E qui, almeno, posso parlare? - Consolato Generale

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E qui, almeno, posso parlare? - Consolato Generale
Il trapianto da una civiltà ad un'altra
è la prova più terribile che possa
affrontare l'uomo
Giuseppe Prezzolini
La transplantation d'une civilisation
à une autre est l'épreuve la plus
terrible que puisse rencontrer
l' être humain
Foto in copertina:
Anni ’60, i bambini del collegio vanno a scuola
Impaginazione
Maria Bucci
ilmiolibro.it - Gruppo Editoriale L’Espresso
Barbara Bertolini
E qui, almeno, posso parlare?
Storia dell'emigrazione italiana a Ginevra
I figli degli emigrati ospiti
del “Regina Margherita” al Grand-Saconnex
~
Et ici, au moins, je peux parler?
Histoire de l'émigration italienne à Genève
Les enfants des émigrés du “Regina Margherita”
au Grand-Saconnex
© Copyright, luglio 2011
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Barbara Bertolini
E qui, almeno, posso parlare?
Storia dell’emigrazione italiana a Ginevra
I figli degli emigrati ospiti
del “Regina Margherita” al Grand-Saconnex
~
Et ici, au moins, je peux parler?
Histoire de l’émigration italienne à Genève
Les enfants des émigrés
du “Regina Margherita” au Grand-Saconnex
Italiano - Français
ilmiolibro.it - Gruppo Editoriale L'Espresso
E qui, almeno, posso parlare?
Introduzione
C’era una volta una piccola enclave italiana tra l’aeroporto di
Ginevra e il comune del Grand-Saconnex brulicante di bambini che in
quell’universo avevano ricostituito l’Unità d’Italia: dalla Sicilia alla
Venezia Giulia, dalla Puglia al Piemonte, ogni bambino rappresentava
degnamente la propria regione.
Chi aveva confinato quei bambini italiani proprio lì, in Svizzera, e
perché?
È di questa storia, fuori dall’ordinario, che voglio raccontare.
Una storia che si intreccia con quella della Congregazione delle
Suore missionarie francescane di Susa che proprio nel 2005 hanno
festeggiato i 100 anni del loro arrivo in una Ginevra profondamente
calvinista, contraria ad accettare qualsiasi altra religione sul proprio
territorio.
Per mettere a fuoco i vari aspetti di questa storia, cominciando da
quella degli italiani a Ginevra, ho intrapreso una vera e propria ricerca
cercando di interrogare gli ex bambini, e chi li aveva in carica. Ho tentato di indagare su un periodo dell’emigrazione italiana che va dagli
anni ’50 fino alla fine degli anni ’70. Ma soprattutto ho provato a parlare dell’istituzione dell'Orphelinat “Regina Margherita” del GrandSaconnex, dove hanno transitato tantissimi ragazzi italiani.
Com’è nata questa ricerca?
Nel 2004 l’Istituto “Regina Margherita”, dopo anni di infaticabile
attività verso il ceto più debole, ha chiuso i battenti per mancanza di
materia prima. Il glorioso “Orphelinat”, che aveva visto passare nella
sua struttura centinaia di bambini dai 3 al 14 anni, sarebbe stato abbattuto e al suo posto sarebbe sorto un EMS, ovvero una casa per anziani
di cui la società ginevrina ha gran bisogno.
Due ex del collegio, Marianna Lalicata e Jean-Marc Vuillet,
hanno lanciato un appello sulla stampa locale invitando, per l’ultimo saluto, coloro che avevano sostato in quella struttura durante la
loro infanzia e adolescenza. I nostri hanno fatto le cose in grande,
poiché sono riusciti a coinvolgere anche il Comune del Grand-
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Saconnex, il Consolato italiano e, beninteso, le suore e la Missione
cattolica italiana.
Nel 2004 ci siamo ritrovati nel vecchio Istituto, noi, gli ex del
Grand-Saconnex, a 40-50 anni di distanza.
Intanto, in Italia, dove ormai vivo felicemente da più di trent’anni,
si dibatteva il problema scuola-immigrati. Avevo letto sul “Corriere
della Sera” un interessante articolo di Gian Antonio Stella che parlava
del problema dei figli degli emigrati italiani in Svizzera cui era stato
negato il diritto di rimanere con i propri genitori. Ed è lì che è scoccata la scintilla: anch’io avevo vissuto la stessa esperienza e potevo raccontarla in prima persona. Anzi, a rifletterci meglio, potevo coinvolgere gli ex del “Regina Margherita”, perché la nostra vicenda non è stata
mai raccontata da nessuno: “on a fait que passer, nous n’avons pas fait
l’histoire!”.
Noi eravamo i figli del silenzio, quelli che non potevano parlare,
quelli a cui si diceva: «Zitti, non vi fate notare!». Il titolo del libro:
E qui, almeno, posso parlare? è una frase pronunciata da mio fratello, fuori dalla porta dell'alloggio ginevrino, dopo che i miei genitori
gli avevano insistentemente ripetuto di stare zitto, perché il padrone
della stanza non scoprisse la sua presenza.
E qui, almeno, posso parlare? è anche l'occasione per poter raccontare la nostra storia, la storia di figli di emigrati italiani.
Durante l’incontro del 2004, infatti, avevo già cercato di raccogliere le testimonianze di chi mi era accanto. Avevo avuto così la possibilità di realizzare un giornaletto dal titolo “Le voci del silenzio”, con
vari articoli, alcuni dei quali furono ripresi dalla rivista del Centenario
delle Suore francescane di Ginevra.
Quella non fu una ricerca vera e propria. Questa volta, invece, ho mandato un questionario agli indirizzi che mi sono stati forniti da Marianna
Lalicata, che aveva avuto la presenza di spirito di raccoglierli durante l’ultimo incontro. Poche sono state le risposte, quelle giunte, però, sono abbastanza significative e concordanti su alcuni punti, permettendomi di mettere a fuoco quel periodo dell’emigrazione italiana a Ginevra a cavallo
degli anni ’50-’70. Dei collegiali, solo Donato Di Donato, che ha vissuto
quattro anni al Grand-Saconnex, ha scritto la sua storia completa.
La narrazione si pone, a mio avviso, tra cronaca e storia, dal momen8
to che non sono riportate solo testimonianze dirette, ma anche la storia
sintetizzata dell’emigrazione italiana a Ginevra dal Medioevo sino ai
giorni nostri e, quelle, delle Suore francescane di Susa e del Collegio
“Regina Margherita” del Grand- Saconnex. L’indagine, altresì, documenta l’impatto dei figli di emigrati italiani con la scuola elementare
Affinché tutte le persone interessate possano leggerlo, ho deciso, di scrivere il testo nelle due lingue utilizzate dagli ex convittori: italiano e
francese.
Credo di poter offrire, quindi, un’opera di consultazione chiara e di
facile lettura, accessibile a tutti, ma anche un lavoro documentato per
chi fa ricerca sull’emigrazione.
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Si sono ritrovati quarant’anni dopo i figli
di emigrati per riconciliarsi con il proprio passato
Articolo pubblicato nel 2004 dopo l’incontro organizzato dagli ex convittori del Grand-Saconnex per la demolizione definitiva della struttura.
Si sono ritrovati dopo più di quarant’anni i figli degli emigrati italiani che erano stati ospiti dell’Istituto “Regina Margherita” del GrandSaconnex di Ginevra, gestito dalle Suore francescane di Susa.
Sono venuti numerosi sul luogo della loro sofferta infanzia, alla
ricerca del passato, ma anche per dimostrare che ce l’hanno fatta, che
malgrado i mille ostacoli posti sul loro cammino hanno saputo costruirsi un dignitoso avvenire.
A confinarli in un collegio erano state le rigide leggi svizzere che
non consentivano agli emigrati di tenere i figli con sé, perché era impedito loro di affittare un appartamento. Essi potevano vivere solo in
camerette ammobiliate dove era impossibile tenere la prole.
Per poter locare un appartamento bisognava essere, infatti, in possesso del permesso di soggiorno “B”, rilasciato solo al lavoratore straniero che viveva in Svizzera da almeno 5 anni.
Grazie agli sforzi della Missione cattolica italiana di Ginevra che riuscì ad istituire prima un orfanotrofio, trasformato quindi in collegio negli
anni ’50, i figli degli emigrati italiani poterono ricongiungersi con i loro
genitori, dimorando in questo istituto e raggiungendoli solo la domenica.
Senza il collegio del Grand- Saconnex, la maggior parte di loro sarebbe
dovuta restare in Italia a carico dei nonni o di altri familiari.
L’emigrazione a Ginevra ha interessato tutte le regioni italiane da
Nord a Sud e, molto spesso, i bambini al loro arrivo parlavano unicamente il loro dialetto. L’Istituto, infatti, era una piccola Torre di Babele,
una specie di Italia in miniatura dove vicentini, toscani, emiliani, marchigiani, pugliesi, padovani, napoletani o siciliani si amalgamavano
ignari dei luoghi di provenienza dei loro nuovi compagni, perché troppo piccoli per conoscere i confini geografici del Bel Paese. L’italiano
(solo orale) finivano per impararlo lì.
Ma poiché frequentavano anche le scuole pubbliche del luogo,
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dovevano contemporaneamente imparare anche il francese: un caos
linguistico per loro!
Il sostegno delle Missioni cattoliche nel mondo è stato spesso l’unico appoggio che l’emigrato ha trovato nel nuovo paese. Infatti, le istituzioni italiane sono state quasi sempre latitanti, soprattutto in
Svizzera: difficilmente i consolati sono stati all’altezza del loro compito. Il personale, spesso arrogante con l’emigrato, non attuava nessuna
politica di aiuto nei suoi confronti. Per i lavoratori italiani il consolato
era solo un luogo dove la burocrazia interponeva ostacoli alle varie procedure. Da quello che ha scritto di recente Beppe Severgnini sul
“Corriere della Sera”, le cose non sembrano migliorate neanche oggi.
Le suore dell’Istituto “Regina Margherita” del Grand-Saconnex di
Ginevra, invece, sono state veramente grandi. Erano in sette ad occuparsi di 120 bambini di tutte le età di cui una in cucina e una in lavanderia. Tolta la Madre superiora, ne restavano solo quattro che riuscivano a far funzionare a meraviglia tutta la struttura. Ogni ragazzino era
impegnato nell’aiutare le suore, secondo le proprie possibilità, inquadrato in una rigida disciplina che non applicava punizioni corporali.
Se si pensa che nel lontano 1905, quando arrivarono a Ginevra per
la prima volta, chiamate da don Adolfo Dosio che aveva bisogno del
loro aiuto per assistere gli ammalati e i poveri di Carouge (dove viveva la maggior parte degli emigrati a Ginevra), le suore italiane dovettero svestirsi dell’abito religioso e passare per dame caritatevoli, perché in quella città, cuore del Calvinismo, le altre religioni non erano
ben tollerate (l’ecumenismo era, infatti, ancora lontano da venire).
Da allora, indossando o no l’abito religioso, le Suore francescane di
Susa hanno lavorato per il bene della comunità ginevrina senza chiedere nulla in cambio. E gli ex emigrati devono loro davvero tanto. Senza
le suore la permanenza in terra straniera sarebbe stata molto più dura.
Barbara Bertolini
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2004. Gli ex collegiali
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-IStoria dell’emigrazione italiana a Ginevra
Medioevo
La storia dell’emigrazione italiana in Svizzera affonda le radici
nel Medioevo, quando l’Italia e la Svizzera non sono ancora nazioni. Ad arrivare a Ginevra sono soprattutto mercanti di moneta lombardi e banchieri fiorentini1. Tra il XII e il XIII secolo, infatti, la
città di Ginevra, per la sua posizione strategica nel congiungimento
di strade nei quattro punti cardinali, vive un grande momento di sviluppo commerciale divenendo un centro di fiere e mercati e rappresentando un richiamo per i mercanti dell’Italia settentrionale e centrale. Insieme ai commercianti che portano merce di produzione italiana o importate dall’Oriente, arrivano anche i mercanti di moneta
(manieurs d’argent)2.
Da piccoli cambisti e usurai essi diventano ben presto veri e propri
banchieri che cambiano denaro e lo prestano contro interesse. Il primo
documento ufficiale attestante l’attività bancaria dei “lombardi” (così
venivano chiamati all’epoca tutti gli abitanti del Nord d’Italia) è del
1267-68 e riguarda un tributo versato al conte di Savoia.
Sono, perciò, gli abitanti della penisola a creare a Ginevra le prime
banche. Dice, infatti, il banchiere ginevrino Louis H. Mottet, membro
della direzione generale della Société de Banque Suisse, che «l’art
véritable de la banque nous est venu à cette époque du Midi ou plus
exactement des villes italiennes, Venise, Gênes, Florence, Sienne,
Lucques, Pise, Pistoia notamment, dont les citoyens avaient su tirer
profit du développement des relations humaines et commerciales qui
marquent les XIIe et XIIIe siècles»3.
Un fiorente mercato che si blocca solo quando il duca di Savoia,
Amedeo IX, che mira a conquistare la città sul Lemano, convince Luigi
XI di Francia, suo cognato, a boicottare le fiere ginevrine proibendo ai
suoi sudditi di frequentarle e indirizzandoli verso quelle di Lione4.
Tra il 1460 e il 1470 la maggior parte dei banchieri italiani lascia
Ginevra per stabilirsi nella città francese.
È sorprendente per gli emigrati di oggi scoprire che nel regno delle
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banche sono stati proprio gli italiani a realizzare il primo embrione di
questi istituti a Ginevra, tanto più se si considera il ruolo fondamentale che tali istituti hanno svolto nei secoli successivi divenendo forzieri
dei ricchi abitanti dei paesi europei e permettendo, tra l’altro, alla
Confederazione Elvetica di rimanere neutrale nella Seconda guerra
mondiale, malgrado le mire espansionistiche di Hitler.
Un’altra curiosità della storia svizzera-italiana è la città di Carouge.
Tra le tradizioni più sentite dagli scolari del Cantone di Ginevra vi è il
festeggiamento dell’“Escalade”5, che rimanda a un grande atto di
coraggio compiuto dai ginevrini. Costoro, infatti, nella notte tra l’11 e
il 12 dicembre 1602, riescono a resistere a Carlo Emanuele I di Savoia
con una forma di difesa davvero singolare. Nell’ultimo tentativo di salvare la città, essi rovesciano marmitte piene di minestra bollente sugli
assalitori che cercano di scalare le mura di cinta. Nel trattato che segue
(Saint-Julien) si stabiliscono i confini – tra Ginevra e l’allora Ducato di
Savoia, divenuto poi Regno di Sardegna –, alla congiunzione dei due
fiumi Arve e Rodano.
Carouge, piccolissimo e povero borgo savoiardo a due passi dalla
città di Calvino, ha tutte le caratteristiche per diventare la città rivale di
Ginevra. Così pensa Casa Savoia, che la fa ampliare, chiamando vari
architetti italiani, i quali provvedono a delinearne l’urbanistica e a realizzare numerosi edifici, esistenti ancora oggi nella Carouge antica,
suddividendo i fabbricati in isolati regolari, gravitanti intorno alla rue
Ancienne e alla Place du Marché.
Grazie all’intraprendenza del duca Vittorio Amedeo III di Savoia, a
partire dal 1773, Carouge diventa un centro importante di fiere e mercati e nel 1786 viene elevata a capoluogo di provincia del Regno di
Sardegna. Nella città, in quel periodo, vi sono 3.188 abitanti di cui 839
piemontesi e 31 provenienti da altre regioni italiane.
Bisogna aspettare, però, il 1816, prima che la storia di Carouge si
saldi definitivamente con quella del Cantone di Ginevra appena
costituito, grazie ai trattati di Parigi6 e Torino7, condotti abilmente
con il Regno di Sardegna dal diplomatico e uomo politico ginevrino
Charles Pictet de Rochemont.
Riforma protestante
Un altro grande flusso di forestieri inglesi, francesi, ma anche italiani arriva a Ginevra fra il 1550 e il 1576. In quegli anni la città sul
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Veduta di Ginevra nell’Ottocento
Lemano diventa, grazie a Guillaume Farel e Jean Calvin, uno dei centri principali della Riforma e molti perseguitati religiosi, abbandonando i paesi di origine, vi chiedono asilo politico. Tra questi, in particolare, famiglie provenienti da Lucca, che svolgeranno un ruolo fondamentale nell’industrializzazione di Ginevra. I forestieri sono ben accolti, perché la disciplina severa imposta da Calvino sia a livello religioso
che civile e il timore di persecuzioni spingono molti ginevrini, rimasti
fedeli al cattolicesimo, ad abbandonare la città.
Determinante per lo sviluppo economico della città sul Lemano, come
già detto, è l’apporto dei lucchesi dato alla produzione di tessuti pregiati: a costoro e in primo luogo a Francesco Turrettini (1547-1628) va il
merito di aver introdotto a Ginevra l’industria della seta8.
Turrettini, mecenate e filantropo, crea la “Grande Boutique”, una
specie di consorzio che «Prêtant aux aisés, secourant les pauvres, généreux et entreprenants, [ces exilés] vivent un capitalisme qui n’a qu’une
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lointaine parenté avec celui que devaient pratiquer plus tard les calvinistes puritains»9.
Il Consorzio raggiunge nel 1608 un tale sviluppo che occupa 8.000
dei 15.000 abitanti di Ginevra. Turrettini accumula un’immensa fortuna e diviene il banchiere del governo cittadino con il compito di riscuotere tasse ed imposte. La Famiglia Turrettini10 lascerà un’impronta
molto liberale nella Ginevra industriale finanziaria e politica11.
Metà Ottocento
Per ritornare all’emigrazione italiana verso la Confederazione
Elvetica, essa si sviluppa essenzialmente nella seconda metà
dell’Ottocento e costituisce una delle mete preferite, dopo gli Stati
Uniti e l’Australia. Si calcola che la Svizzera accoglie in 150 anni
(1850-2000) oltre quattro milioni di italiani12, di cui una gran parte
rimpatria dopo 5-10 anni di lavoro.
Sono fondamentalmente quattro le tappe di tale flusso migratorio: la
prima che va dalla metà dell’Ottocento fino alla Prima guerra mondiale ed è caratterizzata da una libertà assoluta di movimento da parte del
lavoratore straniero. Questo è infatti il periodo dell’industrializzazione
del paese, con grandi cantieri per costruire la rete viaria e ferroviaria, e
l’emigrato è indispensabile per i lavori pesanti.
La Svizzera, invece, nel secondo periodo, quello fra le due guerre
(1915-1943), attraversa una grave crisi: i disoccupati elvetici nel 1936
superano gli occupati stranieri, in gran parte italiani. Questa situazione
costringe il Consiglio federale ad emanare la prima ordinanza sul controllo del numero degli stranieri.
Il terzo periodo è quello del dopoguerra fino agli anni ’70.
L’aumento della manodopera straniera è molto forte dalla fine degli
anni ’50, tanto che in breve si passa dal 6,1% al 13,9% del 196413.
Questi sono anni in cui il Governo Elvetico mette a punto una politica restrittiva nei confronti degli immigrati. Essi devono solo colmare
la mancanza di manodopera locale durante alcuni periodi, finiti i quali
devono rientrare nei loro paesi d’origine.
L’ultimo periodo è quello che va dal 1975 al 2000 ed è denso di cambiamenti sociali, culturali e politici sia in Svizzera che nel mondo. L’emigrazione cambia totalmente immagine poiché, con la caduta del Muro di
Berlino, arrivano in massa nella Confederazione lavoratori dai paesi
dell’Est; ben pochi sono, invece, gli italiani che vi giungono in quegli anni.
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C’è una considerazione da fare: prima della massiccia emigrazione,
all’inizio dell’Ottocento, sulle rive del Lemano giungono, come rifugiati politici, molti italiani. Ginevra, infatti, diventa rifugio di esuli
risorgimentali e centro del liberalismo internazionale del XIX secolo.
Fra gli esuli, il giurista ed economista toscano Pellegrino Rossi14, il
lodigiano Filippo Camperio15, il genovese Giuseppe Mazzini, che
durante il suo esilio si ferma anche a Ginevra, arrivando la prima volta
nel 1831. Anche Camillo Benso, conte di Cavour, nella città di Calvino
è di casa, poiché la mamma è l’aristocratica ginevrina Adèle de Sellon,
il cui fratello Jean-Jacques16 è un famoso liberale.
Perfino Garibaldi arriva a Ginevra nel 1867 per il Congresso
Internazionale della Pace. E, fatto inusuale per una popolazione così
riservata, viene accolto e acclamato da 50 mila cittadini in festa che
sventolano fazzoletti e si affacciano ai balconi per vederlo passare17.
Tra i letterati, va segnalata la presenza di Alessandro Manzoni, uno
dei più grandi scrittori italiani che nel 1808 sposa la ginevrina LouiseHenriette Blondel, figlia del banchiere protestante Louis-François: la
donna assumerà una grande importanza nella maturazione e formazione spirituale dello scrittore18.
La miseria della fine Ottocento spinge a cercare lavoro a Ginevra
sempre più italiani: già nel 1900 sono 10.000, che arrivano a circa
20.000 nel 1914, quasi tutti operai in prevalenza sterratori e muratori,
di cui molti piemontesi.
Contrariamente agli esuli risorgimentali che avevano potuto contare
sull’appoggio di altri esuli e di intellettuali ginevrini, gli ultimi arrivati, spesso analfabeti, non possono fare assegnamento su nessuno. E’
proprio la necessità di colmare questa lacuna che fa nascere varie organizzazioni: tra le prime la Società di Mutuo Soccorso, la Colonia italiana di Ginevra, l’Opera Bonomelli, e in seguito la Missione cattolica italiana, di cui don Dosio aveva costituito anche un Segretariat, e la
Colonia estiva di Saint-Cergues19. Anche un’istituzione culturale come
la Dante Alighieri avrà un ruolo fondamentale nella realizzazioni di
scuole italiane nella Confederazione; non sarà da meno l’Unione dei
socialisti italiani in Svizzera.
Prima guerra mondiale
E’ la Prima guerra mondiale a cambiare completamente il quadro economico del Cantone di Ginevra. Dei circa 21 mila emigrati italiani che vi
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risiedono, più di tremila partono per l’Italia, richiamati in guerra. La
colonia italiana risente di questa partenza, perché molti lasciano moglie
e figli sul posto. Ginevra allora viene colpita da una forte crisi occupazionale e i primi a farne le spese sono gli emigrati, abbandonati pure dalle
autorità consolari italiane. Anche il ritorno dei reduci, nel 1919, non cambia molto la situazione. In particolare le vedove vivono nella miseria più
totale fino al 1922, quando arrivano le prime pensioni di guerra.
Uno dei più attivi, in quel periodo, verso questa umanità sofferente
è senz’altro Don Alfonso Dosio, che aveva costituito il Segretariato
della Missione cattolica italiana e la Société de la Chapelle Italienne.
Grazie agli aiuti raccolti, egli riesce a realizzare un orfanatrofio per
accogliere i bambini italiani rimasti senza genitori che non possono
andare in quelli svizzeri, perché non ne hanno la nazionalità, ma non
possono essere accolti nemmeno in quelli italiani, perché nati all’estero. Il missionario potenzia anche la crèche (asilo-nido), già realizzata
nel 1905 per aiutare le mamme lavoratrici, e crea molte altre iniziative
volte a portare un po’ di sollievo agli emigrati. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che sarà l’assistenza delle Suore missionarie di Susa a permettere a tutte le strutture religiose di funzionare e di svolgere al
meglio la loro missione: sono loro a portare un aiuto concreto, a “farsi
straniere con gli stranieri” per meglio servirli20.
Nell’immediato dopoguerra a Ginevra nascono anche due associazioni d’ispirazione socialista: La Lega proletaria, mutilati e reduci di
guerra, istituita per tutelare gli interessi degli smobilitati e la filodrammatica La Seminatrice, formata da gruppi dell’ala rivoluzionaria del
partito socialista italiano in Svizzera e da anarchici21.
Da notare che proprio il Partito socialista italiano di Ginevra accoglierà il futuro duce. Benito Mussolini, infatti, vi arriva la prima volta
nel 1904. Ha un bel titolo di studio in tasca come maestro elementare
che non può sfruttare in Italia, perché accompagnato da una pessima
fama di accanito giocatore di carte, nonché di “coureur de femmes”22.
Precedentemente, però, Mussolini aveva cercato di lavorare come
manovale in una fabbrica di Orbe nella Svizzera francese23. Come racconta lui stesso, non resiste più di una settimana a svolgere quel lavoro massacrante. La professione di agitatore politico, invece, gli riesce
piuttosto bene. A Ginevra vi dimora solo cinque settimane.
L’esperienza di sindacalista rivoluzionario maturata sia a Ginevra che
a Losanna, dove è arrestato anche per vagabondaggio, sarà di grande
20
aiuto al futuro duce che in quegli anni ha ancora idee confuse sul “suo”
socialismo24.
Il crollo della borsa di Wall Street nel 1929 ha senza dubbio effetti
devastanti che si fanno sentire anche in Svizzera. Si chiudono fabbriche e uffici, aumentano i disoccupati che scendono in piazza e creano
tensione nel paese. In quel periodo la presenza italiana cala notevolmente, tanto che restano nel Cantone solo 12.700 emigrati dei circa 20
mila di prima25.
Il vento del fascismo finisce per soffiare anche sulla comunità italiana. Nel 1923 viene fondato il Fascio ginevrino “Tito Michetti”, che dal
1925 comincia a svolgere azioni di disturbo ai danni della associazioni
democratiche. Georges Oltremare, discendente da una famiglia di origine ligure e simpatizzante di Mussolini, costituisce nel 1932 l’Union
nationale, un movimento d’ispirazione nazionalista e antisemita che
raccoglie il 10% dei consensi tra la popolazione e che trova il sostegno
anche di artisti e intellettuali.
Le varie fazioni italiane di sinistra e di destra si scontrano apertamente, come nel 1926, quando 48 fascisti tentano di disturbare una
manifestazione democratica unitaria nella Salle de Plampalais, per
commemorare la morte di Giacomo Matteotti26.
Quella che subisce il maggior danno da tali attacchi è la “Dante
Alighieri” di Ginevra, che era riuscita a creare rinomate scuole italiane, grazie al finanziamento e al sostegno di facoltosi imprenditori italiani e, fino all’avvento del fascismo, dello Stato italiano27.
Le autorità governative fasciste italiane cercano in tutti i modi di assoggettare queste scuole. Egidio Reale, allora presidente della Dante
Alighieri, visti inutili i tentativi per arrivare a un compromesso con il
Consolato italiano, rinuncia ai finanziamenti e, con l’aiuto delle forze
antifasciste italiane e locali, salva in parte l’attività didattica delle scuole
da lui gestite. Il Consolato italiano, allora, crea una propria scuola dandole la stessa denominazione di quelle libere28, non senza suscitare, però,
confusione tra gli emigrati e le autorità cantonali. La manovra e la mancanza di sostegno economico da parte dell’Italia fanno perdere molti alunni alle scuole istituite dalla Dante Alighieri. Bisognerà aspettare la caduta
del Fascismo prima che le attività didattiche riprendano regolarmente.
