notte, dice Borges
ed io preoccupata mi chiedo se il giorno
si è spostato altrove per sempre o invece
se Borges parla del suo Danubio mentre
il mio scorre sempre
più lentamente come se mi aspettasse
e qualche volta all’alba quasi si ferma
quando lo raggiungerò faremo
un po’ di strada insieme
59
Barbara
Pumhösel
60
(identità)
si sta sul
proprio davanzale
per potersi vedere
da dentro e da fuori
ci si attacca
al cornicione per
nascondersi
dagli occhi interni e
si chiude le persiane
quando gli sguardi
dall’esterno
diventano troppo
Insistenti
*
fanno un programma
sull'Alzheimer ora
in televisione, me lo scrivi tu
ed io sono felice
del segno di vita
che viene da te
come è difficile, penso
pensare alla morte
con le parole giuste
come alla pioggia, al battito
delle macchine per scrivere
al ritmo che ancora
rimane nell’orecchio
Da Viaggio d’autunno
Barbara
Pumhösel
*
innamorata
delle forbici, taglio
il filo e i ponti
taglio i giorni
le pagine, i ricordi
di noi due insieme
per contemplare un
disegno bellissimo
fatto di buchi
61
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
Ornitografie
di Pier Franco Uliana
1a edizione Premio “Arcipelago itaca”
per
una raccolta inedita di versi
€uro 13,00 - ISBN 978-88-99429-06-5
Il volume è composto da 54 testi, dalla motivazione della 1a edizione del
Premio “Arcipelago itaca” per una raccolta inedita di versi, da una breve
nota dell’autore e dalla notizia bio-bibliografica dello stesso.
Il libro è in formato 12 (base) x 19 cm (altezza), consta di 88 pagine in
carta Sahara avorio g/mq 120 e di una copertina stampata in 4 colori su
carta Acquerello avorio g/mq 240.
A seguire, oltre alla bio-bibliografia dell’autore: la motivazione del
Premio, la nota introduttiva di Pier Franco Uliana e 8 testi dalla raccolta.
Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume
e alle modalità di acquisto dello stesso:
http://www.arcipelagoitaca.it/wp-content/uploads/2016/04/schedaornitografie.pdf
http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/
Da Ornitografie di PIER FRANCO ULIANA (Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016)
Pier Franco Uliana
È nato a Fregona (TV) nel 1951. Vive a Mogliano Veneto. Laureato in Filosofia, è stato insegnante. Ha
pubblicato varie raccolte di poesia nel dialetto veneto del Bosco del Cansiglio: Sylva-ae (Treviso 1985);
Cantada zhinbra (Premio Noventa-Pascutto 1995); Troi de Tafarièli (Milano 2001, Premio Fondazione
Corrente); Amor de osèi (Vittorio Veneto 2007); Fontana Paradise (Vittorio Veneto 2011); La casa, la léngua e
l’armelinèr (Vittorio Veneto 2013); Il Bosco e i Varchi (Vittorio Veneto 2015, Premio Pascoli e Dino Durante); in
lingua italiana, le sillogi: Lo specchio di Rainer (Premio “Il Litorale”, Massa 2000); Siderea arx mundi (Vittorio
Veneto 2009); Pizzoc Panopticon (Vittorio Veneto 2012); i racconti: La manèra (Vittorio Veneto 2003); Il
germoglio del Mùzhol (Vittorio Veneto 2007); La faghèra (Vittorio Veneto 2015).
Ha inoltre pubblicato due saggi di toponomastica: Cansiglio-Canséi. Radici del toponimo (Vittorio Veneto
2005); Toponomastica cansigliese. Ipotesi di ricostruzione della base etimologica dei nomi di luogo del Bosco del
Cansiglio (Vittorio Veneto 2014); lo zibaldone Ingens sylva. Cansiglio dentro e dintorno (Vittorio Veneto 2014); il
Vocabolario del dialetto di Fregona (Vittorio Veneto 2015).
Suoi testi critici su artisti veneti sono apparsi in vari cataloghi.
Ha collaborato con la rivista “46° Parallelo”.
62
Pier Franco
Uliana
Motivazione opera vincitrice ex aequo,
Sezione C - Raccolta inedita.
1a edizione Premio nazionale editoriale di poesia
“Arcipelago itaca”
Recuperare un'immagine simbolica e trasversale nel tempo della letteratura, quella di sempre dall'epica alla storia più
recente, un'immagine "mitica", potremmo anche dire, e progettare un'intera raccolta su di essa è un’impresa titanica e
difficile da sostenere, tanto più se questa immagine è quella dell'uccello, metaforico esemplare della naturalità,
facilmente assimilabile alla poesia per comune strumento di parola: il canto. Da Catullo a Pascoli, da Marino a Mario
Luzi, quanti sono stati gli uccelli divenuti famosi nella poesia... Eppure la raccolta di Uliana riesce nella sofisticata
bravura di saper modulare nuovamente un cantico del canto e le liriche che si affastellano, una accanto all'altra,
modellano un lungo poemetto che nulla ha di stantio e paludato: ironia, ricercatezza della raffigurazione, costruzione
ad hoc del testo, raffinato controcanto tra popolare ed aulico, sono aspetti del lavoro che ne mostrano le caratteristiche
di unicità e solidità non comuni. Si percepisce, ovviamente, il sostrato letterario - le citazioni più o meno dichiarate si
rincorrono in tutta l'opera -, si manifesta un intento etico-morale, ma non si resta mai ancorati al banale o all'esotico.
Certo si va controvento ma non è poi questo il vero intento, oseremmo dire, il portento dell'usignolo? Non c'è poesia
più alta di quella che non si allinea al coro? «Papà, dimmi perché mai l’usignolo / se ne sta tra le fronde tutto
solo? / Perché a differenza dello storno / discorde è a lui l’armonia del giorno».
63
Renata Morresi - Manuel Cohen - Martina Daraio Danilo Mandolini - Alessio Alessandrini - Mauro Barbetti
Da Ornitografie
Pier Franco
Uliana
Questa silloge, più che un’operetta didascalica, è una breve orazione civile in versi. Qui, l’insistito richiamo
all’arte augurale latina non è una regressione nostalgica a un mondo arcaico, ormai perduto
definitivamente, né tantomeno un anacronistico tentativo di riattualizzarlo; si tratta, piuttosto, di un
travestimento linguistico e intertestuale cui il poeta ricorre pur di mantenere attiva una, per quanto
minima, corrispondenza con le creature del cielo. Che viva rimanga almeno la lezione di Aristotele secondo
cui il linguaggio articolato è proprio degli uomini e degli uccelli, non d’alcuna altra specie.
N.d.A.
***
(MIGRAZIONI) - I
64
Al capitale oggi hanno messo le ali
‒ non c’è comune d’uomini che tenga,
o voliera che possa trattenerlo,
e l’àugure vatìcina via Internet
per percentuali, diagrammi e altri segni
che giustappone in complesse sintassi ‒
come cucùlo depone le sue
uova per ogni nazione ‒ che ognuna
cresca profitto e proletariato ‒
e se il lavoro non c’è da stanziali
gli uomini si facciano migratori,
uccelli che non sanno di frontiere.
Pier Franco
Uliana
(SEGNO DI POETA) - II
All’ultimo poeta che cantò gli uccelli, hanno pure dedicato un francobollo, effigiato di profilo con l’ùpupa,
naso a becco, entrambi ilari. Li catturava con roccoli acquerellati di vino rosso e fondi di caffè, o con reti
ritmiche, mai tese archetti di versi d’avellano né trappole a scatto, diffidò delle panie poiché impegolano le
piume, rifuggì le gare a chioccolo. Come facesse modulando solo il fischio non si è mai saputo, considerato
che era d’indole tutt’altro che canterina; addirittura tentò lassù nelle altitudini di sfiorare le penne alle
donne-angelo di passo. Tutto sapeva dell’aucupio, dai De avibus1 al trattato federiciano all’Andar per
uccelli2. Il suo verso, farcito di pesto di salvia, infilzato in uno stecco di rosmarino di Monterosso e appena
unto del lardo di Colonnata, con contorno di funghi geniali, lo impartiva ai buongustai della poesia
tenendo per sé il paretaio del foglio.
1
2
65
I libri augurali.
Di Amedeo Giacomini.
Pier Franco
Uliana
IDILLIO
Oggi questo paesaggio che era stato
del Cima, del Tiziano, del Bellini,
d’uccelli ingentiliti da Madonne
nei cui occhi nidificavano i cieli,
è un quadretto a brandelli, senza siepi
né alberi, senza speranza d’uccelli.
SEGNO DI VERSO
Saba, depresso ricorrentemente
per un’inappetenza inesplicabile,
Uccelli scrisse su suggerimento
dell’analista (che tutto sapeva
di Farinelli1, di cince e fringuelli,
e della loro inconscia melodia
terapeutica). Quel becco gentile
il becco della pollastra sua moglie
nutrì per certo di vers2 baudelairiani
e di spiedini di muse spiumate.
66
1
Cantante lirico castrato del ’700, curò col canto la
depressione del re di Spagna Filippo V.
2 In fr. significa sia ‘vermi’ sia ‘versi'.
Pier Franco
Uliana
VOLO A VELA
L’alleluia lievitò per la navata
alla botta dei Mori. Si levò
dalla carena l’onda dei gabbiani
e via volò per volte e travature,
dall’abside musiva fino all’ultima
vela affrescata, poi per il portale
di poppa si disperse in bianche scie
giù per la piazza fino alla laguna,
tanto che parve muoversi la chiesa
con il ligneo fasciame della chiglia.
La ciurma salmodiante mise mano
allora ai raggi meridiani che
dalle vetrate scendevano in forma
di remi, mentre sull’altare a braccia
aperte il prete impartiva la rotta
nella quieta frescura bizantina.
67
Pier Franco
Uliana
(ALES1) - III
La rondine, per rotte di respiro,
zampe ferite dal sale tirreno,
così ritorna e nelle ali robuste,
da venti cosmici sospinte, reca
le cicatrici del sole e di polvere,
rieccola per il cielo, dove il battito
del cuore si confonde col millennio,
nell’orbita dell’anabasi perdersi.
1
68
In lat., uccello dal cui volo si trae l’auspicio.
(AFONIE) - III
Ad ogni canto corrisponde un cielo,
così aristotelicamente crede
chi dietro a li uccellin sua vita perde1.
L’ictus lo colse con occhi all’insù,
le labbra quasi stessero fischiando
là nel capanno infrascato di verde
ramaglia, non vischi né gabbie v’erano
ma penne qua e là dal vento disperse.
1
Dante, Purg., XXIII 3.
Pier Franco
Uliana
(TOROTOROTIX1) - III
La selva e la radura, qui e altrove,
e cieli e uccelli che ovunque le sovrastano
e il ciclo nascita-copula-morte:
l’immutata natura pur mutevole
nell’immutato orecchio del mutato
àugure in fisico che il canto muta
a seconda di luogo e lingua franca,
da torotorotix a it from bit.2
1
Verso degli uccelli in greco antico (da
Aristofane a Pascoli a Zanzotto).
2 ‘Tutto è informazione’ concepita dal fisico
americano A. Wheeler come sostanza prima
del mondo.
69
Anteprima Arcipelago itaca Edizioni
Letture
di Cristina Babino
1a edizione Premio “Arcipelago itaca”
per
un’opera inedita di prosa critica sulla poesia italiana
€uro 13,00 - ISBN 978 88 99429 08 9
Il volume è composto da 15 testi, da un estratto dalla motivazione della
1a edizione del Premio “Arcipelago itaca” per un’opera inedita di prosa
critica sulla poesia italiana, da una breve nota introduttiva, dalle Note ai
testi e dai Ringraziamenti dell’autrice e dalla notizia bio-bibliografica della
stessa.
Il libro è in formato 12 (base) x 19 cm (altezza), consta di 92 pagine in
carta Sahara avorio g/mq 120 e di una copertina stampata in 4 colori su
carta Acquerello avorio g/mq 240.
A seguire, oltre alla bio-bibliografia dell’autrice: l’estratto dalla
motivazione del Premio, la nota introduttiva e il testo, a tutt’oggi ancora
inedito, Il corpo contiene. Su Pasta madre di Franca Mancinelli.
Questi, i link relativi alla scheda di dettaglio del volume
e alle modalità di acquisto dello stesso:
http://www.arcipelagoitaca.it/wp-content/uploads/2016/04/scheda-letture1.pdf
http://www.arcipelagoitaca.it/acquista/
Da Letture di CRISTINA BABINO (Osimo - AN, Arcipelago itaca Edizioni 2016)
Cristina Babino
È nata ad Ancona nel 1976. Vive nel sud della Francia.
Tra le sue pubblicazioni: la cura e traduzione del volume Pastorali del poeta americano John Taggart (Vydia
2013, Premio “Achille Marazza” 2014 per la traduzione poetica sezione giovani), la monografia critica La
Ferita. Opere di Walter Angelici 1994 - 2009 (La Via Lattea 2010) e La donna d’oro (peQuod 2008).
Ha curato le antologie Femminile plurale. Le donne scrivono le Marche (Vydia 2014) e S'agli occhi credi. Le
Marche dell'arte nello sguardo dei poeti (Vydia 2015).
Ha collaborato con testi critici e recensioni a riviste letterarie quali “Poesia”, “Le voci della luna”, “Stilos”.
Suoi testi poetici e in prosa sono inclusi, tra l’altro, nelle collettanee Nodo Sottile 5 (Le Lettere 2007), Registro
di Poesia #4 (d’if 2011), Poetry of the World/6 (Università di Coimbra, Portogallo, 2010), nelle riviste
“Aesthetica” (UK), “Trivio”, “nostro lunedì” e in numerose altre antologie
e periodici letterari italiani e stranieri.
È responsabile editoriale della collana di poesia "Licenze" di Vydia Editore.
70
Cristina
Babino
Dalla motivazione opera vincitrice ex aequo,
Sezione D - Prosa critica.
1a edizione Premio nazionale editoriale di poesia
“Arcipelago itaca”
Letture contiene quindici testi, in forma di breve saggio monografico o recensione, riguardanti opere poetiche italiane
di recente pubblicazione. Il principale merito del lavoro risiede nella qualità della scrittura che la compone, più vicina
ai modi della prosa critica che alla forma saggistica tradizionale. Nell'attraversare l'opera di autori tra loro diversi
Cristina Babino è riuscita, senza indugiare in forzature antologiche, ad integrare lo sguardo critico-argomentativo con
la voce di un'autentica, appassionata frequentatrice della poesia contemporanea. Ogni capitolo può quindi essere letto
come un ritratto, un momento di incontro e dialogo nato da un necessario confronto sulla parola e sull'esistenza. Ne
risulta un volume accessibile ad un ampio pubblico, estremamente piacevole nella sua leggibilità e, al tempo stesso,
prezioso per l'originale panoramica sulla poesia contemporanea che traccia.
Renata Morresi - Manuel Cohen - Martina Daraio Danilo Mandolini - Alessio Alessandrini - Mauro Barbetti
71
Da Letture
Cristina
Babino
Raccolgo qui, per la prima volta, una selezione delle note di lettura da me pubblicate a partire dal 2006 ad
oggi, scelte esclusivamente tra quelle uscite su vari lit-blog e siti web letterari, in ottemperanza a quanto
stabilito dal bando della 1a edizione del Premio nazionale editoriale “Arcipelago itaca", di cui questa
pubblicazione è emanazione.
Sono scritti che variano per lunghezza e livello di approfondimento, spaziando dal saggio breve alla
recensione, e che hanno per oggetto alcune opere di poesia contemporanea in cui ho avuto la ventura – e
spesso l’autentica fortuna – di imbattermi, dandomi in molti casi la possibilità e il privilegio di stabilire con i
rispettivi autori amicizie profonde, rapporti umani e scambi intellettuali importanti e duraturi.
Dieci anni di letture e di scritture, quindi, che non pretendono naturalmente di investigare in modo
esaustivo – e nemmeno indicativo – lo stato della poesia italiana contemporanea e l’attività degli autori che
oggi la producono e la animano.
Dieci anni di letture e di scritture frutto, piuttosto, di un personale mettersi in ascolto (credo) empatico e
aperto, cercando sempre di ricavare dalla riflessione sui versi incontrati, e dai diversi modi di fare poesia
che essi sottendono, la linfa necessaria a creare non semplicemente chiose o recensioni, ma piuttosto prose
critiche capaci (spero) di accompagnare con altrettante suggestioni i testi poetici che le hanno ispirate.
Cristina Babino
72
aprile 2016
Il corpo contiene. Su Pasta madre di Franca Mancinelli
Cristina
Babino
Pasta madre è un libro notturno. La sua è una dimensione permanente di veglia, d’allerta suscitata
nell’oscurità bianca di una notte in cui «il buio non medica»1, non dona quiete e riposo, anzi desta e tiene
svegli, pungola e arrovella.
Pasta madre è un libro d’interni. Il suo spazio è privato, domestico, è la casa – evocata dall’apparizione delle
stanze e degli elementi che le compongono (le finestre, le porte, le mura) – o più spesso la camera, il letto,
richiamato quasi per una sorta di automatismo retorico attraverso il dettaglio ricorrente delle lenzuola,
sudari esangui e però intrisi dei pensieri che si affollano nei dormiveglia.
Anzi è più intimo ancora, è lo spazio del corpo: strumento di conoscenza dell’esterno, tramite il quale
stabiliamo un contatto col fuori, con l’altro e l’altrove da sé. Esperiamo. Viviamo.
Dall’esterno il corpo si lascia attraversare, penetrare come per osmosi. È una porta (anch’esso) − un varco
d’ossa e carne, una finestra (di nuovo) rimasta aperta: «quello che sono è una finestra»2, non da cui
affacciarsi però, come da un balcone, da cui assistere, ma da cui far entrare la luce, la vita e il mondo,
animale e vegetale. Lasciandosene invadere, inondare.
Il corpo raccoglie la vita, la riceve e la custodisce, la contiene.
La parola cucchiaio significativamente appare nei versi di Franca Mancinelli sin dalla sua felice prova
d’esordio Mala kruna («staremmo come due cucchiai riposti / asciutti nel cassetto»)3 per tornare ancora in
Pasta madre («forma un cucchiaio con le mani / per contenersi il viso»)4. Il cucchiaio, come il corpo – di cui la
posata diventa metafora e quasi allegoria materiale – accoglie, trattiene.
Con questo termine ricorrono del resto nel libro moltissime altre forme contenenti, tutte concave, tutte
predisposte a ricevere: «perché il cappello rovesciato / contenga una moneta»5, «ma piangi pure e impara /
dalle grondaie colme / acquasantiere / sulla porta dove ognuno / si medica le mani»6, «trovandoti nel viso /
una ciotola buona»7.
73
1
F. Mancinelli, Pasta madre, Torino, Nino Aragno Editore 2013, p. 53.
Ivi, p. 11.
3 F. Mancinelli, Mala kruna, Lecce, Manni 2007, p. 41.
4 F. Mancinelli, Pasta madre, cit., p. 17.
5 Ivi, p. 11.
6 Ivi, p. 15.
7 Ivi, p. 48.
2
Cristina
Babino
Un inventario di oggetti atti a contenere che percorre l’intera raccolta, ne diventa il tratto lessicale forse
maggiormente distintivo, rinnovando per traslato ad ogni pagina, e quasi ad ogni verso, la fede in una
corporeità celebrata ma dimessa, mai compiaciuta o esaltata, intesa innanzitutto come un territorio di
ricezione – il dettaglio delle mani, strumenti di connessione col mondo, ma anche di scrittura8, compare non
a caso molto spesso – piuttosto che come il dominio d’estensione di una fisicità prorompente, sensuale.
Un termine, cucchiaio, che in Pasta madre assume poi una posizione di particolare rilievo, quale incipit della
raccolta e apertura del primo testo, di grande suggestione, incluso nel volume, che pare ricapitolare in sé – e
in un modo illustrare – l’intero pensiero sotteso alla stesura del libro: «cucchiaio nel sonno, il corpo /
raccoglie la notte. Si alzano sciami / sepolti nel petto, stendono / ali. Quanti animali migrano in noi /
passandoci il cuore, sostando / nella piega dell’anca, tra i rami / delle costole, quanti / vorrebbero non essere
noi, / non restare impigliati tra i nostri / contorni di umani.»9
In questo testo c’è già tutto. È possibile rintracciarvi i temi principali (il corpo contenente, il sonno e la
veglia, la condivisa, ricettiva vitalità di esseri viventi e vegetali), le riconoscibili scelte lessicali (un repertorio
fatto soprattutto di nomi e oggetti quotidiani, spesso domestici, di anatomie umane, floreali e animali), le
atmosfere e le ambientazioni (la notte, la casa, l’interno), ma pure il carattere intimista e mai soltanto
personale o diaristico, la misura breve e l’andatura senza spigoli della scrittura poetica di Franca Mancinelli.
Emerge, soprattutto, il suo laborioso ripulire il verso fino a renderlo essenziale, fino a farlo brillare nel
lucore della sua trasparente scioltezza, nell’apparente disinvoltura del risultato finale.
74
C’è, in questo testo d’apertura, una compenetrazione empatica e vitale, quasi identitaria, tra umano,
animale e vegetale10 («Quanti animali migrano in noi / (…) tra i rami / delle costole», «Gli alberi / si piegano
su un fianco / perdono la voce in ogni foglia»)11 che mi sembra accomuni la poetica di Mancinelli a quella,
già indagata in questo volume12, di Francesca Matteoni.
Se nei versi di quest’ultima, però, tale vitalismo panico è frutto di un tormento condiviso struggente e
xxxxxx
8 «Scriverà sempre / perché non sa parlare», ivi, p. 21.
9
Ivi, p. 7.
«(…) la certezza di esserci è di continuo misurata sulla consistenza vegetale/minerale/animale di presenze
rarefatte (…)» ha scritto a questo proposito Massimo Raffaeli in una recensione apparsa su "Poesia", XXV, n. 273,
luglio/ agosto 2012, p. 73.
11 Ivi, p. 9.
12 Cfr. in questo volume pp. 27-28.
10
Cristina
Babino
sanguigno, feroce nell’intuizione folgorante della propria costitutiva animalità, nella scrittura di Mancinelli
esso si esprime soprattutto per similitudini13, altrettanto affascinanti ma sempre come sussurrate, modeste,
quali tentativi di approssimazione evidentemente mediati dalla distanza del raccoglimento e della
riflessione: «lasci la pelle sul lenzuolo / come una biscia al cambio di stagione»14, «come formiche rosse
velenose»15, «poi con le labbra mi prendo / e porto a dormire come farebbe / una gatta col figlio»16.
Una volontà di avvicinamento che si applica anche al mondo vegetale («ridono anche senza figli / selvatici
come alberi»17, «bruna come la viola e il mosto»)18 e al dominio degli oggetti, cose inerti che
inaspettatamente si animano proprio grazie alla vividezza del paragone offerto ai nostri occhi
dall’invenzione della parola poetica: «ti corrompi come cibo / anche se mostri un viso / regolare come un
documento»19, «ha la lingua bucata come un soldo»20, «fino ad avere bianca / la pelle come un’ostia»21, «e
molta luce / entrata a mulinare / nel petto come / tra i raggi di una bici»22 e, non da ultimi, quei versi di
bellezza disadorna e però stupefacente che recitano «andiamo fraterni accarezzando / il torace dei
cancelli»23.
Tra gli animali evocati per somiglianza e analogia, oltre agli insetti – leggeri, silenziosamente laboriosi («con
la costanza degli insetti»)24, brulicanti («le formiche dal sangue fermo / brulicano i corpi / che non si
congiungono»)25 – sono soprattutto i volatili a ricoprire un’importanza centrale. Gli uccelli, con la loro
esilità leggera e flessuosa, la loro libertà prerogativa, la capacità di librarsi osservando il mondo da
un’altezza – o, di nuovo, una distanza – svagata e forse proprio in questo inconsapevolmente avveduta,
saggia, forniscono quindi la materia di paragoni frequenti, di grande presa emotiva, efficaci nella loro
xxxxxx
13
Lo osserva già Milo De Angelis in Appunti su “Pasta madre”, in F. Mancinelli, Pasta madre, cit., pp. 77-79.
Ivi, p. 8.
15 Ivi, p. 48.
16 Ivi, p. 69.
17 Ivi, p. 28.
18 Ivi, p. 60.
19 Ivi, p. 18.
20 Ivi, p. 21.
21 Ivi, p. 64.
22 Ivi, p. 29.
23 Ivi, p. 20.
24 Ivi, p. 40.
25 Ivi, p. 55.
14
75
immediatezza meditata, compresa: «mentre nudo imparavo / a reggere il cielo / come un uccello sul dorso
(…) Trattengo / nel becco il ricordo»26, «come alberi che danno / frutti agli uccelli»27.
Cristina
Babino
Metamorfizza, il corpo descritto da Franca Mancinelli, predisposto come una pasta madre ad assumere
forme ancora soltanto pensate, in potenza, irrealizzate, e muta, si trasla per formidabile intuizione, prima
ancora che per metafora e per similitudine: si fa albero, fiore, siepe, insetto, animale domestico, bestia
selvatica, uccello, quindi fiume, letto, ponte, cucchiaio, finestra, in un fluire incessante che trova
corrispondenza anche tipografica in quei caratteri minuscoli che aprono ogni componimento in un ciclo
vitale e poetico continuo, ininterrotto.
C’è una parola/richiamo – seme – che quale promessa di realizzazione a venire, segnale di un qualcosa
ancora da farsi, è un indizio sparso un po’ ovunque nel libro di questa incessante, inesauribile
trasformazione: «abbiamo già cresciuto molti semi»28, «un sacchetto di semi / per il deserto che sta
arrivando»29, «incerti semi»30.
Seme che dalla notte fa fiorire il giorno, dal buio lascia sbocciare lentamente la luce.
*
Il corpo contiene. Su Pasta madre di Franca Mancinelli di Cristina Babino è un lavoro inedito
76
27 Ivi,
p. 28.
28 Ibidem.
29
30
Ivi, p. 8.
Ivi, p. 16.
Da Pasta madre
Franca
Mancinelli
La scelta dei testi di FRANCA MANCINELLI che segue
è tratta da Pasta Madre (Torino, Nino Aragno Editore 2013)
ed è stata curata da Danilo Mandolini
*
77
cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono
ali. Quanti animali migrano in noi
passandoci il cuore, sostando
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,
non restare impigliati tra i nostri
contorni di umani.
Franca
Mancinelli
*
padre e madre caduti
frutti che non potevano
marcirmi attaccati
mentre nudo imparavo
a reggere il cielo
come un uccello sul dorso, lasciando
campi e case affondare.
L’azzurro torna
a coprire la terra. Trattengo
nel becco il ricordo,
il seme che sono stati.
*
78
sono tornati nomadi i quadri
scorrono come lampi rotti
sulle pareti dove un ritmo batte
chiodi insicuri, incerti semi
e tu dalla mattina presto
in piedi sulla sedia
a cercare l’angolatura esatta
il punto a cui restiamo appesi.
Franca
Mancinelli
*
con un fianco immerso nella siepe
e mani che triturano feroci
andiamo fraterni accarezzando
il torace dei cancelli. Bambini
sgusciati per la strada, una musica
di sbarre e di ringhiere.
*
79
per marciapiedi e treni
in poche righe un’esistenza
tradotta in stampatello tremolante.
Scriverà sempre
perché non sa parlare
ha la lingua bucata come un soldo.
Franca
Mancinelli
*
«ho lavorato con la morte
nel cuore per un mese».
E gli occhi le debordano al pensiero
delle notti quando all’altro lato
del letto un fiume si ostruiva
lento di rifiuti. Poi nel sonno
profondo un gran cantiere
riallacciava la vita a quattro ponti.
Sono vent’anni che dormiamo
insieme e solo ora
so che il sangue
va dal mio atrio al suo.
*
con la costanza degli insetti
torniamo contro questa
luce che non si apre, che ci spezza
80
quanto ancora busseremo
al vetro che divide
l’ossigeno dal cuore?
Franca
Mancinelli
*
col fiato tagliato da giorni
seguiamo le rive, le piste
ora dovremo arrestare
le tracce e cadere
mimando la fine.
Passeranno veloci sopra di noi
in un trotto di zoccoli sporchi.
La paura per faglie sottili
scenderà fino a perdersi.
Allora ci rialzeremo
con occhi che non rimargina
il buio non medica.
81
*
le formiche del sangue fermo
brulicano i corpi
che non si congiungono.
A volte è un incontro di sassi
urtano e rotolano insieme
fino al primo ostacolo o alla fine
del pendio. E anche noi
che crescevamo il mondo all’orizzonte
terra emersa
oltre le feritoie della stanza
ci sveglieremo coperti di neve
ai due lati del letto
una mattina divisa
da braccia congiunte
a forbice.
Franca
Mancinelli
*
Maria come mi chiamo
nel profondo e più nascosto
viso, in sotterranei
cinti e altri
luoghi di ricovero
dove rasoterra odoro
bruna come la viola e il mosto.
*
82
l’acqua toglie il dolore, l’odore
di selvaggina, sapone
per non essere più
carne predata, inumidita
nella saliva d’altri: assottigliarsi
e sempre più nel rito
fino ad avere bianca
la pelle come un’ostia.
Franca
Mancinelli
*
torno a immergermi nel corpo
azzurro e buono di una domenica
mattina, fraterna ad altri
senza capelli e occhi, muti
come in un giorno di lavoro
per corridoi
con altre ombre accanto.
Ma in questo chiaro di saliva
cloro e seme, abbandonata ognuno
la sua scorza, gesto dopo gesto entriamo
bambini con un segno d’acqua in chiesa.
83
Franca Mancinelli
È nata a Fano nel 1981
Ha pubblicato due libri di poesie: Mala kruna (Manni 2007; premio opera prima “L’Aquila” e “Giuseppe
Giusti”) e Pasta madre (Nino Aragno editore 2013; premio “Alpi Apuane”, “Carducci”, “Ceppo-giovani”).
Un’anticipazione del suo secondo libro di versi è apparsa in Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna
Rosadini (Einaudi 2012).
Fa parte della redazione della rivista “Smerilliana”.
Collabora come critica con “Poesia” e con altre riviste e periodici letterari.
84
Vetrina
Massimo Gezzi
Ha pubblicato i libri di poesia Il mare a destra (Edizioni Atelier 2004), L’attimo dopo (luca sossella editore 2009
- Premio “Metauro” e “Marazza” Giovani) e Il numero dei vivi (Donzelli 2015 - Premio internazionale di
poesia “Carducci” 2015, Premio di poesia “Città di Legnano - Giuseppe Tirinnanzi” 2015 e Premio Svizzero
di Letteratura 2016), più la plaquette trilingue In altre forme/En d’autres formes/In andere Formen, con
traduzioni di Mathilde Vischer e Jaqueline Aerne (Transeuropa 2011).
Ha curato l’edizione commentata del Diario del ‘71 e del ‘72 di Eugenio Montale (Mondadori 2010) e l’Oscar
Poesie 1975-2012 di Franco Buffoni (Mondadori 2012).
In Tra le pagine e il mondo (Italic Pequod 2015) ha raccolto dieci anni di interviste a poeti e recensioni.
Vive a Lugano, dove insegna italiano presso il Liceo1.
È tra i fondatori e curatori del lit-blog “Le parole e le cose” (http://www.leparoleelecose.it/).
85
La scelta dei testi di MASSIMO GEZZI che segue
è tratta da Il numero dei vivi (Roma, Donzelli 2015)
ed è stata curata da Martina Daraio e Danilo Mandolini
Da Il numero dei vivi
Massimo
Gezzi
Zero
*
E poi? Pareti, porte chiuse, fumi che si disperdono,
d’accordo, ma dopo? Cos’hai detto
di tanto grosso? Che si muore?
Va bene, lo sanno tutti questo, però dopo?
Non dopo la vita: sono chiacchiere
da poco, quelle. Dopo-adesso, voglio dire,
dopo-prima, anzi meglio: durante.
Mentre sei qui che respiri e guardi i boschi che si inerpicano
sulle montagne di un nuovo orizzonte, oppure i picchi
di sempre, quelli azzurri e sibillini,
86
e gli uomini e le donne dei tuoi luoghi
li contemplano, anche quelli di un tempo
che non respirano più, ma percorrono senza requie
le strade del paese, balbettando come
balbettavano da vivi, o raschiando il catarro
quando ridono e tossiscono.
Tutte inutili, quelle voci?
Inutili come te, che scrivi per nessuno, o come le dita
di tua figlia che si allungano nel buio?
Non hai torto, non hai ragione.
Le foglie che il vento getta a terra qualcuno
le conserva. Qualcun altro le ritrova
dopo anni, e le colora.
Difendi questa luce, se sei un nulla
come tutti. Difendi questo nulla
che non smette di essere. Smetti tu di tirare
righe scure, di cancellare. Tocca il tavolo, la carta.
Impara un’altra volta a far di conto:
non sottrarre allo zero, aggiungi uno.
Da Uno
Massimo
Gezzi
87
Un congedo
Si fermò ad osservare gli ultimi bagliori
di luce che affondavano dietro i monti.
«Non mentono di niente, i bambini,
quando fanno il sole rosso o le nuvole
rosa su uno sfondo blu cobalto. Forse sono
gli unici che guardano ancora qualcosa».
Posò il bicchiere sul tavolo,
soffiò il fumo contro il vetro e quello
si allargò come un lago di aria grigia.
«Ho pensato che la mia vita fosse mia.
Anche tu lo stai pensando, adesso,
che tu sei ciò che scegli, ciò che vuoi,
quello che dici». Gli rispondevano i libri,
le cornici, le piante tese al tuffo nel buio,
non io. «Anche quello che non dici»,
sorrise, mentre il rantolo di catarro
gli si faceva più scuro. «Invece adesso
tu, su quella sedia, che mi guardi le spalle
e vorresti annodarti le mani o essere muto,
tu adesso sei importante, e non lo credi, e non lo sai».
La nuvola più lontana sbiadì all’improvviso.
Nel giro di pochi minuti perse il rosa, poi il viola.