Una parentesi felice per Ginevra arriva fra le due guerre, quando
diventa sede delle Nazioni Unite, istituzione che darà un impulso
all’economia, in particolare edilizia e alberghiera. Infatti, riuniti a
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Versailles in Francia per concludere i trattati di pace (1919-1920), le
grandi potenze decidono di fondare un organismo sopranazionale per
risolvere i conflitti a tavolino, piuttosto che passare subito alle armi, e
stabiliscono anche di istituire una cooperazione economica, sociale e
culturale tra le nazioni. Ginevra ha tutte le carte in regola per ospitare
questo organismo, poiché si trova in un paese neutrale nel cuore
dell’Europa, già sede della Croce Rossa Internazionale, che nell’ultima
guerra mondiale ha svolto un lavoro umanitario ammirevole. E’ lo stesso presidente degli Stati Uniti, il calvinista Woodrow Wilson, a caldeggiare la candidatura. La prima Assemblea Generale della Società delle
Nazioni si svolge il 15 novembre del 1920 nella “Salle de la
Réformation”. Ci vorranno altri 17 anni prima della realizzazione della
sede definitiva. L’istituzione darà una boccata d’ossigeno anche agli
emigrati italiani impegnati soprattutto nell’edilizia. Il “Palais des
Nations” verrà inaugurato, infatti, nel 193729.
Seconda guerra mondiale
Anche nella Seconda guerra mondiale gli emigrati italiani ricevono
l’ordine di rimpatriare e di presentarsi nelle caserme assegnate. Tra il
1939 e il 1940 la stessa Svizzera vive nel timore che le forze dell’Asse,
malgrado la sua neutralità, vogliano invaderla. Per difendere le frontiere mobilita i suoi cittadini. Gli italiani di Ginevra, come i cittadini elvetici, partecipano alla solidarietà verso i richiamati.
Come avvenuto nel primo conflitto, molti italiani partono in guerra
lasciando in Svizzera le famiglie prive di sostegno. Vari comitati si organizzano intorno alle Colonie libere o alla Missione per soccorrere gli
indigenti: essi dovranno far fronte, sia durante che dopo la Seconda
guerra mondiale, a necessità di ogni genere. Tra le strutture di sostegno,
vanno segnalate, in primo luogo, l’opera sociale della Missione con Il
Segretariato, la Cucina popolare, l’Asilo, l’Orfanotrofio e la Casa di
riposo per anziani30, ma anche le attività laiche come la Colonia di
Saint-Cergues, che ospiterà centinaia di orfani di guerra di varie nazionalità, e le Scuole, che organizzano corsi destinati ai figli dei profughi31.
Tra gli italiani, nella città di Calvino – terra di accoglienza –, vi soggiornano, in quel periodo, molti uomini politici e di cultura che vi
hanno trovato rifugio politico. Essi si impegnano per realizzare qualcosa di concreto permettendo ai rifugiati militari italiani di continuare gli
studi. Su proposta di André de Blonay, segretario del Fond européen de
22
secours aux étudiants, viene creato un Campus universitario. Il Campo
ginevrino si realizza in poco tempo, grazie all’impulso dato da professori di origine italiana come Aldo Franceschetti e Maurice Battelli, preside della Facoltà di giurisprudenza, dove sarà creata anche una sezione di “Diritto in lingua italiana”, che funzionerà fino al 1945. Tra i
nomi più illustri che hanno dispensato lezioni in quell’Università
durante il loro esilio ginevrino: Luigi Einaudi, Amintore Fanfani,
Gustavo del Vecchio, Mario Donati e Luigi Sandro Sillani.
Sono stati circa 200 gli studenti italiani che hanno frequentato da
internati il Campo tra il 1941 e il 1945. Tra loro, Giorgio Strehler che,
nel discorso tenuto in occasione della cerimonia conclusiva di questa
felice esperienza (18 maggio 1945), precisa:
«Elèves parmi vos élèves, au-delà de toutes frontières, avec la même
fraternité, celle qui unit les hommes dans le travail, nous avons cherché de la suivre honnêtement. C’est à nous, avec nos œuvres de demain,
de démontrer que nous avons su en profiter»32.
Dopoguerra
Nell’immediato dopoguerra la neutrale Svizzera, rispetto agli altri
paesi europei le cui fabbriche sono state danneggiate o distrutte dai
bombardamenti, parte in pole position: le sue industrie sono intatte e
girano a pieno regime, il “segreto bancario” e la stabilità politica attirano capitali. Ecco perché ha bisogno urgente di mano d’opera immigrata. Negli anni ’50 l’Italia, invece, ha troppi lavoratori (Mussolini
nel ventennio fascista aveva incentivato la natalità) e la guerra l’ha
lasciata in ginocchio, per cui vive un periodo di grande miseria, in particolare nelle campagne e nelle piccole città. Gli emigrati che partono
a cercar lavoro altrove diventano, per la loro patria, una risorsa per le
loro rimesse e una valvola di sfogo per disinnescare gli inevitabili conflitti sociali.
In trent’anni partono dall’Italia 5.109.869 connazionali a cercar
lavoro in Europa (un totale di 7.447.175 in tutto il mondo)33.
Nella Confederazione Elvetica fra il 1950 e il 1970 arrivano fra i 3
e i 4 milioni di italiani: il gruppo più numeroso di immigrati34.
L’emigrazione che va dal 1946 al 1958 ha molti vantaggi economici per la Svizzera: i circa 500 mila lavoratori presenti sul suo territorio,
in maggioranza stagionali, producono molto più di quanto consumano,
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contribuiscono al gigantesco incremento delle esportazioni, non portano la famiglia e, in più, non esigono speciali infrastrutture come scuole, ospedali e servizi vari35. Le rigorose leggi svizzere definiscono
chiaramente lo statuto del lavoratore stagionale che lo ingabbia in una
vita fatta solo di duro lavoro, senza consentirgli nessuna possibilità di
sviluppo professionale o personale né alcuna chance di affermazione
nella società svizzera, perché il lavoratore stagionale:
- non può cambiare datore di lavoro per circa cinque anni dopo l’assunzione;
- non può cambiare lavoro per altri dieci anni;
- non può portare con sé moglie e figli;
- non può parlare in pubblico o protestare36;
- non può ammalarsi, perché al momento del rinnovo del contratto,
se non è in grado di lavorare, perde la possibilità di ottenere il permesso annuale e deve ricominciare daccapo37.
Il lavoratore straniero, tra l’altro, è spiato da un servizio di “intelligence” efficientissimo, in grado di tenere sotto controllo più di 300
mila italiani.
Bisognerà aspettare il 2000 prima che questo statuto venga abolito
grazie ad accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Unione Europea38.
La mano d’opera specializzata sul posto ha, tuttavia, una sua precarietà. Molti operai stagionali spesso rimpatriano in quanto apprezzati
ormai anche dall’industria italiana ed i patron svizzeri si trovano a
dover coprire i posti vacanti con lavoratori senza nessuna qualifica professionale e provenienti da regioni sempre più lontane. Questa “rotazione” di lavoratori finisce per comportare anche gravi conseguenze
economiche e sociali, come il calo della produttività e la difficoltà di
inserimento dei nuovi emigrati.
Ecco perché il Consiglio federale decide di avviare una politica tendente alla stabilizzazione dei lavoratori stranieri. Nel 1964, infatti, la
Svizzera conclude con l’Italia, che lo sollecitava da tempo, un accordo
bilaterale atto a incoraggiare il ricongiungimento familiare. L’accordo
prevede il rilascio di permessi di soggiorno annuali per i lavoratori stagionali dopo cinque anni, così come la possibilità di cambiare luogo di
lavoro, sempre dopo cinque anni, mentre il tempo di attesa per una
richiesta di ricongiungimento familiare si abbassa da 36 a 18 mesi39.
Dovrebbe essere questo un buon passo avanti per gli emigrati italiani, che potrebbero iniziare a rosicchiare dalla mela di Guglielmo Tell un
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po’ di serenità. Invece non è così, perché l’iniziativa scatena una reazione violenta dei partiti xenofobi, in particolare della Svizzera tedesca,
che accusano il Governo Elvetico di sottostare ai voleri dell’Italia.
Effettivamente in quegli anni vi è un massiccio arrivo di lavoratori
italiani in Svizzera: se nel 1960 gli italiani residenti nella
Confederazione sono 316.028 (su 584.736 stranieri), dieci anni dopo
salgono a 536.203 (su 1.080.076)40. L’arrivo imponente di stranieri
produce un effetto “paura”: paura dell’inforestieramento da parte degli
Svizzeri e paura di essere cacciati da parte degli emigrati.
Molti autoctoni considerano i lavoratori italiani intrusi che mangiano il loro pane. Non solo temono la loro concorrenza sul posto di lavoro, ma anche quella dei loro figli che, più scolarizzati, non si accontentano dei lavori umili dei loro genitori e mirano a professioni qualificate e remunerative.
Da parte degli emigrati, invece, c’è una forte sudditanza dovuta al
fatto di essere e, soprattutto, di sentirsi stranieri. Tale stato d’animo crea
la loro emarginazione e rafforza la volontà di rimpatriare. Rainer
Cremonte scrive a questo proposito: «non è escluso che talvolta si trattasse di autoemarginazione»41. Come emigrata, posso affermare che
“era” autoemarginazione, perché il terrore di poter essere cacciati in
qualsiasi momento ci rendeva molto vulnerabili, disadattati, insicuri.
Secondo il cineasta Alvaro Bizzari, emigrato in Svizzera con la famiglia
negli anni ’50, le autorità elvetiche con i loro tre statuti: gli emigrati stabili (C), gli annuali (B) e i più sfruttati, gli stagionali (A), avevano fatto
di tutto per disunire e seminare la discordia tra gli emigrati42.
Il Governo svizzero è preso tra due fuochi: la necessità di una politica di assimilazione o inserimento della seconda generazione di emigrati e le richieste pressanti della popolazione elvetica di mettere un
plafond rigido alle immigrazioni per non compromettere l’identità
nazionale.
Referendum Schwarzenbach
A raccogliere il malcontento degli svizzeri è il Partito democratico
zurichese che lancia la prima iniziativa popolare contro l’inforestieramento il 30 giugno del 1965. Essa raccoglie ben 59.164 firme valide43. Il Consiglio federale invita il popolo e i Cantoni a respingerla,
ma verrà ritirata dal suo promotore.
Non passano nemmeno due anni ed è la volta di “Schwarzenbach”
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che propone un referendum. James Schwarzenbach non può essere
definito un razzista rozzo e ignorante, anzi, come scrivono Gian
Antonio Stella e Emilio Franzina nella Storia dell’emigrazione italiana44: «è un intellettuale che ha raccolto, riordinato e “ripulito” un secolo di xenofobia svizzera contro gli italiani». Nato in una famiglia della
borghesia zurichese, il nostro, dopo aver conseguito la laurea in Storia,
collabora a vari giornali e scrive opere storiche e biografiche. Come
editore, dirige le edizioni Thomas di Zurigo45. Schwarzenbach diverrà
il più acerrimo nemico degli emigrati italiani che vogliono stabilirsi in
Svizzera.
Eletto consigliere nazionale del partito dell’estrema destra xenofoba
“L’Action Nationale”, nel 1968, con forti toni discriminatori contro gli
immigrati italiani lancia, infatti, una serie d’iniziative per ridurre al
10% il tasso di stranieri in Svizzera. In uno degli articoli da lui pubblicati contro il ricongiungimento familiare, scrive a proposito delle
moglie e dei figli degli emigrati italiani:
«Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro d’una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini
svizzeri. Dobbiamo liberarci del fardello. Dobbiamo, soprattutto,
respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano
la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s’ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operario svizzero
medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l’ex guitto italiano»46.
Per lui il lavoratore emigrato, di cui la Svizzera ha gran bisogno,
deve essere solo ed unicamente lo stagionale. Questa mano d’opera è
la benvenuta per il suo carattere transitorio, reversibile e che non produce costi sociali.
Schwarzenbach per il primo referendum riesce a raccogliere ben
70.292 firme e a presentare la seconda iniziativa legislativa “Contre
l’emprise étrangère” il 20 maggio del 1969. Il Consiglio nazionale la
discute a dicembre dello stesso anno e decide, con 136 voti contro uno
(quello di Schwarzenbach), di raccomandare alla popolazione di
respingerla. Se dovesse passare il referendum, sarebbero migliaia i
lavoratori stranieri a dover lasciare la Confederazione Elvetica: un terremoto che si ripercuoterebbe anche sull’economia svizzera. In effetti,
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Cartina della Svizzera, referendum Schwarzenbach
il 26% della manodopera attiva nella Confederazione è straniera e, considerando i settori specifici, l’impiego dei lavoratori stranieri raggiunge il 60% nell’edilizia, il 57% nelle calzature e abbigliamento, il 46%
nell’agricoltura, il 45% nella tessitura, il 33% nella lavorazione del
legno e il 36% nella metallurgia47.
Il referendum, svoltosi il 7 giugno del 1970, sarà respinto con
654.588 no (cioè il 55% dei votanti) e 557.714 sì (ovvero il 44,5%).
Il Cantone di Ginevra non accoglie la proposta con il 65% dei voti
negativi (31.907 no contro 20.983 sì)48.
Per Schwarzenbach questo risultato è più una vittoria che una
sconfitta, poiché vede ben 8 Cantoni su 25 favorevoli alla sua proposta49, tanto più che il referendum ha contro tutti i partiti50, tutte le
associazioni imprenditoriali e sindacali, gli intellettuali, il clero.
Questo 44,5% a favore della sua iniziativa sarà la base su cui il politico zurichese costruirà il futuro trionfo alle politiche del 1971 in cui
prenderà 110.000 voti personali.
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Saranno successivamente presentati da lui altri due referendum,
entrambi respinti.
Ancora prima di questo risultato, il Consiglio federale non era stato
a guardare e il 16 marzo 1970 aveva emanato un decreto firmato dall’allora presidente della Confederazione, Tschudi, che aveva per scopo
di limitare l’effettivo degli stranieri esercitanti un’attività lucrativa.
Anni ’70-90
Per gli italiani un altro brutto momento arriva alla metà degli anni
Settanta: una grave crisi occupazionale taglia 200 mila posti di lavoro,
costringendo molti emigrati al ritorno in patria.
Dal 1975 al 1985 sono ben 160 mila gli italiani che lasciano la
Svizzera.
Proprio quando la comunità italiana comincia ad integrarsi e ad
essere apprezzata dagli autoctoni, la sua popolazione si riduce progressivamente, sostituita da altri lavoratori provenienti in buona parte,
prima dalla Spagna, poi dal Portogallo e dai paesi dell’Est europeo.
Ormai figli e nipoti di emigrati arrivati negli anni ’50 si sono scolarizzati, hanno raggiunto benessere economico e cominciano a svolgere
un ruolo sociale e culturale all’interno della società Svizzera.
La lenta, ma importante ascesa sociale si evidenzia anche nell’associazionismo. Molti pittori, ricercatori, scienziati, scrittori fondano nel
1991 l’ASIS (Associazione degli Scrittori Italiani in Svizzera).
Dice la studiosa Giovanna Meyer Sabino: «Nello spazio di trent’anni di emigrazione, gli italiani passano da una situazione di emarginazione – spesso accompagnata da gravi disturbi psichici nella prima fase
d’inserimento – a condizioni di benessere e di piena accettazione da
parte dell’ambiente di accoglienza, che spesso assorbirà gusti e abitudini degli immigrati stessi»51.
Nel 1992 viene emanata una delle leggi più gradite agli emigrati italiani: quella della doppia cittadinanza, che concede a questa umanità
ondivaga di poter essere quello che molti di loro si sono sempre sentiti: italiani e svizzeri nello stesso tempo.
Legge sulla doppia nazionalità
Grazie all’emanazione della legge sulla doppia nazionalità52, tanti
emigrati, dopo 40-50 anni di permanenza sul suolo elvetico, possono
acquisire finalmente le due identità etniche.
Quello della domanda di naturalizzazione è un iter burocratico che,
28
soprattutto nel passato, richiedeva impegno e denaro. Alcuni cantoni,
come quello di Ginevra, erano più cari di altri: in questi occorrevano
all’incirca 15 mila franchi svizzeri, mentre ne servivano circa 10 mila
in quello di Vaud; praticamente la paga di un anno di attività lavorativa dell’emigrato. Ora, con la doppia nazionalità, la somma si è drasticamente ridotta.
Per poter ottenere la naturalizzazione bisogna totalizzare 12 anni di
permanenza in Svizzera (per una naturalizzazione ordinaria). Per chi vi
ha soggiornato dall’età di 10 anni ne bastano sei. La naturalizzazione
non viene estesa automaticamente all’altro coniuge, che deve, invece,
possedere requisiti specifici.
Il primo passo è quello di presentare domanda al Servizio Cantonale
delle Naturalizzazioni di Ginevra e pagare la tassa. I vari uffici controllano i documenti e solo dopo accurata verifica vengono svolte una indagine amministrativa e una inchiesta dal servizio “Visite/audizioni”. Se tutto
procede bene, il dossier è inviato contemporaneamente a Berna, al
Consiglio federale e al Comune. Il Consiglio municipale deve esprimere
il proprio parere al Consiglio di Stato, cui spetta la decisione finale. A questo punto, se il dossier è accettato, l’emigrato può prestare giuramento.
E’ interessante vedere le condizioni richieste all’emigrato per naturalizzarsi a Ginevra:
- il candidato deve avere con il cantone dei legami che testimoniano
l’adattamento al modo di vita ginevrino;
- non deve essere stato condannato (una condanna mostrerebbe
disprezzo verso le leggi svizzere);
- deve godere di una buona reputazione;
- deve avere una situazione economica che gli permette di provvedere ai propri bisogni e a quelli della propria famiglia;
- non deve essere, per colpa o per abuso, a carico degli organismi
responsabili dell’assistenza pubblica;
- deve essersi integrato nella comunità ginevrina;
- deve rispettare la dichiarazione dei diritti individuali fissati nella
Costituzione del 14 maggio 184753.
Una domanda, insomma, che viene analizzata nei minimi dettagli
anche se si abita in Svizzera da tantissimi anni, come testimonia il
sindacalista Claude Cantini, arrivato clandestino in Svizzera nel
1953, che dopo aver fatto la domanda di naturalizzazione se la vede
bocciare, perché protestante. L’ufficiale che aveva esaminato il suo
29
dossier non ammetteva che un italiano potesse essere di una religione diversa da quella cattolica. Nel 1967 Cantini si ripropone e, questa volta, trova un funzionario ben disposto nei suoi riguardi che scrive nel suo rapporto: «Il Signor Claude Cantini è un candidato molto
serio e degno del passaporto svizzero. E’ stato nominato dallo Stato
di Vaud come infermiere all’Ospedale di Cery. Sua moglie è svizzera. E nel cantone di Vaud si ha il diritto di essere protestanti!»54.
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-IIStoria del collegio “Regina Margherita”
del Grand-Saconnex
A partire dal Novecento, dovunque gli emigrati italiani siano arrivati in massa, hanno trovato aiuto ed assistenza presso le istituzioni della
Chiesa cattolica. Questa è una incontrovertibile verità, anche se altre
religioni come quella protestante, valdese, ebrea, ecc… hanno fatto la
loro parte nell’aiutare gli emigrati delle loro fedi.
Non sempre, però, è stato così, perché all’inizio dell’emigrazione il
clero italiano, in particolare, era riluttante ad occuparsi degli emigrati,
non considerando questo compito di sua competenza55.
Tuttavia, quello che non è stato detto abbastanza è che le strutture di
assistenza messe in piedi dal clero cattolico nel tempo, senza l’apporto
delle religiose italiane, si sarebbero infrante contro un muro di belle
intenzioni.
Anche l’Orfanotrofio “Regina Margherita” del Grand-Saconnex non
sarebbe potuto esistere senza l’instancabile attività misconosciuta delle
Suore francescane missionarie di Susa in Piemonte. Ecco perché, per
raccontare la storia dei piccoli italiani affidati alle loro cure, è doveroso partire dall’arrivo delle suore in Svizzera.
Arrivo delle suore a Ginevra
Siamo nel 1900 e nel Cantone di Ginevra ci sono ben 12 mila emigrati italiani che aumentano a ritmo continuo. I grandi lavori della
costruzione ferroviaria del Gottardo e delle infrastrutture hanno attirato molti lavoratori italiani in Svizzera, quasi tutti provenienti dal Nord
Italia. A Ginevra sono in prevalenza i piemontesi che sono accorsi tra
la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in quello che ritenevano
il nuovo eldorado56.
Per la loro assistenza, in quell’anno, viene fondata da Mons.
Geremia Bonomelli57, vescovo di Cremona, a Carouge, il sobborgo più
31
povero di Ginevra e più popolato di operai italiani, “l’Opera di assistenza agli operai italiani emigrati in Europa e nel Levante”.
Nel 1905, quando a dirigere l’Opera c’è don Luigi Motti, affiancato
da don Alfonso Dosio58, perché i due sacerdoti potessero avere aiuto
nel sostegno materiale e spirituale alle numerose famiglie italiane, sono
chiamate le suore della Congregazione francescana missionaria di
Susa. Le prime due, suor M. Rinalda Bernardelli e suor Benigna
Chartier, partono da Susa il 31 luglio del 190559. A Ginevra devono
spogliarsi del loro abito religioso, proibito nella città di Calvino, e passare per dame di carità.
Ad attenderle un lavoro immane: bambini abbandonati a se stessi,
pratiche da compilare per gli analfabeti, madri prive di assistenza,
uomini che si dibattono nella miseria più nera.
Devono fronteggiare anche la grande animosità verso tutti i religiosi italiani. Anarchici, massoni, agitatori socialisti, sbarcati dall’Italia,
hanno un vero e proprio covo proprio nella città sul Lemano. Essi arrivano al punto di disturbare le funzioni religiose. Infatti: «Quasi tutte le
settimane erano indette a Carouge conferenze tenute dai corifei dell’anarchismo socialista che avevano come luoghi di convegno i locali
della filatura e il Caffè dello Stand60».Un’avversione forte, nata dal
fatto che solo nel 1870 lo Stato Pontificio era stato conquistato dall’esercito italiano e che, a trent’anni di distanza, le forze politiche anticlericali italiane continuavano ancora a ritenere la Chiesa un nemico da
combattere. Gli stessi cattolici avevano mantenuto a lungo una posizione ostile verso lo Stato italiano.
Le suore incontrano anche l’avversione di appartenenti ad altre religioni quali i pastori evangelici e protestanti, che vedono nella Missione
cattolica italiana la longa manus del Vaticano in Svizzera e che cercano in tutti i modi di contrastarle, facendo proseliti presso gli stessi operai emigrati e disturbando spesso le funzioni religiose.
Racconta una delle religiose nel Diario delle Suore Francescane,
alla data del 30 luglio 1905, giorno della partenza dal Piemonte61:
«Siamo partite da Susa per venire a Ginevra a prestare la nostra
povera opera specialmente per i poveri Italiani. D. Dosio era venuto a
Susa a domandare delle Suore per la sua Missione. Ed i nostri Rdi
32
L'Orphelinat quando viene acquistato
Superiori hanno accettato la sua domanda. In seguito fu destinata Maria
Rinalda e Maria Benigna […]. Alla sera del 30 luglio dopo la preghiera della sera, uscendo dalla Chiesa abbiamo salutato le nostre care
Sorelle e dato il bacio della pace. Un po’ più tardi ci siamo messe in
cammino. Abbiamo avuto la fortuna d’aver in nostra compagnia la
nostra buona Rda Madre Suor Maria Carmela, e il Canonico Calabrese,
fino a Modane. E siccome non eravamo pratiche di viaggiare in questi
paesi, il buon Canonico, gentilmente ha telegrafato a un suo zio che si
trovava a Aix-les bains, di volere accompagnarci fino a Ginevra. Al
nostro arrivo il Missionario D. Dosio ci aspettava. Indi siamo andate al
Segretariato Italiano in Ginevra, e dopo ci hanno accompagnate a
Carouge dove eravamo destinate di venire a lavorare. Così siamo giunti alla nostra destinazione il 31 luglio giorno di Santo Ignazio
Loyola»62.
Nelle loro memorie esse spiegano bene le difficoltà incontrate:
«I primi tempi era ben duro non si conosceva la gente, trovarsi in
33
paesi stranieri. Sul principio si doveva andare a trovare le famiglie ed
assistere gli ammalati specialmente poveri. Alle volte si doveva andare
molto lontano e a piedi sovente per non spendere troppo denaro. […]
Oltre alla Maternità abbiamo anche la visita agli ammalati
dell’Ospedale che anche questo è diretto dai protestanti […]. Ogni due
mesi il Cappellano ci fa una conferenza a tale scopo, e molto istruttiva
insegnandoci il modo di trattare cogli ammalati. Si deve avere molta
prudenza perché si deve trattare senza distinguere con ogni sorta di persone. Tanto più che la direzione è protestante bisogna andare con molta
cautela. Ciò che è molto consolante grazie al buon Dio, che la più gran
parte dei Cattolici ricevono ben volentieri i santi Sacramenti prima di
morire. La Società63 ci dà un tanto al mese per poter portare qualche
cosa a questi poveri sofferenti. Tanto più che alle volte ce ne sono di
quelli che vengono da lontano e perciò hanno raramente qualche visita, oppure altri che si trovano piuttosto nella miseria. E allora questi
sanno ancor molto di più apprezzare la visita d’una persona che s’interessa a loro e prende parte alle loro pene e afflizioni64».
Apertura dell’Asilo-nido a Carouge
Malgrado tanti problemi, spalleggiato dall’Abate Ruche, il piemontese don Dosio, che sa parlare lo stesso linguaggio delle sue pecorelle
e sa come raggiungere i loro cuori, già nel 1908, grazie anche all’infaticabile lavoro delle suore che hanno dovuto muoversi in punta di piedi
e con tutto il tatto possibile andando di casa in casa per assistere le persone bisognose, riesce ad aprire il primo asilo nido per bambini italiani. La crèche, però, sarà aperta anche a quelli svizzeri, poiché essa è
l’unica esistente nella periferia ginevrina.
La chiesa cattolica riceve, intanto, l’aiuto delle “Dame di carità”
come la signora Ponti-Borgnis. La famiglia di orefici Ponti, sarà infatti, insieme alle famiglie Zoppino e Tedeschi, una delle più attive a
Ginevra nelle attività filantropiche a favore degli emigrati italiani.
Le suore non si risparmiano e, per venire incontro alle esigenze
delle mamme lavoratrici, non esitano ad aprire la crèche per 13 ore,
ovvero dalle 6,30 alle 19,30, fornendo quattro pasti al giorno per la
modica somma di 20 lire a bambino. Così facendo, le religiose finiscono per condividere appieno i problemi degli stessi emigrati. Dal 1908
34
1913. Le suore della Provvidenza di Carouge con i bambini e don Dosio
al 1911 nell’asilo-nido passano ben 282 bambini65.