Era ormai un ammasso grigio quando lui,
picchiettando due dita al ritmo contro i vetri,
diede un colpo di tosse e intonò Yesterday,
poi smise.
Due abbracci
Massimo
Gezzi
I.
«Manca sempre qualcosa», dicevano le sue mani
indispettite che si intrecciavano in girandole,
mentre fissava un punto cieco contro il muro.
«Cosa manca?», le ho chiesto, sapendo
che nono avrebbe più risposto, e che nel gesto
del volto che si girava verso il buio
a fermare lo sguardo sugli spilli dei lampioni
c’erano tutte le risposte,
non ce ne sarebbero state mai.
II.
88
Rannicchiata come un riccio,
un embrione, come lo scheletro
di un amante pietrificato
dalla lava sul mio letto,
ti chiudo in questo abbraccio
impotente e incolpevole,
mentre fuori le scintille del disastro,
lo strido sull’asfalto e le prime
farfalle di cenere che cadono.
Tutto tieni tu, alla luce
assonnata dell’abat-jour.
Tutto si dimentica di te,
continua a cedere.
Sette raccomandazioni alle foglie cadenti
Massimo
Gezzi
Mentre guarda il libro di anatomia
– l’oscenità del cuore sezionato,
gli altri, i ventricoli, le pareti sottili
che un soffio o un forame può danneggiare –
avverte lo scambio di fluidi che lo pervade,
e alle foglie accartocciate che resistono
intirizzendo al freddo del primo novembre,
dice questo:
– Spuntate in un luogo riparato. Meglio vicino al
tronco, o dietro un nodo robusto.
– Fortificate il vostro picciòlo. Riempitevi di linfe,
incollate le mezzelune alle dita nodose dei rami.
– Difendetevi, infoltite. Se il vento vi sferza,
stringetevi assieme: quando l’una si sbilancia, l’altra
la sosterrà.
– Spalancatevi, splendete. Coloratevi di smeraldo,
fatevi stancare dal sole e dall’estate. Lasciate che vi
respirino, e voi stesse: respirate.
89
– Alla prima stanchezza, disperate serenamente. Il
giallo delle punte, le venature che irrigidiscono.
Concentratevi allora sulla stretta che si allenta:
misuratene la pressione, non le resistete.
– Nel cadere soprattutto, siate lievi. Ognuna avrà il
suo pezzo di prato, la sua pietra. I ragazzi vi
prenderanno, le auto vi triteranno, finirete
xxxxxxxx
schiacciate nei libri, dentro un sacco.
– I frammenti che una mano stritola e disperde, del
riccio che farete ormai marroni, croccanti: un vento
li prenderà, li porterà lontano. Nessuno saprà dire
se platano, olmo, acero o castagno. Diranno
«ragnatela, gambo, pagina, telaio». Nessuna di
queste parole vi rappresenterà.
Da Più gli altri
Massimo
Gezzi
90
L’intagliatore di lattine
Seduto sulla base
di un pilastro che regge i portici,
avrà dodici, tredici anni.
Cappellino, due piercing
sopra il labbro superiore,
con estrema concentrazione ritaglia
lattine di Redbull, Coca Cola,
birra da quattro soldi.
Le maneggia attentamente,
stringe le forbici con calma
seguendo linee immaginarie
ma chiarissime ai suoi occhi.
Si dev’essere accorto
del mio sguardo perché,
sollevando la testa indispettito
e prima di arrendersi a un sorriso, fa:
«Non lo vedi che faccio?
Trasformo questa merda in tante stelle.
La birra però prima me la bevo».
E riprende.
Massimo
Gezzi
91
Responso per R.
Per un’incomprensione banalissima
– una parola pronunciata
a voce troppo bassa, un appunto
stracciato senza cura – la luce
che poteva visitarti si è posata
sullo scuro che si è chiuso
imprevedibilmente: lo slargo di splendore
sul parquet si è frantumato
in quattro sottilissime fessure.
Che non portano a niente,
che nemmeno si intrecciano
in un frivolo shangai da esaminare
nelle meno intorte: tutto qui
il dono sperato, il responso degli oracoli
pregati mentre scivoli nel sonno.
«Che almeno siano buio
al più presto. Che l’inganno sbiadisca
per il colpo di straccio di una nuvola».
Massimo
Gezzi
92
Lo spazio percorso
Si sono incrociati un’ultima volta sulla porta,
dove la soglia divide l’umido dal secco,
il tepore dalla nebbia ghiacciata.
Lui le ha messo una mano sulla spalla,
ha chiesto un aiuto inconfessabile, ha mentito.
Quindi il corrimano, il pulsante
arancione tremante della luce sulle scale,
le scale, l’aria fredda. Il cielo tra cobalto e ossidiana,
la cicatrice verdastra dell’alone lunare.
Non si sente più niente, il clack metallico
del portone coincide con un no detto tra sé,
il movimento dei passi sul marciapiede riproduce
il rito consueto dell’allontanamento.
Le chiede, e lei sente, perché non l’ha salvato,
perché non ha detto le parole
che estraggono il reale dal fantasma.
Ora devo camminare, si ripete, fino a perdere il controllo del corpo.
Oggi chiude, riconosce che ha perso,
porta a casa quel che resta
di sé, lascia che le circonvoluzioni di parole
solidifichino nell’aria, sbiadiscano
in sillabe di senso incomprensibile.
Da Il numero dei vivi
Massimo
Gezzi
93
Dimenticanze
Resistono negli occhi, oppure nella mente,
le lamelle di luce che stamattina
incidevano losanghe sul pavimento della camera.
Sopra il letto gli ammennicoli di sempre:
valigia, vestito, zaino, per un percorso
che ricomincia tutti i giorni,
a ogni svolta di corridoio. Ma dopo,
quando nell’atrio qualcuno ti incrocia
o ti fa cenno, ancora confidi
che i colori più accesi del mattino
o il fondale di una finestra
sappiano stringerti le spalle, a te e ai tuoi compagni
innominati di viaggio: «Perde il lavoro
e si getta dal cavalcavia»,
avete letto poco fa sul giornale
che uno compitava a pagine spiegate,
sbadigliando per il sonno.
Rimandi uno sguardo al paesaggio,
alla luce del primo giugno, alle stazioni.
La vostra dimenticanza è gentile:
non lo fa di proposito a lasciare
ogni cosa com’è.
Il suicida risale sul ponte col rewind.
Adesso lui ha girato, è già alla pagina di sport.
Massimo
Gezzi
94
Discorso ai nuovi vicini
Difendere un perimetro di luci:
qui il muro, lì un tavolo disegnato
contro il bianco, delle tende, il bagliore
intermittente del televisore che le incanta
e le rende vive. Dentro storie semplici,
né colpevoli né innocenti: il termometro
per la febbre, un quadro, uno sguardo
che rade il buio e si consuma nell’attesa.
Chi abbia ragione e chi abbia torto non lo dicono
le case. Eppure tutti, appesi al vostro vuoto
che un passato di generazioni riempie sempre
di un senso, scambiate una parola con il monte
che incombe e guarda il lago come un angelo
di terracotta veglia una casa: senza vederla.
Difendere un perimetro di spazio,
di esistenze, appartenersi nel rito
del risveglio sotto un unico
tetto che sembra casa e non lo è,
perché le luci già tremano e il termometro
dice febbre, e in una, due giornate uno vende
una discendenza, spicca i quadri, strappa le tende,
ne fa stracci. Nella breve parentesi
di questi istanti vivete voi.
Unisci i puntini
Massimo
Gezzi
95
Da un cancello socchiuso ognuno vede
la propria vicenda sotto forma
di rogge, campi di colza,
profili impettiti contro i colori
variabili delle albe. Cos'è rimasto, si chiede,
di quelle tracce, che disegno ho fatto emergere
dai puntini da unire collegando le cifre
che ne indicavano la successione? Fuori dalla finestra
un vento acerbo maltratta un oleandro,
una palma, una magnolia dai fiori sfatti.
Attraverso questi rami si compone
il disegno di una casa dai serramenti
verde scuro – o non erano arancioni?
e si affacciavano sul mare? –,
una delle tante case perse di cui si tiene in mente
ogni particolare.
Ecco, se alza lo sguardo,
una mattina di metà maggio mentre
perde del tempo, riflette, osserva il gesto
grazioso di una ciocca di capelli sistemata
dietro l'orecchio, ognuno può comporre
i punti di luce che un mattino di un altro secolo
gli ha impresso nella memoria: trova le differenze,
sembra dire quest'altro gioco
che il vento si ostina a suggerire.
Vedo solo ciò che è uguale, risponde,
mentre il verde della porta trasuda
arancione e un campo di colza
si tinge di marea.
Ultima domanda
Massimo
Gezzi
96
Io non so chi vivrà dentro quei nuovi appartamenti.
Alcuni sono arrivati, altri arriveranno.
Altri se ne andranno prima del dovuto.
Ci incroceremo giù al parco,
davanti al lago, dentro una scuola
o un supermercato. Ci scambieremo persino
qualche parola, un giorno o l’altro.
Non siamo imperdonabili, eppure questa luce
che taglia il versante del monte
prometteva qualcos’altro, tempo fa,
e l’ombra che proiettava dietro a tutti
era la gioia. Adesso attendiamo
altre ombre per contare
di vederci un po’ più spesso, di conoscere
le facce dei figli, di sapere dov’è andato
a finire quel cane
che metteva allegria solo a guardarlo.
Ma sperare in un’ombra, una minaccia
che ci renda meno soli, più vicini,
non possiamo. Il presente è una speranza
che contraddice se stessa, bene e male
che si elidono, il sospetto di non potere,
non sapere, non volere
se non essere. Siamo?
Massimo
Gezzi
*
Prima che tocchi l’erba
la boccia appesa in aria contro il cielo
viola chiaro, prima che atterri –
prima che l’onda si rovesci sulla sabbia
e cancelli
le orme di chi ci ha camminato
per disperdere un pensiero –
prima che l’odore dei pitosfori
sia gelato dall’inverno
devi dirlo il dolore di non essere
più, se la memoria è anche questa
incompiuta congrega di persone
che hanno amato inutilmente,
preoccupate o distratte,
ma per sempre stagliate nell’azzurro
navigato dai pipistrelli che gremivano
il buio rischiarato dai fanali.
97
Sono loro, ti hanno amato.
Hanno potuto quel che hanno saputo.
Hanno sbagliato.
Il dicibile e l'indicibile. Su Il numero dei vivi di Massimo Gezzi.
Di Martina Daraio
Il numero
dei vivi
Di
Massimo
Gezzi
98
Ciò che sin dai suoi esordi caratterizza la scrittura di Massimo Gezzi è l'inestricabilità tra parola poetica e
pensiero filosofico, tra figuralità polisemica e argomentazione logica. Il titolo dell'ultima raccolta pubblicata
nel 2015 per Donzelli, Il numero dei vivi, esprime questa doppia tensione mostrando l'intenzione di
strutturare matematicamente ciò che più difficilmente può essere razionalizzato: la vita. Le sezioni della
raccolta si articolano allora dallo Zero all'Uno, ulteriormente diviso in dieci testi che nei titoli rispettano la
sequenza numerica e nel numero di strofe l'indicazione del titolo, poi si prosegue con la sezione Più gli altri
composta da testi di varia misura in cui si ospitano ritratti di un'altrettanto varia umanità, fino a concludere
con Il numero dei vivi, da cui ci si aspetterebbe una somma conclusiva, un risultato, una verità che però,
prevedibilmente, non arriva. Se, anzi, la raccolta si apriva con un testo proemiale in cui l'esortazione ad un
“tu” recitava così: «Tocca il tavolo, la carta. / Impara un'altra volta a far di conto: / non sottrarre allo zero,
aggiungi uno», la terzina che chiude il libro è imprevedibilmente questa: «Sono loro, ti hanno amato. /
Hanno potuto quel che hanno saputo. / Hanno sbagliato».
Che cosa produce nel corso di queste pagine la divaricazione tra la speranza di riuscire a mettere in
forma l'esistenza e la disillusione della stessa? In questo nodo problematico («La parola è speranza, ed è
sbagliata, / una volta ancora») sta l'aspetto più convincente de Il numero dei vivi in cui Gezzi dispiega il
massimo sforzo cognitivo, rendendo a tratti faticoso lasciarsi trasportare dalla lettura anche emotivamente,
ma al tempo stesso arrivando a dimostrare nei fatti l'insufficienza di un tale sforzo. Afferrare la complessità
del reale si rivela infatti impossibile non solo da un punto di vista numerico, ma anche linguistico. La
matematica a cui il poeta pare in un primo momento fare fiduciosamente appello altro non è, del resto, che
anch'essa un linguaggio; come tale dista dall'evento nel momento stesso in cui convenzionalmente si
propone di rendere dicibile l'indicibile, nel momento in cui non può liberarsi da uno sguardo relativo e
parziale sulle cose scegliendo una prospettiva che porta luce da un lato e genera un cono d'ombra dall'altro.
Emblematica in tal senso può essere considerata sia la presenza di coppie antitetiche («c'erano tutte le
risposte, / non ce ne sarebbero state mai»; «Tutto tieni tu […] tutto si dimentica di te»; «Splendore
indimenticabile, / dimenticato»), sia la ricorrenza delle parole “luce” e “buio”, pari quasi al numero dei testi
della raccolta.
Ma luce e buio non sono solo gli estremi di una realtà inafferrabile di cui si vogliono tracciare i perimetri,
sono anche indizio di quella che sin dagli esordi è l'ossessione veritativa di Gezzi: l'adesione ad un
materialismo lucreziano che, oltre a proporsi come elemento di resistenza all'evanescenza del virtuale e del
finzionale, intende, a monte, riconsiderare il senso stesso della scrittura e del sistema alfabetico su cui si
basa. La referenzialità della rappresentazione è infatti tanto forte da far pensare ad una certa vocazione
xxxx
all'ideogramma, al desiderio di accorciare drasticamente la distanza tra la cosa e il segno. Anche in questo
consiste infatti lo sforzo cognitivo compiuto dall'io autoriale prima e lirico poi: nel tentativo di sottrarsi
dalla scena, di “dire la verità” lasciando che siano i dati stessi a parlare, la materia empirica, l'esperienza
quotidiana:
Il numero
dei vivi
Di
Massimo
Gezzi
1 MASSIMO
GEZZI,
Per un'apologia
della lirica,
“L'Ulisse”, n. 11,
dic. 2008, p. 29.
99
Se si sceglie la poesia dell'esperienza personale, capace di interpellare sulla scena un lettore e persino di
interpellarlo, bisogna non dimenticarsi di dire la verità, rappresentarsi per quello che si è: un io come tutti
gli altri, con nessun privilegio ontologico e nessuna centralità cosmica, un io mortale e provvisorio,
destinato a sparire nel nulla.1
Cercando così di negare la sua “centralità cosmica” (e grammaticale), l'aspirazione del poeta consiste
ambiziosamente nel ritrovare una parola che, non essendo più di uno specifico uomo, diventi quella di ogni
uomo producendo quella che Gezzi stesso ha definito una “lirica diserocizzata”.
Si tratta però di un'operazione che per quanto possa avvalersi del massimo grado di attenzione logica
risulta per sua natura destinata a fallire, e nella sua impossibilità di trovare delle risposte conclusive Il
numero dei vivi ne fornisce la prova più evidente. Ma la raccolta è anche la dimostrazione della percorribilità
di una strada alternativa a quella del logos, ossia quella del mythos. Nel punto in cui la filosofia riesce ad
incontrare la poesia, l'opera di Gezzi restituisce infatti una rappresentazione dell'esistenza polisemica,
pluriprospettica, interessata alle sfumature delle ombre oltre che ai confini tra luce e buio. Il nesso tra
apparenza e sostanza, tra indicibile e dicibile, mente e corpo, smette così di essere considerato antitetico e
inizia a pensarsi come complanare. Se allora è vero che «Nessuna di queste parole vi rappresenterà» è
altresì vero che, spegnendo la luce della ragione, un altro tipo di operazione è ancora possibile: «Ricomincia
a tracciare / i perimetri, spegni le luci». In tal senso, uno dei testi più riusciti della raccolta è Sette
raccomandazioni alle foglie cadenti. Qui, infatti, l'immagine delle foglie cadenti riproduce il destino di ogni
mortale esposto alla furia del vento. Un destino tragico confuso tra momenti di solitudine e speranza di
solidarietà. Parallelamente anche l'imposizione di una forma metrica si incrina fino all'abbandono della
cesura del verso a vantaggio di una prosa lirica. Ma anche in altri passaggi, quando il verso continuava ad
essere ancora presente, la forza degli enjambement era tale da negarne ogni presunta autonomia.
La coscienza del poeta è però sempre in agguato e l'immagine viene presto tradotta in un'esortazione
alla socialità: «Difendetevi, infoltite. Se il vento vi sferza, stringetevi assieme: quando l'una si sbilancia,
l'altra la sosterrà». Se allora è vero che dalla continua tensione tra immagine e discorso si può ricavare l'idea
di una poesia come gesto di moltiplicazione, di rappresentazione di una realtà complessa e non binaria,
accanto a questa, e forse in misura predominante, rimane il bisogno di una logica definita, di una
matematica che supporti la responsabilità intrinseca all'atto di scrittura. Quella de Il numero dei vivi può
xxxx
dunque dirsi una poesia intesa soprattutto come gesto sociale, come risposta del poeta alla sollecitazione
del suo essere uno tra tanti e per questo al doversi pensare costantemente chiamato a compiere consapevoli
scelte di azione e di parola: «Anche tu lo stai pensando, adesso, / che tu sei ciò che scegli, ciò che vuoi /
quello che dici».
Il numero
dei vivi
Di
Massimo
Gezzi
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*
Il dicibile e l'indicibile. Su Il numero dei vivi di Massimo Gezzi di Martina Daraio
è un lavoro inedito
Le parole che estraggono il reale dal fantasma e viceversa. Su Il numero dei vivi di
Massimo Gezzi.
Di Danilo Mandolini
Il numero
dei vivi
Di
Massimo
Gezzi
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Prima di entrare nel merito (meglio: nei diversi meriti; impossibili da dire tutti in sintesi) dell’ultimo lavoro
in versi di Massimo Gezzi (Il numero dei vivi, Donzelli 2015, 17,00 €), mi corre l’obbligo di investire alcuni
istanti nella stesura di una breve premessa.
Nel momento in cui accade che compongo le prime parole di questa nota di lettura va precisato che ho, già
da un po’ di tempo, cominciato a scrivere un pezzo che presumibilmente sarà l’introduzione ad una silloge
di poesie. Non ho ancora scritto molto, ma tra quanto è già stato messo su carta c’è, in apertura, una
citazione da Hermetic Melancholy (in Almost invisible) di Mark Strand che nella traduzione di Damiano Abeni
“suona” così: «…e diciamo che mentre sei lì il sole, il sole reale, è sorto, e ti viene in mente che ciò che hai
fatto della notte era solo una possibilità...». Ecco: il brano recuperato da Strand e appena riproposto
potrebbe essere (a celebrazione di quella straordinaria ed insaziabile volontà di scrutare tra le infinite trame
del reale – primo movimento fondante di tanta poesia nel tempo prodotta; movimento al quale certo non si
sottraggono i due autori di versi fin qui citati) anche l’esergo di questo mio scritto dedicato all’ultima fatica
poetica di Massimo Gezzi.
In soccorso di quanto testé affermato (la riflessione in questione è come esplosa nella mia mente subito
dopo la lettura del volume oggetto di questa dissertazione) credo giungono alcuni versi tratti da una poesia
centrale (non solo per la posizione in cui è collocata) ne Il numero dei vivi. Questa lirica si intitola Lo spazio
percorso e i versi ai quali mi riferisco aprono alla chiusura dello stesso testo recitando: «le parole / che
estraggono il reale dal fantasma. / Ora devo camminare, si ripete, fino a perdere il controllo del corpo.».
Le parole che estraggono il reale dal fantasma (e verosimilmente anche il “percorso verbale” contrario)
sono l’insieme dei termini che è a lungo rimasto nei miei pensieri a testimoniare ciò che è parso essere, ai
miei occhi, il grande lavoro di scavo sull’esistere umano e non solo che Gezzi effettua e rappresenta ne Il
numero dei vivi.
Più che di un lavoro di scavo, però – che pure evidentemente c’è ed è irrinunciabile –, penso sia più
esaustivo parlare, vista la struttura e l’organizzazione del libro e gli esiti ai quali il medesimo approda, di
una vera e propria, e davvero minuziosa e sorprendente, opera di scansione che il poeta attua sulla realtà
che offrendosi ai suoi sensi stimolandolo lo attrae.
Il fluire di questi versi sembra veramente essere la luce dello scanner che, in un continuo andirivieni ed
alternandosi al buio – buio che pare raffigurare il momento proprio della meditazione –, registra le
informazioni da conservare, prima, e da restituire, immediatamente dopo. E ciò che questa luce conserva e
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Il numero
dei vivi
Di
Massimo
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riproduce, a seguito di una formidabile opera di rielaborazione (lo scavo irrinunciabile al quale si è
accennato poco fa), va decisamente oltre le pieghe visibili del reale. Questa luce si sofferma infatti sul «nulla
/ che non smette di essere», sul «Tutto» che «si dimentica di te» e che «continua a cedere», su «la verticale
del silenzio», sulla «percezione degli oggetti», su ciò che – l’autore disquisisce – dà corpo all’azione del
dimenticare (nel testo Dimenticanze), su parole la cui provenienza non ci è sempre data di sapere, su una
semplice e al contempo disarmante, perché senza risposta, domanda che praticamente chiude la silloge:
«Siamo?». E le occasioni che danno il la alla creazione di questo repertorio, per buona parte ordinato in
rigorosa sequenza numerica, del sentire e del vedere profondi provengono dal più quotidiano dei
quotidiani; ad esempio: dai lavori di rifacimento del manto stradale della piazza principale di Sant’Elpidio
a Mare (città natale del poeta), da alcuni drammatici fatti di cronaca noti ai più, dall’incontro con un
giovane intagliatore di lattine, dalle riflessioni intorno alla figlia che cresce, dal dialogo con una studentessa
della svizzera italiana durante lo svolgimento di un tema, dal colloquiare con alcuni amici poeti, dalla
visione di un affresco all’interno di una rocca.
Non si può non affermare, poi, come i riferimenti spazio-temporali, nel mentre che si incontra con la lettura
Il numero dei vivi e che la suddetta attività di scansione quasi senza soluzione di continuità si compie, paiono
come consumarsi fino a sparire; certamente fino a confondersi (forse, quello stesso «fino a perdere il controllo
del corpo» di cui in precedenza). Questa sensazione come di lieve disorientamento si coglie e si può di fatto
vivere in diversi passaggi del volume; più che altrove, però, essa giunge alla sua più alta rappresentazione e
decifrazione in una delle ultime poesie, in quell’Unisci i puntini in cui il poeta – in un suggestivo gioco di
visioni colorate che velocemente si spostano lungo l’asse del tempo e tra le pareti della mente – arriva a
dichiarare «ognuno può comporre / i punti di luce che un mattino di un altro secolo / gli ha impresso nella
memoria».
E il senso di abbandono al quale ci si sta qui di fatto riferendo può divenire anche, infine e semplicemente,
il “terreno comune” dove la disillusione «del risveglio sotto un unico / tetto che sembra casa e non lo è» o di
quei «tutti» che scopriamo «appesi» al loro «vuoto» di colpo appare come il sentire riconoscibile che
avvicina – con quell’intensità che sappiamo essere compiutamente inesprimibile e nella certezza della
fragilità della condizione umana di fronte al proprio, ineluttabile divenire – chi scrive a chi legge. Questo
stesso senso di abbandono (che nella fattispecie è un vero e proprio stato di vigile sospensione, perché
sottoposto ad una costante operazione di stimolo a livello diremmo anche sensoriale, tra razionale e
irrazionale) è altresì la naturale e autentica manifestazione del piacere che un lettore appassionato può
provare quando si trova di fronte ad un scrittura davvero potente; una scrittura che, come nel caso di Gezzi,
tra l’altro sorprende per il tanto che riesce a narrare e per il come lo narra in maniera diretta e
immediatamente fruibile (non è un caso, a questo proposito, che in vari frangenti dell’opera l’autore decida
di utilizzare la prosa piuttosto che il verso); un comporre che a tratti pare manifestare l’intento di
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Il numero
dei vivi
Di
Massimo
Gezzi
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ripercorrere, rinnovandolo, il solco tracciato da alcuni giganti della poesia del novecento italiano
rimandando, in particolare, all’ultimo, grande Montale (si ricordi che Gezzi ha curato per Mondadori
l’edizione commentata del Diario del ‘71 e del ‘72) e all’altrettanto grande Sereni de Gli strumenti umani; una
poesia, questa del recente Il numero dei vivi, che è la più che ovvia prosecuzione e l’inevitabile rilancio verso
l’alto dell’esperienza già pubblicamente e con sicurezza maturata sia nel primo Il mare a destra (Edizioni
Atelier 2004) che nel successivo L’attimo dopo (luca sossella editore 2009).
*
Le parole che estraggono il reale dal fantasma e viceversa.
Su Il numero dei vivi di Massimo Gezzi di Danilo Mandolini
è un lavoro inedito
Martina Daraio
È nata ad Ancona nel 1987.
Dopo la laurea triennale in Lettere Moderne a Bologna si è trasferita a Padova dove ha conseguito la
magistrale in Teoria e critica della letteratura. Nella stessa città sta per concludere un Dottorato di ricerca in
cui si è occupata del rapporto tra poesia e spazialità attraverso lo studio del caso poetico marchigiano
contemporaneo. Ha partecipato a progetti di studio all’estero presso il Caltech (Pasadena, USA), l'ASHA
Center (Gloucester, UK) e la Duke University (Durham, USA). Appassionata di critica militante, collabora
con riviste e blog di critica online ed è responsabile della collana di saggistica Maree di Arcipelago itaca
Edizioni.
104
Danilo Mandolini
È nato ad Osimo (AN), dove vive, nel 1965.
Ha pubblicato, in versi: Diario di bagagli e di parole (Edizione privata 1993), Una misura incolmabile (Edizioni
del Leone 1995), l’anima del ghiaccio (l’aliante 1997), Sul viso umano (Edizioni l’Obliquo 2001), La distanza da
compiere (Edizioni l’Obliquo 2004), Radici e rami (Edizioni l’Obliquo 2007) e A ritroso - Versi e prose
(Edizioni l’Obliquo 2013) che raccoglie, riscrivendola in buona misura, un’ampia selezione di tutta la sua
precedente produzione.
Sue poesie e suoi racconti brevi sono apparsi in antologie, riviste e blog letterari.
I suoi lavori hanno ottenuto riconoscimenti in numerosi premi letterari nazionali.
Nel 2010 ha ideato ed iniziato a curare “Arcipelago itaca”: un progetto di diffusione della poesia
contemporanea e non solo che nel frattempo è divenuto anche casa editrice (www.arcipelagoitaca.it).
Anamorfiche è il titolo della sua raccolta inedita di versi di prossima pubblicazione.
105
La scelta dei testi di DANILO MANDOLINI che segue
è tratta dalle opere qui evidenziate in grassetto ed è stata curata dallo stesso autore
Da A ritroso - (Versi e prose / 2010 - 1985)
Danilo
Mandolini
Da UNO - (minima propedeutica per non smettere di scrivere)
*
Provo a trattenere un po’ del tempo
che sgorgando cancella le parole.
Ora cado, mentre cado, con la pioggia
verso il basso disegnando questo giorno.
«Ricopriti lo sguardo!» fa un passante;
«A cucchiaio le mani sopra gli occhi.
Lascia che il buio sia un po’ luce,
che nulla t’impedisca di morire».
106
Da UNO - (minima propedeutica per non smettere di scrivere)
Prima scansione del “qui”
Danilo
Mandolini
*
*
Distante è il parlare di chi teme
che nei giorni si nasconda la paura,
che le ceneri di un fuoco senza fiamme
ricoprano, perenni, ogni destino.
La storia già vissuta di ogni vita
s’addensa come dentro ad un bicchiere,
crea un sedimento quasi liquido
che scava di nascosto dalla vista.
Luce di una luce illuminata
è quel luogo disperso già da ieri,
quella voce che da ultimo ci dice
di restare per vivere la morte.
Il caldo trasparente delle mani
conduce alla bocca quel sapore,
porta fino in gola l’esperienza
levigata del nulla che compare.
Da UNO - (minima propedeutica per non smettere di scrivere)
Seconda scansione del “qui”
*
107
*
Nudo si sdraia sul corpo di tutti
l’equilibrio perfetto saldato nel caos,
l’insieme perpetuo che prende la forma
di tante sembianze invisibili ai più.
Il vento si prende una parte di me,
crea una sostanza discosta dagli anni,
la guarda rapito, l’inghiotte, la sputa
ancora la lascia in me ritornare.
Altro non resta al di là della siepe
che poche parole spoglie di suoni,
mani di uomini chiuse nei pugni,
braci di un fuoco spento e riacceso.
Oggi il respiro si perde nell’aria,
solo s’annulla in un’altra materia,
resiste, si scioglie, infine s’arrende
al soffio del sole che viene leggero.
Da DUE
Danilo
Mandolini
*
[una vasta foce di suoni e colori si forma
appena oltrepassata la soglia del risveglio.
Le parole sussurrate nel mezzo della folla
che avanza col primo accenno del mattino
raccontano di spaesamenti e sogni andati,
gettano luce e cielo sui tetti delle case
e frammenti di paure dentro il tempo.
Il giorno poi viene a ricoprire la città,
a sottrarre pezzi di distanze tutt’intorno
e a lasciare avanzi sciolti di memorie
per non rivelare adesso cos’è il mondo]
*
[la finestra guarda sghemba sul cerchio del cortile
e sulle sagome mutevoli ed opache nelle strade.
108
A volte rimane come l’impronta di un passaggio,
un varco angusto che si schiude alla vertigine
nell’età che lenta e stanca segue da vicino
il silenzio farsi attimo e principio di ricordo.
Termina nel nome di un oggetto o di un uomo,
quella via, s’incastra tra il rumore della pioggia
ed il vetro che l’accoglie e la osserva con due volti
essere fiume interminabile di lacrime e sospetti
ed umida tempesta di carezze al tempo stesso]
Da DUE
Radici e rami
Danilo
Mandolini
*
I sassi neri nel buio sono bianchi
ed io parlo di mio padre che non c’è,
che due volte è morto e che mi manca,
che lo prego perché torni nei miei sogni
a dire cos’è stato del suo essere
e del mio che ne sarà già da domani.
Nero è il nero che qui si ostina,
che sembra sopravvivere alla vista.
*
109
Sorride, sorride e serra gli occhi
mentre la suora che va e poi ritorna
implora di dormire e non stancarsi,
ripete con parole che non dice
che la pena è un passo da levare
incontro a un luogo senza nome,
qui, tra letti e foglie, oltre i vetri.
Sorride, sorride e serra gli occhi.
Danilo
Mandolini
*
(il figlio che insegna al padre a leggere e scrivere)
Ripete le parole che gli dico,
legge a voce alta e senza ritmo,
scrive con le dita che gli tremano
frasi che dell’essere raccontano
il muoversi in noi come la sabbia
di mattini, di nuovo tempo che verrà.
Tredici anni e non ero già più figlio;
un po’ padre, un po’ madre ero anch’io.
*
(i morti sui campanelli delle case)
110
Fessure e riflessi che danno sul vuoto,
parole randagie che sono dei nomi,
folle a seguire che sono derive
e nulla che parli del dire che cade…
Ora li sfioro col dito e con gli occhi
quei segni che sanno di noi che giungiamo,
quei nomi tra i quali c’è anche mio padre
che vive appartato nel soffio di sé.
Da DUE
Versi del commiato
Danilo
Mandolini
*
«Tu pronunci parole repentine
da scoprire e poi da cancellare;
trame di una luce che si perde,
che torna quando proprio non t’aspetti.
…vorrei ospitarti nel mio altrove,
dirti di me ciò che non rammento…
Stringo stretto e forte tra le braccia
il silenzio che voglio per me solo.
Raccontami, se puoi, di come vivi;
esita, per un po’, tra notte e giorno».
(di te)
L’età è un cumulo d’immagini
che col vento riporta le stagioni,
i rumori, le risa e i ricordi
che fanno provvisorio il mondo intero.
Regalati del tempo che consuma
quel sentiero che porta a una collina;
guarda di lassù la volta azzurra
accendersi di colpo nel mattino.
(di lui)
111
(di te - Prima del commiato)
Sa che dove vivi c’è una voce
che si sente solo quando ci sei tu;
quella voce lui la pensa e la rincorre
come fosse la coscienza dei suoi anni.
Quando gli chiederai di andare
fallo come se parlassi a un bimbo.
Usa le frasi brevi dell’inverno.
Tocca con la mano il punto esatto
dove prima erano i tuoi occhi.
Fallo accarezzandogli il viso.
Da TRE - (le magnifiche sorti e progressive)
Danilo
Mandolini
(nascere)
Sapere da sempre e non ricordare
che al termine d’una qualsiasi tregua
il tramonto torna ancora solerte
a donare altra ansia e rancore,
a condurre quel po’ di chiaro che resta
oltre il primo essere d’ogni moto;
nello spazio destinato alla sosta
dove il vuoto che a balzi avanza,
nel paesaggio uggioso e scomposto,
non sa né di sé, né del proprio silenzio.
*
È presto. È inutilmente presto
perché l’abbraccio freddo del mattino
si liberi e scivoli, sgualcendosi,
sopra l’ostinato manifestarsi
della sabbia più prossima alla riva.
112
È già martirio, la notte trascorsa,
pausa imprevista del mare lontano
e flusso dilatato che si spinge
fin dentro il tramato delle membra…
Giù, al di là del limite del fondo,
salvo nella tomba chiusa degli occhi,
in faccia alla vetrata appannata
dietro la quale il molo si scorge.