È lo stesso vescovo Geremia Bonomelli, dopo aver visitato l’asilo di
Carouge, che scrive nel suo diario di viaggio in Svizzera:
«L’assistenza e l’istituzione della crèche è affidata alle Suore. Ma
come? direte, se di Suore a Ginevra non ve ne sono? Suore ad un
modo, o ad un altro, voi ne troverete dovunque: dovunque c’è un’opera di carità vedrete comparire le Suore: non avranno l’abito e la divisa delle Suore, ma hanno il cuore ed è questo, che si domanda. Le
Suore, che assistono e istruiscono i bambini dei nostri operai a
Ginevra sono vestite da signore laiche: che male c’è? Ciò che si
domanda è l’opera, non l’abito, e quella c’è tutta. Sta di fatto che a
Ginevra nessun prete, nessun straniero, dopo due settimane, credo,
non può vestire l’abito dell’ordine a cui appartiene. È la negazione
d’una libertà direte voi. Lo so. Che importa; preti e frati e suore vi
godono la più ampia libertà […]66».
35
In una relazione del maggio 1911, Don Dosio, in qualità di Direttore
del Segretariato, si lamenta che:
«Lo Stato si trova per ora nell’impossibilità di provvedere agli
innumerevoli bisogni dei nostri emigrati: crea, moltiplica bensì i suoi
istituti all’estero; coordina, sancisce leggi del tutto urgenti, ma è pur
sempre vero che soventissimo il nostro operaio all’estero si dibatte
nella miseria. Pei 200.000 italiani residente in Isvizzera quante sono le
istituzioni destinate all’assistenza immediata dei nostri emigrati?
Dando uno sguardo all’ultimo Bollettino ufficiale, con dolore noi dobbiamo constatare che le istituzioni private di assistenza si riducono a
ben poche. A parte l’Opera di assistenza di Mons. Bonomelli e l’ospedale italiano di Lugano e quello di Zurigo, quasi tutte le altre istituzioni italiane sono limitate all’assistenza mutua fra i loro soci. Quindi nei
più popolati centri operai della Svizzera, come Ginevra, Zurigo, S.
Gallo, Basilea ecc., noi vediamo che molti dei nostri emigrati sono
obbligati a ricorrere alle istituzioni indigene per trovar assistenza nelle
loro necessità più urgenti, e continuo è il lamento da parte di simili
istituti che la maggior parte dei loro fondi devono erogarsi per l’assistenza degli italiani67».
Don Dosio, ben presto, si rende conto dell’indispensabilità di un
orfanotrofio per accogliere i piccoli italiani e nel 1911 riesce, con il
ricavato di una festa di beneficenza, a finanziarlo68.
Il 20 novembre del 1912 viene aperto l’orfanotrofio di Hermance,
vicino alla frontiera francese, dove vi si trasferiscono una quindicina di
bambini con due suore.
La chiamata alle armi di molti emigrati durante il conflitto del ’1518 peggiora la situazione, poiché sono tanti a lasciare moglie e figli in
Svizzera: dei 70 ospiti di quegli anni, 58 sono figli di italiani mobilitati e 12 orfani di guerra.
Nascita dell’Orphelinat al Grand-Saconnex
Nel 1916 il piemontese don Dosio è ormai conosciuto e riscuote la
fama di instancabile promotore e ideatore di opere assistenziali non
solo presso la comunità italiana, ma anche quella ginevrina, che
36
Una parte del Cantone di Ginevra
apprezzano in lui il carattere schietto, operoso, caritatevole, poco incline a perdersi nelle parole.
L’orfanotrofio di Hermance è diventato troppo piccolo e troppo lontano da Ginevra, urge una struttura più grande. Il missionario adocchia
nella località “Pommier”, nel comune del Grand-Saconnex, una bella
casa che potrebbe essere perfetta come nuovo orfanotrofio. Ubicato su
un terreno di circa 3.000 mq, in piena campagna, il caseggiato ha tutte
le caratteristiche per ospitare gli orfanelli, poiché è vasto, arioso e provvisto di ogni confort del tempo, con la possibilità di poter sistemare una
sessantina di letti. Il sacerdote piemontese decide, quindi, per l’acquisto dell’immobile, di lanciare una sottoscrizione ad un ristretto numero di facoltosi amici-estimatori della colonia italiana. La sottoscrizione
frutterà 8.000 franchi69.
Altro denaro verrà anche dalle conferenze tenute dal rinomato oratore Padre Semeria, che stima molto don Dosio e che conierà il motto
37
del futuro rifugio per orfani, preso da una massima di Dante
Alighieri70:
“Nostra carità non serra porta”
L’orfanotrofio sarà inaugurato il primo aprile del 1916 alla presenza
di tutte le autorità e dei benefattori e sarà dedicato alla Regina
Margherita di Savoia71, la prima sovrana d’Italia, la quale, grande
ammiratrice di Monsignor Bonomelli, acconsente con gioia che il rifugio per gli orfani dei lavoratori italiani porti il suo nome.
Per la gestione dell’orfanotrofio, il Comitato si costituisce in società legale, con diritti equivalenti a quelli degli enti morali in Italia.
Mentre, per far funzionare la struttura, don Dosio fa affidamento
incondizionato sulle suore. Nel realizzare i numerosi complessi, il piemontese non pensa nemmeno per un attimo che le religiose possano
dire: «No, è troppo!». E d’altro canto, le suore, che non hanno esitato
ad abbandonare famiglia, paese, congregazione per gettarsi sulla strada
dell’emigrazione, non si tirano indietro.
Come si fa a restare indifferenti quando un bambino, che ha finito di
piangere tutte le sue lacrime, ti guarda con i suoi occhioni che non
sanno più chiedere? Come si fa a non sentire le sue angosce di esserino appena nato cui tutto è crollato addosso, perché ha perso i genitori
che avrebbero dovuto traghettarlo verso la vita adulta?
Allora vanno avanti e perseguono con abnegazione, tenacia, coraggio e amore la loro opera misericordiosa verso l’umanità sofferente,
senza chiedere nulla in cambio. Sono così prese dalla quotidianità di
un’esistenza trascorsa tra lavoro e preghiera che non si pongono domande: «Quello vuole il Signore, la divina Provvidenza ci accompagnerà».
Al Grand-Saconnex saranno gli orfani di guerra ad avere la precedenza. Dopo la Prima guerra mondiale il loro numero è di 50 ospiti provenienti non solo dal Cantone di Ginevra, ma anche da altri della
Svizzera Romanda.
All’ingresso dell’Istituto ben due lapidi erano poste per commemorare il nome degli emigrati caduti in quel conflitto. Poiché questo luogo
era off limit per noi ragazzini del collegio, siamo in pochi a ricordare
tali testimonianze. Nel corridoio di entrata, in effetti, si affacciavano sia
l’ufficio della Madre superiora che una stanzetta dove poteva dormire
38
il missionario in visita al Grand-Saconnex. Noi ragazzini, non solo non
osavamo mai aprire quelle stanze, ma nemmeno far rumore nelle vicinanze, soprattutto quando il sacerdote era presente. Ed è un peccato….
Diversamente avremmo potuto conoscere una parte della storia
dell’Orfanotrofio, segnata dalle targhe commemorative della Regina
Margherita di Savoia e di quella di Mons. Bonomelli.
Quando viene realizzato l’Orphelinat nessuno pensa che l’arrivo
improvviso di tanti bambini in età scolare possa destabilizzare il
Comune del Grand-Saconnex, un bucolico paesino agricolo del
Cantone di Ginevra. Gli amministratori locali, infatti, s’interrogano
immediatamente sul da farsi. Nel Processo verbale del 18 aprile 1916,
precisano:
«Un orfanotrofio, precedentemente situato a Hermance, si è stabilito sul territorio del Comune del Grand-Saconnex. Ne risulta un
aumento di 17 alunni chiamati a frequentare le scuole primarie e infantili», segue un elenco delle misure prese dal vice sindaco Monsieur
Wolf per far fronte alla nuova situazione. Sono chiamati due ispettori
che danno il loro beneplacito, preso in accordo con il Dipartimento
dell’Istruzione Pubblica. Un altro rendiconto del 18 maggio del 1917,
presentato al Consiglio municipale da John Wolf, diventato sindaco
nel frattempo, ritorna sull’argomento: «L’arrivo imprevisto
dell’Orfanotrofio italiano “Regina Margherita” nel nostro comune,
che porta con sé una trentina di bambini che dovranno frequentare le
scuole elementari e quelle dell’infanzia, ha sconvolto questa dolce
quiete nella quale ci lasciavamo cullare da qualche anno»72.
Le misure da prendere non sono poche: si dovrà trasformare il
Comune in classi e trasferire la sede dello stesso Comune in una stanza del secondo piano, si dovrebbe anche trasformare in cortile una
parte del giardino di proprietà di Pernin, il quale ha pretese esose che
costringono l’amministrazione comunale a soprassedere73. Questo a
dimostrazione di quanto l’impatto dell’orfanotrofio sia stato rilevante
per la scuola del Grand-Saconnex.
L’Orfanotrofio fra le due guerre
L’Orfanotrofio si ingrandisce quasi subito con l’acquisto di un terreno confinante che permetterà di realizzare un orto e una stalla:
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l’area arriverà a 10.000 mq. Successivamente, nel 1917, saranno i
locali del sottosuolo ad essere ristrutturati con una cappella provvisoria, il refettorio, la cucina, la sala di ricreazione, i luoghi più frequentati dai bambini.
In seguito, un’altra costruzione verrà affiancata a quella presente
dove potranno essere collocati altri 18 letti e la nuova cappella.
Saranno sempre le elargizioni dei benefattori a poter permettere
l’avanzamento dei lavori74. E saranno sempre loro a consentire
all’Orphelinat di svolgere la sua funzione di accoglienza, perché fra le
due guerre gli ospiti di questo istituto, come il resto della comunità italiana ginevrina, conosceranno la fame, quella vera.
Di questo periodo una testimonianza molto commovente l’ha lasciata lo svizzero Jean-Marc Lecoultre, rimasto orfano e raccolto con il suo
gemello Xavier dalle suore italiane in condizioni quasi disperate75.
Egli racconta come, per poter sfamare le varie bocche nei momenti
più duri, le suore uscivano al mattino presto con un bambino per mano
e arrivavano in città bussando alle porte nella speranza di poter raccogliere qualcosa. La divina Provvidenza, come la chiamavano loro, era
sempre all’appuntamento e a mezzogiorno erano già rientrate all’orfanotrofio, pronte a mettere in tavola il ricavato.
Ecco il racconto dal titolo evocativo, Mon paradis à l’orphelinat
italien:
«Dobbiamo molto, mio fratello gemello Xavier ed io a tutte le suore
che ci hanno amati, curati e sfamati malgrado la mancanza di mezzi.
Questo succedeva nel 1932.
Sì, siamo stati accolti, in stato di denutrizione, a 14 mesi. Al nostro
arrivo le suore ci hanno subito presi in carica con grande amore. Poiché
avevamo una salute molto cagionevole, per essere meglio seguiti,
ognuno dormiva nella camera di una religiosa che ci sorvegliava. Una
volta rimessi in buone condizioni fisiche fummo trasferiti nel dormitorio dei bambini.
Gli anni passarono in un clima di felicità, di amore e gentilezza.
Nel 1939 feci la mia prima comunione e, in seguito a questo avvenimento (mi ricordo di essere stato molto fiero di ciò), siamo diventati chierichetti alla Chiesa del Grand-Saconnex. Era il curato Duprés
che ufficiava la messa.
Sui 10 anni, mi alzavo presto, alle cinque, per recarmi in Chiesa e
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1920. I piccoli orfani con le suore, don Dosio e il cav. Ponti
suonare le campane per la messa delle sei. Una volta terminata la
messa, andavamo nella curia che si trovava di fronte alla scuola e il
Signor curato mi preparava una bella fetta di pane con marmellata.
La strada che separava l’orfanatrofio dal paese e che percorrevo in
qualsiasi condizione di tempo, per un bambino di 9 anni era abbastanza lunga, soprattutto in inverno o quando pioveva. Ma ero felice di servire nostro Signore Dio.
Il secondo ricordo che voglio raccontare, mi ha molto marcato, poiché il coraggio di tutte queste suore è restato sempre impresso in me.
Credo fosse durante la settimana di vacanze d’autunno. Molte suore
partivano il mattino verso le otto con un bambino che indossava un
grembiule nero e un colletto bianco. Era l’uniforme che portavamo per
andare a scuola. Ogni suora aveva un quartiere di Ginevra da visitare
per raccogliere fondi per poterci nutrire decentemente, poiché l’orfanotrofio non riceveva niente dallo Stato di Ginevra (eppure c’erano anche
bambini di origine svizzera). Era Roma cha mandava fondi per tutti.
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Per terminare, tengo a dire che la mia infanzia l’ho passata grazie a
Dio e alla brave suore in paradiso e che non dimenticherò mai
l’Orfanotrofio italiano “Regina Margherita”».
Jean-Marc Lecoultre
Fino alla fine della guerra l’orfanotrofio fa del suo meglio per poter
dare il pane quotidiano a tutti i bambini, malgrado la Missione cattolica italiana sia in piena emergenza per far fronte alle numerose famiglie
bisognose dei richiamati. Vengono costituiti due comitati: uno femminile presieduto dalla Signora Ponti-Perrier e un Comitato Notabilità
della Colonia. Le suore, comunque, sono e saranno sempre in prima
linea nell’aiuto materiale e morale76.
Nel 1942, improvvisamente, viene a mancare don Dosio, un missionario «au coeur d’or et à la piété d’enfant qui fit peu de bruit mais beaucoup de bien», come ha ben scritto il Courrier de Genève nell’articolo
che ne annuncia la morte77. Il missionario, «cuore di apostolo e tempra
di costruttore», è morto senza un soldo di suo, perché tutto quello che
aveva lo ha dato ai suoi protetti.
Quello che non sapevamo noi ragazzini è che lasciò detto che se
fosse morto a Ginevra voleva essere sepolto nel cimitero situato tra le
sue due realizzazioni più importanti: l’Orfanotrofio del GrandSaconnex e l’Ospizio del Petit-Saconnex.
La cosa curiosa è che molti di noi la domenica, quando ritornavamo
in collegio tra le sei e le sette di sera dopo essere stati con i nostri genitori, dovevamo percorrere da soli la strada che rasentava il cimitero dove
era sepolto il nostro benefattore. Ciò ci spaventava molto, soprattutto
durante l’inverno quando il buio l’avvolgeva completamente, costringendoci a fare di corsa quel tratto di strada. Se, invece, avessimo saputo
che in quel luogo che vedevamo minaccioso c’era un grande missionario che ci sorvegliava e ci proteggeva, forse, non avremmo avuto nessuna paura e avremmo percorso quel tratto di strada tranquillamente.
A guerra finita, l’appellativo di Orphelinat (orfanotrofio) rimarrà
per sempre nella mente degli abitanti del Grand-Saconnex, anche se
poi, nel dopoguerra, diverrà un Collegio (Internat), dove i bambini non
saranno più figli di nessuno, ma figli di emigrati che vi transitano in
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attesa che i loro genitori possano acquisire un permesso di soggiorno,
che dia loro il diritto di poter affittare una casa, senza dover più vivere
in una piccola stanza ammobiliata dove i bambini non possono essere
accolti.
Un appellativo, quello di Orphelinat, che finirà per umiliare ancora
di più noi bambini emigrati di fronte agli scolari autoctoni del Comune.
Nell’incontro del 2004, mi è stato ricordato da Marianna Lalicata
che, tra i benefattori del “Regina Margherita”, ricevevamo ogni anno la
visita della marchesa Rossi Longhi che aveva perso il figlio Roberto in
un incidente. Ebbene, la Marchesa, insieme alla nuora, per ricordare la
figura del caro congiunto, aveva deciso di istituire ogni anno due borse
di studio, una di mille e l'altra di millecinquecento franchi, con lo scopo
di aiutare un ospite dell’istituto orfano o di famiglia povera e un allievo distintosi particolarmente negli studi. I candidati venivano selezionati dalle suore e da padre Angeli. Le somme venivano versate su un
libretto che i collegiali prescelti potevano ritirare alla loro maggiore
età, recandosi presso la Missione cattolica italiana. Una bella cifra,
senza la quale molti non sarebbero riusciti a portare a termine studi
importanti. Per la chiusura del collegio nel 2004, Marianna è riuscita a
contattare la Marchesa che vive ora a New York, ma è stato impossibile per lei partecipare. Possiamo ricordare qui la sua generosa offerta e
tributarle la riconoscenza che merita.
Nel 1984 le autorità del comune del Grand-Saconnex conferiscono
a suor Scolastica Pilloni, Madre superiora dell’Istituto “Regina
Margherita”, la distinzione al merito del comune saconnésien, per la
sua dedizione esemplare, per tutto l’amore dato ai bambini dell’Istituto
italiano e per l’abnegazione dimostrata durante la lunga vita consacrata al prossimo. A consegnarle l’onorificenza è l’allora sindaco Henri
Stengel, che ha avuto modo di apprezzare la piccola suora durante la
sua attività di insegnante e dirigente della scuola.
Egli, nel discorso, rivolgendosi a suor Scolastica, dichiara:
«Lei ha consacrato la sua vita agli altri, particolarmente ai bambini
più svantaggiati e continua, giorno dopo giorno, il suo lavoro che è vera
vocazione. Nessuna pensione l’aspetta. Lei continuerà a dedicarsi agli
altri fino alla fine della sua esistenza. Quando si parla con lei si perce-
43
Demolizione del “Regina Margherita” nell'autunno del 2004
pisce questa fede meravigliosa che la anima…. Quando le ho chiesto
qual era stato il ricordo più bello della sua vita religiosa, mi ha risposto: “La soddisfazione di poter aiutare»78.
Ben inteso, questo omaggio rivolto alla Madre superiora, precisa
Stengel, ricade su tutte le suore dell’istituto e del personale e sull’opera sociale della Missione cattolica italiana a Ginevra.
Demolizione dell’Orphelinat
Negli anni ’80 il collegio, che ospitava ormai pochi figli di emigrati, è chiuso e trasformato in asilo-nido, aperto alla popolazione locale.
Le suore francescane lasciano definitivamente l’Istituto “Regina
Margherita” nel 1995. Ad assumere la guida dell’asilo-nido sarà Sandra
Olivet. Nel 2000 subentreranno le suore Orsoline di Verona.
Quattro anni dopo l’asilo è momentaneamente trasferito altrove,
perché l’edificio è destinato ad essere demolito per costruirvi una casa
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di riposo (EMS), inaugurata nel 2009 con il nome “Les Pins”.
Nell’EMS, ora, è ospite anche qualche genitore degli ex collegiali,
diventato ormai anziano, proprio come avevamo previsto durante il
nostro incontro nel 2004 quando ci siamo detti: “Prima ci hanno messo
loro in collegio ed ora siamo noi ad accompagnarli!”.
45
-IIIDagli anni ’50 in poi
e i figli degli italiani al “Regina Margherita”
Arrivo della nuova emigrazione italiana
E adesso entriamo in scena noi, quelli del “Regina Margherita” del
Grand-Saconnex, un paese che confina con l’aeroporto di Ginevra.
D’ora in poi è la nostra storia, ovvero la vicenda di tanti ragazzi arrivati da tutta la penisola italiana, parcheggiati lì solo per aspettare di poter
andare a vivere con i propri genitori.
Dall’indagine fino ad ora effettuata emerge che il lavoratore italiano ogni volta che va in Svizzera deve assoggettarsi a rigide leggi per
avere il diritto di lavorarci e di viverci. La Svizzera, in effetti, è il
paese europeo che registra più manodopera straniera sul proprio territorio, toccando anche, in certe attività, negli anni ’50-60, punte del
50% di lavorati richiamati dai paesi confinanti. Per arginare i flussi di
emigrazione, le autorità della Confederazione Elvetica mettono dei
paletti fin dagli anni ’30 dello scorso secolo. Tra questi paletti vi sono
i famosi “permessi di soggiorno” rilasciati ai lavoratori stranieri, in
maggioranza italiani.
I nostri genitori, quasi tutti, cominciano come lavoratori stagionali
(dopo nove mesi ritorno in Italia). La trafila è quasi sempre la stessa in
ogni regione d’Italia: c’è un pioniere che parte dal proprio paesello per
l’estero, all’inizio magari come turista o, spesso, come in Francia, per
raccogliere le barbabietole, riesce poi a trovare un lavoro fisso e, se il
patron ha apprezzato la sua laboriosità, gli chiede se ha conoscenti in
Italia che vogliono lavorare per lui… e il gioco è fatto. È così che, poco
a poco, interi borghi si svuotano di lavoratori pronti a raggiungere i
paesani all’estero.
Per ottenere il permesso di lavoro annuale, i nostri genitori devono
lavorare per più di quattro o cinque anni in Svizzera con lo stesso datore di lavoro che, grazie alla legge sui famigerati permessi di soggiorno,
ha in mano uno strumento di ricatto temibile contro il lavoratore, di cui
usa e abusa a piacimento.
47
Alcuni lavoratori, tuttavia, almeno nel cantone di Ginevra, possono
ottenere immediatamente il permesso di soggiorno annuale: è il caso di
quelli che svolgono l’attività nelle Tuileries di Bardonnex. Poiché il
lavoro è continuativo, anche con turni notturni, non avrebbe senso
interrompere il rapporto di lavoro dopo nove mesi.
Spesso, anche se ottiene il permesso annuale, l’emigrato continua a
non poter affittare un appartamento, deve accontentarsi di stanzette
ammobiliate per due persone, che non consentono di tenere i bambini
in casa; cosa, per altro stabilita da leggi ben chiare. In tal modo è praticamente impossibile il ricongiungimento familiare.
Che fare, allora, dei figli?
Molti italiani, specialmente nei cantoni tedeschi, non avendo la possibilità di tenere i figli in Italia presso nonni e zii, li nascondono in casa,
con conseguenze nefaste per il futuro dei bambini che, oltre al trauma
patito per una vita segregata, non possono inserirsi bene nella società,
perché poco scolarizzati. A Ginevra c’è, per fortuna, l’Orphelinat italiano del Grand-Saconnex!
Maria Frigerio e Simone Burgherr nel loro libro Versteckte Kinder:
Zwischen Illegalität und Tremmimg. Saisonnierkinder und ihre Eltern
erzählen79 raccolgono testimonianze dirette dei bambini nascosti e dei
loro genitori nella Svizzera tedesca dove, ancora nel 1990, nella maggior parte dei cantoni, i bambini che vivono nell’illegalità non hanno il
diritto di frequentare la scuola, malgrado il diritto universale del fanciullo all’educazione. Ginevra è il primo cantone svizzero a riconoscere tale diritto nel 199180.
È emblematica, a questo proposito, la testimonianza di Catia Porri
nella trasmissione tv Polenta e Maccheroni81. Arrivata a 12 anni nella
Svizzera tedesca, soffre una serie di costrizioni: i genitori, per esempio,
le impediscono persino di scendere dal letto quando sono assenti per
lavoro. Ricorda che in casa non poteva fare il minimo rumore altrimenti i vicini l’avrebbero denunciata. Il pavimento a parquet, infatti, scricchiolava e i passi avrebbero svelato la sua presenza.
I genitori che hanno figli “nascosti” sono obbligati a riportarli in Italia
se scoperti, e tanti, nella situazione appena accennata, sono costretti a
lasciarli subito dopo la frontiera, a Domodossola, raggiungibile facilmente dalla Svizzera, dove esiste un collegio di religiose. I bambini parcheggiati in quell’istituto saranno chiamati “orfani di frontiera”.
48
Gli esperti mettono in evidenza come a scuola i bambini vissuti
segregati mostrano grandi angosce. Angoscia che si traduce in generale con un comportamento apatico e asociale. Parlano poco e non osano
quasi muoversi. Effettivamente temono di farsi notare e, soprattutto, i
bambini vissuti nella penombra non hanno fiducia in se stessi e nelle
loro capacità.
Le conseguenze della legge restrittiva sul ricongiungimento familiare adottata dalla Svizzera è davvero deleteria non solo per il bambino,
ma anche per l’intero nucleo familiare.
Insomma, quando lo scrittore svizzero Max Frisch conia quella frase
ormai abusata: “Abbiamo chiamato braccia ed arrivarono uomini e
donne”82, questa volta, quell’umanità che arriva siamo noi! I nostri
genitori cercano solo “pane” e non sanno che in quella ricerca spasmodica potrebbero anche destabilizzare una nazione.
49
Una storia e la vita dei bambini italiani al collegio
rriviamo al Grand-Saconnex un fresco pomeriggio di agosto del
1959, una giornata che ha tutte le caratteristiche di fine estate,
perché l’estate del solleone, delle vacanze, della spensieratezza, l’abbiamo lasciata in Italia. Probabilmente siamo partiti da Place
Claparède, nelle cui vicinanze i miei vivono in una stanzetta ammobiliata e siamo giunti al Petit-Saconnex con l’autobus n.23. Abbiamo
fatto un lungo tratto di strada a piedi, fiancheggiando il cimitero e ci
siamo inoltrati per una viuzza sinuosa, quieta, dove si affacciano ogni
tanto ville silenziose. L’edificio del collegio è armonioso, circondato da
alti fusti. Saliamo pochi gradini e suoniamo il campanello. Aspettiamo
qualche minuto, poi, una suora di nero vestita con un bavero bianco ben
inamidato che spicca sul petto, minuta, sopracciglia folte e occhi neri,
mobili, penetranti, ci fa cenno di entrare. D’ora in poi, mio fratello ed
io dobbiamo restare qui. La nostra venuta in Svizzera non è altro che
una nuova separazione dai nostri genitori.
Veniamo accompagnati in un grande salone dove molti bambini
stanno giocando rumorosamente. Alcuni parlano dialetti che non conosciamo. Ci sediamo saggiamente sulle panche e aspettiamo. Mio fratello, cinque anni, non riesce ancora a mettere a fuoco la nuova situazione. Rimane zitto vicino a me. La sua disperazione esplode nel momento di andare a dormire, lui nella camerata dei bambini ed io in quella
delle bambine. Né suor Amelia né io riusciamo a fargli capire che deve
dormire con gli altri bambini. Il suo è un pianto pieno d’angoscia, che
non vuol sentire ragione, che non si ferma e che, anzi, aumenta di intensità quando la suora, brusca, tenta di staccarlo da me. Per quella notte,
per non infastidire tutti gli altri, la monaca si arrende e mi permette di
dormire con lui in una stanzetta separata.
Siamo appena giunti dall’Italia e abbiamo già capito che la Svizzera
non è solo la deliziosa cioccolata che i genitori ci portavano ogni volta
che ritornavano al paese.
Il distacco dai nostri affetti consolidati era già stato doloroso. Da
più di due anni i miei, trasferitisi in Svizzera per lavoro, ci avevano
lasciato alle cure dei nonni materni. Successivamente, per alleggerire
il carico dei loro familiari già molto impegnati nel lavoro agricolo, mi
avevano messo, perché più grande di mio fratello, in un collegio di
suore nelle vicinanze di Reggio Emilia.
A
50
1960. I maschietti con suor Lucina
Come me, molti altri bambini arrivati al Grand-Saconnex, avevano
la stessa esperienza alle spalle e avevano fatto la medesima trafila: alcuni lasciati in Italia da zii, da nonni o in collegio, altri, meno fortunati,
da amici. Quegli anni li abbiamo vissuti nella nostra patria metà orfani,
con la visita dei genitori una, massimo due volte all’anno: una punizione che colpiva bambini anche di due-tre anni, come mio fratello.