(morire)
Sdraiarsi supini ed in bilico,
abbracciare forte la retta sottile,
la linea di parole e rumori che –
all’intersezione di più vertici,
in un preciso istante e luogo –
traccia l’unico percorso possibile,
il solo modo di giungere diretti
alla pozza d’acqua sporca e stagnante,
a quello spazio vicino e nascosto
dove la speranza del dopo che tace
viene reiteratamente al mondo
gemendo in una voce lontana
e auspicando di udire presto
una minima, flebile pronuncia
dolce alla stessa stregua dell’eco.
Da TRE - (le magnifiche sorti e progressive)
La disciplina dell’usura
Danilo
Mandolini
*
Le merci si vendono sugli scaffali,
si offrono al soffitto che scolora
e alla pioggia che oggi, lì fuori,
come qui dentro, è più fitta che mai.
*
Il letto del fiume in secca che si segue
alla caccia del profitto e delle tracce
di quelli di noi che sono già maceria
spinge lontano l’ennesimo commiato,
attrae il respiro a tratti spezzato
dal quotidiano sfiorire della vita.
Sporta sulla voragine della resa,
sospesa tra apatia e veemenza
la nuova morte di un’attesa muta
nell’attesa scontata della morte.
113
Dalle porte scorrevoli dei mercati,
guardando al cielo sghembo e radente,
si esce simulando una corsa,
si scappa a piccoli gruppi di tre
con una rete di ferro che racchiude,
oltre alla parvenza del bisogno,
alcuni pretesti per non pensare,
illusioni, promesse, istruzioni
e l’amara certezza che esiste,
in questa e in altre parti del mondo,
una compiuta e feroce armonia
tra le tante passioni degli uomini
e l’idea organizzata del possesso
e tra il corpo nudo della ragione
e l’impronta dolcemente violenta
del desiderio di sperimentare,
di conoscere meglio e dominare
ciò che appare differente e ciò
che forse è soltanto troppo uguale.
Da TRE - (le magnifiche sorti e progressive)
La linea del fronte
Danilo
Mandolini
*
VEDETTA D’INUTILI SOGNI E SPARSI,
LUCE E BUIO DELLA SOLITUDINE.
*
QUASI UN LAMENTO CHE SI DISPERDE
NELL’ABISSO IGNOTO DI UN RESPIRO.
DAL CIGLIO SPIANATO DELLA COLLINA –
NELLE NOTTI DI GUERRA COME IN PACE,
IN QUESTA PACE OSTENTATA CHE MUORE,
CHE CELA BESTEMMIA E PATIMENTO
–
SI VEDONO ALTRI ED ALTRI PARTIRE,
ACCORRERE SERRATI, A CAPOFITTO,
E NON RITORNARE, SI OSSERVANO
LA LINEA DEL FRONTE È UN FOSSATO
PROFONDO LA STATURA DI UN UOMO.
ESSA OLTREPASSA, RIPIDA E NETTA,
LO SGUARDO STUPEFATTO DI ADESSO,
CURVA LEGGERA, VIRANDO A SINISTRA,
VERSO IL TORRENTE APPENA GHIACCIATO
E DRITTA SI SCAGLIA, ROTOLA INCONTRO
AD UN LAMPO SUBITANEO CHE SCOPPIA.
SAGOME SOPRAVVIVERE A STENTO
AVVICINANDOSI SPENTE E RICURVE
AI GRANDI CANCELLI DELLE FABBRICHE.
È NEL CUORE INCENDIATO DELLE CITTÀ
CHE IL CONFLITTO SPIETATO CONTINUA,
CHE AMBIGUA SI CONSUMA LA SFIDA
114
CHI È SUPERSTITE, POI, ESAUSTO,
NON PARLA, NON SI ESPRIME PER GIORNI;
NELLO SFORZO REITERATO DI CAPIRE
TACE CON LE MANI CHIUSE A PUGNO
QUANTO DISTA QUELLO IN CUI SI VINCE
FINO A QUANDO D’IMPROVVISO, LESTO,
E COME SI RAGGIUNGE QUEST’ULTIMO
IN UN POMERIGGIO RICOLMO DI NEBBIA,
RACCONTA DI TUTTO CIÒ CHE HA VISTO,
DI CIÒ CHE HA SENTITO E TOCCATO
E NULLA DI SÉ, DEL DOLORE CHE C’ERA.
DOVE SI TROVA IL LUOGO IN CUI SI PERDE,
SENZA PROFONDERE FATICA ALCUNA.
Da QUATTRO
Danilo
Mandolini
Da (per la città di Genova)
*
È, quel grido di immobile nebbia,
l’odore acre di un caldo mattino
che torna risoluto ad ascoltare,
nella sfocata e persa memoria,
l’incessante lamento delle onde
in faccia a tutte le alte pareti
degli sconfinati moli del porto.
Le chiare scie delle navi in partenza
tracciano la rotta al crepuscolo
che avvampa spossato e improvviso
e dove un bagliore muta in ombra,
là, dimora la sferzante carezza
di un altro, dissipato maestrale.
*
115
Il viavai d’ininterrotti arrivi
delinea l’animato itinerario
che conduce l’avanguardia del giorno
oltre la bassa orlatura dei tetti;
che sorprende il riposo della luce
nella precoce adesione dell’alba
ad un mondo certamente sospeso
tra grovigli di ordinati passaggi
e folle sparse di saluti notturni.
Danilo
Mandolini
Da (maschere)
*
Vasti cunicoli di silenzio ed aria
tra le pareti della casa dei morti
e le innumerevoli date incise
sul dirupo dei pensieri a venire
invocano il bianco della neve
e la consistenza straziata di questa.
Resta il ritrarsi di un segreto,
un’estesa ulcera di precarietà
a custodia dell’ultimo intervallo
consumato e perso della vita;
come una soffocata meraviglia
che agli occhi di chi osserva
altro non è che la pena di tutti.
116
*
File interminabili di sedie.
Sedie scavate, confuse in fila.
Orme di legno e logora plastica,
materia, artificiale vivacità
che affidano il proprio divenire
alla calma meccanica delle mani,
ai movimenti di una forma a caso
scelta tra quelle che giungeranno
e che se ne andranno, poi, chi sa dove.
CINQUE - (Nullo)
Danilo
Mandolini
1.
Una notte, una notte che pioveva, lo sentirono confessare a se stesso che il ricordo del suo già trascorso
esistere altro non era che il tempo abbandonato dall’altrui percezione della sua vita, dentro il tempo di un
sogno; il tempo di un ricorrente sogno non condiviso con altri.
1A.
Il freddo continuava a venire attraverso le strette fessure che le finestre, non perfettamente chiuse,
creavano.
L’aria veniva dall’alto; veniva solo dalla parete scura e lucida che gli stava di fronte e che quasi gli ritornava,
riflessa, la sua sagoma.
Fuori, le nuvole si avvicinavano al sole per frantumarsi.
Era novembre; un nuovo giorno di novembre.
Un pensiero, un tedioso timore, piuttosto, gli era rimasto, già da alcune ore, come sospeso davanti allo
sguardo: non riusciva ad immaginarsi il viso che avrebbe avuto una volta vecchio; le mani, i capelli e tutto il
resto del corpo.
117
1B.
Il rumore dell’aereo lo svegliò, come tutte le mattine, alle sei e quaranta.
Si alzò e grazie alla luce che veniva attraverso gli spiragli disegnati dalla tapparella semichiusa, individuò la
porta del bagno della camera.
Afferrò la maniglia facendola ruotare da destra a sinistra, verso il basso, di quel tanto che era indispensabile
per tirare a sé la porta.
Nel bagno della camera c’era molta più luce che in tutto il resto della casa.
I raggi del sole erano filtrati, lì, solo da una tenda un po’ più pesante delle altre e dal vetro lavorato della
piccola finestra.
Accese comunque la luce al fianco dello specchio.
I capelli erano più alzati del solito, sopra le orecchie; la fronte, invece, come sempre, era invasa da quella
parte di capigliatura leggermente più chiara che di giorno era ritta e che il mattino era schiacciata verso il
basso, quasi a voler toccare gli occhi.
Danilo
Mandolini
118
Era il mattino della rasatura, quell’inizio di giorno.
Prese la schiuma da barba, quella che previene dal rischio di tagli, e se la depositò intorno alla bocca.
Ne usava molta più del necessario.
A lui, però, piaceva così.
Preso poi il rasoio rosso ed iniziò ad asportare, per blocchi quasi compatti, quelle piccole montagne bianche
che sembravano essergli cresciute sulle guance.
Dopo alcuni minuti di accurato lavoro manuale, la parte di viso al di sotto della linea degli occhi era
sgombra di peli.
Con la mano destra si abbassò i capelli sopra le orecchie e con la sinistra si alzò il ciuffo dalla fronte,
spostandolo all’indietro.
Aprì il rubinetto mettendo le mani a coppa sotto il rivolo che cadeva verso il centro del lavandino.
Aspettò che l’acqua arrivasse calda.
Quando la temperatura dello spazio fluido che univa il rubinetto con la bocca dello scarico raggiunse un
livello accettabile, alzò le mani al volto abbassando contemporaneamente la testa.
L’acqua era calda a sufficienza ma era poca.
Rimase colpito da questo fatto.
Aveva ripetuto per anni, quasi alla noia, l’operazione del lavaggio del viso.
Stentava a credere a ciò che stava accadendo e si domandava se avesse, per caso, commesso un errore nella
Sequenza di gesti che avrebbe dovuto portargli il calore dell’acqua dalla fronte al mento.
Rimise le mani sotto il getto che continuava a scivolare verso il centro del lavandino.
Il filo spesso e liquido si ruppe come al solito.
La coppa fatta di pelle e dita si riempì di nuovo e allora poté ripetere il gesto di alzare le mani al viso e di
abbassare la testa.
Niente. Niente era cambiato rispetto a prima.
Era il mattino della rasatura, quell’inizio di giorno.
Sapeva già che al tramonto, dopo una manciata di ore, avrebbe pensato al tempo futuro e all’ultimo dei suoi
sguardi.
Da SEI
Danilo
Mandolini
*
Non si può per nulla immaginare
che luogo costruiranno le frasi
né sopra quali tetti, per morire,
lo schianto del fulmine terminerà.
S’aspetta un paese che respiri, qui,
che lasci il vapore di un alito
incessantemente impresso e vivo
sui vetri opachi delle vecchie case.
Intanto, dietro al profilo del viso,
i giorni vanno dal chiarore al buio
e dall’ultimo buio dell’alba viene
il buio denso e nero della notte.
119
*
CAST A COLD EYE
ON LIFE, ON DEATH
HORSEMAN, PASS BY!
Al ritorno, come in ogni ritorno,
li troviamo ancora lì, seduti
in ordine sparso su di un molo,
a guardare il volo di una stella
sul teatro scuro della darsena.
Quando riprenderemo il largo
si stringeranno insieme e diranno,
loro, tutti gli uomini, che non sanno
perché ci lasciano ripartire.
Danilo
Mandolini
*
Ieri... Era ieri e non è già più.
Il nulla residuo che vano si perde
non si può affatto vedere, si sa,
ma non per questo non si percepisce
che il passato ha un’unica voce,
che la sua eco si ascolta distesi
in prossimità della propria figura.
Poi, ci si alza nel pieno del giorno
e l’orlo del mattino si ricuce,
nel suo limite ultimo, più tardi.
Da SEI
Ferita
120
Il nero negativo della tapparella semichiusa è proiettato, dalle luci delle auto, nella strada, sulla parete
rivolta ad est della camera da letto.
Si agitano e si ingrandiscono, quei piccoli rettangoli bianchi, solo per disegnare i contorni di una ferita che
dal muro raggiunge, scalfendola, una delle mani.
SETTE - (deriva)
Danilo
Mandolini
Sull’immensa terrazza rivolta ad occidente il vento d’autunno conduceva se stesso e le foglie.
A volte si portava fin dentro la casa, fino a ridosso delle prime mattonelle dietro l’ampia porta- finestra.
Lì si fermava come di fronte ad un confine.
Sulla sinistra, sulla sinistra di chi stava con lo sguardo diretto verso il sole, si disegnavano due linee
irregolari.
Erano due crepe, due fenditure che da estremi opposti quasi si sfioravano andando verso il centro della
parete.
Erano i polmoni della casa.
In estate si aprivano, si dilatavano di alcuni millimetri, mentre in inverno si chiudevano come dopo un
lungo respiro.
Nel corridoio erano ancora appese le foto di luoghi lontani e i muri erano più vicini tra loro, più vicini alle
porte che erano tutte aperte.
Le sedie non si trovavano più in casa perché gli uomini se n’erano andati altrove e la luce quasi stentava ad
entrare, tanto era il vuoto accumulatosi nelle stanze.
Un orologio da tavolo, sul tavolo della cucina, non segnava più il tempo e la cucina era l’unico spazio
dell’appartamento che conservava le tende addosso alle finestre.
Nella camera grande c’erano ancora il letto matrimoniale, l’armadio e i comodini.
Nell’altra camera, addossata sui due muri più lunghi, sostava la mobilia già pronta per il bimbo mai nato.
Non si percepivano odori, né vi erano resti o segni abbandonati al buio che stava per giungere.
121
Da OTTO - (la stessa misura incolmabile, noi…)
Danilo
Mandolini
*
L’insegna recita, urla CAPO NORD
e la luna è tesa dentro il cielo.
Pioverà di certo questa estate
e non importa quanto impiegherà
il disco del sole a tramontare;
non importa a nessuno, adesso,
le giornate che si allungheranno.
A furia di cacciar solo certezze
si finisce, così, per ucciderle
e nel tentativo di ascoltare
respirare all’unisono gli altri
si provoca l’inizio del silenzio
ed il passare ordinato dei giorni.
122
*
Si muove, si piega e s’alza, la luce,
tra le tante linee della terrazza
che a contarle come fossero dita
sottraggono l’ombra agli oggetti
rimodellando, poi, riproponendo
gli estremi trascorsi dell’essere.
…le labbra screpolate dalle frasi;
una fessura che s’apre di schianto
nel mezzo brillante di un tramonto…
«L’estate è alle porte e mi sembra
d’incontrarla sempre, ogni anno,
nello stesso luogo, lo stesso giorno,
allo stesso, inspiegabile modo».
Danilo
Mandolini
*
Sapere cosa accadrà agli anni
è un po’ come cercare di sapere
cosa succederà a chi sopravvive
inumanamente e suo malgrado.
È come dire che una medaglia
con due facce uguali è trasparente.
Così, per gradi, il bicchiere di vino
si vuota in noi, ritorna a sé
oltrepassando il sottile confine
tra la mano che stringe e non stringe.
*
Rimbalza e si scompone, il vento,
oltre l’orizzonte delle stagioni
oggi che sale il buio, di dentro,
e non perché è notte o lo sarà
ma perché adesso, più che domani,
la città arde nel suo sonno, nel sogno
di mura e tetti di giallo tracciati.
Il nostro sogno è un segno negli occhi.
123
Di giorno è lì, saldo e immobile,
solo, attento alla vita di tutti.
Danilo
Mandolini
*
*
E si sta aggrappati ad un’attesa
quasi come a cercare una forma,
un modo per asciugare i ricordi
sotto il sole acceso d’agosto.
Transita una nuvola sul viso
e non è grande abbastanza, il viso,
per raccogliere, oltre alla nostra,
anche la bocca socchiusa degli altri.
E gli altri ci guardano in bocca
aspettando un cenno d’affanno
e una prossima, vivida età.
124
[il buio dietro la finestra
fa da specchio al viso.
Le foglie non volano via
ora che non è autunno, ora
che si lascia guardare, il cielo,
come se con le tenebre,
dietro il vetro degli occhi,
fosse specchio per le parole
che rivestono la materia.
Sembra di vederle ancora,
le ultime case nel gelo,
arrampicarsi verso l’alto,
scolpirsi in una sagoma
e non scomparire più,
come si potrebbe auspicare,
ma rimanere immobili
fino al compiersi della notte]
Da OTTO - (la stessa misura incolmabile, noi…)
Visioni e gesti
Danilo
Mandolini
1.
Le nuvole nel cielo sono come tapparelle, aperte e chiuse, sulle pareti di un palazzo azzurro.
Gli uomini e le donne sono dietro, in uno spazio differente da quello aperto delle finestre.
Qui si condensano rumori e gesti che, in un’aria ormai dispersa, disegnano destini.
2.
Le colline di lontano, appezzate e spezzate nei colori, sono proprio dietro le case e cercare di toccarle è un
istinto che sbalordisce e che si ferma nel punto più distante del braccio disteso.
3.
La mano si può chiudere; si può aprire… Si stringe in sé per cogliere un soffio, per trattenere l’inizio e la
fine di un respiro che si muove verso di noi al pari di come si allontana.
125
4.
Due facciate di uno stabile si fondono in una lunga linea verticale.
Su uno dei due muri c’è scritto Anna ti amo.
Le pendenze delle montagne, contro il cielo, tracciano linee quasi orizzontali.
Scendere di qui, verso lo spazio imprevisto del giorno, non è faticoso… Basta contare le scale, ad una ad
una, fino a comporre l’arco irregolare di un passaggio.
5.
A guardia del non ritorno si pone una luce, uno sguardo a mo’ di guado per non varcare la soglia, la retta
che nel dolore ci conduce in gruppo.
Da NOVE
Danilo
Mandolini
*
*
Questa formula di vita è delizia.