La sorte dei nostri genitori è anche più dolorosa. In Svizzera trovano discriminazioni (ancora oggi all’estero c’è chi pensa Italia = mafiosi), durezza e sfruttamento del lavoro, un misero alloggio, la difficoltà
della lingua, la problematicità per la propria ignoranza, la mancanza dei
figli, l’inesistenza di un qualsiasi sostegno sociale83 e via di seguito.
Ma essi, che hanno lasciato in Italia gli affetti più cari, la terra delle loro
radici, le loro abitudini, tutto quello che aveva valore per loro, vanno
avanti con caparbia tenacia nella speranza di raggiungere, con le proprie forze, il benessere per tutta la famiglia. I nostri genitori capiscono
che solo con il duro lavoro e la ferrea volontà possono riuscire ad emergere, ad avere una paga decente che consentirà loro una vita dignitosa
e assicurerà il futuro dei propri figli. È impensabile per questi lavoratori della terra affidarsi alla carità: sono troppo orgogliosi per accettare
l’assistenza sociale quando hanno braccia forti per lavorare.
51
Al mio arrivo al “Regina Margherita” ci sono circa 120 bambini di
tutta Italia, venuti dai più sperduti paesini del Bel Paese. Quelli non
scolarizzati, sotto i sei anni, parlano solo il loro dialetto e non sono
quindi in grado di parlare l’italiano, figuriamoci il francese!
In quel collegio si è costituita una vera “Unità d’Italia”, un’entità
che non distingue nord e sud della penisola, semmai la divisione avviene per categoria linguistica, ovvero il vernacolo che ognuno sa parlare.
Infatti, ci sono i vicentini, i friulani, i marchigiani, i pugliesi, i pisani,
ecc… e, molti di noi, l’italiano, e non il francese, ci prepariamo a impararlo proprio lì.
In tutto, solo sette religiose italiane, più quattro aiutanti, si occupano dei bambini, che sono dai 3 ai 12 anni i maschi e fino a 14 le femmine. Bambini abituati ad obbedire, senza pretese, senza capricci.
Ad assisterci sono le Suore francescane missionarie la cui
Congregazione aveva la Casa madre a Susa in provincia di Torino:
donne dai modi schietti, avvezze a trattare con i ragazzini. La Madre
superiora, suor Scolastica, è una piccolissima sarda dalle maniere gentili, ma con carattere d’acciaio che dimostra in varie occasioni, come
quando va a perorare la causa dei bimbi più piccoli, che una nuova
insegnante non vuole ammettere nelle classi “enfantines”.
Poiché il “Regina Margherita” è un istituto religioso, la domenica e
i giorni comandati arriva un sacerdote italiano per officiare la messa e
confessarci. Questo prete si fa vedere di tanto in tanto, perché probabilmente segue l’amministrazione del collegio. Un’amministrazione che
gestisce in piena fiducia suor Scolastica, molto preparata nella contabilità, in quanto, secondo il racconto di una consorella, prima di prendere i voti, aveva diretto un ufficio postale. Anche per questo, la Madre
superiora gode della stima totale del clero e del “Comitato” che si è
costituito per permettere al Collegio di funzionare. Oltre alla gestione
del “Regina Margherita”, segue gli adempimenti nei confronti dell’amministrazione del Cantone di Ginevra delle tasse sulle misere paghe
elargite alle suore per la loro attività.
Mio fratello, appassionato di statistica, avrebbe voluto svolgere
un’indagine sui “libroni” che le suore conservavano con le annotazioni delle entrate e delle uscite dei collegiali, ma purtroppo, con l’ultimo
trasloco, sono andati perduti.
Se c’è una pecca avvertita da molti ospiti del collegio, a distanza di
tempo, è quella di “troppa” religione all’interno di questo istituto.
52
Catechismo, preghiere, rosari, messe, processioni, funzioni religiose
delle festività, cadenzate dal ricco calendario religioso e, persino, quando si riesce a vedere un film all’interno dell’Istituto – cosa piuttosto
rara – è quasi sempre sulla vita di un Santo! Questo è comunque il prezzo da pagare, poiché le suore si occupano di noi e, per loro, la contropartita è appunto la nostra salvezza.
Vige anche una grande disciplina notata dallo stesso maestro principale Henri Stengel, senza la quale è impossibile gestire 120 bambini.
Per far fronte alle esigenze di tutte le età (3-14 anni) ci vuole veramente un’ottima organizzazione, tanto più che le monache, come si è
visto, non sono numerose.
I bambini in età scolare devono frequentare la scuola elementare del
comune del Grand-Saconnex che dista più di un chilometro e che fino
al 1964 ingloba anche due classi, la sesta e la settima, che in Italia chiamiamo prima e seconda media. Le giornate, perciò, sono scandite da
orari ben precisi, come raccontano nelle loro testimonianze gli ex collegiali.
La prima regola da rispettare è che i grandi devono aiutare i piccoli. La seconda, che ognuno è chiamato a svolgere qualche servizio per
il buon andamento della struttura. Per non creare gelosie, lo si deve fare
a turno. Sotto, sotto, queste attività sono anche un modo per tenerci
impegnati.
Non è certo una novità per noi che siamo stati abituati, dai sette anni
in poi, ad aiutare in casa e non ce ne possiamo lagnare con i nostri genitori che lo ritengono più che normale. Infatti, se con le suore tutto ha
funzionato quasi sempre a meraviglia, è dovuto al fatto che siamo
avvezzi non solo ad ubbidire, ma anche a dare una mano molto importante sia in casa che nei campi, poiché molti di noi provengono da
ambiente rurale.
Un’altra regola, questa volta imposta ai nostri genitori, è che non
possono farci visita durante la settimana, perché la presenza di uno di
loro potrebbe creare aspettative e risentimenti negli altri bambini.
Le sbavature, come per esempio racconta Tina nel successivo questionario, sono dovute a comportamenti di singole suore, anche loro
portatrici del proprio vissuto. Certo in queste strutture le ingiustizie
sono sempre state inevitabili, poiché si uniscono insieme tanti fattori e,
tra i più importanti, quelli caratteriali. I bambini più vivaci fanno più
facilmente breccia nei vari cuori; mentre quelli riservati possono otte53
nere due risultati opposti: o considerazione o indifferenza. Anche la
bellezza ha il suo peso. Un bambino o una bambina belli hanno più
chance per essere presi in considerazione rispetto agli altri. Comunque,
è vero, non avevamo una grande cuoca, poiché ricordo anch’io, che
sono di bocca buona, la colazione poco piacevole raccontata da Tina e
Domenico (ma cosa mettevano nel latte?) e certe sbobbe….
All’interno di questo collegio siamo suddivisi in cinque gruppi: due
maschili e tre femminili.
Il primo gruppo di maschietti va fino a 6 anni, il secondo da 6 a 1112 anni. Le femminucce, invece, sono così organizzate: il primo gruppo va fino a 6 anni, il secondo da 6 a 10 ed il terzo da 10 anni in poi e
comprende anche le ragazze più grandi. I maschi occupano il primo
piano, mentre le femmine il secondo. Una sola scala separa i due piani
ed è proibita ai maschi grandi. Nessuno di loro ha la possibilità di salire quella scala, pena l’esclusione dal collegio. Su questo le suore non
transigono.
Quando ci siamo ritrovati quarant’anni dopo, tra le prime cose che
hanno voluto fare gli ex maschietti è stato salire quella scala proibita
per vedere il tesoro che nascondeva. Stanzoni nei quali dormivamo noi,
le ragazze grandi e quelle più piccole, i bagni, le docce, il guardaroba:
tutto lì, nessuna enigmaticità.
A distanza di tempo, comunque, ci si chiede cosa animasse le suore
a trascorrere tutta la loro esistenza occupandosi di ragazzini che poi
sparivano dalla loro vita senza lasciare traccia? Una risposta l’ho trovata sul sito web della loro Congregazione fondata dal vescovo di Susa,
il Beato Rosaz (1830-1903): «La religiosa voluta da Rosaz è prima di
tutto mamma, cioè colei che deve esprimere, con la sua consacrazione,
la ricchezza della maternità umana e spirituale verso tutti coloro che il
Signore le affida».
Si può tranquillamente affermare che le missionarie hanno raggiunto in pieno il loro obiettivo, dal momento che hanno curato, amato e
seguito tantissimi bambini passati per il loro Istituto.
Tenuto conto, però, di quanto hanno fatto e quanto hanno dato ovunque siano andate, non si riesce a capire perché la Chiesa fatichi a dare
loro il giusto riconoscimento. Sarebbe, infatti, ora di rivalutare il ruolo
di chi, per un misero stipendio, ha svolto un lavoro egregio senza il
quale le missioni non sarebbero esistite e che hanno contribuito anche
al finanziamento degli stessi centri di accoglienza. La vita parca delle
54
sante donne ha permesso loro di fare donazione degli stessi guadagni,
senza nulla tenere per se stesse. Tanti ignorano, infatti, che parte del
loro stipendio, tolte le spese, era devoluto alla Casa madre di Susa per
consentire alla Congregazione di aprire altre Missioni nel mondo.
Le suore erano e sono davvero povere fino alla fine della loro esistenza e la pensione che ricevono dopo una lunga vita di lavoro è davvero minima.
55
-IVScuola elementare del Grand-Saconnex
e i bambini italiani del collegio
L’impatto con la scuola francese
ivivo in flashback i primi giorni di scuola. A due per due, mano
nella mano, stiamo percorrendo una lunga strada che sfiora un
prato maestoso. Pacifici ruminanti pascolano, guardandoci passare e
abbassando di tanto in tanto la testa per strappare un ciuffo d’erba. Il
corteo di bambini lungo e vociante non ci fa caso, è ormai abituato a
questo bucolico spettacolo. Il prato è delimitato da un filo che mi arriva al ginocchio. Mi chiedo a cosa serva e per curiosità lo tocco, ma una
scossa improvvisa mi fa fare un salto all’indietro. Scatta una risata collettiva e la mia compagna mi spiega che è un filo elettrico per impedire alle mucche di allontanarsi dal campo.
Arriviamo a scuola ed ogni insegnate chiama i suoi alunni. Il mio
nome è pronunciato da un giovane dai lineamenti regolari, alto non più
di m. 1,70, nota particolare: non sorride, si vede che è alla sua prima
esperienza. Sono una delle più grandi e per questo sono in fondo alla
classe. Mi sento inadeguata e in imbarazzo perché, contrariamente a me,
i bambini svizzeri sono carini, ben vestiti. Il maestro scrive alla lavagna,
spiega, ma non interagisce con quelli che non sanno il francese. Non li
considera. Quando il suo sguardo cade per caso su di noi, nei suoi occhi
cala un velo che copre qualsiasi emozione. Passo la giornata a tracciare
con precisione millimetrica i margini dei quaderni che non ne hanno, e
che mi sono stati forniti dall’amministrazione scolastica. Non capisco
una parola di tutto quello che viene detto tra l’insegnante e gli alunni.
Con i miei compagni di collegio ci guardiamo, ma non osiamo parlare,
contiamo i secondi che ci salvano da questo calvario. Suona la campana, infine la ricreazione. Ed ecco dieci minuti liberi per correre nel
préau, che è definito per eccellenza il luogo più importante per l’integrazione. Ma noi non possiamo integrarci, perché nel cortile troviamo i
nostri compagni del collegio ed è con loro che giochiamo.
R
57
Il nodo allo stomaco, che molti di noi si portano dentro quando varcano la porta della scuola, continua a tormentarmi anche il secondo
anno di scuola. Madame Goy84, una bella donna dai modi signorili, che
conosce anche un po’ d’italiano, è la mia seconda insegnante svizzera.
Capisce la mia angoscia e cerca di darmi delle spiegazioni personali.
Ci sono tante chiavi che possono aprire la mente di un bambino e un
buon educatore non è quello che sa tutto sulla sua materia, ma quello
che sa trovare questa chiave. Devo ammettere che non era facile per gli
istitutori scoprirla.
Io sono, in quel momento, impermeabile a ricevere qualsiasi nozione, paralizzata dalla paura, perché ho troppe lacune da colmare. Nelle
materie orali sono brava, perché mi applico, ma in quelle astratte no. Le
mie difficoltà sono nate già nei banchi della scuola elementare italiana
quando ho incontrato le pluriclassi, ma esse derivavano soprattutto dal
fatto che anche in Italia ero stata messa in un collegio, cosa che mi
aveva destabilizzata. Ora, ritrovarmi in un ambiente totalmente diverso, mi pone problemi insormontabili. Anche se Madame Goy si prende
la briga di fermarsi un attimo per cercare d’insegnarmi qualcosa, la sua
attenzione mi emoziona e mi blocca, mi sento terribilmente in imbarazzo e non so renderle ciò che spera. Ella, con tutta la sua buona volontà, non può decifrare le mie paure.
Ci vorranno i tre fatidici anni in Svizzera perché, una volta fuori dal
collegio, mi sia liberata da quest’angoscia e riesca infine ad apprezzare la scuola e a ricevere perfino l’attestato di prima della classe!
Di quei primi anni si affastellano ancora nella mia mente, a distanza di più di cinquant’anni, le favole di Jean de la Fontaine imparate a
memoria: «Maître corbeau sur un arbre perché tenait dans son bec un
fromage….», la regina delle favole per eccellenza. Chissà perché proprio quella è la più conosciuta quando, invece, ci sono peccati molto
più brutti della vanità, o forse no. Nella patria di Calvino proprio la
vanità è intollerabile: «Tu es gonflé!» È una delle accuse più frequenti.
Non bisogna apparire, non bisogna vantarsi: Tais-toi!, Parle doucement!, Ne gesticule pas! (Taci!, Parla piano!, Non gesticolare!).
Una materia davvero importante per noi bambini emigrati è il canto,
perché attraverso quelle parole ripetute tante volte impariamo il francese.
Conosco molte più canzoni del folclore svizzero-francese io di quante ne
possano conoscere le mie nipoti, nate sulle rive del Lemano e, anche
quelle, sono rimaste incancellabili e posso ripeterle ora alle pronipoti!
58
Primi anni ’60. Le bambine vanno a scuola accompagnate da suor Lucina.
Le materie più belle per noi italiani, oltre al canto, sono la ginnastica e il disegno. Discipline che non richiedono la conoscenza della lingua. Molti di noi si sono fatti conoscere grazie al disegno, come il
pugliese Michele Tavaglione, divenuto un pittore rinomato, nonché
architetto.
Scuola e problemi connessi
Altra lingua, altre abitudini, ma soprattutto un sentimento d’inferiorità, di inadeguatezza, che mi accompagnerà a lungo, così come accompagnerà tutti i bambini che hanno fatto lo stesso mio percorso.
Abbiamo già visto che per noi il francese è la terza lingua; la prima
è il nostro dialetto, la seconda l’italiano imparato a scuola, se abbiamo
frequentato qualche classe in Italia o se l’abbiamo appreso dalle suore,
e la terza è il francese che parliamo unicamente a scuola, poiché tra noi
la lingua franca è l’italiano e le suore non conoscono molto bene il
francese. Forse solo suor Lucina e la Madre superiora se la cavano nella
lingua orale, ma non scritta.
La scuola per molti di noi, soprattutto quelli arrivati in Svizzera più
grandicelli, almeno i primi anni, è una grande sofferenza: un’angoscia
che ti prende le viscere appena entri in classe – come racconta Mario –,
59
perché magari non abbiamo fatto i compiti, facendo finta di scarabocchiare qualcosa sul nostro quaderno il pomeriggio durante l’ora obbligatoria, mentre una suora ci sorvegliava, e cercando disperatamente di
concentrarci, senza essere in grado di eseguire il lavoro scolastico.
Un metodo matematico per sapere se il francese ci è entrato in testa
sono i dettati che ci vengono fatti in classe. Nella lingua italiana il dettato si fa specialmente nelle prime due classi elementari; in francese,
invece, è una cosa fondamentale, perché in questo idioma, come dice
l’amica Rita, insegnante di questa materia in Italia, ci sono più eccezioni che regole. Non per niente esiste il campionato internazionale dell’ortografia francese. Con il dettato c’è, appunto, il confronto rigoroso,
in quanto bisogna scrivere ciò che si capisce: «Quanti errori hai fatto?»,
«Io 32 e tu?». Insomma riusciamo a riempire di segni rossi tutta la paginetta; a poco a poco, però, li riduciamo e, quando arriviamo massimo a
cinque errori, allora sì che possiamo dire di essere diventati bravi.
Ogni volta che a scuola non si sa la lezione, c’è una nota dell’insegnante su una specie di carnet: “une leçon non sue”, che dobbiamo
consegnare alle suore per la firma, le quali devono far seguire anche la
relativa punizione. Tra incomprensioni e leçons non sues, la nostra vita
di scolari va avanti e sono i momenti di ricreazione quelli più belli,
dove diventiamo bambini come tutti gli altri.
Gli insegnanti del Gran-Saconnex
Se i problemi linguistici sono difficili per noi, la stessa difficoltà
incontrano i nostri insegnanti dell’Ecole Place.
Nel 1916 il Comune del Grand-Saconnex si deve adeguare per l’arrivo dei piccoli italiani. Nel dopoguerra l’affluenza è anche superiore:
più di un’ottantina di ragazzini in età scolare, dall’école enfantine (primina) alla settima classe, bussano alle porte della scuola.
Un terremoto per questo paesone agricolo che, a causa della vicinanza dell’aeroporto, si sta urbanizzando sempre più. Le classi aumentano
e i bambini frequentano la scuola della Place e poiché non basta più,
l’amministrazione realizza anche quella della Tour. Dice il maestro
principale di allora, Henri Stengel, che a un certo momento si sono formate due classi enfantine, frequentate unicamente da bambini
dell’Istituto italiano.
Come amalgamare questi ragazzini che non conoscono la lingua con
gli autoctoni? Come insegnare contemporaneamente a bambini che ti
60
I libri che ci davano a scuola
capiscono e a quelli che non afferrano nulla di quello che dici? Questo
è il principale problema incontrato dai nostri ex insegnanti e che cercano di affrontare in vari modi.
Infatti, prima gli alunni sono messi in classi miste (autoctoni e italiani), poi è creata una sperimentazione di classi di soli alunni italiani,
per il fatto che sono presenti in numero considerevole bambini senza
nessuna base della lingua. La sperimentazione dura dal 1961 al 1974 e,
a detta di tanti, è un fallimento. Secondo le testimonianze dirette di
Domenico, Mario e Carmine, invece, queste classi sono state importanti e provano comunque la ricerca di soluzioni da parte
dell’Amministrazione scolastica che si ritrova improvvisamente con
decine di ragazzini italiani, senza riuscire a raggiungere alcuna certezza sulla loro integrazione scolastica.
Ogni anno nel collegio c’è un turnover dovuto al fatto che appena i
genitori sono in grado di sistemarsi con l’alloggio, richiamano i figli,
mentre altri bambini arrivano dall’Italia. Nel comune esiste solo la
scuola fino alla 7a classe e, per proseguire gli studi, bisogna andare in
città85. Purtroppo quasi tutti i ragazzini del collegio sono ripetenti,
61
almeno quelli che hanno già fatto qualche classe in Italia, per cui vi
arrivano a 12-13 anni e più. La scuola dell’obbligo in Svizzera, al
tempo della nostra esperienza, si fermava a 16 anni, per nostra fortuna,
altrimenti, saremmo rimasti fuori dai circuiti dell’insegnamento professionale o superiore.
Suor Scolastica, intanto, va a scuola ogni volta che arriva un nuovo
alunno per iscriverlo. È il Sig. Stengel a ricordalo. È lei che ha voce in
capitolo con la scuola. I bambini più fortunati sono quelli che cominciano la prima o la primina, perché imparano da subito il francese.
Quelli che hanno già fatto qualche classe in Italia ripetono l’ultimo
anno.
Una decisione nefasta che non fa che aggravare la situazione scolastica dell’alunno, poiché la mancata conoscenza della lingua e la forte
demotivazione per l’incomprensione totale dell’insegnante portano alla
bocciatura sicura. Lo scolaro che ha fatto, per esempio, la quarta in
Italia, deve rifarla due volte in Svizzera. Inutile dire che questa scelta
non è saggia, perché il ragazzino ripetente due volte si ritrova compagni molto più piccoli di lui e nell’adolescenza, in particolare, diventa
davvero imbarazzante e accentua maggiormente il senso d’inferiorità.
Le scuole italiane, rispetto a quelle svizzere, allora, erano molto
più avanzate nei programmi scolastici. Fino al 1960, anno dell’istituzione della scuola media, la quinta elementare, ultima dell’obbligo
scolastico, era davvero formativa e gli insegnanti cercavano di dare
un certo bagaglio culturale ai propri alunni. I figli di emigrati erano
anche più avanti degli autoctoni negli studi, ma ricordo che non contava molto.
Un’altra conseguenza non da poco per noi è che ci si poteva iscrivere all’Università solo dopo aver frequentato determinate scuole
superiori. Se non si riportavano voti buoni già alle scuole corrispondenti alla nostra prima media, non si veniva ammessi al proseguimento degli studi superiori e il percorso universitario era bloccato. Non si
aveva diritto all’errore, al ripensamento, alla “maturità” di giudizio che
avviene quasi sempre dopo il periodo delicato dell’adolescenza. Ecco
perché ci sono pochi laureati tra noi. Avevano una chance solo quelli
che non avevano frequentato scuole in Italia ed entravano a scuola
dalle primissime classi francesi imparando direttamente la lingua come
gli autoctoni. Giocava un fattore negativo anche l’ignoranza dei genitori, che non erano in grado né di aiutare nei compiti i propri figli né
62
di indirizzarli verso gli studi superiori, una volta adolescenti. Solo l’intervento di padre Angeli e delle suore presso il padre di Marianna
Lalicata, per esempio, aveva permesso alla ragazza di continuare gli
studi fino alla laurea. Per un operaio veder scegliere dal figlio una professione come elettricista, meccanico o contabile era il massimo delle
sue aspirazioni!
Per le generazioni che si trovavano ad affrontare la scuola superiore
tra gli anni ’50 e ’60 era anche peggio, come racconta Maria. Era
impossibile per lei, che aveva fatto l’Istituto femminile, iscriversi a una
filiera professionale diversa da quelle consentite dal suo percorso scolastico, percorso che le era stato imposto. Avrebbe preferito svolgere la
professione di fotografa, ma non le era stato accordato.
Comunque, va detto che la scuola del Grand-Saconnex, come tutte
quelle del Cantone di Ginevra, ci riforniva di tutto: penne, matite, quaderni, libri. E perfino, ricordo, un ¼ di latte freddo dentro un berlingot (i primi Domopak), il pomeriggio quando si rimaneva a scuola
dopo le cinque. È il Département de l’Instruction publique du Canton
de Genève a concedere questo privilegio fino alla scuola dell’obbligo.
Il cantone di Ginevra tra l’altro è il primo in Svizzera ad affermare
nel 1991 che tutti i bambini stabilitisi sul suo suolo devono essere scolarizzati senza distinzione del loro stato legale, per cui, anche i clandestini, ora, hanno il diritto all’istruzione.
Il sistema scolastico svizzero è fortemente decentrato, federale: ogni
cantone può stabilire proprie linee direttive. Le scuole primarie e
secondarie sono gestite dai cantoni e da questi proviene la maggior
parte dei finanziamenti. Non esiste in Svizzera un ministero della pubblica istruzione come in Italia, anche se alcuni aspetti amministrativi
dell’educazione pubblica, come l’obbligatorietà della scuola, la durata
dell’anno scolastico e il numero di anni di scuola dell’obbligo, sono
comuni in tutto il paese e vengono gestiti secondo le linee guida della
Conferenza Svizzera dei Direttori Cantonali della Pubblica
Educazione86.
Come si vede, se da un verso la scuola svizzera, qualche decennio
addietro, si apriva ai più sfortunati, dall’altro si chiudeva a quelli
momentaneamente svantaggiati dalla lingua come gli italiani, soprattutto nelle professioni di élite. Occupandomi di emigrazione in
Canada, ho potuto costatare come gli italiani della prima generazione
di emigrati in Québec siano riusciti ad emergere accedendo a profes63
1965. La classe del maestro Henri Stengel
sioni di prestigio e ciò malgrado uno sforzo maggiore per imparare le
due lingue ufficiali: il francese e l’inglese. È solo, quindi, una questione di chance offerte. In Svizzera, nel passato, si sono adottate
delle regole che hanno finito per bloccare la crescita intellettuale e
culturale degli alunni stranieri.
64
-VIl dopo collegio
La nostra nuova dimora
guardarla dall’esterno è una bella casa con il suo fienile e le
stalle, un grande orto circondato da un alto muro e un magnifico ippocastano che ombreggia l’ampio cortile dove si affacciano due
abitazioni. Un antico glicine, sapientemente distribuito, decora il muro
di questa vecchia abitazione contadina la cui proprietaria ormai ha
abbondantemente superato l’ottantina. Una bella piazzetta, dove zampilla una fontana, ci separa dalla scuola, l’unico luogo di aggregazione
di questo piccolo comune che confina con la Francia. Ma a Perly la
piazza è sempre vuota, i pochi abitanti sempre indaffarati e siamo lontani anni luce dalla socialità che regna nei nostri paesini dove la gente
scambia opinioni e sa sempre tutto di tutti.
Perly è la nostra nuova dimora. Una casa non più contadina, che la
vecchietta ha affittato ai miei genitori. Un collega di mio padre, destinatario di questa casa, vi ha rinunciato perché non ha nessun confort:
non c’è il riscaldamento, non c’è il bagno e, nel retro, una bella concimaia fa da raccoglitrice della spazzatura domestica. Non differisce
molto dalla casa abitata in Italia. Ma i miei ritengono un colpo di fortuna averla avuta, perché la famiglia, dopo cinque anni, può infine riunirsi. Il caseggiato è molto vasto e altre due stanze vengono subaffittate a due coppie senza figli.
È qui che inizia la nostra nuova vita dopo il collegio. Grazie alla
scuola, mio fratello, un bel bambino sorridente e solare, non ha difficoltà a farsi degli amici, i bambini del vicinato lo chiamano per
giocare, ma soprattutto per vedere la televisione che noi non abbiamo. Solo quando devo cercarlo per farlo ritornare a casa inizia il mio
tormento. Afflitta da un timidezza che sfiora l’assurdità e che fa dire
alle persone “che imbranata!”, devo bussare alle varie porte, senza
osare. Allora lo chiamo da fuori, ma lui non sente e passa almeno
mezz’ora prima che mi decida a fare il fatidico passo e vederlo comparire. Sono momenti in cui lo strozzerei, ma il giorno dopo rico-
A
65
2011. La vecchia casa di Perly
mincia: gli amici e la televisione sono troppo tentatori.
Io, invece, devo andare a scuola in città. Bisogna alzarsi presto, perché Perly è uno dei paesi più distanti da Ginevra e c’è un solo bus con
corse limitate. Ed è proprio sull’autobus che, dopo un anno, riesco a
conoscere due ragazze svizzere del posto, ma ci vediamo quasi esclusivamente su quel mezzo. Non ho una casa degna per riceverle, ma
nemmeno loro conoscono la convivialità.
Anche in questo agglomerato di Perly, dove vi abitano cinque famiglie emigrate, finiamo per ricostituire una minuscola Italia fatta di marchigiani, emiliani, avellinesi. I bambini di una giovane coppia emigrata sono troppo piccoli per giocare con mio fratello che preferisce la
compagnia di Xavier, Philippe o Laurent.
Il collegio me lo sono lasciato alle spalle e per me è ormai una parentesi chiusa. Un’altra nuova vita comincia. In questa zona non ci sono
amici del Grand-Saconnex e nemmeno nella scuola che frequento.
Ma che fine hanno fatto i compagni del collegio?
Come ci siamo trovati dopo il Grand-Saconnex? Ognuno ha seguito la propria strada. Molte nostre famiglie si sono sparse per i vari
paesini dell’entroterra ginevrino, dove è più facile trovare case ad
affitto moderato. L’unico luogo dove possiamo ritrovarci è la
Missione cattolica italiana presso cui, oltre a seguire le funzioni religiose, possiamo vedere qualche film, in quanto c’è un cinema. Le
nostre visite, però, si diradano man mano che cresciamo.
66
Per noi ragazzi quegli anni sono di scelte molto importanti per il futuro. Bisogna terminare le scuole e acquisire una professione. Ormai abbiamo imparata la lingua e parliamo il francese con accento ginevrino e
abbiamo assorbito le usanze locali. E’ solo il cognome a svelare la nostra
identità. Almeno per mio fratello e me, poiché i miei genitori inconsapevolmente ci hanno dato due nomi internazionali: Oscar e Barbara.
Tuttavia l’handicap permane, perché i genitori, come già accennato, non
sono in grado di aiutarci nella scelta della futura professione. Gli insegnanti non mettono lingua e raramente li vedono a colloquio.
Per fortuna Ginevra è una grande divoratrice di manodopera: servono
operai specializzati, venditori, impiegati, professionisti di alto livello per
le sue industrie, per il turismo, per gli organismi internazionali che vi
hanno sede e, in teoria, abbiamo una vasta gamma di scelte. Ma solo in
teoria, perché noi non le conosciamo e nessuno intorno a noi è in grado
di darci consigli. Come dice Domenico nella sua storia, è approdato ad
una professione interessante, di cui non conosceva l’esistenza, cercando
tra gli annunci quello che lui sapeva fare meglio: il disegno!
Esiste, è vero, un ufficio per orientare i giovani. Vi sono andata e mi
hanno fatto fare dei quiz. Causa timidezza e causa quiz mai fatti, credo
di essermi ritrovata con un quoziente intellettivo da “deficit mentale”.
Non mi ero trovata mai davanti a prove con quiz e non sono stata in
grado di rispondere adeguatamente, sebbene ricordo di aver trovato
risposte logiche che, però, non erano previste dal formulario. Ho imparato sempre tutto da sola e sono abituata ad osservare bene prima di fare
le cose. Anzi, penso che questo spirito di osservazione ossessivo mi sia
derivato dalla mia condizione di “emigrata”, perché, specialmente ai
miei tempi, se si sbagliava, si era giudicati male e subito etichettati.
Spero, per il bene degli studenti, che i quiz attuali siano stati modificati!
Intanto, per definire il loro futuro, molti di noi scelgono l’apprendistato o la scuola professionale che porta ad un mestiere, consigliati
dai genitori che vedono in un’attività tecnica la massima aspirazione
per i propri figli. Pochi, per l’handicap iniziale, possono scegliere i
licei, così come pochi entrano direttamente in una attività lavorativa.
Ognuno, tuttavia, fa la sua strada, all’inizio molto difficile, poi, con
il tempo, è possibile dimostrare la propria bravura, la grande adattabilità, la voglia di crescere, tipica dei figli dell’emigrazione. E nessuno ha avuto più nulla da ridire. Nel corso della vita qualcuno come
Carmine, Oscar, Angela e chissà quanti altri, che hanno capito di
avere grandi capacità, hanno cambiato attività lavorando e studiando
67
contemporaneamente, raggiungendo quella posizione che, se fossero
nati in famiglie autoctone, avrebbero ottenuto da subito.
Dal “Regina Margherita”, come è messo in evidenza dai maschi, ci
siamo portati dietro la socializzazione, la buona educazione, la capacità di vedere le ragioni degli altri, l’empatia, quindi, difficilmente ci
siamo scontrati con i colleghi senza validi motivi. Ricordo che a uno
dei miei primi impieghi fui preferita ad altri candidati più preparati,
perché il direttore del personale, infastidito dall’atmosfera da far-west
che si respirava in ufficio, cercava una persona conciliante e malleabile ed io rispondevo in pieno a questi requisiti.
Il peggio ce lo siamo lasciato alle spalle. Solo all’inizio degli anni
’70 l’iniziativa Schwarsenbach, il “ruscello nero” – così significa in
tedesco la parola Schwarzenbach – cola su di noi, ripiombandoci nella
nostra condizione di emigrati. La reazione del marito di Irma, che la
costringe a prendere la nazionalità svizzera, è illuminante a proposito.
A causa della xenofobia dilagante di quegli anni, tanti connazionali
decidono il ritorno in Italia che, nel frattempo, si era evoluta e stava
attraversando la fase felice del suo boom economico.
Mia madre mi disse tempo fa:
«Quando in Svizzera finalmente ero riuscita ad ottenere tutto quello
che desideravo: un bell’appartamento con tutti i confort, compreso il
telefono, l’auto, il cinema la domenica, mi sono accorta che alla fine
del mese della mia paga non restava nulla. E’ allora che ho deciso di
ritornare in Italia».
Quelli che sono rimasti ora sono perfettamente integrati, hanno figli
e nipotini “svizzeri” che, seguiti e spinti dai loro genitori, hanno frequentato scuole giuste per diventare professionisti di alto livello. Dopo
l’entrata in vigore della legge sulla doppia cittadinanza, molti italiani,
per sentirsi cittadini a tutti gli effetti del luogo in cui vivevano, hanno
presentato la domanda di naturalizzazione alle autorità elvetiche.
La comunità italiana è sostituita oggi da quella spagnola e da quella
portoghese, sopraggiunta successivamente; attualmente altre etnie si
affacciano sul suolo elvetico, perché la Svizzera continua ad avere
bisogno, per le sue industrie e il terziario, di manodopera, che non può
sfruttare più con il famigerato permesso stagionale. La sua “mezza”
entrata nella Comunità Europea la obbliga al rispetto di leggi comuni e
ad accettare lavoratori proveniente dalla UE.
68
-VITestimonianze
Rapporto scuola-collegio:
ricordi del Maestro principale e della Madre superiora
Scuola: testimonianza di Monsieur Henri Stengel sugli alunni italiani
L’ex Maestro principale della Scuola del Grand-Saconnex, conosciuto da quasi tutti i ragazzi che hanno transitato nel collegio, perché
ha iniziato l’insegnamento nel 1959, ha accettato subito di rispondere,
con grande cortesia e precisione, alle mie domande sui bambini italiani che hanno frequentato la sua scuola. Henri Stengel, all’Ecole del
Grand-Saconnex, ha insegnato per vent’anni prima di diventare vicedirettore dell’insegnamento primario della Pubblica Istruzione del
Cantone di Ginevra. Egli è stato anche sindaco di questo Comune e,
attualmente in pensione, si occupa, insieme a Jacky Cretton, della
“Memoria” del Grand-Saconnex, un’associazione culturale molto attiva nella ricerca storica della propria zona. Ha svolto in proprio un’indagine interessante sull’Istituto “Regina Margherita” dal titolo:
L’Institut italien Regina Margherita. Un EMS à la place d’un internat.
Scrive Henri Stengel:
«Per quel che riguarda i bambini italiani che hanno frequentato le
classi delle scuole del Comune, ho cercato le persone che hanno diretto queste classi:
- dagli anni 1961-1962 e fino al 1964-1965, c’era una classe di bambini italiani tenuta da Madame Adert con alunni di seconda infantile e
prima. L’effettivo delle classi era tra 21 e 27 alunni;
- nell’anno 1965-1966 Madame Adert reggeva una classe di seconda infantile e prima; Madame Cartier aveva una classe di seconda e una
di terza;
- dagli anni 1973-1974 e fino al 1976-1977, Madame Adert dirigeva una classe di bambini stranieri di prima infantile. I bambini erano
italiani, spagnoli, tedeschi e anche qualcuno di altra nazionalità.
A partire da quegli anni il numero di bambini italiani che frequentavano le classi al Grand-Saconnex è stato molto meno importante e i
69
bambini italiani erano integrati in tutte le classi di tutti i gradi.
Quando le classi erano formate unicamente da bambini italiani era
perché troppi di loro non parlavano per niente il francese.
Il 1° marzo del 1980 ho lasciato la mia funzione di maestro principale per assumere quella di vice-direttore dell’insegnamento primario
ginevrino. Sono trascorsi ormai 29 anni. Inutile dire che i miei ricordi
sono poco numerosi, ma ho ancora nella mente la visione dei bambini
italiani che frequentavano le classi e che camminavano lungo il chemin
Sarasin, inquadrati dalle suore dell’orfanotrofio, in un ordine impeccabile e con grande disciplina.
Ho avuto anche l’occasione di visitare l’orfanotrofio italiano e ho
potuto osservare la disciplina che vi regnava: nessun rumore, nessuna
parola. Una disciplina come non si trova ormai da molto tempo.
Penso che la creazione di classi unicamente di bambini italiani era
una necessità assoluta. Da una parte perché i bambini parlavano poco
o per nulla il francese, dall’altra per permettere agli insegnanti di completare il programma dei vari gradi.
Quando i bambini italiani avevano frequentato per due anni le classi delle Signore Adert e Agostinetti erano perfettamente integrati; la
maggioranza di loro parlava e scriveva il francese quasi altrettanto bene
dei bambini svizzeri e stranieri.
Personalmente, quando ho tenuto una classe di sesta, ho avuto molto
spesso bambini italiani, soprattutto ragazze. Questi bambini erano
affettuosi e seguivano le lezioni con molta attenzione e interesse. Era
un piacere annoverarli tra i miei alunni».
Grand-Saconnex 30 marzo 2009
Henri Stengel
70
Intervista a suor Scolastica sul rapporto scuola pubblica-collegio
La Madre superiora del "Regina Margherita" ha voluto rispondere
alle mie domande incentrate sul rapporto scuola comunale del GrandSaconnex e allievi del suo Istituto. La religiosa, dopo una vita dedicata ai bambini, è stata richiamata alla Casa madre, a Susa, nel 2005.
Questa intervista mi è stata rilasciata, per iscritto, alla fine del 2008:
La prima cosa che mi piacerebbe sapere sono i suoi rapporti con la
scuola pubblica. Perché andò da André Chavanne, il responsabile
dell’Istruzione pubblica del Cantone di Ginevra, per l’asilo o anche
per le scuole elementari che dovevano frequentare i bambini del
collegio?
Andai da M. Chavanne per i bambini delle infantili che una insegnante, nuova arrivata, voleva scartare dalla frequenza della scuola
pubblica cui avevamo diritto.
Come l’accolse?
Mi accolse molto gentilmente.
Come vi siete lasciati?
Ci siamo lasciati bene al punto che i bambini dell’Istituto della scuola infantile (4 o 5anni) all’indomani stesso di questo colloquio furono
chiamati a scuola.
Se lo ricorda a partire da quale anno i bambini italiani hanno potuto poi frequentare la scuola del Grand-Saconnex?
I bambini dell’Istituto frequentarono la scuola del Grand-Saconnex
anche quando era arrivata suor Lucina nel 1947. Le infantili erano iniziate forse nel 1960.
Quanti erano approssimativamente i bambini italiani che ogni
anno entravano nella scuola del Grand-Saconnex?
Non posso precisare il numero delle entrate annuali. Siamo arrivati
a 90 bambini che frequentavano la scuola pubblica tra elementari e
infantili.
Chi le ha messo più ostacoli?
L’ostacolo è stato quando hanno istituito le prescolari che al GrandSaconnex ancora non esistevano.
Chi l’ha aiutata di più?
Mi ha aiutato tanto Monsieur Stengel, al punto che l’anno che aveva
lui la classe dei grandi li teneva finché non avevano finito i compiti, poi
li riaccompagnava fino alla stradetta che portava all’Istituto.
71
Di che cosa si lamentavano con lei gli insegnanti del GrandSaconnex o il sindaco?
Il Sindaco non si è mai lamentato, le insegnanti sì, perché i nostri
non conoscevano la lingua e intralciavano lo svolgimento delle lezioni.
C’erano dei divieti imposti a lei per gli scolari italiani che andavano a scuola?
Nessun divieto mi era mai stato imposto.
Per il fatto che i bambini italiani non sapessero il francese, le è stato
offerta la possibilità di fare dei corsi privatamente o inviare dei
volontari per istruire i bambini?
Per un breve periodo qualche volontaria si è offerta per aiutarli a
svolgere i compiti.
Seguivate i risultati scolastici dei bambini ospiti?
I risultati scolastici erano sempre controllati per conoscere dove
avevano bisogno di aiuto.
I bambini italiani, loro, si lamentavano della scuola svizzera e, se sì,
di che cosa in particolare?
Non ricordo che si lamentassero o che fossero meno considerati.
E i genitori avanzavano qualche problema, qualche remora sulla
scuola dei loro figli?
I genitori non potevano tanto lamentarsi, perché non capivano fino
in fondo il lavoro scolastico.
Ricordo che nelle scuole svizzere c’erano anche classi speciali dove
venivano messi alunni con grave ritardo. Per noi, quelle classi
erano la bestia nera dove non avremmo mai voluto andare, perché
significava essere proprio “asini”. Prima di inserire un alunno in
quella classe vi chiedevano il vostro parere?
C’erano le scuole speciali, a qualcuno l’avevano iscritto nel dubbio,
quando non era il caso gli facevano seguire le classi normali.
Ricordo di un caso, una bambina molto viva di sei anni, quindi della
prima elementare. Dopo un mese che frequentava la scuola, non distingueva ancora le vocali. Per me era impossibile, la presi con me in ufficio, capii che la causa era perché non ci vedeva bene. Ne parlai con
l’infermiera della scuola, le fecero fare la visita oculistica, ebbe gli
occhiali, alla fine dell’anno fu la prima della classe.
72
Suor Scolastica Pilloni e Monsieur Henri Stengel durante la consegna del premio del
comune del Grand-Saconnex.
73
-VIIQuestionario d’indagine sul collegio
e la scuola compilato dagli ex convittori
Significato del questionario
Per capire cosa è stato l’Orpehlinat “Regina Margherita” del Grand
Saconnex per molti nuclei familiari emigrati, ho inviato un questionario agli ex collegiali che vi hanno vissuto fra gli anni Cinquanta e la
fine degli anni Sessanta. Il loro indirizzo mi è stato fornito da Marianna
Lalicata. Molte lettere sono tornate indietro, perché nel frattempo i
destinatari avevano cambiato domicilio, ma molti di loro non hanno
risposto. Non è stato facile, infatti, avere le storie dei figli di emigrati
internati all’Orpehlinat. Tanti si sono ormai lasciati alle spalle un periodo della loro infanzia che non vogliono più rivangare, perché troppo
doloroso: tirer un trait et ne plus penser à cette époque, è la frase che
hanno usato.
Mi hanno risposto soprattutto quelli che sapevano utilizzare internet,
quelli che erano orgogliosi del cammino intrapreso, malgrado l’handicap iniziale, quelli che avevano un conto da regolare, un’ingiustizia da
appianare, come Mario Ionta che, espulso dal collegio perché gli era
stato trovato nelle tasche un bigliettino indirizzato ad una ragazzina, a
cinquant’anni di distanza, vuole una riabilitazione totale: quel messaggio non l’aveva scritto lui, ma un suo compagno che glielo aveva affidato prima di andarsene dal collegio per consegnarlo all’innamorata.
Una decisione, quella delle suore, che lo ha fatto molto soffrire.
Alcuni di noi erano troppo piccoli per ricordare e hanno flashback
confusi del loro arrivo a Ginevra e della vita in collegio.
Solo un ex collegiale, Donato De Donato, mi ha fornito la sua storia
integrale che troverete di seguito. Un racconto tenero che mette in luce
le tappe della sua vita con ironia e che ci fa rivivere il cammino di un
figlio di emigrante dalla nascita al paesello, dove accanto al suo letto vi
era la mangiatoia del vitellino, alla tappa fondamentale della scelta
della futura professione in Svizzera.
Intanto, ecco le risposte dei pochi coraggiosi che hanno deciso di
75
1961. Le bambine nel cortile
mettere a nudo un periodo della loro emigrazione e di quella dei loro
genitori e che ci permette di capire il fenomeno migratorio a Ginevra
che va dagli anni Cinquanta ai Settanta del secolo appena trascorso. I
questionari, ricevuti in italiano o in francese, mi sono giunti entro
gennaio 2010.
76
Questionario:
1. In quale paese o città abitavi prima di andare a Ginevra?
Irma e Silvana: Coltano, provincia di Pisa
Tina e Carmine: Provincia di Salerno
Giuseppina: Apice, provincia di Benevento
Oscar e Barbara: Provincia di Reggio Emilia
Angela: Palermo
Marianna: Mineo, Catania
Betty e Maria: Provincia di Vicenza
Gianna: Sicilia
Mario: Sessa Aurunca, provincia di Caserta
Domenico: Provincia di Avellino
Gabriella: Provincia di Belluno
2. Sei emigrato insieme ai tuoi genitori o li hai raggiunti? (Specifica
se ad emigrare per primo è stato solo tuo padre o tua madre o i due
insieme)
Irma, Barbara, Oscar, Silvana, Giuseppina e Mario: parte il padre,
raggiunto poi dalla madre e poi dai figli.
Tina e Carmine: partono tutti e due i genitori per la Svizzera, raggiunti poi dai figli.
Angela e Gianna: emigrano insieme alla mamma.
Marianna e Gabriella: hanno raggiunto il padre in Svizzera insieme
alla mamma.
Maria e Betty: l’emigrazione si svolge in due tappe, nella prima a
partire è la mamma, raggiunta dopo pochi mesi dal padre e, dopo un
anno, dalle figlie.
Domenico: il papà emigra molte volte prima di stabilirsi definitivamente a Ginevra e chiamare moglie e figlio.
3. Se li hai raggiunti dopo, con chi sei stato mentre loro lavoravano
in Svizzera?
Mario: In attesa di raggiungere i genitori sono stato messo in collegio in Italia per un anno.
Gianna: Sono stata messa in un orfanatrofio siciliano con mia
sorella per due anni.
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Carmine e Tina: Siamo stati per sei mesi dai nonni paterni.
Betty e Maria: Siamo restate un anno in Italia con i nonni.
Marianna: Sono venuta con la mamma e sono stata subito sistemata al Grand-Saconnex.
Silvana e Irma: Ho raggiunto mio padre insieme a mia madre, siamo
tornati poi al paese e, dopo, siamo tornati di nuovo in Svizzera.
Angela e la sorella: Dopo la morte di mio padre, la mamma ha preso
la decisione di raggiungere i suoi fratelli emigrati a Ginevra. La condizione di vedova con figli era difficile nella Sicilia dell’epoca.
Oscar: Sono rimasto dai nonni materni per due anni, mia sorella,
invece, è rimasta con loro un anno, poi è stata messa in un collegio di
suore in un paese vicino.
Giuseppina: Sono rimasta per un anno dagli zii.
Domenico: Sono partito con mia mamma che ha messo come condizione a mio padre, per raggiungerlo in Svizzera, di portarmi con sé.
4. Puoi raccontare brevemente la storia della loro emigrazione?
Carmine: Mio padre era il secondo figlio di una famiglia numerosa. Per
provvedere ai loro bisogni, lavorava con mio nonno, che era proprietario di carrette trainate da cavalli. Faceva qualsiasi tipo di trasporto,
sopratutto verso Napoli e Salerno. Questa piccola impresa era situata a
Cava dei Tirreni, dove viveva. Sfortunatamente, però, si sono presto
fatti sorprendere dalla tecnologia (trasporto con camion). Hanno avuto
sempre meno lavoro e un giorno hanno dovuto chiudere e trovare altre
occupazioni. Purtroppo, in questa parte d’Italia, il tasso di disoccupazione era molto elevato e non era quindi facile per tutti i fratelli trovare alti lavori. Ad un certo momento un cugino di mio padre, che era già
in Svizzera, l’ha contattato inviatandolo a lavorare lì. In un primo
momento mio padre non era d’accordo. Ciò che gli ha fatto cambiare
idea è che all’epoca, in certi piccoli commerci di quartiere, il titolare
sciveva la somma da pagare in un libretto di debito che si saldava a fine
mese. I miei genitori, purtroppo, avevano cumulato una somma tale che
non erano più in grado di onorare. Si sono visti costretti, così, a seguire i consigli del cugino (pioniere) e si sono recati in Svizzera. La prima
idea era quella di rimborsare il debito, in seguito, di mettere da parte
una discreta somma per assicurasi l’avvenire, e rietrare il più presto in
Italia. Il tempo, però, è passato e sono restati in Svizzera fino al 1987.
Quando il collocamento in pensione, ben meritato, è giunto, hanno
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preso la decisione di lasciare la Svizzera per ritornare definitivamente
in Italia, non più al Sud ma al Nord, a Broni, in provincia di Pavia.
Volevano restare vicino a noi (3 ore e mezzo di tragitto, passando dal
Monte Bianco).
Irma e Silvana: Papà era già vissuto a Bologna e poi a Parigi prima
di andare a lavorare a Ginevra.
Tina: Mio padre faceva il lavapiatti all’Hôtel du Rhône, mia madre
lavorava come cameriera ai tavoli del ristorante “Café des Artisans”, à
la Grande-Rue nella vecchia città, frequentato all’epoca da tutti quelli
che lavoravano nello Stato di Ginevra. Grazie a queste conoscenze, il
datore di lavoro di mia madre era riuscito ad ottenere l’autorizzazione
per portarci qui. Mia madre all’epoca guadagnava 5 franchi al giorno,
mentre la sistemazione mia e di mio fratello in collegio le costava 480
franchi al mese.
Giuseppina: Un fratello di mio padre era già venuto a Ginevra, lavorava all’albergo Beau Rivage e aveva trovato del lavoro nei campi per
mio padre, più esattamente in una fattoria del Lignon che all’epoca era
tutta campagna. Successivamente, mio zio trovò lavoro anche per mia
madre, nella lavanderia del suo stesso albergo.
Oscar: In Italia sia mio padre che mia madre facevano tutti i lavori che capitavano, ma il guadagno non bastava per vivere. Allora, tramite suo cugino Alessandro, che vi lavorava già, mio padre è andato
alla Tuileries di Bardonnex, ottenendo subito il permesso annuale e
non stagionale. Due anni dopo, ha trovato il lavoro alla moglie in
una sartoria come donna tuttofare.
Marianna: Mio padre è venuto in Svizzera in seguito a due o tre anni
di raccolti scarsi. Non avendo abbastanza per la famiglia, si è deciso a
lasciare l’Italia. In Svizzera c’era già un fratello di mia madre, che gli
ha trovato un lavoro, ma solo per un anno! Dopo un anno, le economie
erano state mangiate ed è dovuto ripartire, e così l’anno successivo.
Dopo tre anni, ha deciso che se si ha una famiglia è per stare insieme e
ci ha portato con lui a Ginevra (che fortuna!). Ogni anno papà e
mamma dicevano: «Alla fine dell’anno torniamo in Sicilia», ma i soldi
non bastavano mai. Hanno comprato un terreno per coltivarlo, poi un
piccolo appartamento che non è mai piaciuto a nessuno e che hanno
rivenduto. Fino ai miei quindici anni, ho seguito in parallelo la scuola
svizzera e quella italiana, conseguendo la licenza media. Al liceo, ho
lasciato la scuola italiana, perché era a Losanna e, quindi, troppo lon79
tano. Ho fatto dunque la maturità al liceo svizzero. Ed è solo quando
ho iniziato gli studi all’Università che i miei genitori hanno cominciato a realizzare che non sarebbero più tornati in Sicilia, ma la scelta è
stata davvero definitiva quando sono arrivati i nipotini.
Maria e Betty: I nostri hanno lavorato tutti e due a Sézenove vicino a Ginevra, in una fattoria durante la settimana, e nel caffè del
paese la domenica. Siamo rimaste insieme con i nostri genitori un
anno in quel villaggio, poi ci hanno messe in collegio al GrandSaconnex. La Signora Maurice ha capito molto bene che i soldi che
mamma guadagnava da lei non bastavano a pagare il collegio. E poiché anche loro non erano poi tanto ricchi e non potevano pagarla di
più, ha cercato di trovare un lavoro remunerativo a mia mamma in
città. I Signori Maurice erano persone squisite, che ci hanno trattato
con grande umanità. Siamo rimaste in contatto fino alla loro scomparsa, cercando di rendere servizio nella misura dei nostri mezzi e della
nostra situazione. Rendiamo qui omaggio alla loro memoria. Mamma
ha lavorato successivamente per una ricca signora che è stata molto
gentile e ci ha ricolmato di regali (non ne avevamo mai avuto prima
di allora). Mio padre se n’è andato da Sézenove per lavorare in un
vivaio, dopodiché ha voluto ritornare assolutamente in Italia e, poiché era il capofamiglia, l’abbiamo tutte dovute seguire al suo paese
natale che, durante la nostra assenza, non si era per nulla evoluto,
anzi. Dopo qualche settimana mamma non ce l’ha fatta più ed è voluta ritornare in Svizzera. Mamma è rimasta a Ginevra, dove ha terminato il suo percorso professionale da Rolex, nel quartiere degli
Acacias. Alla sua pensione abbiamo fatto del nostro meglio per colmarla di attenzioni. È deceduta nel 2003, papà è scomparso al suo
paese nel 1984.
Giovanna: Rimasta vedova da qualche anno, mia mamma, cercando
di migliorare le nostre modestissime condizioni, ha deciso di raggiungere un’amica che lavorava già in Svizzera da sei mesi.
Mario: Mio padre era un giornaliero della terra che non aveva abbastanza lavoro tutti i giorni, non c’erano soldi a sufficienza per campare.
Domenico: Dopo sei anni di su e giù per la Svizzera, mio padre, che
aveva ottenuto il permesso “B” , decise di far trasferire mia mamma e
me, perché il suo datore di lavoro gli aveva affittato anche una casa.
Gabriella: Nell’immediato dopoguerra, mio padre, senza avvenire in
Italia, è andato a lavorare in Svizzera. Dopo un anno, è ritornato dicendo
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a mia madre che non voleva rimanere più da solo e le ha chiesto di emigrare con lui.
5. Che cosa ti ha colpito di più al tuo arrivo a Ginevra?
Domenico: Sono arrivato col treno a Ginevra nel marzo del 1962. Ai
lati delle strade c’erano muri di neve: non ne avevo mai vista tanta!
All’arrivo in Chemin des Verjus, ho visto che in casa c’era una specie
di tubo di circa 80 centimetri con una pentola sopra e ho chiesto
cos’era, mi hanno risposto: «La stufa», serviva a riscaldare la cucina,
l’ho toccato e mi sono bruciato: bell’arrivo!