È una breve bramosia notturna,
un’incontenibile e rara urgenza
di raggrumare tutte le altrui paure
che mi fa scrivere di una ferita,
di un dirupo che a lungo scorgo
senza desiderare di scoprire,
di lasciarmi continuamente addosso
l’orlo socchiuso di una cicatrice.
Quasi a non avvertire più noia
né vertigine, quasi a voler dire
«Adesso sono certo di vivere».
«Tu lo sai; le lacrime tenute dentro,
lasciate morire dentro il corpo,
presto mutano in freddo e gelo
e la disperazione resta manto
di nebbia e penombra a coprire».
Il vento apre le porte degli occhi;
un bagliore irrompe nelle stanze,
illumina, accende le ginocchia.
Soltanto il ripostiglio, il cuore,
il cuore sacro della casa, rimane
nel buio più denso e più profondo.
126
*
(il mondo di dopo)
«Cosa farai quando non ci sarò più?
Chi ti dirà che dimenticando s’invecchia e che dimenticare,
come ricordare, è necessariamente un istinto?»
Origine, Crollo e Sistema: le tre parole chiave della poesia di Danilo Mandolini
Renata
Morresi su
A ritroso
di Danilo
Mandolini
127
Di Renata Morresi
Il titolo completo del libro, uscito nell’aprile del 2013 per i tipi de l’Obliquo, è A ritroso - Versi e prose 2010/1985. Notiamo immediatamente che il riferimento temporale qui inserito non è, come è consuetudine
fare nel caso delle opere antologiche o auto antologiche, 1985/2010.
Dal punto di vista, diciamo così, numerico abbiamo subito a disposizione anche un altro dato: 25. Stiamo
affrontando 25 anni di poesia e non solo. È evidente: un periodo così lungo di produzione letteraria è
difficilmente perimetrabile nello spazio di una nota critica. Non mi soffermerò, quindi, sulla compattezza,
sulla tenuta, sul rigore morale, sulla ricerca di una verità - sul piano anche modernista/novecentista - e
sull’indubbia sensibilità della “grana” della voce del lavoro di Danilo. Non scandaglierò troppo in
profondità questa scrittura che pare registrare, in modo come vibratile, la grande svolta della poesia del
nuovo millennio, sia per il senso del tempo precipitato e schiacciato che viviamo oggi, che per una nuova
attenzione all’ordinario (non più o forse non solo attenzione ai grandi temi o ai fenomeni capitali della vita del senso o non senso della vita - ma anche interesse per gli “dei” delle piccole cose). Non mi dilungherò,
altresì, sull’introduzione, Oltre la parte più scura dell’ombra, che Fabio Franzin - autore dotato di uno sguardo
straordinario sull’antropologia civile ed incivile dell’Italia contemporanea - mette a punto con grande garbo
ed utilizzando come una sonda, attenta e profonda, conficcata su questo quarto di secolo in versi che Danilo
ci offre. Vorrei, piuttosto, concentrarmi su tre parole, su tre espressioni chiave che “linkano”, per usare un
linguaggio mutuato dal web, dall’ipertesto, alcune visioni, riflessioni e letture delle quali mi sono
impossessata e che posizionerei al centro di questo mio testo. Sono parole che mi sono servite, tra l’altro, per
interpretare il modo in cui i motivi - evidentemente salienti - connessi a questi stessi tre termini si sono
delineati ed intersecati tra di loro nel percorso poetico qui esplorato.
La prima di queste tre parole sulle quali ritengo utile “indugiare” è ORIGINE.
Il titolo del volume è chiaro: si va all’indietro, si procede da ora verso una “circostanza del tempo” che
funge - vedasi Roland Barthes - da punctum; questo estremo sembra inoltre essere il “precipitato elettrico”
dell’incontro dell’io con il mondo (finalmente coincidono, sono lì, in questa sorta di scossa originaria). Si
ritorna all’indietro, dunque, cercando di raggiungere ancora e reiteratamente questo tempo (o istante)
primordiale (in qualche modo anche lancinante) attorno al quale si tende a girare in modo concentrico. Per
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Morresi su
A ritroso
di Danilo
Mandolini
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meglio esplicitare il “movimento” appena evidenziato, richiamo alla memoria quella definizione del Blues
americano in cui si parla proprio di un ripetuto roteare come intorno ad una ferita (che sia la stessa ferita di
cui al testo di pagina 226: «È una breve bramosia notturna, / un’incontenibile e rara urgenza / di
raggrumare tutte le altrui paure / che mi fa scrivere di una ferita, / di un dirupo che a lungo scorgo / senza
desiderare di scoprire, / di lasciarmi continuamente addosso / l’orlo socchiuso di una cicatrice.»?). In altre
parole: cercare di non additarla, questa che rischia di divenire una vera e propria piaga, ma mai perderla di
vista in un andare che osserva e che annota attentamente e che è soprattutto circolare.
Si va all’indietro tanto che in calce all’epigrafe posta ad apertura del libro si trova scritto: Osimo, 12 settembre
1965 - Qui, adesso. Come se tutto fosse ricrollato nel momento della nascita del poeta.
Questo incedere a ritroso non è nuovo né nel cinema, né nella musica (emblematica, a questo proposito e ad
esempio, è la canzone di Bob Dylan intitolata All along the watchtower che per essere capita deve essere
letta/ascoltata al contrario), né nelle lettere.
Chiuderei questo excursus sul termine ORIGINE proprio con una citazione da un romanzo di Martin Amis,
La freccia del tempo, uscito in Italia per Einaudi, nel 2010. Nel lavoro in questione si racconta la vicenda del
protagonista dal letto di morte all’indietro, fino alla nascita dello stesso. All’inizio della storia si può
leggere: «Il tempo è passato, ora, senza che fosse possibile seguirlo perché era dedicato alla lotta e con la
sensazione di partire per un terribile viaggio.». La frase appena riportata offre l’immagine, riferibile anche
all’opera di Danilo, del tempo che si disfa, che si ricompone e che si dedica, appunto, alla lotta, al riflettere,
e al continuo ritornare, aggiungerei, attraverso la scrittura in versi.
La seconda parola-chiave da me individuata è CROLLO, o collasso o, anche, caos. Il CROLLO delle borse
mondiali, il CROLLO del muro di Berlino, quello delle torri gemelle a New York nel 2001… Sono immagini
contemporanee che conosciamo bene e che ci “rimbalzano” contro con forza e di continuo. Anche in questa
occasione faccio un riferimento tutt’altro che letterario, creo un collegamento, diciamo così, pop; rimando,
cioè, ad un film del 2011, Source code (diretto da Duncan Jones e con Jake Gillenhaal come interprete
principale), in cui un soldato ormai infermo torna indietro nel tempo, ripetutamente, agli istanti antecedenti
un attentato. Ciò accade, ogni volta, grazie ad una speciale macchina e proprio con l’obiettivo di cercare di
evitare il disastro: lo scoppio di un ordigno nucleare in un treno che viaggia verso Chicago. Si ripercorre il
tempo a ritroso, nel film, per recuperare visioni passate, pezzi di memoria utili ad individuare l’attentatore
e ad impedire a questo di agire.
Al di là della finzione drammaticamente amplificata e necessaria alla migliore resa dell’opera
cinematografica in questione, possiamo dire che sì, è così; che stiamo parlando di un fenomeno che
comunque ci riguarda tutti. Di sovente, infatti, ci volgiamo a ciò che è stato e che ora non è più, la nostra
mente spesso si sofferma sul passato più o meno recente e questo accade come a ricercare un inizio, come a
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A ritroso
di Danilo
Mandolini
129
scoprire un “lampo” d’avvio, un’ORIGINE prima, appunto, per gli avvenimenti ormai trascorsi. Il processo
indicato pare servire quindi, e soprattutto, a decodificare le ragioni di un qualsiasi evento, di un CROLLO,
in particolare; questa sorta di elaborazione quasi automatica, istintiva del pensare, però, è fondamentale per il poeta nello specifico e per tutti noi in generale - perché anche solo raccontare, descrivere o meditare
su quanto è venuto meno ha un senso già di per sé.
Cerco di spiegare meglio la riflessione appena esposta facendomi aiutare da una citazione da Michaux.
Michaux affermava: «Io scrivo perché ciò che era vero non sia più vero. Una prigione mostrata non è più
una prigione». È come se dire una semplice cosa o parola sia già, solo dirla, un salvarsi da questa. Anche
dire di un CROLLO, dunque, di un trauma o di un dolore primigenio, equivale a salvarsi da questo.
Il percorso fin qui seguito mi conduce inesorabilmente, dopo ORIGINE e CROLLO, a trattare della terza
espressione-chiave annotata che è SISTEMA.
SISTEMA come organizzazione, come regola, come struttura fortificata che riesce in qualche modo a
difenderci dall’impetuoso sopraggiungere di tutte le piccole e grandi contingenze della vita, da quello che
è, in ogni caso, il fisiologico divenire del mondo. Questo SISTEMA lo scorgiamo, sin da subito e senza
grandi difficoltà, dentro lo stesso “agire poetico” di Danilo: nella predilezione fortissima per l’uso
dell’endecasillabo che spesso si affina nella quartina, nell’organizzazione, nella costruzione dell’impianto
del libro che riprende tutti i lavori precedenti, li riaggiorna, in buona misura li riscrive anche, e li ridivide in
una serie di sezioni che va dalla numero UNO alla numero NOVE (nove come la novena, la preghiera che si
ripete per sequenze di nove; nove come i mesi di gestazione prima della venuta al mondo di una vita
umana).
Diremmo, in definitiva: un SISTEMA che cerca di arginare la veemenza del vivere; uno sbarramento contro
il turbinio quotidiano dei frammenti e dei detriti di ogni esistenza (forse lo stesso di A heap of broken images
di Eliot); un apparato che cerca di frenarla, questa impetuosità, di fatto (ri)componendola; il tentativo (o
desiderio) di edificare un nuovo equilibrio utilizzando addirittura le “materie prime” del disordine.
Ripartendo dalle tre parole-chiave è utile, ora, collegarsi ai testi del libro; è appropriato, voglio dire,
indicare le connessioni, ovviamente esemplificative, tra questi stessi tre termini-cardine ed alcune delle
liriche o parti di queste incluse in A ritroso.
Troviamo l’ORIGINE già subito all’inizio, nel testo d’esordio della sezione UNO: «Di notte, ogni notte, è
l’inverno. // Un vortice senza inizio né fine. / L’inizio che implode nella fine.» (pag. 21). L’ORIGINE è anche
nella parte intitolata Radici e rami (dall’omonima e precedente raccolta del 2007, sempre edita da l’Obliquo),
all’interno della sezione DUE. Già nel titolo appena ricordato, con particolare riferimento al vocabolo
“radici”, si intuisce che si sta parlando di una o più origini. Il “quadro” in questione, però, può
tranquillamente essere rovesciato; l’albero, infatti, immaginando di poterlo vedere senza la terra sulla quale
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A ritroso
di Danilo
Mandolini
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è piantato, può essere osservato sia dal basso che dall’alto - da entrambi queste prospettive - senza che il
risultato possa apparire, allo sguardo, diverso. Qui prende corpo, senza alcun dubbio, l’idea dell’ORIGINE
che si palesa nel rispecchiarsi delle generazioni; padri e figli, cioè; meglio: i padri che si rispecchiano nei
propri figli e viceversa. La prima quartina della sezione di cui si sta trattando recita: «Guardo mio padre
guardarmi, / negli occhi parlarmi. // Guardo mio figlio guardarmi, / negli occhi ascoltarmi.» (pag. 69). La
chiusura della stessa sezione, sempre per il mezzo di una quartina, dichiara: «Guardo mio figlio parlarmi, /
negli occhi guardarmi. // Guardo mio padre ascoltarmi, / negli occhi guardarmi.» (pag. 83). Si noti come ad
un piccolo “sussulto tellurico”, ad un impercettibile movimento dei versi e dei verbi - rispetto all’analogo e
breve testo d’apertura - è affidato il compito di chiudere questo “cerchio” delle generazioni che tra loro
come si riflettono, appunto.
Alla parola CROLLO ho associato il brano che segue (che è in prosa come diversi altri nel volume e che,
come molti di questi stessi, sembra essere comunque composto sulla base della misura dell’endecasillabo;
come se questa dimensione fosse sottesa, come se si protraesse di quel tanto che serve a prendere le
“fattezze” della prosa): «Percepirono all’unisono la sensazione di assistere alla caduta innaturale, al crollare
imperfetto di un evento di là da venire. / Un’entità - forse la ragione pronunciata solo con lo sguardo - che
sibila diritta verso il basso senza mai toccare il suolo; l’apparenza che crolla rimanendo infine sospesa tra
materia e parola.» (pag. 53).
Alla parola-chiave SISTEMA, infine, a quel tentativo (o desiderio) di edificare un nuovo equilibrio
utilizzando le “materie prime” del disordine di cui in precedenza, ho associato le parti di liriche che
seguono: «Vertigine pura e qui disumana / è fare del volto un altro orizzonte, / costruire lontano dentro il
frastuono / l’occhio segreto del mondo di tutti.» (pag. 38); «Nudo si sdraia sul corpo di tutti / l’equilibrio
perfetto saldato nel caos…» (pag. 41).
Segnalo, in conclusione, un’ultima poesia; un testo che ritengo essere in grado, tra l’altro, di significare
appieno la continuità che l’autore è riuscito a dare, nel corso di tutti questi anni, alla sua stessa voce. È
anche doveroso rilevare, qui, come i dettagli inseriti e i verbi utilizzati appaiano assolutamente coerenti con
la struggente malinconia dell’azione del ricordare. Interessante, poi, è il parallelo (quasi una
trasfigurazione) tra la porta, tra la composizione e in particolare la foggia rettangolare di questa ed il corpo
degli uomini, che forse è, insieme agli endecasillabi visivamente organizzati sulla pagina, la
rappresentazione diremmo anche grafica della forma-sistema del poetare di Danilo.
«Occorre, sul limite della sera, / lambire altre vene, accarezzarle, / sotto la superficie della pelle, / e quindi
riporle, intatte, calde, / sopra le striature irregolari / delle porte che qui sono aperte. // Soltanto allora ci si
accorge / che dei finti cardini ci reggono, / che solo ruotare ci è permesso / e ruotare è augurarsi ancora, /
xxx
un’ultima, interminabile volta, / che il rettangolo aperto per noi, / sul muro sconnesso che ci precede, / si
chiuda sempre con poca forza / lasciando un sottile spiraglio / per i ricordi perduti di domani.» (pag. 167).
Renata
Morresi su
A ritroso
di Danilo
Mandolini
Il testo nelle pagine precedenti e in questa riportato è la trascrizione dell’intervento, a cura di Renata
Morresi, svoltosi presso la Biblioteca comunale di Recanati, il 26 giugno 2013, in occasione della
presentazione del volume A ritroso.
*
Origine, Crollo e Sistema: le tre parole-chiave della poesia di Danilo Mandolini di Renata Morresi
è un lavoro inedito
131
Inediti - Da Anamorfiche
Danilo
Mandolini
Da Incipit
Un mondo scelto tra altri
Le strade non esistono più. L’orizzonte è un fittissimo alternarsi di tetti. Non si esce di casa. Si vive quasi senza
parlare. Si muore soprattutto lontano dagli altri.
Un altoparlante ‒ che inspiegabilmente si ascolta fin dentro tutte le case ‒ ripete in maniera ossessiva la stessa
domanda…
***
Soltanto case e palazzi
Noi: una metropoli
E non è un modo di dire
È ciò che oggi siamo
Tutto è solo una città
«QUALCUNO SA DIRMI COS’È LA MORTE?»
132
[finestre senza fenditure
porte spente al sole
bocche che non sanno parlare
occhi che non guardano
corpi colati negli spazi]
«QUALCUNO SA DIRMI COS’È LA MORTE?»
D’improvviso succede
Come coi cani e coi gatti
Se ne vanno altrove
Non si lasciano più vedere
Da Psichedelie dei rumori, delle voci e dei suoni - Uno
Danilo
Mandolini
*
Cigolano gli anni avanzando,
quasi sussurrano passando
sotto l'ampia volta in ombra
che ogni singola presenza ‒
ogni singola vita ‒
inconsapevole delinea.
133
Ed un segno lasciano,
questi spazi colmi di tempo;
lasciano
come una traccia lieve per dire,
per rammentare che a lungo
anche nel moto dell'aria persiste
lo stesso arrancare degli anni,
lo stesso esiguo clamore
che torna
dopo aver compiuto
(incolume cometa)
un'orbita completa.
backstage #1
Danilo
Mandolini
che gli astronomi moderni
individuano altri
discosti mondi
ed universi)
Alla fine, giocando con noi,
anche lui cominciò a credere che
tutti i pomeriggi avevano
una corteccia
(scura, sempre la stessa)
che di sé viveva, che
al sole cambiava colore e che
pronta si attivava
(un lieve ronzio la frenesia)
per intercettare ed inseguire
le ombre tutt'intorno
che impreviste arrivavano e
ritornavano.
È così!
È cogliendo ed osservando
questa minima dinamica
che si può vedere il tempo
nel lampo breve in cui
atteso giunge
ed oltre, poi, svanisce.