Irma: Mi hanno colpito la città molto grande, l’orologio a fiori e il
getto d’acqua. Mi faceva paura non capire la lingua. Ma la villa in riva
al lago, dove abbiamo abitato, era molto bella; i miei genitori lavoravano in effetti per un ricco proprietario. Abbiamo fatto delle gite in motoscafo: era fantastico! Mia mamma una volta ha avuto il “mal del lago”
e siamo dovuti rientrare d’urgenza e fare il percorso in macchina, perché si sentiva davvero male.
Tina: Arrivando a Ginevra, a parte il freddo, mi hanno colpito
soprattutto la neve che non avevo mai visto, la freddezza e il razzismo
degli svizzeri.
Giuseppina: Quello che mi ha colpito di più al mio arrivo sono stati
l’ordine e la pulizia.
Angela: Mi hanno colpito la mancanza di rumori, gli sguardi freddi
e diffidenti della gente, lo spazio, la pulizia. La prima parola d’ordine
ricevuta da nostro zio – mia sorella 7 anni ed io 11 – è stata: «Non fate
rumore, parlate piano, non disturbate i vicini!».
Silvana: La casa era bella in riva al lago, bel giardino, i cani, ma
soprattutto la “televisione”, per me è stato bellissimo, credevo che i
personaggi uscissero dallo schermo e ciò mi preoccupava (mamma e
papà erano a servizio in questa stupenda casa).
Marianna: Mi ha colpito di non capire cosa diceva la gente e la tanta
luce di sera, al paese era invece sempre buio.
Betty: Sono rimasta impressionata dal lago, dai cigni, dal getto d’acqua, dalle prime feste di Ginevra alle quali ho assistito. Tutto questo era
favoloso.
Maria: Arrivando alla stazione Cornavin, dopo un lungo viaggio,
abbiamo preso il tram fino al quai de la Poste, per prenderne un altro
in direzione di Bernex. Tutto questo era completamente nuovo per noi.
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Siamo state ricevute con estrema gentilezza dai padroni dei nostri genitori e non dimenticherò mai le deliziose tartine che ci preparavano a
merenda. Certo, abitare dagli altri non era sempre facile.
Mario: Mi ha colpito la pulizia.
Carmine: Non ho avuto molto tempo per realizzare, perché sono
arrivato un venerdì e il lunedì seguente i miei genitori mi hanno portato all’Orphelinat. Ciò che più mi ha colpito è il sentimento di abbandono da parte dei miei genitori. In appena sei mesi, per la seconda volta,
mi hanno lasciato presso qualcun altro. A quell’età si fa fatica a capire:
ecco perché avevo continuamente delle crisi. Andavo a nascondermi
sotto i banchi situati all’ingresso della sala di accoglienza a piano terra.
La sola idea che avrei dovuto trascorrere la maggior parte del tempo in
quell’istituto mi stressava molto. Per consolarmi, i miei genitori mi
dicevano che mio zio – il pioniere – abitava vicino e che di tanto in
tanto sarebbe venuto a trovarmi: non è stato assolutamente vero.
Gianna: Sono stati esattamente cinquant’anni il 10 dicembre 2009
che sono sbarcata in questa città. La cosa che mi ha colpito di più appena uscita dalla stazione ferroviaria sono state le illuminazioni bellissime de la rue du Mont-Blanc.
Gabriella: Non ricordo cosa mi ha colpito, so solo che avevo un
carattere chiuso e non sapevo esprimermi.
Barbara: Quando sono uscita dalla stazione Cornavin aveva appena
smesso di piovere e l’asfalto luccicava come un fiume d’acqua. Nel
mio paese le strade erano ancora di ghiaia: una bella differenza!
6. Puoi raccontare dove abitavano i tuoi genitori e perché ti hanno
messo al Grand-Saconnex?
Gianna: Mia mamma dormiva a casa del suo datore di lavoro, poi
ha trovato una stanza per lei e per mia sorella, che aveva già 15 anni, e
io sono andata al Grand-Saconnex nel gennaio 1960.
Carmine: Mio padre era cameriere al ristorante dell’Hotel du Rhône
a Ginevra. Mia madre era cameriera in un ristorante situato nella vecchia città. Queste attività erano aperte dal lunedì al sabato, chiuse la
domenica. Qualche volta per un matrimonio, per esempio, poteva essere richiesta la presenza del personale di servizio anche la domenica e
purtroppo succedeva spesso, i miei non potevano rifiutare perché allora
non avevano scelta. La prima ragione del nostro internamento era che
non avevano il tempo di occuparsi di noi. La seconda era che il datore
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di lavoro di mia madre le aveva messo a disposizione due piccole stanze ammobiliate, situate al secondo piano del ristorante, con un angolo
per dormire, nella stessa stanza, un lavabo senza acqua calda (le toilettes erano sul pianerottolo), e per cucinare due piccoli fornelli a gas.
Ambiente molto vetusto, ma sufficiente per loro che non avevano intenzione di rimanere in Svizzera a lungo. Non si poteva vivere decentemente a quattro in questo luogo. I miei genitori alla fine della settimana si
arrangiavano e facevano in modo che il cugino di mio padre ci venisse
a prendere il sabato nella tarda mattinata e ci tenesse con lui fino a quando si liberavano. In effetti passavamo con loro solo una notte, poiché il
giorno dopo ci riportavano in collegio nel tardo pomeriggio.
Mario: I miei genitori lavoravano a Choully nel comune di Satigny,
mio padre come operaio agricolo e mia mamma donna tuttofare. Erano
alloggiati presso i loro padroni. All’epoca i padroni non accettavano i
bambini.
Marianna: I miei hanno affittato una camera da due vecchietti che
avevano un appartamento con due stanze e un salotto. I vecchi occupavano il salotto ed affittavano le due stanze, una ai miei che avevano la
possibilità di cucinare, dopo che i vecchi avevano finito, e la seconda
ad un’altra coppia o a una persona sola, che non aveva l’accesso alla
cucina. Non c’era posto per i bambini e, dunque, la soluzione è stata il
collegio. Quando ho dovuto lasciare il Grand-Saconnex a 12 anni (le
suore non volevano la responsabilità delle signorine: non si sa mai...),
i miei genitori hanno chiesto di poter affittare la seconda stanza per me,
e così non hanno dovuto traslocare! Nel 1968 il vecchietto è morto, la
signora era morta nel 1964, proprio nel momento in cui mio padre
aveva ottenuto il permesso di residenza, così ha potuto affittare l’appartamento a nome suo e gli è venuto a costare il 50% in meno, perché
affittava le camere ammobiliate. I miei hanno vissuto nello stesso
appartamento dal 1960, mia madre fino ad oggi e mio padre fino al
2003, anno in cui è morto.
Silvana e Irma: Poiché i nostri genitori erano a servizio, non potevano tenerci con loro, per cui ci hanno messe in collegio.
Angela: Abitavamo insieme a nostro zio, ma i vicini si sono lagnati
per l’arrivo delle due bambine. Le autorità volevano che ritornassimo
in Italia. Mamma ha ottenuto, tramite un avvocato, che restassimo sul
territorio, a condizione però di essere messe al Grand-Saconnex.
Oscar: I miei hanno affittato una piccolissima stanza da un vecchiet83
to che possedeva tre stanze e una cucina, più il bagno. Due stanze le
affittava, i suoi affittuari, però, non avevano accesso alla cucina, che si
era interamente riservato e, quindi, teoricamente, non avrebbero potuto cucinare. In effetti gli affittuari avevano acquistato un fornellino a
gas e con quello preparavano i pasti. Guai a me e mia sorella fare il
minimo rumore il sabato che ritornavamo, perché non avevamo il diritto di stare in quella stanza. Una volta, dopo tanti: «Zitto! Zitto!», appena fuori dall’appartamento, sul pianerottolo, ho urlato a mia madre: «E
qui, almeno, posso parlare?».
Giuseppina: Mio padre aveva una camera alla fattoria insieme ad un
altro, e mia madre divideva la stanza, vicino all’albergo, compresa
nello stipendio, con un’altra donna che lavorava con lei.
Domenico: Io potevo restare con i miei genitori, perché mio padre
aveva ormai il permesso annuale. Ma mia madre lavorava e lui doveva
portarci tutti i giorni in bicicletta – lei al lavoro, io alla Provvidenza di
Carouge – una faticaccia! Le suore della Provvidenza hanno riferito del
collegio del Grand-Saconnex ai miei e così sono stato messo lì.
Gabriella: Mio padre abitava vicino a Vernier, l’alloggio lo aveva
avuto dai datori di lavoro della fabbrica di cemento dove lavorava.
Erano vecchie baracche di legno senza confort. Poiché la divideva con
altri tre compagni, mia mamma a sua volta viveva in una stanza ammobiliata con un’altra ragazza, a Carouge, dove lavorava come cameriera
in un caffè. Mio padre mi veniva a prendere la domenica con una vespa,
mi portava a Vernier aspettando che la mamma finisse il suo turno di
lavoro, per cui ci vedevamo davvero poche ore.
7. In che anno sei arrivato al Grand-Saconnex? Che lingua o dialetto parlavi?
Domenico: Sono arrivato nel marzo del 1962, parlavo senz’altro il
dialetto napoletano.
Irma: Sono arrivata nell’ottobre 1959 e parlavo italiano.
Tina: Sono arrivata a gennaio 1961. Parlavo italiano, perché avevo
fatto fino alla quinta elementare.
Giuseppina: Sono arrivata nel 1958, avevo 9 anni.
Oscar: Sono arrivato nel 1959 e parlavo solo il dialetto emiliano,
avevo 5 anni.
Angela: Sono arrivata nel 1961, parlavo il siciliano e l’italiano con
forte accento siciliano; avevo 12 anni.
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1960. Classe di Madame Goy
Silvana: Sono arrivata nell’ottobre del 1959, parlavo italiano con
accento toscano; avevo 9 anni.
Marianna: Sono arrivata nel marzo del 1960, parlavo il siciliano e
per primo ho dovuto imparare l’italiano; poi, a settembre, a scuola, ho
dovuto imparare il francese. Avevo 5 anni e 9 mesi.
Maria: Sono arrivata al Grand-Saconnex nel 1949-1950, poiché
avevo già fatto un anno alla scuola di Bernex, parlavo bene il francese,
così come l’italiano e, anche se ho vissuto in Italia, non ho mai parlato
il dialetto veneto.
Betty: Sono arrivata tra il 1949-1950, avevo circa 8 anni.
Mario: Sono arrivato a maggio del 1957 e parlavo il napoletano,
avevo 9 anni e mezzo.
Carmine: Sono arrivato al Grand-Saconnex nel 1961 e la sola lingua
che conoscevo erano balbettamenti di napoletano (verace!), avevo
appena 5 anni.
Gianna: Sono arrivata nel gennaio 1960, parlavo l’italo-siculo, suppongo; avevo appena 9 anni.
Gabriella: Sono venuta una prima volta per circa tre mesi. Poi sono
ritornata l’anno seguente, doveva essere il 1953.
8. In che classe sei stato messo? Ti ricordi in particolare di un inse85
gnante e se sì, specifica questo ricordo.
Domenico: Sono stato in classe con Madame Adert, ed è stato bello.
Lei e Madame Cartier ci hanno aiutato veramente nell’apprendimento
della lingua.
Irma: Sono stata messa nella sesta (prima media) che ho fatto con
una maestra che parlava un po’ d’italiano, era molto gentile. In settima
avevo Monsieur Stengel, mi impressionava per la sua statura e la sua
rigidezza.
Tina: Ricominciai la quinta elementare al Grand-Saconnex.
Naturalmente con capivo un’acca e quindi a settembre del 1961 dovetti rifarla. Sono stata promossa a pieni voti a giugno del 1962.
Giuseppina: Sono stata messa in terza elementare, classe che ho
dovuto poi ripetere.
Oscar: Compivo 5 anni il 12 settembre, mentre la scuola svizzera
iniziava il primo settembre. Per quei dodici giorni non mi hanno accettato nella classe “enfantine” ed ho così perso un anno.
Angela: Mi ricordo di un’insegnante che era molto fiera di parlare
italiano e, quindi, mi parlava solo nella mia lingua.
Marianna: Ho cominciato la prima elementare a settembre. Mi
ricordo di tutti gli insegnanti che ho avuto durante i sei anni della scuola elementare. Un ricordo carino dell’insegnante di 3a elementare:
organizzava sempre una festicciola per ogni alunno il giorno del compleanno ed offriva un regalino a ciascuno e per tutti uguale: per le
ragazze un piccolo nécessaire per cucire con aghi, filo, forbici, ditale,
ecc., per i ragazzi, non ricordo. L’insegnante di 5a era molto nervosa e
cattiva, dava delle sberle e tirava le orecchie. Oggi non potrebbe più
stare nella scuola.
Betty: Ho fatto un passaggio nella classe della Sig.na Anzoli, in
seguito, in quella della Sig.na Cesta e poi ho terminato la scuola con il
Sig. Goy. Ho adorato questo maestro che era un innovatore. Invece di
far lezioni a scuola, ci ha portato una settimana in Campo studi.
Alloggiavamo allo Chalet del Grütli alla Givrine. Per me resta un’esperienza indimenticabile, malgrado la nebbia e la pioggia. Facevamo
delle escursioni con la bussola ed andavamo alla scoperta della flora.
Ricordi meravigliosi grazie anche alla gentilezza delle persone accompagnatrici. A parte questo, non ho ricordi particolari, l’unica cosa che
ho constatato è che mentre il maestro di Vicenza faceva la scuola in dialetto, qui si svolgeva solo in francese.
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Maria: Ero nella classe del maestro principale Harm. Non faceva
nessuna differenza tra i ragazzini di nazionalità svizzera e noi. Ha fatto
tutto il possibile, perché avevo un po’ di problemi.
Mario: Sono stato messo in 4a. Mi ricordo di un’insegnante,
Bonifas, che faceva della ceramica.
Carmine: Alla scuola del Grand-Saconnex, chemin Edouard-Sarasin
51, mi hanno messo nella classe dei piccoli per socializzare, ci occupavano con diversi lavori, non sono stato messo subito in prima a causa
della lingua.
Gianna: Sono stata messa in terza con Madame Dubois, che ricorderò fino alla fine dei miei giorni: era abbastanza cattiva e dura, forse
perché aveva troppi italiani nella sua classe.
Gabriella: A sei anni, quando sono venuta per tre mesi in Svizzera,
ho conosciuto dei bambini che parlavano solo il francese e, in quei tre
mesi, ho imparato abbastanza bene la lingua. In Italia ho fatto la prima.
Quando sono andata al Grand-Saconnex non ho avuto molti problemi
per il francese, grazie a quell’esperienza estiva. Penso mi abbiano
messo subito in seconda. Non ho ricordi precisi di quel primo periodo.
9. Qual è stato l’impatto con la scuola svizzera? Avevi già fatto
qualche classe in Italia? Se sì, hai trovato una differenza? Quale?
Maria: Arrivata in Svizzera a giugno, non ho avuto problemi, perché Madame Maurice, la padrona di mia madre e mia mamma si sono
prese l’incarico di insegnarci il francese, per cui quando sono arrivata in classe capivo già quasi tutto.
Gianna: L’impatto è stato duro a causa della lingua.
Carmine: Una parola ha marcato il mio spirito di bambino: «sale
Rital!», che non amavo assolutamente, e le eterne azzuffate senza fine
che ne seguivano. La scuola svizzera è stata la mia prima scuola.
Comunque prima di allora non sapevo il francese.
Mario: Impatto terribile, ogni mattina avevo come una palla nello
stomaco, perché sapevo che non sarei stato capace di rispondere alle
domande. Temevo che gli altri bambini mi prendessero in giro. Ho fatto
fino alla terza in Italia. La differenza della lingua era difficile, non avevamo contatti con i bambini svizzeri, a parte la scuola. Dopo l’istituto,
quando sono andato a vivere con i miei genitori, tutto è diventato normale e non c’è più stata la barriera della lingua.
Maria: Non ho ricordi particolari, a scuola e in collegio mi sono
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integrata bene. Non ho ricordi dolorosi, suor Lucina mi chiamava “il
mio braccio destro”.
Betty: La fortuna ha voluto che abitassi con Madame Maurice, la
quale si era presa cura di insegnare il francese a me e a mia sorella. Ci
dava un libro e dovevamo leggere una pagina senza sbagliare, altrimenti ci toccava ricominciare fino a quando la leggevamo perfettamente. In pochi mesi ho imparto il francese e senza inflessioni, credetemi.
Marianna: L’impatto duro è stato a causa della lingua, ma anche se
il ricordo è di una grande difficoltà a capire e comunicare, per un periodo che sembrava un’eternità, ricordo che a Natale, dunque solo dopo 4
mesi, parlavo già il francese. In Italia ero solo andata all’asilo e non ho
potuto fare paragoni.
Irma: In Italia frequentavo già le scuole professionali, ma non ho
finito l’anno per venire in Svizzera. L’ortografia era la materia più difficile, per il resto i programmi italiani erano molto più avanzati di quelli svizzeri.
Silvana: In Italia avevo fatto la terza elementare, devo essermi
ritrovata in terza con la scuola svizzera. Ricordo solo che la lingua, la
grammatica, il vocabolario erano molto difficili.
Tina: I miei cinque anni di studi in Italia mi hanno permesso di
essere forte in tutte le materie, una differenza enorme rispetto ai programmi svizzeri. Ero molto più avanzata nella conoscenza della
matematica, della geometria, avevo già fatto tutta la storia, la geografia mondiale, mentre qui si stava facendo ancora la storia e la geografia della piccola Svizzera….
Barbara: L’impatto è stato traumatico, troppo timida, troppa paura
degli insegnanti, troppo complessata, perché ci mettevano nella stessa
classe che avevamo già fatto in Italia e che finivamo per ripetere dal
momento che non conoscevamo la lingua. Avevamo, perciò, compagni
di classe svizzeri molto più piccoli di noi e nell’adolescenza la differenza è enorme. L’anno dopo il mio arrivo, mi sono fratturata una
gamba durante le vacanze in Italia. Sono ritornata con l’arto ingessato
e poiché il medico dell’ospedale italiano non mi aveva rilasciato nessuna prescrizione (i miei erano già in Svizzera), le suore hanno voluto
sapere da me quando dovevo togliere il gesso. Ebbene, mi sono tenuta
quell’arto ingessato per più di due mesi per non andare a scuola, mentre avrei dovuto levarlo solo 15 giorni dopo il mio arrivo. Quando me
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“Carnet” con note
l’hanno rimosso la mia gamba era diventata la metà dell’altra!
10. Nella scuola del Grand-Saconnex quali sono state le cose più
difficili per te?
Giuseppina: E’ stato difficile essere accettata come straniera.
Irma: Sono state problematiche le lingue, per il resto ero molto più
avanzata negli studi.
Angela: E’ stato difficoltoso stabilire il contatto con gli altri. Sentivo
la differenza. Avevo la sensazione che nella scuola fossimo ragazzini
speciali.
Marianna: E’ stato doloroso essere messa da parte, perché venivo
dall’Orphelinat e perché italiana. Ma poiché eravamo in tanti
nell’Orfanatrofio, avevamo lo stesso amici e abbiamo fatto a meno
degli svizzeri. Nel 2003 ho rivisto alunni della mia classe (una mia iniziativa, chissà perché, e non andrò dallo psicanalista per saperlo) e, a
mia grande sorpresa, mi hanno detto che erano certi che fossimo tutti
orfani e qualcuno mi ha chiesto se a quell’epoca erano razzisti.
Evidentemente quelli che l’hanno chiesto non lo erano. Comunque un
episodio non troppo bello mi è capitato in 3a elementare. I percorsi da
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scuola al collegio si facevano con una suora e di solito non succedeva
niente, ma quell’anno sono andata alla petite école du village, vicino
alla Salle communale e le suore non venivano fin là. Dunque è successo che tornavo sola con un’amica e un giorno d’inverno due ragazzi ci
hanno tirato delle palle di neve, dopo qualche tempo, al posto della
neve sono arrivati i sassi. Ricordo della mia reazione tra collera e senso
d’ingiustizia e probabilmente lo abbiamo detto alle suore, ma non
ricordo se è stato fatto qualcosa dagli adulti.
Mario: Le cose difficili sono state la lingua francese e apprendere il
buon italiano.
Carmine: Le suore non ci aiutavano abbastanza nello svolgimento
dei compiti, è stato un grande handicap. Molti problemi di ortografia e
di matematica, che metto sul conto di una mancanza di concentrazione,
la mia testa era sempre in Italia. Il resto, lo ammetto, veniva dal mio
comportamento bellicoso, tipico dei napoletani.
Tina: Mi sono dovuta difendere e ho difeso mio fratello dal razzismo dei ragazzini svizzeri, ma anche in collegio, perché mio fratello parlava solo il napoletano.
Barbara: E’ stato difficile il contatto con gli insegnanti. Mi sembrava
di far parte di una sottoclasse. Inoltre, il francese delle suore non era perfetto, per cui anche loro non potevano aiutarci e penso che il loro abbigliamento giocasse un fattore negativo nei riguardi degli altri bambini
della scuola. Io stessa facevo fatica ad accettare il loro abito religioso.
Gianna: Il contatto con gli altri a causa della lingua è stata la maggiore difficoltà.
Gabriella: Non ricordo nessun tipo di problema tanto più che ero
timida, ma molto studiosa.
11. Sei stato per caso in una classe di alunni solo italiani con le insegnanti Signore Adert, Cartier, Piaggi o Agostinetti? E se sei stato
in queste classi, mi dovresti dire se effettivamente ciò ti ha aiutato.
Carmine: Effettivamente sono stato nella classe di Madame Adert.
Da quale anno a quale anno non ricordo. Ho fatto qualche ricerca su
internet riguardo al passato di quella scuola, un sito esiste, ma non vi si
può accedere, perché protetto. In fondo è vero che ci si sentiva protetti.
Mario: Quando ho dovuto ripetere la quarta elementare sono stato in
una classe di soli italiani e devo dire che ciò mi ha molto aiutato.
Domenico: Ho fatto la terza con Madame Cartier, una classe un po’
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particolare, perché era divisa in due classi: la seconda e la terza tutti del
collegio. Mi ricordo di Carmelo che disturbava spesso e della maestra
che per farlo star tranquillo l’ha anche legato alla sedia, ma siccome
poteva ancora parlare e disturbare, gli ha messo dello scotch sulla
bocca. Una volta sono stato punito da Monsieur Stengel: Copia 50 volte
“je ne dois pas sortir du préau à la récréation” e ho dovuto farlo firmare dalle suore che dovevano seguire tutte le nostre punizioni. L’anno
seguente, in quarta, sono di nuovo ritornato in una classe mista (svizzeri-italiani), dove ricordo di aver conosciuto François Sarasin e una
certa Susanne di cui sono diventato amico.
Tina: Penso di essere stata nella classe di Madame Adert. Sta di fatto
che l’anno seguente avevo ottenuto ottimi voti.
12. Sentivi una differenza con i ragazzini svizzeri della scuola?
Se sì, quale?
Giuseppina: Sì, perché non li capivo e mi sentivo inferiore.
Angela: Era un altro mondo. Una volta adulta, anni fa, incontrai
Danielle, che era stata alla scuola del Grand-Saconnex. Lei mi ha riconosciuto subito e in seguito siamo diventate amiche. Ebbene mi ha raccontato che i suoi genitori, gente benestante, le avevano dato l’ordine
di non frequentare gli orfanelli italiani e nemmeno di fare la strada con
loro. Successivamente, però, le cose sono cambiate e la sorellina di sei
anni più piccola è stata affidata dalla mamma alle suore per fare il percorso insieme con i bambini del collegio.
Silvana: Ero troppo timida e quindi il contatto era difficile.
Marianna: Gli svizzeri mi sembravano più spensierati e che si divertivano più di noi.
Barbara: Tra gli svizzeri e noi c’era un ostacolo incolmabile: la
comunicazione! Solo a partire dal secondo anno ho conosciuto qualcuno, perché mi piaceva giocare molto. Mi ricordo di una bella ragazzina
danese, figlia di un diplomatico, ero stupita che mi rivolgesse la parola. Credo che parlasse con me, perché anche lei straniera.
Mario: Si avvertiva questa differenza con i bambini svizzeri, all’inizio spesso ci ignoravano a causa della lingua, poiché non parlavamo il
francese e l’italiano, cosa che all’epoca non era considerata bene.
Carmine: Sì, si sentiva la differenza nel loro comportamento, poiché
alcuni sapevano che vivevamo in orfanotrofio. Durante la ricreazione i
bambini svizzeri non ci chiamavano per giocare con loro.
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13. Come ti trattavano gli insegnanti? Come hai finito per imparare la lingua francese?
Irma: Gli insegnanti mi trattavano bene, perché ero un’alunna molto
applicata.
Giuseppina: Gli insegnanti saranno stati gentili, perché non ho nessun brutto ricordo. Ho imparato la lingua con altri bambini, in particolare con quelli dove lavorava mio padre.
Silvana: Non ricordo maltrattamenti. In classe cercavo di ascoltare
e capire. Ho imparato come tutti, con l’ascolto.
Barbara: Ricordo molta indifferenza, a parte quella di un’insegnante (forse Madame Goy). Il francese è entrato poco a poco.
Marianna: Avendo la fortuna di avere molta facilità a scuola, gli
insegnanti mi trattavano di solito bene. Ho un brutto ricordo dell’insegnate di 5a elementare – di cui ho parlato prima – in seguito a un lungo
soggiorno in Italia dovuto alla malattia di mia nonna, periodo in cui ho
anche frequentato la scuola italiana. Dopo il mio rientro in Svizzera, il
primo giorno in classe, la maestra ci ha fatto fare un dettato e mi sembrava di non sapere più scrivere il francese. Quando ci ha dato i risultati, mi ha consegnato il foglio con un sorriso sadico dicendo: «Patate!»
(che voleva dire zero). Era la prima volta e l’ultima per fortuna in vita
mia, e non capivo perché la maestra era così cattiva....
Betty: Ero una bambina molto studiosa ed applicata, non penso di
essere stata più dotata di altri, ma estremamente perseverante e determinata a riuscire a tutti i costi.
Maria: Gli insegnanti ci trattavano in modo imparziale. Per la lingua
nessun problema, solo qualche lacuna in ortografia.
Mario: Ci trattavano bene, ho imparato la lingua francese a scuola.
Ora lo parlo senza inflessioni e la gente me lo fa notare.
Carmine: Posso dire di essere stato trattato bene dagli insegnanti. Mi
sono sentito a mio agio nella lingua francese solo dopo il terzo anno.
Avevo molte difficoltà, poiché i miei genitori non mi aiutavano: essi
stessi avevano fatto poche classi (la scuola per i miei nonni all’epoca
non era una priorità a causa della povertà). Durante tutto il periodo in
cui siamo stati in collegio non avevamo nessuna occasione per parlare
un “francese sostenuto”, ho praticato questa lingua solo quando sono
uscito dal collegio e ho cominciato la 6a, ho dovuto, d’altronde, raddoppiare la 4a. Mi classifico tra gli autodidatti anche se, senza falsa
modestia, me la sono cavata bene e oggi posso dirmi soddisfatto.
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Carmine Siani aiuta i compagni
Tina: Con gli insegnanti il rapporto è stato ottimo. Volevo imparare
il più presto possibile, anche perché il datore di lavoro di mamma, una
signora svizzera tedesca sposata con un ticinese, la domenica, quando
andavo a casa, mi parlava sempre in francese e mi diceva: «Devi
rispondermi in francese, se non impari subito non farai mai niente di
importante nella vita». Io testarda non le rispondevo, parlava da sola.