134
(del resto,
è proprio avvistando ombre
sconosciute che ripassano
davanti alla stessa stella
Nota al testo
Si riprende, qui, una circostanza lontanissima nel tempo e relativa ad un periodo in cui tra noi bambini, compagni di giochi e delle
elementari ‒ non si sa bene per quale oscuro motivo ‒, maturò e circolò la fantasiosa convinzione che le cortecce degli alberi si
muovessero nel corso dei pomeriggi e che insieme allo scorrere del tempo dei pomeriggi le stesse cortecce degli alberi fossero come
un misterioso tutt'uno. Il nome del “lui” citato in questo testo è Andrea. Non ricordo più il cognome.
Danilo
Mandolini
*
Una voce metallica di donna
precisa dice:
«Fra cinquecento metri svoltare a sinistra».
*
L'esistenza ferisce
con ferite che sono
ombre vocianti di soldati
ammassati al fronte
che più non torneranno o che,
anche se torneranno,
mai li incontreremo.
135
Improvvisa la città
si schiude allo sguardo,
si fa osservare nel buio
e con timore mostra
(sfavillanti, scoscese)
le sue insegne.
Sono ferme quelle luci ma
il mio avanzare le sposta,
le avvicina, le disloca,
a tratti le nasconde
mentre la voce
metallica di donna, ora,
precisa dice:
( ... )
«Ma tutto ciò che si vede è forse vero?»1.
1Anna
Maria Ortese in "Sud" (1947), ripreso da Dacia
Maraini in Ritorno a Roma dopo l'Apocalisse tra le
macerie di una città assente ("Corriere della Sera", 5
giugno 2014).
Da Psichedelie dei silenzi
Danilo
Mandolini
*
Con frasi altrui
valichiamo frontiere,
le attraversiamo lasciando,
di noi, come sottili,
irregolari interstizi.
Oramai siamo di là!
(o di qua, non importa)
136
Qui le ombre inseguono il sole,
lo sopravanzano a tratti
e rimanendo distese cacciano
linee appena visibili,
solchi di rumori smarriti
che dal suolo salgono ‒
radenti al tramonto ‒
finché non vacillano
ancora,
finché non divengono
brevi sonorità impure
che presto saranno, di nuovo,
smorzate dalla notte.
Danilo
Mandolini
*
Ordinaria metafisica
del supporsi altrove
è il solo desiderare
l'esistenza di quel soffio afono
che genera le nubi;
è immaginarlo là,
distante, proprio laggiù ‒
come disperso ‒,
nell'identico luogo
(stesse coordinate),
nel medesimo sguardo
in movimento
in cui le luci gialle
d'una nave passeggeri al largo
senza spegnersi si spengono
semplicemente allontanandosi.
137
Danilo
Mandolini
*
(Stoccolma, la sindrome...)
Potessi percepirlo
almeno una volta
lo scricchiolio che il divenire fa
quando m’abbraccia,
quando a sé mi stringe
per ritornare ad essere
infine
il mio percepire di sempre.
Ed insieme si trasla, così, tutti
affannati ad allestire
un presente sospeso ‒
come neutralizzato ‒
tra ciò che è già stato e che presto
o tardi si dissolve
e lo schianto che sarà e che ora
non si conosce.
138
Di questo sussistere mite
che puntuale m’imprigiona io
ancora m’invaghisco.
*
La prospettiva è assente
in questa stanza colorata.
Qui lo sorprendo l’esistere;
nel mentre che cola lo scopro
comprimersi, come fissarsi,
nel gesto silenzioso della mano
che muove con sé, spostandolo,
il rettangolo della porta.
Da Psichedelie dei rumori, delle voci e dei suoni - Due
Danilo
Mandolini
*
Rammento sovente di quando
le trasmissioni tivù cessavano
in un sibilo prolungato
o in un interminabile fruscio.
Ora, in questo fermo
scampolo di realtà
eretto come sulla nebbia
si sente l'eco d’un frastuono
che stordisce tanto è alta...
Ed ogni particella animata ‒
ogni minima dose d'esistenza ‒,
qui, pare persistere fioca,
pare sopravvivere,
sfrontata e sicura,
benché privata del bisogno
d’una prossima fine
139
(d’un epilogo che sia
anche soltanto apparente).
Danilo
Mandolini
backstage #2
scivolando precisi.
(il ritorno dalla Germania
fu un sogno che durò
il viaggio d'un'estate;
un sogno ricorrente,
un incubo battente in cui
trafelato rosolava patate
nei crateri incandescenti
scavati dalle bombe alleate
appena esplose nelle fabbriche)
(quale tintinnio?
Quali parole, dopo?
Quali frasi avrà mai pronunciato
una volta ritornato a casa
in luglio, a piedi dalla prigionia,
con indosso il cappotto rubato
alle guardie del campo?)
A volte sento ‒
mi pare di sentirlo; sì, lo sento ‒
il tintinnio che le sillabe fanno
quando in bocca compongono
parole da scandire oltre; quando,
nell'intenzione
di comporre parole
le sillabe tracciano,
nascoste alla vista,
il solco nel quale più luoghi
abissali si dileguano
Note al testo
140
Il testo qui riportato rimanda alla fase finale della permanenza a Dachau (in cui veniva addirittura obbligato, insieme agli altri
detenuti, a spegnere gli incendi che si sviluppavano negli stabilimenti industriali dei dintorni, durante i bombardamenti delle forze
di liberazione) e all’avventuroso viaggio dalla località bavarese a Santa Maria Nuova (AN) di Armando Capponi: il giovane che
divenne poi il marito di Vittoria, una delle sette sorelle di mio nonno paterno Giuseppe.
Imprigionato a Dachau dopo l’8 settembre del 1943 per essersi rifiutato di continuare a combattere al fianco dei nazi-fascisti, da qui
scappò, rocambolescamente, alcune settimane prima della liberazione dello stesso campo avvenuta, per opera degli americani, alla
fine di aprile del 1945.
Si presentò a casa ‒ a fine luglio di quell'anno, dimagrito a dismisura e dopo aver percorso, quasi interamente a piedi, oltre
ottocento chilometri ‒ con indosso l’unico oggetto di valore che possedeva: il cappotto di pelle nera sottratto alle guardie del
campo.
Danilo
Mandolini
*
È
una rapida ‒
ripida ‒
successione di cedimenti,
di crepitii brevi e netti...
Il ghiaccio
che nel liquido si scioglie, che,
così, per sempre perde
tutto il suo essere contingente.
*
Milano: metro linea gialla.
Il binario; l'altoparlante...
L'altoparlante parla, alto,
parla con tono alto
(categorico),
parla, non ascolta e dice;
dichiara con voce di donna:
( ... )
«Non è permesso piangere, qui!»1.
1
141
Dal lungometraggio Closer (diretto da Mike
Nichols e tratto dall'omonima opera teatrale
di Patrick Marber).
Si tratta del dettaglio da un dialogo tra
Alice/Jane (Natalie Portman) e Larry (Clive
Owen) nella scena del night club.
Da Crocivia - (quindici blasfemie in loop)
Note a Crocivia - (quindici blasfemie in loop)
Danilo
Mandolini
Il sostantivo Crocivia del titolo è da intendersi, come d'altronde previsto per lo stesso termine da un punto di vista grammaticale,
sia al singolare che al plurale.
Crocivia - (quindici blasfemie in loop) è una sequenza che, nell’intento di rappresentare un ipotetico dialogo degli uomini con il
divino, riproduce quello che può chiaramente apparire come il percorso delle stazioni della via crucis.
***
(…)
12.
[non è tanto, o solo,
l’opportunità di disporre
di un'esistenza dopo la morte
che c'interessa, quanto,
piuttosto, l‘eventualità, in vita,
di poter morire, di scomparire ‒
senza accorgercene ‒
anche più d'una volta.
142
(occasionalmente, diremmo)
Annotatelo, per favore]
Danilo
Mandolini
143
13.
[mollaci, abbandonaci, dimenticati di noi...
Dimenticaci
e permettici di pronunciare, adesso, frasi
che non riusciamo a pronunciare da tempo immemore,
che non pronunciamo da quando,
cioè, la memoria soltanto era
un tempo a parte, un intervallo
di lunghezza mutabile tra spazi
e senza aspettativa alcuna
di stupefacente rinascita al mondo
(mancino, per questo, quel tempo sparigliato;
dispari, Lazzaro puro bastardo
e impietoso).
Lo sappiamo, noi lo sappiamo,
che è proprio dentro un tempo così che, di colpo,
si può morire di morte innaturale; si può trapassare
come sopraffatti dal peso della neve,
come sepolti e cancellati sotto un unico e decisivo
(non ultimo) fiocco di neve
che pesa solamente
un po‘ più
degl’altri]
Danilo
Mandolini
14.
[dacci un po’ di nulla,
dacci tutto il nulla,
dacci il tuo, di nulla,
concedici, regalaci una porzione
abbondante ‒ almeno adeguata ‒
di nulla.
(null'altro, senz'altro, vorremmo)
In questo stesso nulla,
però, poi
come noi annullati]
(…)
144
Da Offertorio speciale - (dodici bizzarrie impoetiche)
Nota a Offertorio speciale - (dodici bizzarrie impoetiche)
Danilo
Mandolini
Offertorio speciale - (tredici bizzarrie impoetiche) è una sequenza che, soffermandosi soprattutto sulla “lettura” – appunto bizzarra –
dei volantini che quotidianamente riempiono la nostra cassetta della posta, racconta una piccola storia con tanto di “finale a
sorpresa” (che non può certo essere qui svelato).
***
*
L'uomo che nello zaino porta
i volantini colorati
non è mai
per più giorni lo stesso.
A volte
lo vedo arrivare,
a volte lo incontro,
a volte ‒
soltanto quelle volte ‒
lo guardo negli occhi.
Stamattina ha soffiato un vento
dilatato e forte.
145
I volantini, ora,
sono sparsi nella via, sono
abbandonati, stracciati al suolo.
Si sa che vengono lasciati
gli stessi per tutti ma,
adesso ‒
è un dato di fatto ‒,
non distinguo più i miei
da quelli degli altri.
Danilo
Mandolini
SUPER COAL
Quattro mongolfiere scarlatte,
di quattro grandezze diverse.
Mozzarella, pasta, vino, zucchero...
Tant'altro ancora, è ovvio,
perché alla COAL,
ormai è assodato,
«C'è solo convenienza».
1 + 1 è scritto, in bianco
e in grande, sulle pareti
a picco delle mongolfiere.
1 + 1,
capisci? 1 + 1 che
non è 2; 1 + 1 che, lo sai,
non sarà mai 2!
1 + 1 è sempre uguale,
da SUPER COAL, a 1.
146
(è un po’ come se il tempo,
tra questi scaffali ricolmi,
si rivelasse e colasse
più lentamente che altrove)
Danilo
Mandolini
EURONICS
Da EURONICS scrivono:
«Il cliente è nel suo regno».
Un regno... Ma ci pensi?
(«Nazione a regime monarchico»
asserisce il dizionario)
Acquista,
acquista pure
tutto ciò che desideri e
se si dovesse poi verificare ‒
e stanne certo,
si verifica ‒
un qualsiasi, piccolo ‒
è ovvio ‒
inconveniente
il numero verde è
lì
sempre a tua disposizione.
147
Contattalo subito;
adesso!
Così... Anche solo per salutare.
Da Dell’esistere della luce - (o della luce dell’esistere)
Danilo
Mandolini
*
La linea dell'orizzonte è il mare.
Ripido e agitato, qui; piatto e immobile, laggiù.
Poco più sotto si staglia, anch’essa ferma, la linea
vicina e bassa tracciata da un muro.
«Girati!» fa una voce di donna alle mie spalle.
«Guarda oltre quel tetto chiaro».
Mi volto. Già lei mi si offre di schiena, il braccio
destro teso, l'indice alzato.
148
«Lo vedi? Lo vedi l'ulivo solitario in cima a quel
dosso? Un po' più a sinistra, segui la mano; ecco...
Lo sai che è proprio lì, in quel punto preciso, che
stasera il sole, lento, cadrà?».
Renata Morresi
149
È nata nel 1972.
Insegna lingua e traduzione inglese presso l’Università degli studi di Macerata e inglese nei licei, traduce e
fa ricerca, si occupa di critica culturale e poesia.
Nel 2007 ha pubblicato la sua prima monografia critica sull’autrice e attivista inglese Nancy Cunard. Ha
curato le prime traduzioni in italiano della poeta americana Rachel Blau DuPlessis, ora in Dieci bozze (con
un suo saggio introduttivo dal titolo Sulle tracce delle bozze, Vydia Editore, Montecassiano - MC, 2012), Bozza
111: Arte povera (a cura di G. Bortolotti e M. Zaffarano, Arcipelago Edizioni, Trezzano sul Naviglio - MI,
2013), EX.IT - Materiali fuori contesto (a cura di M. Giovenale, M. Guatteri, G. Marzaioli e M. Zaffarano, La
Colornese, Colorno - PR, 2013).
Sue poesie sono incluse in varie antologie e riviste. Tra le antologie si ricordano: Nodo sottile 4, a cura di V.
Biagini e A. Sirotti (Crocetti, Milano, 2004), L’opera continua, a cura di G. Vincenzi (Giulio Perrone Editore,
Roma, 2005), Registro di poesia #2, a cura di G. Frasca (d’if, Napoli, 2009), Calpestare l’oblio, a cura di D. Nota e
F. Orecchini (La Gru, Ascoli Piceno, 2010) e Registro di poesia #4, a cura di G. Alfano (d’if, Napoli, 2011); tra le
riviste: “il caffè illustrato”, “Alfabeta2”, “Trivio” e “Nostro lunedì”.
È nella redazione dei blog letterari “Nazione Indiana” e “° punto critico”.
Dal 2001 collabora alla realizzazione della rassegna di poesia “Licenze Poetiche”, insieme all’omonima
associazione culturale. È senatrice dell’Accademia Delle Arti di Macerata.
Cuore comune (peQuod, Ancona, 2010) è la sua opera prima in versi (finalista al Premio Metauro 2011),
mentre Bagnanti è la silloge di liriche uscita nel settembre del 2013 per Giulio Perrone Editore di Roma. È
ancora del 2013 la plaquette La signora W (La camera verde, Roma).
Nel 2014 le è stato assegnato - dal Ministero dei Beni Culturali e per la sua attività di traduttrice di autori
angloamericani, modernisti e postmoderni - il Premio nazionale per la traduzione.
È responsabile della collana di poesia “Lacustrine” di Arcipelago itaca Edizioni.
Vetrina
Simone
Sanseverinati
Ha ventitre anni. Vive a Filottrano (AN).
È studente della facoltà di Lettere dell’Università degli studi di Macerata, percorso Storico.
Ha ottenuto riconoscimenti in diversi premi letterari nazionali e pubblicato in rivista.
Nel novembre del 2015 ha dato alle stampe, in edizione privata, la sua prima raccolta di versi: Possibile
ipotetico.
La scelta dei testi di SIMONE SANSEVERINATI che segue
è tratta dall’opera qui evidenziata in grassetto
ed è stata curata da Danilo Mandolini
Albori di nuovi percorsi in versi
Simone
Sanseverinati
IL FOGLIO BIANCO
Il foglio bianco
calpestato più d’un tappeto
sopporta,
minuzioso ascolta,
la polvere si stanzia
come chi assiste una tomba
mira con sentimento;
avanti e indietro
il foglio resta candido
mai in balìa del vento.
150
La polvere è solo convivenza,
il foglio insegue l’ombra
che incanta
e non si manifesta.
Simone
Sanseverinati
151
BALLANO
SENSO
Ballano,
saltano sopra il mondo:
la speranza di volare
ogni passo ridesta,
corrono ballando
verso l’inarrivabile
a ritmo d’attesa,
trafugando l’amore.
In un senso
non l’immenso,
niente ha senso
neanche l’intenso.
Un sospiro
non chiedo altro.
Simone
Sanseverinati
RIMORSO RIMOSSO
Strumenti a fiato
irregolari,
tastano
grida di dolore o fasti di gioia
soffiano,
nessuna differenza.
152
Nella custodia
senza esser luccicato
cerca la luce,
inutile aria sospesa
tra il vuoto dei tasti e dei pensieri,
il destino in un lucchetto
di una combinazione speciale
fra i battiti di un rimorso.
L’IMMAGINE
Simone
Sanseverinati
È notte, gli occhi domandano libertà di passaggio
un ultimo sforzo è richiesto,
un’ultima proiezione.
Ora, immagina un momento,
un momento ben delineato,
ben delineato da cornici,
da cornici sfumate dai protagonisti.
Ē un’immagine che mai cancellerai,
queste due forze indifese
misticano ogni loro incontro,
ma questo calcherà un’altra immagine
crudele e rimpianta.
153
Questa immagine sarà sempre sopraelevata
superiore e intoccabile,
essendosi assegnata il marchio
dell’indescrivibilità.
Questi due spiriti
terra e grano
frutto e albero
calore e protezione;
collegati da un saldo sguardo.
Il parossismo accecò uno dei due spiriti
così la spiga crebbe male e scolorita
così il frutto cadde prima del tempo,
così il calore arse troppo
tramutandosi in minaccia.