Mi ricorderò sempre che durante le vacanze del 1962 la padrona, che
ancora non mi aveva sentito parlare in francese, mi disse: «Alors Tina,
tu ne parles toujours pas le français? Si tu veux, je peux te donner des
leçons ou ma fille Monique peux t’en donner (Monique aveva due anni
più di me)». Io le risposi: «Je n’ai pas besoin ni de tes leçons ni de celles de ta fille, si tu veux je lui donne des cours de grammaire française et d’orthographe!». Rimase a bocca aperta e, da quel giorno, fu
rispettosissima nei miei confronti.
Gianna: Tranne Madame Dubois che mi chiamava “trombonne”, a
causa della mia voce un po’ grave, forse, non ricordo trattamenti particolari di altri insegnanti.
14. Descrivi in breve la vita che facevi in collegio (le cose che ti piacevano e quelle che non ti piacevano), basta anche un solo episodio
che ti ha colpito.
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Gianna: Non mi piacevano soprattutto i lavori di pulizie che dovevamo fare a turno.
Carmine: Non mi piacevano certi cibi, ad esempio, i carciofi che
accompagnavano con una salsa fatta di sale, olio e aceto, invece, mi
piacevano molto le uova in padella e mi piaceva asciugare i piatti. A un
certo punto ero stato nominato responsabile della presentazione vestimentare (modo di vestire) e taglio dei capelli dei miei compagni, le
suore non trascuravano niente. Mi vengono in mente altri ricordi, come
quando si faceva teatro o danza. Non mi piacevano il catechismo e le
ore trascorse in chiesa. Un giorno con altri due amichetti siamo fuggiti dal collegio uscendo da scuola, ci siamo ritrovati ognuno a casa propria senza sapere come. Infatti, ci siamo fatti il percorso a piedi, perché
non avevamo soldi per comperare il ticket dell’autobus. Tutti e tre abitavamo al centro della città. Le suore, molto preoccupate, avevano lanciato un avviso di ricerca, non c’erano cellulari all’epoca per comunicare. Ancora ora mi chiedo come abbiamo fatto a ritrovare la casa, poiché non sapevamo come dirigerci verso la città (il Grand-Saconnex è
un paese che dista una decina di km dalla città). Il peggio fu che pioveva a dirotto e non avevamo nemmeno un ombrello, ci siamo bagnati
fino alle ossa. Vi lascio immaginare la faccia dei nostri rispettivi genitori – che d’altronde ci hanno accolto molto bene – quando ci hanno
aperto la porta! Erano dovuti andare al posto di Polizia più vicino, poi,
grazie al telefono, la polizia si è messa in contatto con la Madre superiora. Ci sono state spiegazioni tra genitori e suor Scolastica: a questo
riguardo le suore pensavano di non aver nessuna colpa, “ben inteso”.
Fu un avvenimento indimenticabile, poiché il week-end seguente l’abbiamo trascorso in collegio a letto, avevamo tutti e tre un’influenza terribile, ma non ci ha impedito di giocare come dei matti, poiché durante il week-end la sorveglianza era ridotta al minimo.
Mario: Al mio arrivo, ciò che mi ha colpito è che mi sembrava di
stare in un pensionato dove c’erano religiose che avevano molta autorità ed erano molto severe.
Maria: In collegio quello che mi ha infastidito, ed è forse molto
umano, è che certe suore facevano grandi sorrisi e grandi reverenze
ai genitori che, per la loro posizione, potevano esserle d’aiuto, come
per esempio trasportarle, mentre altri erano totalmente ignorati.
Questa ipocrisia mi ha spesso sconcertata. I bambini percepiscono tali
comportamenti come ingiusti.
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Betty: La mia vita in collegio mi ha lasciato qualche ricordo. Devo
precisare che ero una bambina estremamente timida e di salute delicata. All’epoca, prima di andare a scuola, dovevamo assistere alla messa
tutti i primi venerdì del mese, d’inverno in una chiesa glaciale dovevamo sentire la predica di padre Enrico e ciò, con lo stomaco vuoto, causa
comunione. Dunque mi succedeva di svenire. Suor Lucina, pace
all’anima sua, mi aveva soprannominato “gatta morta”. Questo nomignolo risuona ancora nelle mie orecchie, perché si compiaceva di questo soprannome con i miei compagni e io la trovavo odiosa. Ho avuto
modo di ricordarglielo durante l’incontro organizzato da Marianna
Lalicata nel maggio del 2004. Le ho detto ciò che poteva sentire una
bambina davanti a questo comportamento traumatizzante e di una cattiveria gratuita. Mi ha risposto: «Erano altri tempi!». Ma da parte mia
non potrò mai dimenticare. Per me c’erano anche troppe messe, troppe
preghiere, troppi vespri, troppo catechismo per dei bambini. Almeno
questo è il mio ricordo e questo il mio parere.
Marianna: Sveglia alle sette, la colazione non mi è mai piaciuta. Le
preghiere prima di ogni pasto, prima di andare a scuola, prima di andare a letto…. I pasti in silenzio mi sembravano una cosa assurda (adesso penso alle orecchie delle povere suore). Ognuno aveva dei compiti
settimanali (vedi l’articolo di Marianna Lalicata “A qui les corvées”
apparso su “Le voci del silenzio” realizzato da Barbara Bertolini nel
maggio 2004). Mi piaceva essere nella stanza chiamata “studio”, dove
si facevano i compiti: c’era la biblioteca e ho letto tutti i libri che conteneva. Ma quel che mi piaceva di più era il periodo delle vacanze, perché eravamo in pochi rimasti dalle suore, e si tiravano fuori i giochi
preziosi: c’erano i “Lego” e si poteva leggere “Tintin”!
Barbara: Nel collegio c’erano troppi obblighi religiosi. Ed io, in
particolare, non amavo confessarmi, allora ho detto alle suore che non
avevo fatto la prima comunione, mentre l’avevo già fatta l’anno prima.
Suor Scolastica ha chiesto a mia madre il permesso di prepararmi: «Ma
come?», ha risposto lei, «l’ha già fatta in Italia!». E lì non ho avuto
scampo, mi sono dovuta piegare ed affrontare il confessore non sapendo mai cosa raccontargli. Le cose belle del collegio per me erano due:
quando si andava nel giardino, quello in fondo, rimasto un po’ selvaggio, che mi dava l’impressione di ritornare nella campagna emiliana e
le letture che le suore ci facevano certe sere. Ricordo di aver bagnato
di lacrime tutta la spalla di suor Lucina mentre ci leggeva il libro
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“Cuore”. E’ così che ho imparato l’amore per la lettura, io che non
avevo visto circolare un solo libro di narrativa durante gli anni trascorsi nel paesino natale.
Silvana: Ricordo che ci svegliavano presto, toilette, colazione con
caffè e latte nella grande sala con i tavoli lunghissimi. Tanto rumore,
malgrado la sorveglianza delle suore, poi dovevamo lavare le scodelle e via, la strada per la scuola era lunghissima e noi cantavamo
durante il percorso. Al collegio ricordo i giochi in cortile, soprattutto
con la musica ad alto volume, ricordo la canzone di “Marina”, c’era
una bambina che portava questo nome. Le recite, i canti, i balletti che
imparavamo per i vari spettacoli alla Salle communale de Plampalais.
Ricordo pure le domeniche sere, ci ritrovavamo sotto un letto e
Brigida (Brigitte Bardot), una ragazza fortunata, ci raccontava i film
proibiti che guardava il sabato sera. Ovviamente tutto ciò una volta
che suor Lucina era passata per il controllo luci spente.
Angela: In generale mi sono trovata bene, eccetto il lato autoritario
che mi pesava, la critica sul nostro accento siciliano ed una mancanza
di riferimenti precisi.
Giuseppina: Ero brava a recitare le poesie. Una volta, all’improvviso, ne ho dovuto imparare una in pochissimo tempo per qualcuno di
importante che veniva al collegio. L’ho appresa rapidamente, ma al
momento di recitarla davanti a questa persona (non ricordo che benefattore fosse), il vuoto! Mi sono così vergognata che lo ricordo ancora.
Tina: In collegio il rapporto con le suore è stato bruttissimo. Ricordo
una mattina a colazione un ragazzino calabrese, credo di sette-otto
anni, appena arrivato, si chiamava Tonino, non voleva mangiare quel
latte e caffè schifosi che ci davano. Suor Domenica lo prese, gli mise
le due mani dietro la schiena, lo alzò, riempì il lavandino della sala da
pranzo e gli ficcò la testa sott’acqua, finché il bimbo non disse che
avrebbe mangiato. Tutto questo mentre noi eravamo a tavola a guardare. Un giorno mi ribellai a questa suora, che mi corse dietro, ma io riuscii a rifugiarmi in camera chiudendo a chiave la porta, mentre lei fuori
di sé mi gridava: «Apri questa porta, che tu sia dannata, devi bruciare
nelle fiamme dell’inferno!». Aprii dopo questa sua esclamazione, allora mi bloccò sotto le docce e mi picchiò con una scopa rinchiudendomi in camera senza cena. All’ora del rosario in chiesa, situata proprio
sotto la camerata, mi misi ad alzare i letti uno alla volta sbattendoli con
violenza per terra, così le suore vennero a liberarmi e potei cenare.
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Irma: La vita in collegio mi è piaciuta, solo che noi grandi dovevamo fare le pulizie di tutti i luoghi, a turno. Allora, quando c’erano da
fare i gabinetti… non gradivo troppo. Ma quando andavamo a cogliere
le prugne nell’orto era simpatico, poi mangiavamo la marmellata, la
composta e i dolci alle prugne. Mi ricordo anche del teatro che facevamo e le danze: queste attività mi piacevano molto.
Domenico: Il ritorno dalla scuola era tutto programmato dalle suore:
merenda, compiti, catechismo. Se avevamo qualche punizione da fare
per la scuola, dovevamo dirlo alla Madre superiora che, gentilmente,
chiedeva: «Con quale mano scrivi?», «Con la destra», «Allora dammi
la mano sinistra!». Ed il suo mazzo di chiavi si abbatteva sulla mano
per tante volte quanto dovevamo riscrivere la frase…, mentre per imparare il catechismo, che per la verità non voleva entrarci in testa, ci venivano fatte delle promesse: «Se sapete il vostro catechismo, stasera
vedrete un film». Noi sotto a imparare a memoria, bene o male qualcosa sapevamo, ma alla fine o la cinepresa non andava o il film era rotto.
Mi sa che in tutto il tempo che sono stato in collegio avrò visto per intero un solo film (furbe, eh!). Però, così, abbiamo imparato a leggere
l’italiano.
Gabriella: Ero una bambina graziosa e ricordo che ogni volta che
c’era da organizzare balletti, io ero sempre dentro. Questi spettacoli mi
piacevano tantissimo. Però, alla fine della festa, invece di essere contenta, ero sempre triste. Quello che non mi piaceva erano tutte le preghiere che dovevamo fare, in particolare la mattina, dieci minuti prima
della colazione.
15. Che rapporto avevi con gli altri bambini italiani? Stavi con
quelli della tua regione o avevi familiarizzato con tutti?
Domenico: Ho fatto presto a farmi degli amichetti, Nuccio, Pietro,
Luciano, Luciana, Sandro ecc., ma soprattutto i fratelli Coco,
Carmela, Maria e Nuccio, il più piccolo, che è diventato la mascotte
del collegio.
Irma: Ero assai timida, non andavo con tutti, ricordo, però, che la
mia vicina di camera mi ha fatto imparare la poesia “La cicala e la formica”, la sera a letto, me la faceva ripetere sottovoce e l’ho imparata al
suono, senza sapere come si scrivevano le parole…
Giuseppina: Ricordo che stavo con tutti.
Angela: Il ricordo è piuttosto buono.
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Silvana: Il rapporto era ottimo e familiare con tutti, ancora oggi sono
in contatto con Giuseppina, Gianna, Rosanna, anche un po’ con Brigida
e Giuliana, che purtroppo è deceduta.
Marianna: Avevo buoni rapporti con tutti; mi sembra che i rapporti
con i ragazzi del mio paese fossero più "stretti", perché i genitori si
conoscevano e ci si vedeva anche fuori dal collegio.
Betty: I rapporti con gli altri bambini erano tutti uguali, perché ero
molto timida e sognatrice.
Maria: A causa del mio carattere socievole familiarizzavo con tutti,
compresi quelli della scuola del Grand-Saconnex.
Mario: Stavo bene con tutti.
Carmine: Ero apprezzato dagli altri bambini, perché li difendevo
spesso quando c’erano delle litigate, anche se preferivo trascorrere la
maggior parte del mio tempo con gli amici della mia regione.
Gianna: Avevo rapporti buoni che continuo a mantenere con molti
di loro.
Barbara: Avevo ottimi rapporti con tutti, basta che ci fosse da giocare, io ero sempre pronta! Della mia regione c’era una sola bambina
che si chiamava come me, Barbara, ed era molto vezzeggiata dalle
suore, perché bellissima. Poiché all’anagrafe l’ostetrica che mi aveva
dichiarato aveva storpiato il mio nome, quando ho detto che mi chiamavo Barbara (nome di mia nonna), suor Flaminia ha sentenziato che
mentivo e non ha permesso a nessuno di chiamarmi con quel nome.
Avrei rovinato quello della sua preferita!
Gabriella: Ho avuto ottimi rapporti con tutti, ma la mia amica del
cuore era Marilena Zaia di Conegliano Veneto.
16. Come giudicavi il rapporto con le suore?
Gabriella: Con le suore ho avuto un ottimo rapporto. Mi volevano
bene. L’unico problema grave l’ho avuto nel 1957/1958, a causa di
una suora ammalata di tubercolosi che, purtroppo, l’ha trasmessa ad
una trentina di bambini (più femmine che maschi), tra cui c’ero
anch’io. All’improvviso siamo diventati tutti appestati. Siamo stati
costretti ad andare un mese in una clinica a Ginevra e, poi, nove mesi
a Montana Crans, una stazione rinomata per l’aria buona e dove
c’erano dei Sanatori e Preventori per curare la tubercolosi. Al nostro
ritorno ogni mese dovevamo fare le radiografie per controllare se eravamo effettivamente guariti.
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Gianna: Il rapporto con le suore per me è stato buono, soprattutto
con suor Lucina.
Carmine: Avevo un rapporto abbastanza buono con le suore e
soprattutto un gran rispetto per quello che rappresentavano, non dimentico i preti e i sorveglianti.
Mario: Ricordo che le suore erano molto severe. Per esempio,
durante i pasti non bisognava mettere i gomiti sulla tavola e dopo due
richiami il pasto veniva ritirato. Spesso si andava a letto senza mangiare a causa delle punizioni.
Maria: Il rapporto con le suore è stato senza problemi.
Betty: Il rapporto con le suore è stato senza troppi problemi, anche
se alcune avrebbero dovuto avere un po’ più di psicologia. Avevamo
dei compiti da svolgere, ciò era normale, ma quando dovevo lavorare
in cucina ero terrorizzata da suor Palmira: era incapace di parlare senza
urlare e senza dare schiaffi: un vero incubo!
Barbara: Non erano più severe di mia madre. Ero affezionata a suor
Lucina, le altre le sentivo distanti.
Marianna: C’è stata una suora che è rimasta solo un anno, che era
particolarmente violenta. Fatta quest’eccezione, ho avuto buoni rapporti con loro, anche se certe volte le giudicavo troppo severe, anche inutilmente. A distanza, capisco che erano troppo poche: 7 suore per 120
ragazzini e 4 signorine per aiutare.
Silvana: Le suore erano troppo severe, ma era il loro compito e non
posso giudicare.
Angela: All’inizio le suore mi facevano paura, avevo l’impressione
di vederle apparire dappertutto, dopo era divertente.
Giuseppina: Le trovavo severe, ma ho un buonissimo ricordo.
Irma: Erano molto gentili, ciascuna a suo modo; mi ricordo di una
suora che sorrideva sempre e ci raccontava delle belle storielline.
Domenico: Il mio rapporto con le suore è stato buono, certamente
con le punizioni quando le meritavo, ma capitava raramente e ogni
tanto mi davano anche del “bravo”.
17. Quando te ne sei andato dal collegio e perché?
Gabriella: Me ne sono andata quando sono tornata dal Preventorio di
Montana Crans. Avevo raggiunto il limite di età e probabilmente i miei
hanno preferito rimandarmi in Italia per la brutta esperienza vissuta.
Irma: Ho lasciato il collegio quando sono potuta andare a vivere con
99
i genitori. Poi mi sono iscritta alla scuola superiore.
Giuseppina: Sono partita quando i miei genitori hanno avuto la possibilità di avermi con loro, questo dopo tre anni.
Oscar: Me ne sono andato dopo tre anni, quando i miei hanno avuto
una casa.
Angela: Poiché ero spesso punita, trascorrevo la serata nella cappella a pregare con le suore. Avevo detto a mia madre che questo mi piaceva molto. Penso che abbia avuto paura e allora ha deciso di tirarmi
fuori di lì.
Silvana: Sono andata via quando mamma e papà hanno trovato l’appartamento che ci permetteva di stare con loro. Fu dato dalle persone
presso cui lavoravano a Vesnaz, dopo circa due anni.
Marianna: Sono rimasta fino a 12 anni, perché era il limite d’età.
Betty: Ho lasciato il collegio quando mamma ha trovato una camera in città e sono andata alla scuola di Rive. E’ in quel periodo che
siamo dovute ripartire per il Veneto, poiché papà aveva deciso di ritornare al suo paesello. Un trauma supplementare per noi, in quanto era
tutto cambiato, ma in peggio, la gente partiva per avvicinarsi al luogo
di lavoro. Mamma, mia sorella ed io abbiamo preferito bene o male
ritornare in Svizzera.
Maria: Ho lasciato il collegio per andare all’ “école ménagère”. In
più mamma aveva trovato una camera in città dove potevo abitare con
lei. Dopo avrei voluto fare un apprendistato nella fotografia. Un padrone ha fatto tutte le pratiche fino a Berna, ma ciò è stato rifiutato. Ero
autorizzata a fare solo l’apprendistato “ménager”. Sono dunque partita
per l’Inghilterra per imparare l’inglese.
Mario: I ragazzi all’età di 12 anni se ne dovevano andare. Alla sua
uscita un ragazzo mi aveva dato un foglietto da consegnare a una ragazza del collegio. La sera si dovevano dare i nostri abiti da lavare ed
avevo dimenticato di dare il foglietto che è restato nella mia tasca. La
suora, nel togliere tutto dalle tasche, ha trovato il bigliettino. La Madre
superiora ha convocato i miei genitori per informarli che ero stato io a
scrivere il biglietto. Sono stato allontanato dall’Istituto. Questa storia,
per il fatto che non ero colpevole, mi ha molto ferito. Avevo 11 anni e
mezzo. Ancora oggi odio quel luogo.
Carmine: Ho dovuto lasciare il collegio all’età di 11 anni. Avrei
dovuto andarmene prima. Normalmente non tenevano i bambini arrivati ad una certa età, ma la situazione dei miei genitori non era migliora100
ta, avevano chiesto una proroga che era stata accordata. Non ero il solo
ad aver avuto diritto a questa proroga. In seguito la situazione si è evoluta e mi hanno preso con loro. La scuola più vicina al nostro domicilio nella Vieille Ville era allora la Ferdinand Hodler. È lì che ho terminato la scuola obbligatoria, cioè la 6a.
Gianna: Sono andata via nel 1964 a 14 anni circa, quando mia sorella si è sposata e c’era in casa il posto per me.
Domenico: Nel 1966 sono andato a vivere con i miei genitori a Onex,
in una vecchissima casa. Non ho mai capito perché me ne sono dovuto
andare, dal momento che la situazione familiare non era mutata.
Tina: Ho lasciato il collegio a 15 anni. Dopo le scuole elementari ho
frequentato quelle al Petit-Saconnex. A 17 anni sono partita per
l’Inghilterra per studiare.
18. Come ti sei trovato nella vita dopo il collegio? Ti è rimasto qualche gioia o qualche rancore da questa esperienza del GrandSaconnex?
Gianna: Mi sono rimaste tante amiche che conservo ancora.
Carmine: Mi sono sempre dovuto confrontare con certe difficoltà a
livello comportamentale, poiché siamo stati educati in un modo troppo
diverso rispetto agli altri bambini. Vivere sempre tra preti, suore o sorveglianti, ci aveva forgiato un carattere in controtendenza rispetto agli
altri della stessa generazione. Ciò si è ripercosso sul mio comportamento con le persone che ho conosciuto in seguito. Sono ancora oggi molto
riservato, amabile, conciliante, sempre attento e disposto all’ascolto per
cercar di aiutare il prossimo, finite le scazzottate, pronto a rendere servizio alle persone che me ne fanno richiesta. D’altronde, non per niente
mi sento perfettamente a mio agio nel mestiere che svolgo attualmente.
Osservando oggi il comportamento delle nuove generazioni, resto convinto che gli anni trascorsi in questo Istituto ci hanno fatto meglio capire il vero senso della vita in comune, socialmente parlando. Penso che a
molti giovani si dovrebbe imporre una prova come la nostra, perché possano prendere coscienza di certi valori fondamentali della vita.
Mario: Dopo l’Istituto, ho continuato le scuole primarie che sono
state difficili. Ho fatto, in seguito, un apprendistato di pittore carrozziere che mi ha molto soddisfatto.
Maria: Non mi è rimasto alcun rancore, è stato un passaggio della
mia esistenza.
101
Betty: A 16 anni ho fatto la scuola di commercio.
Marianna: All’inizio mi sono sentita un po’ persa ed isolata: avevo
molte amiche che avevano il ruolo delle sorelle e all’improvviso mi sono
ritrovata figlia unica. Non ho nessun rancore, anzi sono grata alle suore
e soprattutto a padre Angeli, perché hanno convinto i miei a lasciarmi
continuare gli studi. Non era abituale in quegli anni andare all’Università
per una figlia di manovale. Ma ho avuto dal collegio anche una fortuna
inaspettata. Una benefattrice, la marchesa Rossi Longhi, per commemorare il figlio scomparso, aveva istituito una borsa di studio per i più meritevoli e le suore e padre Angeli me l’avevano attribuita. Così, quando
sono andata all’Università, è stata una sorpresa bellissima scoprire che
ero beneficiaria di un conto in banca, che mi ha permesso di studiare
senza chiedere nulla ai miei genitori. Sono riconoscente alla Marchesa,
perché la sua elargizione mi è stata davvero preziosa.
Silvana: Mi sono trovata bene, ho conosciuto altri amici a scuola.
Non provo alcun rancore, i miei non avevano scelta e siamo rimaste
ben poco. Gioia è una bella parola, la mamma mi dice spesso che
quando veniva a prenderci la domenica per passarla con loro, le chiedevo: «Ma che fai qui? Vai via che devo giocare!». Quindi credo che
per me sia stato un periodo piacevole.
Angela: E’ molto impreciso quello che provavo.
Barbara: Per me è stata una parentesi che ho cancellato subito. Né
bene, né male, la vita continuava e basta. Poco a poco, come tutti, ho
trovato la mia strada.
Giuseppina: Mi sono trovata bene. Bei ricordi e nessun rancore.
Irma: Nessun rancore dei ricordi della vita del collegio, anche se era
meglio fuori, comunque avevo finito il ciclo elementare e non potevo
più restare.
Domenico: Nel collegio devo dire che mi sono trovato bene. Per un
figlio unico è stato importante imparare a vivere con gli altri. Abbiamo
ricevuto un’educazione che forse neanche i nostri genitori potevano
darci e il punto positivo è stato che abbiamo imparato a leggere e scrivere in italiano, ciò che ci ha aiutati negli anni seguenti.
Gabriella: Non provo alcun rancore, perché con le suore sono stata
abbastanza bene.
Tina: Mi sono trovata bene, della vita del collegio mi sono rimasti
sia gioia che rancore. Però sono felice di aver fatto questa esperienza di
vita che mi ha insegnato molto.
102
19. Hai conservato dei contatti con gli amici del collegio o con le
suore?
Irma: No, non sono troppo socievole e non ho conservato contatti
con gli amici del Grand-Saconnex, poi ho conosciuto mio marito che è
svizzero e ho avuto altre amicizie.
Giuseppina: Ho due amiche con cui sono rimasta in stretto contatto
e ogni tanto ho notizie di qualcun altro.
Angela: Nessun contatto seguito, ma incontri dovuti al caso.
Silvana: Sì, ci siamo ritrovati in gran numero per il Giubileo del
2000 al Grand-Saconnex ed è stato bellissimo.
Marianna: Sì, rivedo di tanto in tanto un’amica o un’altra del collegio. Ho perfino ricevuto recentemente un messaggio su facebook di
una ragazza che era al Grand-Saconnex con me.
Betty: Vedevo regolarmente Anne-Marie Toffolon. Uscivamo insieme
ed è durante una di queste uscite che ha incontrato il futuro marito. Poi
ci siamo perse di vista. Avevo notizie da sua madre che abitava nel quartiere dove lavoravo. Con le suore non ho conservato nessun contatto.
Barbara: All’inizio ho frequentato Angela, ma abitavamo troppo
lontane e ci siamo perse di vista. Poi ho ritrovato Franca e con lei il rapporto dura ancora.
Mario: Ognuno ha preso la sua strada.
Carmine: 4-5 anni fa una ragazza che si chiamava Raymonde, con
l’aiuto di altri ex del collegio, è riuscita ad organizzare una giornata. Ci
siamo ritrovati per una messa e un pasto in comune. Una giornata trascorsa troppo in fretta, poiché avevamo tante cose da raccontarci. Ecco
un piccolo aneddoto per quanto riguarda questa occasione: all’epoca,
quando facevo l’elettricista, ci siamo visti per 15 anni con un carissimo
compagno che si chiamava Giovanni Confortini, ma non sapevo che
aveva trascorso anche lui un certo periodo in questo collegio, l’ho saputo solo quel giorno (il mondo è veramente piccolo!). Con le suore abbiamo avuto molte occasioni per rivederci, poiché di tanto in tanto andavamo nella chiesa che faceva parte della società della “Cappella italiana”.
Una delle cappelle è situata nel quartiere Eaux Vives e l’altra, la
Provvidenza, nel comune di Carouge. La maggior parte dei bambini dell’ex collegio sono stati battezzati o hanno fatto la prima comunione in
queste due cappelle. A questo riguardo, non so se vi ricordate della
“Cappella italiana” situata a Eaux Vives? Ebbene, 25 anni fa l’hanno
demolita e rifatta più moderna. Ho avuto l’onore di rifare tutta l’instal103
lazione elettrica e, in quell’occasione, ho potuto frequentare i preti e di
tanto in tanto le suore. Mi dicevano sempre che ci sono dei nomi che si
ricordano tutta l’esistenza, il mio e quello di mia sorella, per esempio,
ne facevano parte. Tutte si ricordavano delle stupidaggini che facevamo
e che diventavano matte a causa del nostro comportamento da monelli.