Lo spirito che aveva sbiadito tutto
girovagò in cerca di altre comparse,
ma ognuna risultava trasparente.
Per grazia, una sera ripescò quell’immagine,
poco prima d’addormentarsi,
sorrise e guardando nel vuoto
maledì le sue azioni.
Simone
Sanseverinati
DONO
Nascosti dal rumore
i tuoi occhi
stabili sfidano il sole,
tra le parole
l’orgoglio richiude
la negazione.
Ti credi perso nel tempo,
un dono t’è concesso
gli altri ascoltano il giorno,
tu,
ascolti il mondo.
154
Simone
Sanseverinati
DESIDERIO
Franano gli occhi:
si plasma una figura
la mano s’avvicina
svanisce il contesto.
Calano gli occhi:
la sagoma chiama,
il mio corpo si protrae
cede il suolo.
Colano gli occhi:
l’ombra è immobile
uno sguardo filtrante,
trema la volontà.
155
Si chiudono gli occhi:
sto dormendo
e non è un sogno.
Simone
Sanseverinati
SECONDA SCELTA
Sii forte seconda scelta,
acqua riscaldata
ondeggi
tra la terra e la volontà.
Guarda oltre seconda scelta,
dietro la sua testa
t’è nascosto
un gradino d’insolenza.
156
IL GIRO DEL RITORNO
Vorrei camminare in piana
per scappare dal supplizio vitale
di scendere e salire,
preferirei un giro a mani aperte
senz’alcun possesso,
istruito da un biglietto
per il ritorno.
Collage Elio Pagliarani
157
Elio Pagliarani legge da La ragazza Carla
https://www.youtube.com/watch?v=Qtt12Yq4ECI
Collage Elio Pagliarani
158
“Arcipelago itaca” blo-mag prima apparizione. Giovanni Commare su Gianfranco Ciabatti, Adriàn Bravi, Maria
Lenti, Nicola Romano e Norma Stramucci. Collage Dino Campana. Riproduzioni di opere di Giorgio Bertelli e
Lorenza Alba.
“Arcipelago itaca” blo-mag seconda apparizione. Danilo Mandolini su Attilio Zanichelli, Lucetta Frisa, Ivano
Mugnaini, Adelelmo Ruggieri e Luigi Socci. Collage Guido Gozzano. Riproduzioni di immagini di Michele Rogani
e di un’opera di Pietro Spica.
“Arcipelago itaca” blo-mag terza apparizione. Contributi da interventi di Maria Lenti e Gianfranco Lauretano su
Tolmino Baldassari, Danilo Mandolini su Renata Morresi, Maria Grazia Calandrone, Mauro Ferrari, Daniele
Garbuglia e Massimo Morasso. Inediti di Enzo Filosa. Collage Vladimir Majakovskij. Riproduzioni di opere di
Silvana Russo e Lucia Marcucci.
“Arcipelago itaca” blo-mag quarta apparizione. Un ricordo di Leonardo Mancino (con un testo inedito di Biagio
Balistreri), Danilo Mandolini su Anna Elisa De Gregorio, Gianni Caccia, Massimo Gezzi, Franca Mancinelli,
Liliana Ugolini. Inediti di Marina Pizzi. Collage Charles Baudelaire. Riproduzioni di opere di Enzo Esposito,
Giovanna Ugolini, Cosimo Budetta, Alfredo Malferrari e Giordano Perelli.
“Arcipelago itaca” blo-mag quinta apparizione. Un ricordo di Alfonso Gatto (con un saggio di Laura Pesola),
Rossella Maiore Tamponi (con note di Francesco Scaramozzino e Giorgio Linguaglossa), Linnio Accorroni (con
note di Danilo Mandolini e Adelelmo Ruggieri), Manuel Cohen (con una nota di Danilo Mandolini), Enrico De
Lea, Evelina De Signoribus, Stelvio Di Spigno ed Eva Taylor. Collage Cesare Pavese. Riproduzioni di immagini di
Sauro Marini e di un’opera di Adriano Spatola.
“Arcipelago itaca” blo-mag sesta apparizione. Un brano dal discorso di Eugenio Montale pronunciato in occasione
dell’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura del 1975, un ricordo di Ferruccio Benzoni (con un articolo di
Francesco Magnani, un’intervista all’autore a cura di Gabriele Zani e una poesia di Francesco Scarabicchi), Cristina
Babino (con una nota di Danilo Mandolini), Francesco Accattoli, Guglielmo Peralta e Lucilio Santoni. Inediti di
Narda Fattori. Collage Arthur Rimbaud. Riproduzioni di opere di Agostino Perrini e di Emilio Tadini. Commento
all’opera di Agostino Perrini a cura di Marco Frusca.
“Arcipelago itaca” blo-mag settima apparizione. Un ricordo di Giovanni Giudici (con brani da una nota
commemorativa di Goffredo Fofi), Alessandro Moscè (con una nota di Danilo Mandolini), Marco Ercolani, Fabio
Franzin, Mariangela Guàtteri e Annalisa Teodorani. Inedito di Giovanni Commare. Collage William Butler Yeats.
Riproduzioni di immagini di Mario Giacomelli.
“Arcipelago itaca” blo-mag ottava apparizione. Un ricordo di Claudia Ruggeri (con un saggio di Stelvio Di Spigno),
Alessandra Cava e Natalia Paci (con note di Danilo Mandolini), Patrizia Cavalli, Gian Maria Annovi, Luca Ariano
e Anna Ruotolo. Inediti di Mauro Barbetti e Renata Morresi. Collage Giuseppe Ungaretti. Riproduzioni di opere di
Luigi Bartolini.
“Arcipelago itaca” blo-mag nona apparizione. Un ricordo di Pier Paolo Pasolini (con una nota introduttiva di Danilo
Mandolini), Manuel Cohen, Anna Elisa De Gregorio, Francesco De Napoli (con note di Danilo Mandolini),
Gianni D’Elia, Marco Di Pasquale, Annamaria Ferramosca e Maria Grazia Maiorino. Inediti di Mariella De Santis
e Luigi Socci. Collage Giorgio Caproni. Riproduzioni di opere di Osvaldo Licini.
“Arcipelago itaca” blo-mag decima apparizione. Un ricordo di Remo Pagnanelli (con una nota introduttiva di
Danilo Mandolini), Elisabetta Maltese (con una nota di Mauro Barbetti), Maria Lenti, Nicola Romano (con note di
Danilo Mandolini), Elio Pagliarani, Francesco Scarabicchi (con un’intervista a cura di Danilo Mandolini),
Alessandra Carnaroli e Roberto Deidier. Inediti di Loretta Zoppi (con una nota di Danilo Mandolini). Collage
Guillaume Apollinaire. Riproduzioni di immagini fotografiche che testimoniano le lotte dei lavoratori e le proteste
contro il potere (sia questo economico/finanziario che non).
“Arcipelago itaca” blo-mag undicesima apparizione. Violata? Giudicate voi! Sull’ormai nota “statua della discordia”
di Ancona. Simonetta Giungi (con una nota introduttiva inedita di Maria Lenti), un saggio inedito di Guglielmo
Peralta su Cesare Pavese (con alcune poesie scelte), [ancora su] Leonardo Mancino (con un brano da un saggio ed
una lirica di Luisa Rossi), Mauro Barbetti (con una nota di Danilo Mandolini), Maurizio Landini (con un intervento
di Martina Daraio), Andrea Zanzotto, Damiano Abeni (con un brano da una nota di Massimo Gezzi), Andrea
Longega e Marco Srebernic (con una nota di Danilo Mandolini). Collage Charles Bukowsky. Riproduzioni di nove
immagini fotografiche che rappresentano altrettanti atti d’accusa contro la pena di morte.
“Arcipelago itaca” blo-mag dodicesima apparizione. Llanto por Ignacio Sánchez Mejías di Federico García Lorca.
Con l’introduzione di Giovanni Raboni, le traduzioni di Carlo Bo, Elio Vittorini, Giorgio Caproni, Leonardo
Sciascia e Oreste Macrì e con un recente articolo di Alessio Piras; Irene Paganucci (con una nota di Mauro Barbetti);
Alessandro Seri e Norma Stramucci (entrambi introdotti da Danilo Mandolini); Eugenio Montale (nella
presentazione di Dante Isella); Rachel Blau DuPlessis (con un brano dal saggio introduttivo di Renata Morresi a
Dieci bozze); Manuel Caprari (con una nota sempre di Renata Morresi); Alberto Toni. Collage Jorge Luis Borges.
Riproduzioni di undici immagini tratte dal volume fotografico Un secolo di guerre.
“Arcipelago itaca” blo-mag tredicesima apparizione. Ricordo di Maria Grazia Lenisa [con testo introduttivo inedito
(Un mondo di là da venire) di Danilo Mandolini. Scheda bio-bibliografica e scelta delle liriche a cura di Marzia Alunni.
Tre (più o meno) recenti contributi critici], carteggi tra Celan e Vittorio Sereni e tra quest’ultimo e Andrea Zanzotto
(nota introduttiva di Giovanna Cordibella), da Dopo Campoformio di Roberto Roversi, Adriàn N. Bravi, Lella De
Marchi e Lorenzo Mari. Collage Thomas Stern Eliot. Riproduzioni di dieci immagini di Marco Baldinelli.
“Arcipelago itaca” blo-mag quattordicesima apparizione. Vittorio Reta: testi da Visas (introduzione a cura di Danilo
Mandolini e un ampio estratto da Una rete per Reta di Luciano Nanni); Sebastiano Timpanaro legge Leopardi (brani
scelti da Giovanni Commare) [introduzione a cura di Danilo Mandolini e (Sebastiano Timpanaro) Il materialismo per la
lotta di classe di Giovanni Commare]; Amelia Rosselli (da Variazioni belliche); Maria Lenti: da Effetto giorno - scritti
diversi (1993-2012) (breve introduzione a cura di Danilo Mandolini e La parola scritta di Maria Lenti di Vitaliano
Angelini); Narda Fattori; Andrea Lanfranchi. Collage Iosif Aleksandrovič Brodskij. Riproduzioni di tredici
immagini di Danilo Mandolini.
“Arcipelago itaca” blo-mag quindidicesima apparizione. Fernanda Romagnoli: testi da Il tredicesimo invitato e altre
poesie ed estratti dall’Introduzione allo stesso volume e da La fortuna critica di Fernanda Romagnoli e gli inediti (entrambi
a cura di Donatella Bisutti); versi da La deriva di Luca Canali ed un brano dalla Nota introduttiva alla stessa opera (a
cura di Giacinto Spagnoletti); L’albero e la vacca di Adriàn Bravi (con L’evoluzione della narrativa di Adriàn Bravi oltre
il confine delle ossessioni di Danilo Mandolini); Parlando d’altro di Rodolfo Cernilogar (con Parlando d’altro si fa poesia
di Mauro Barbetti); Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato di Andrea Inglese (con La rappresentazione
del sentimento dell’attesa di Danilo Mandolini); Femminile plurale - Le donne scrivono le Marche (con brani da Una
regione al femminile plurale di Cristina Babino, Dalle Marche: una possibile “mappa” del sentire e del vedere peculiare delle
donne di Danilo Mandolini ed un estratto da Viaggi minimi con Luigi Di Ruscio di Luana Trapè); Suono del vento
primo di Enrico De Lea; antologie delle opere e della critica di e su Francesca Perlini (con «L’esistenza entra nella vita»
di Danilo Mandolini) e Marco Simonelli. Collage Marina Ivanovna Cvetaeva. Riproduzioni di quattordici
immagini fotografiche testimonianti lo stato di inarrestabile degrado ed inquinamento del pianeta (e relativi link di
articoli correlati). In copertina: immagine di Jan Smith.
“Arcipelago itaca” blo-mag sedicesima apparizione. Lo scorso 17 febbraio è formalmente nata Arcipelago itaca Edizioni.
Michail Jur’evič Lermontov: una presentazione di Danilo Mandolini, versi da Quaranta poesie ed un estratto dalle
Note ai testi (dal medesimo volume) entrambi a cura di Roberto Michilli. Da Lunga un anno di Francesco Accattoli,
Musa fitta nell’azzurro di Davide Argnani, La cordialità di Mariella De Santis, Quaderno millimetrato di Dorinda di
Prossimo e note di presentazione di Danilo Mandolini. Testi di Francesca Monnetti e Nota introduttiva di Mauro
Barbetti. Da TerraeMotus / [voci, traccia] di Fabio Orecchini e nota di commento dello stesso autore. Piccola
antologia dell’opera e della critica di e su: Alessio Alessandrini e Antonio Bux. Collage Anne Sexton. Riproduzioni
di ventisette immagini che rimandano soprattutto alle copertine di molte tra le più note riviste italiane di letteratura.
In copertina: “Solaria” e “Officina”.
“Arcipelago itaca” blo-mag diciassettesima apparizione. Anteprima Arcipelago itaca Edizioni: Sei nessuno anche tu?
- Emily Dickinson / Mario Giacomelli, versioni di Renata Morresi; Lea Ferranti: una vita per la poesia, una poesia per
la vita di Alessio Alessandrini - Versi da La luna sul balcone - Poesie dal 1973 al 2001; versi da Corpo di scena di
Gianfranco Palmery; Vetrina Arcipelago itaca Edizioni: Dire casa - Francesca Perlini; Jucci di Franco Buffoni - Nota
di lettura di Danilo Mandolini; Da Abitiamo il corpo del vento (inediti) di Leandro Di Donato; Testi (inediti) di
Nicola Romano; Antologia dell’opera e della critica di e su Giovanni Commare e Maurizio Landini; Collage
Maurice Maeterlinck. Riproduzioni di quattordici immagini, raccolte sotto il titolo di CIAO BELLE!, celebrano il
contributo dato dalle donne alla liberazione dell’Italia dal gioco nazi-fascista. In copertina: Combattenti curde.
“Arcipelago itaca” blo-mag diciottesima apparizione. Dino Campana. Da Canti Orfici e da Il più lungo giorno.
Parallelo tra la versione data alle stampe e il manoscritto ritrovato. Un brano da Dell’irrefrenabile notte di Carlo Bo;
Heberto Padilla. Da Fuera del juego e da altri tre lavori mai tradotti in Italia. Versioni di Gordiano Lupi. Un brano da
Fuori dal gioco e il caso Padilla di Gordiano Lupi; da Firmum di Luigi Di Ruscio; Anteprina Arcipelago itaca
Edizioni: da Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda di Giovanna Frene, con tre immagini di Orlando
Myxx e Storia come allegoria di Giovanna Frene; da Abracadabra di Nicola Ponzio, con 3 tavole dell’autore e un
brano dalla Postfazione di Renata Morresi; dalle opere premiate in occasione della 1° edizione del Premio
nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca”: Lucilla Niccolini - Vladimir D’Amora - Barbara Pumhösel - Pier
Franco Uliana - Cristina Babino - Paolo Steffan. Collage Edoardo Sanguineti. Riproduzioni di tredici immagini che
ritraggono quattordici poeti in pose originali. In copertina: TEMPUS EDAX RERUM di Danilo Mandolini.
“Arcipelago itaca” blo-mag diciannovesima apparizione. Poesie di Sandro Penna - Con un estratto da una nota di
Cesare Garboli e da un carteggio tra l’autore e Pier Paolo Pasolini; Cento passi nella poesia (e non solo). Le Edizioni
l’Obliquo di Giorgio Bertelli - Con una poesia di Francesco Scarabicchi; da Il lobo dei mostri di Henri Michaux Con un brano da Nella ragnatela degli esorcismi di Pasquale Di Palmo; da L’alfabeto di un poeta di Mark Strand Con una Nota di Damiano Abeni; da In transitu di Barbara Pumhösel; da Ornitografie di Pier Franco Uliana; da
Letture di Cristina Babino (su Pasta madre di F. Mancinelli) e da Pasta madre di Franca Mancinelli; da Il numero dei
vivi di Massimo Gezzi - Con note di commento di Martina Daraio e Danilo Mandolini; antologia dell’opera ed
inediti di Danilo Mandolini - Con un testo di Renata Morresi; da Possibile ipotetico di Simone Sanseverinati.
Collage Elio Pagliarani. Riproduzioni di quattordici immagini (inclusa quella di copertina) dalla serie Anamorfiche
di Danilo Mandolini.
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
Costantino Kavafis, Itaca
Per ricevere, a ½ e-mail, le apparizioni (incluse quelle arretrate) di “Arcipelago itaca” blo-mag,
inoltrare relativa richiesta a [email protected].
La piccola immagine
in basso a destra
nella seconda di copertina
e in alto a sinistra
nella terza di copertina
raffigura
la sagoma dell’isola di Itaca.
Strand
Garboli
Michaux
Pasolini
Sanseverinati Daraio
Uliana
Babino
Mancinelli Pagliarani
Mandolini Pumhösel
Penna Gezzi Abeni
Di Palmo
Morresi
Scarabicchi
Bertelli
letterature, visioni ed altri percorsi
ideatore e curatore: Danilo Mandolini
Arcipelago itaca Edizioni
di Danilo Mandolini
Via Mons. Domenico Brizi, 4 60027 Osimo (AN).
www.arcipelagoitaca.it