Avevano perfino in memoria il mio nomignolo, Nuccio. Giusto 20 anni
fa ho cambiato lavoro per una carriera di specialista in telecomunicazioni, il mio datore di lavoro ora è Swisscom. L’ultima volta che ho rivisto
le suore è stato durante la messa in servizio di una centrale telefonica,
circa 18 anni fa, poiché La Provvidenza aveva trovato fondi per far
rimodernare l’edificio e accogliere, a pagamento, persone anziane,
offrendo loro cure. Le suore hanno allora eletto un amministratore,
assunto personale di cucina e infermieristico che, con il tempo, si sono
occupati anche di loro. L’avevano ben meritato, vista l’età, ma erano
sempre meno numerose, poiché molte suore, che avevo conosciuto al
collegio, erano già andate in pensione e tornate alla Casa madre in Italia.
Gabriella: Nessun contatto con nessuno, perché dopo il “preventorio” sono tornata in Italia e vi sono rimasta con la nonna. Vedevo i miei
solo l’estate e a Natale. A 15 anni li ho raggiunti. Ho lavorato in
Svizzera senza essere dichiarata fino a 18 anni, quando ho potuto ottenere il passaporto. A 22 anni mi sono sposata con un emiliano conosciuto al lavoro.
Tina: Sì, ho conservato i contatti con le suore che sono qui e anche
con gli amici.
20. Secondo te l’esperienza vissuta al Grand-Saconnex è stata positiva o negativa e in che cosa?
Irma: L’esperienza è stata positiva, ho imparato bene il francese,
ricordo che alla fine della 7a ho ricevuto un premio. Non potevo avere
grandi ricompense, perché non conoscevo ancora bene la lingua, ma
Monsieur Stengel mi ha dato il premio di “consolazione” per le mie
attitudini.
Giuseppina: L’esperienza è stata positiva. Ho visto un altro modo di
vivere e mi piaceva essere con tutti i bambini.
Angela: Esperienza positiva, perché penso mi abbia permesso di
capire quello che non volevo.
Silvana: Esperienza positiva. In negativo avevo solo il fatto che,
purtroppo, bagnavo il letto e mi vergognavo molto. Allora la mattina
104
1962. Prima comunione con padre Angeli
coprivo con il lenzuolo, ma le lenzuola si cambiavano e… ahimè!!!
Marianna: Per me il soggiorno è stato molto positivo. Ho imparato
a vivere in comunità (con tutto quel che sottintende la convivenza) e,
soprattutto, ho imparato a farmi la mia personale opinione. Gli adulti
erano suddivisi in tre gruppi: i genitori, le suore e i maestri. Strano,
dicevano tutti cose diverse sugli stessi argomenti. Sono stata costretta
a farmi le mie opinioni e a riflettere in modo indipendente. E poi, personalmente, avendo una madre tirannica, quei 6 anni sono serviti ad
allontanarmi da lei e in qualche modo mi hanno sottratto alla sua
influenza, ed è stato benefico.
Betty: Non so cosa dire. Per tanti anni ho pensato che ero andata
abbastanza in Chiesa. Adesso faccio parte di una corale e cantiamo
durante le messe e le feste religiose.
Maria: Quello al collegio è stato un periodo della mia infanzia, niente più.
Mario: L’esperienza è stata positiva per l’educazione. Le suore mi
hanno insegnato le regole dell’educazione e a essere tollerante. Ma
105
verso di loro ho un po’ di rancore, vista la severità. Inoltre, è stato
molto duro per me non vedere i miei genitori. Venivano a trovarmi in
collegio, la domenica e andavo nella cameretta dove alloggiavano solo
a Pasqua e a Natale.
Gianna: L’esperienza è stata positiva forse perché ha permesso a
mia mamma di lavorare più tranquillamente.
Carmine: Per me dico che, malgrado tutto, è stata un’esperienza
positiva. Mi sono spesso posto questa domanda: «Cosa saremmo
diventati se i nostri genitori non avessero avuto la fortuna di affidarci a
questo genere di istituto che ci prendeva in carica durante tutta la settimana?». Con il senno di poi, mi rendo conto che i miei genitori hanno
fatto un enorme sacrificio, poiché avevano piccoli stipendi. Non bisogna dimenticare che gli italiani erano molto sfruttati a quell’epoca, per
me e mia sorella dovevano versare 480 franchi al mese e questa somma
rappresentava un terzo di due salari cumulati. È un’esperienza che
paragono oggi alla trasmissione italiana di Canale 5 Grande Fratello.
Quando racconto come è trascorsa la mia infanzia, le persone ascoltano, ma non si rendono veramente conto di ciò che ha rappresentato il
fatto di essere rinchiusi in un ambiente ecclesiastico per tutta l’infanzia. Sì, siamo stati allevati bene, ci hanno inculcato valori veri. I bambini usciti dal Grand-Saconnex sapevano come comportarsi in società.
In sintesi posso dire che oggi il Grand-Saconnex si merita, ma sfortunatamente c’è anche il rovescio della medaglia, almeno per quel che mi
riguarda, ed è che a partire dai cinque anni si ricercano delle attenzioni che questo genere d’istituzione non può offrire; è questo che ci è
mancato!
Tina: Esperienza sia positiva che negativa. Ho imparato a lottare
nella vita.
Gabriella: Esperienza positiva poiché mi ha permesso di vivere con
molti bambini. È mia madre che ha sofferto perché ogni volta che veniva a trovarmi le facevo il muso. Probabilmente le rimproveravo l’abbandono settimanale.
21. Sei soddisfatto della tua vita attuale? Quale mestiere hai svolto
o svolgi?
Irma: Sì, tanto. Sono sposata da 42 anni e molto felice. Ho avuto una
vita professionale riempita e interessante e dal 2004 siamo andati in
pensione. Ora abbiamo molte attività che ci appassionano. Sono legata
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ai miei nipoti che mi danno molte soddisfazioni.
Giuseppina: Sì, sono soddisfatta.
Oscar: Certo che sono contento della mia vita attuale: ho un bel
lavoro, due belle figlie e due nipotine che vivono tutte a Ginevra! Dal
punto di vista professionale, venticinque anni fa circa, dopo aver svolto per 15 anni l’attività di elettricista, ho deciso di migliorare e mi sono
iscritto a l’Ecole d’ingénieur (lavorando e studiando contemporaneamente), che ho terminato in 5 anni. Ora ho un ottimo lavoro presso lo
Stato, nella mia città di adozione.
Angela: Sì, sono soddisfatta. Ho cominciato come contabile in una
piccolissima ditta e ho terminato in una banca come capo servizio, con
un diploma di quadro.
Silvana: Sì, molto contenta. Sono ritornata in Italia, vicino a me c’è
mia madre, papà purtroppo è mancato nel 2007. Sono rimasta vedova
nel 1991, i miei due figli sono residenti a Ginevra, hanno una bella
sistemazione, non sono ancora nonna, ma spero di esserlo presto. Vivo
in Italia con il mio nuovo compagno e faccio volontariato.
Marianna: Direi di sì, sono contenta. Sento, però, che il vissuto dell’emigrato ti lascia un’insicurezza legata all’età e al momento dell’arrivo. All’inizio sei in posizione d’inferiorità. Non sei a casa tua, non
parli la lingua, non sei vestito come gli altri, non hai la stessa religione, ecc… e alla fine ti rimane, come una seconda natura, un’insicurezza quasi costituzionale. Ti trovi sempre a relativizzare e ad argomentare…. Vedo che i miei cugini rimasti al paese sono molto più categorici di me. E non penso che sia solo una questione di carattere. Dopo
l’Università ho svolto la professione di medico. Dai miei pazienti ho
ricevuto vari attestati di stima.
Betty: Sono molto soddisfatta della vita attuale, ne apprezzo ogni
istante e tutte le mattine ringrazio il cielo di aver una casa tutta mia,
avendo conosciuto l’insicurezza, in particolare le andate e ritorno,
senza mai sapere cosa sarebbe potuto accadere. Dopo aver vissuto in
camerette, con tutti gli inconvenienti che ciò comporta e abitare a casa
d’altri, avere infine una casa propria è un bene prezioso. Inoltre, ho
sposato un uomo di una gentilezza estrema, che ha circondato la mia
famiglia del suo affetto ed è sempre stato cordiale con tutti. Per quel
che riguarda il mio percorso professionale, dopo aver terminato la
scuola di commercio, la direttrice mi ha raccomandato al padrone di
una società ginevrina, che si è impegnato ad occuparsi di tutte le pra107
tiche per farmi ottenere il permesso di lavoro (un vero percorso a ostacoli). Ho lavorato in questa società in qualità di segretaria-contabile
dal 15 giugno 1957 al 30 giugno 1973. Avendo poi ottenuto la nazionalità svizzera, sono stata assunta dallo Stato di Ginevra, dove ho continuato e terminato la mia carriera professionale. Ho avuto il privilegio di occupare un posto interessante. Ho amato il mio lavoro e sono
andata a lavorare ogni giorno con entusiasmo e gioia.
Maria: Sì, sono soddisfatta. Al mio ritorno dall’Inghilterra ho avuto
la fortuna di essere assunta all’aeroporto di Ginevra. Ho lavorato 44
anni a contatto con il pubblico. Ho amato questo lavoro. Credo di essere stata apprezzata, perché raggiunta l’età della pensione, la Direzione
mi ha pregato di continuare. Ho fatto due anni supplementari e ho terminato a tempo parziale. Ho molto viaggiato, visitato tutti i continenti
ed ho continuato anche in pensione. Adesso ho un po’ di problemi a
camminare. Ma come dice il proverbio: “quello che non ha nulla non
ha che da aspettare”, sfortunatamente.
Mario: Sì, sono contento di ciò che ho realizzato.
Gianna: Risultato positivo. Certo si può fare meglio, ma anche peggio. Ora sono funzionaria.
Carmine: Sì. In conclusione sono abbastanza soddisfatto della mia
vita attuale. Mia moglie, di origine siciliana, ha trascorso anche lei un
anno in questo collegio. Ci siamo solo incrociati: io uscivo e lei entrava. Ci siamo voluti sposare nella chiesetta del Grand-Saconnex. All’età
di 31 anni, il mestiere di elettricista che praticavo dai 17 anni non mi
ha più interessato. Ho stoppato per seguire una formazione di due anni
come specialista in telecomunicazioni. Ho avanzato di vari gradi prima
di raggiungere quello attuale, sempre in seno a questa società. Faccio
parte di un team che ha come compito principale quello di aiutare i tecnici (Helpdesk) quando si hanno grossi problemi sulle centrali telefoniche presso clienti come le grandi banche che posseggono fino a
10.000 numeri interni. Facciamo anche formazione sui nuovi prodotti
che escono sul mercato e, a questo proposito, il mio italiano è molto
apprezzato dai colleghi ticinesi. Sono, tra l’altro, anche responsabile
del prodotto DECT (telefonini utilizzati dalle grandi società), responsabilità che condivido con un collega nella Svizzera tedesca che si occupa dei problemi delle persone che parlano tedesco ed io di quelle che
parlano italiano e francese, questo per tutto il territorio svizzero.
Gabriella: Sono soddisfatta a metà, perché ho fatto solo la casalin108
ga. Mi sono sposata con un uomo che, partito dal nulla, è riuscito a
creare una propria impresa. Però ho potuto allevare tre bellissimi figli
(due femmine e un maschio) che mi hanno dato quattro nipotini. Non
si può avere tutto dalla vita.
Barbara: Molto contenta. Ho lavorato in un ufficio internazionale a
Ginevra prima di trasferirmi definitivamente in Italia. Poi per un’altra
multinazionale francese a Milano e a Roma. Successivamente mi sono
sposata con un molisano e sono andata a vivere in provincia, in una
città del centro dove mi trovo bene e dove ho svolto varie professioni
come quella di traduttrice ed insegnante prima di fare quella di giornalista per varie testate, in particolare per l’Agenzia ANSA, l’agenzia di
stampa più importante d’Italia. A Campobasso sono perfettamente integrata nel tessuto sociale e culturale della città.
Tina: Sì, sono molto soddisfatta della mia vita attuale. Ho lavorato
come segretaria ed ora ho smesso per libera scelta.
22. Hai preso la nazionalità svizzera? Se sì, quando e perché?
Irma: Sì, ho preso la nazionalità svizzera quando mi sono sposata
nel 1967, perché mio marito aveva tanta paura che se avessi tenuto la
nazionalità italiana un giorno avrei potuto essere obbligata a ritornare
in Italia. A quei tempi con gli emigrati c’erano tante polemiche (legge
Schwarzenbach).
Oscar: Ho preso la nazionalità svizzera, perché è il miglior modo
d’integrarsi. Ma la cosa più importante è che non capivo per quale
motivo non avevo diritto di decidere come cittadino, mentre ero in
Svizzera dall’età di cinque anni e pagavo le mie tasse come tutti. Per
me è l’unico modo per esistere. Ora abbiamo accordato il diritto di voto
agli stranieri residenti, e mi sembra perfetto così. Inoltre la legge sulla
doppia nazionalità è stata una cosa davvero importante che ci ha permesso di non “tradire” la nostra origine.
Betty: Appena ho potuto, ho ripreso la mia nazionalità italiana, poiché in fondo ho conservato una tempra che vibra quando sento o leggo
certe cose.
Maria: Sì, ho preso la nazionalità svizzera per non avere più problemi burocratici. Ho potuto così viaggiare, partire, ritornare a mio gradimento e avere un porto d’attracco.
Marianna: Dopo aver sofferto la xenofobia degli anni ’60, mi sembrava illogico “passare dall’altra parte”. Ci sono volute le riunioni con
109
i vecchi compagni di scuola del 2004, di cui sono stata una delle organizzatrici, ed una presa di coscienza per fare il passo. Sono svizzera dal
settembre 2007! Dunque, dopo 47 anni che sono in questo paese. Va
bene che ho sposato uno straniero (un danese), che non può avere due
cittadinanze e che vuole mantenere la propria nazionalità a cui è legato. Ho comunque dovuto aspettare che la legge svizzera permettesse
l’acquisizione individuale della cittadinanza ai membri di una famiglia
(prima era impossibile perché l’acquisizione di una cittadinanza riguardava l’intera famiglia). L’avrei fatto prima?
Mario: Sì, ho preso la cittadinanza nel 1974, era per l’avvenire dei
miei figli e per il lavoro.
Gianna: Ho preso la cittadinanza a trent’anni per cause familiari.
Carmine: Mia moglie è nata in Svizzera ed anche lei ha genitori
emigrati e, dopo lunga riflessione, nel 2005 abbiamo avviato la procedura per la naturalizzazione. A questo proposito, senza trattamenti particolari, l’abbiamo ottenuta nel 2007. Per certi lavori “chiave” in
Svizzera assumono solo personale svizzero. Quando mi hanno ingaggiato, l’impresa attuale era statale e il 90% delle persone che vi lavoravano erano svizzere, la società era la PTT (poste e telegrafi). Dal 2000
c’è stata la liberalizzazione e la PTT ha cambiato statuto divenendo una
impresa privata. Sono passato da un lavoro di “funzionario di stato” a
quello privato. Quando all’epoca ho proposto la mia candidatura al
posto di specialista, per semplificare la formazione, la società cercava
degli elettricisti con CFC (Certificat fédéral de capacité). Riempivo
perfettamente le condizioni e sono stato assunto malgrado il mio permesso di soggiorno “C”. Continuavo, quindi, a pensare che non c’era
urgenza di naturalizzarmi. In fondo, quello che ci ha fatto cambiare
idea è che dobbiamo quasi tutto alla Svizzera. Non ho fatto il militare
in Italia, e questo è il caso di molti miei compatrioti (poiché figli di
residenti all’estero), né in Svizzera, perché nel 1974 ero ancora italiano. Non abbiamo mai partecipato a livello politico agli affari italiani,
eravamo più sensibili ai problemi svizzeri e, dunque, più all’ascolto. È
la Svizzera che ci ha dato il lavoro, poiché l’Italia non ha recuperato gli
immigrati (vedi le generazioni seguenti). Oggi non avremmo nessun
vantaggio a vivere in Italia, anche a livello sociale. Mio padre è deceduto all’età di 81 anni, la Svizzera con gli accordi bilaterali ha accettato il ritorno di nostra madre sul proprio territorio (rassemblement familial). Le nostre madri rispettive sono in Svizzera, tocca a noi ora occu110
parcene come loro hanno fatto con noi. Praticamente tutti i membri
della mia famiglia attualmente in Svizzera sono naturalizzati, a parte le
mamme, ben inteso. Per cui, per non perdere i nostri diritti, questa è
stata la grande decisione.
Gabriella: No, non ho preso la cittadinanza, perché dopo 29 anni di
lavoro in Svizzera, abbiamo deciso di ritornare in Italia, il sogno di mio
marito che vedeva l’Emilia, la sua regione, diventare sempre più ricca.
Anche i miei figli, nati in Svizzera, erano contenti di ritornare in Italia.
Stavamo costruendo una bellissima casa a Scandiano e a Ginevra più
nulla mi tratteneva, dal momento che anche i miei genitori erano già
rimpatriati da qualche anno. Una scelta di cui nessuno di noi si è pentito, sia mio marito che i miei figli si sono potuti realizzare, anche se il
primo anno non ho fatto che piangere in quanto mi sentivo sola. In
seguito anch’io ho potuto assaporare il buon vivere italiano.
Tina: Ho preso la nazionalità svizzera quando ho smesso di lavorare, ma non per necessità.
23. Al giorno d’oggi si discute in Italia se inserire i bambini di emigrati che non conoscono la lingua italiana in una classe speciale per
una durata limitata al fine di insegnare bene la lingua prima di
introdurli in una classe normale. Che ne pensi?
Irma: Non c’è la necessità, i bambini si adattano e imparano in fretta.
Giuseppina: Mi sembra giusto il passaggio in classi speciali, perché
è difficile per tutta la classe quando non si parla la lingua.
Oscar: Il miglior modo di integrare i genitori è quello d’integrare i
figli. Essi sono capaci di imparare le lingue rapidamente. Inoltre i bambini autoctoni si abituano agli stranieri e finiscono per capirli meglio,
se non è subito, è più tardi. In qualche modo, ognuno fa un passo verso
l’altro, c’è uno scambio win-win, come si dice qui.
Angela: Non penso che la classe speciale sia la soluzione per una
buona integrazione, piuttosto corsi di lingue per i bambini stranieri
nelle scuole normali e superiori.
Silvana: Penso che i bambini imparino e si adattino in fretta, quindi, niente classe speciale. Sono i genitori che dovrebbero imparare la
lingua, è il modo migliore di adattarsi alle nuove abitudini.
Marianna: E’ stato tentato al Grand-Saconnex. Hanno fatto una
classe dove c’erano solo italiani. È stato un fiasco e l’esperienza è durata poco. Penso che un ragazzo impara di più e più facilmente se si sente
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in obbligo di adattarsi ai ragazzi che gli stanno intorno e lo stimolo è
più forte se si sente solo o in minoranza. Se si fanno dei "ghetti" con
classi di 15-20 alunni, tutti della stessa nazionalità, questi non avranno
nessuno stimolo per imparare la lingua del nuovo paese e può anche
essere sgradevole se non pericoloso per un professore che non conosce
la lingua d’origine dei ragazzi. L’immersione è il miglior modo secondo la mia esperienza, ma è vero che richiede un po’ più disponibilità da
parte dei maestri e dei coetanei della classe.
Betty: Non ho pareri al riguardo, ma constato che i genitori pensano
che è la società che si deve far carico dell’educazione dei loro figli,
quando loro stessi, spesso, fanno ben poco, benché abbiano sia il tempo
che i mezzi.
Maria: Non ho un’opinione al riguardo della classe speciale. Invece
trovo che gli stranieri in Svizzera, adesso, hanno tutti i diritti: mendicità, traffico di droga, delitti di tutti i generi. Alla nostra epoca, invece,
“lavorare e tacere, non farsi notare”, era il nostro credo. Attraverso la tv
e i giornali vedo che anche l’Italia si trova in una situazione difficile.
Mario: Penso che la classe speciale vada bene.
Gianna: Non sono d’accordo, gli immigrati si sentirebbero discriminati fin dall’inizio.
Gabriella: Non sarebbe sbagliato metterli in una classe speciale.
Carmine: Sono d’accordo, quella della classe speciale è una saggia
decisione a condizione che i ragazzi siano seguiti da professori che parlano la loro lingua e che sono già ben integrati in Italia. Ma per favore,
non con le suore, non ho nulla contro di loro, ma se deve essere con
loro, queste devono aver seguito una formazione pedagogica.
Tina: Penso sia una buona cosa la classe speciale. In questo momento, però, ci sono troppi problemi con gli emigrati in Italia. Non tutti riescono ad integrarsi come abbiamo fatto noi in Svizzera.
Domenico: A questo riguardo, rispondo così: mia moglie è venuta
tardi in Svizzera e l’hanno messa in una classe normale. Poiché viveva in
campagna, ha dovuto sbrogliarsela da sola. Suo fratello è venuto tre o
quattro anni dopo, l’hanno messo in classe d’accoglienza con quelli che
non parlavano il francese e ha avuto la possibilità d’integrarsi bene, per
poi iniziare un interessante apprendistato. Il colmo è stata mia figlia.
Infatti, fin da piccola, insieme ai componenti della famiglia, le abbiamo
voluto sempre parlare sia in italiano che in dialetto. Alla prima infantile
la maestra disse: «Holala, bisogna metterla in una classe di francese!».
112
Ed è così che ha imparato immediatamente due lingue. Per cui, secondo
me, bisogna mettere i figli di emigrati in classi speciali il tempo necessario per imparare bene la lingua, non è una questione di razzismo, ma di
integrazione. E magari in Italia, qualche italiano potrà dire ad un extracomunitario: «Gli ignoranti sono i nostri figli che parlano una sola lingua, non come i vostri che ne parlano minimo due». Questa frase me l’ha
detta un collega di lavoro e sono abbastanza fiero di quello che ho fatto
per non perdere la lingua italiana e tramandarla ai miei figli.
113
Commenti sul questionario
A questo punto, vorrei ritornare su quanto è emerso dal questionario.
Le risposte sono uno spaccato della vita che facevamo in collegio:
disciplina, religiosità, orari rigidi, ma anche socialità, giochi ed il sabato, per i più, un salto a casa per ritornare infine bambini come tutti gli
altri… o quasi, perché comunque anche lì potevamo solo sussurrare. Le
testimonianze fanno anche capire gli adulti che siamo diventati. Sono,
per esempio, d’accordo con Carmine quando dice che in collegio abbiamo acquisito la capacità di essere sempre attenti ai problemi di quelli
che ci circondano, amabili e concilianti. Tanti sono gli elementi positivi
emersi, anche se ce n’è uno negativo che accomuna quasi tutti: l’insicurezza. Sono molti, infatti, quelli che, malgrado mille prove dimostrate delle loro capacità, continuano a ritenersi inadeguati, forse a causa
anche di una problematica integrazione scolastica. Al riguardo, va riconosciuto il merito di Madame Adert e Madame Cartier. E’ difficile dire,
però, se l’integrazione sia avvenuta solo grazie alla bravura di queste
maestre o anche al traghettamento della lingua attraverso una classe speciale composta da soli alunni italiani. Il maestro Stengel precisa che
queste classi sono state costituite, perché non si aveva altra scelta.
Il rapporto con le suore, come si vede, nell’insieme, è stato buono;
certo, qualche sbavatura non è mancata. L’imparzialità non era il loro
forte. Ciò era dovuto principalmente alla compatibilità caratteriale di
ogni singolo individuo, come nel caso delle sorelle Covolo: suor Lucina
ritiene Maria “il suo braccio destro”, mentre offende Betty chiamandola “gatta morta”. Anche la storia di Mario è esemplare, poiché viene
espulso per un fatto banale – che oltretutto non ha commesso – ma che
rappresenta, agli occhi delle suore, un peccato gravissimo. Eloquente è
anche la storia di Tina che racconta del bambino che non voleva bere il
latte. C’è indubbiamente, da parte delle monache, l’evidente difficoltà
nel gestire tanti bambini messi insieme e, dettaglio non da poco, il condizionamento dovuto alla mentalità dell’epoca. Non bisogna dimenticare il motto che regnava sovrano in quasi tutte le nostre famiglie: “o
mangi questa ministra o salti dalla finestra!”.
Dal questionario è risultato anche che i figli unici come Giuseppina,
Domenico o Marianna hanno accettato meglio degli altri la vita in collegio, perché nei tanti ragazzini hanno trovato amicizia e solidarietà. Mi
sembra poi di cogliere anche una differenza tra maschi e femmine
riguardo alla disciplina: le suore erano molto più severe con i primi,
forse perché le femminucce erano più ubbidienti?
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Una cosa sorprendente, che non avevo mai valutato, è che molti bambini, che non avevano frequentato le scuole in Italia e che non conoscevano la loro lingua madre, grazie al catechismo, hanno imparato a scrivere e a leggere l’italiano proprio in collegio!
Il fatto più spiacevole accaduto al “Regina Margherita” è senz’altro
la contaminazione da tubercolosi di una trentina di ragazzini a causa di
una suora infetta. Era il ’56-57, come ha raccontato Gabriella.
Purtroppo erano anche anni in cui imperava una grande ignoranza e
questo fatto è da mettere sul conto della sprovvedutezza delle suore
che, pur sapendo della consorella ammalata, non furono in grado di
prevedere l’ampiezza del contagio e di immaginarne le conseguenze.
Questo fatto è stato loro rimproverato da ex collegiali contagiati anche
durante l’incontro del 2004. Torno a ripetere, però, che le suore hanno
avuto un grande merito che va loro riconosciuto.
Non posso trascurare ancora di valutare il modo che ognuno di noi ha
di vedere le cose e le reazioni all’incoraggiamento. Il datore di lavoro
della mamma di Tina, per esempio, con la sua petulanza, le ha permesso di convogliare tutta la sua energia sull’apprendimento della lingua.
Mentre Betty e Maria sono state stimolate all’apprendimento del francese dalla grande disponibilità di Madame Maurice.
È importante ricordare che i ragazzini del collegio si sono guadagnati, nel tempo, presso la popolazione locale, la reputazione di bambini diligenti, ubbidienti, educati, rispettosi delle regole, confermata
anche dal maestro principale Stengel, che sembra ammirare questo
comportamento e che non ha quindi nulla da rimproverare agli scolari
italiani. Lo dimostra anche la reazione della mamma di Danielle, l’amica di Angela, che abitava in una bella villa nelle vicinanze del collegio.
Mentre in un primo momento le proibisce di frequentare i bambini italiani, perché pensa siano piccoli delinquenti, finisce poi per ricredersi
ed affidare la bambina più piccola proprio alle suore per farle fare il tragitto della scuola insieme ai loro convittori.
Il tema del guadagno, toccato sia da Tina che da Carmine, è certamente interessante. Una paga di 5 franchi al giorno e, quindi, di poco più
di 150 al mese era davvero misera. Tuttavia, i nostri genitori in Italia non
avrebbero guadagnato tanto anche perché, in Svizzera, il lavoro c’era
per entrambi: al loro paese no. Molti emigrati svolgevano anche tre
lavori alla settimana contemporaneamente (12-13 ore di lavoro al giorno), in modo da poter raggranellare una somma apprezzabile. Circa 240
franchi al mese era anche il costo sostenuto per ognuno di noi nel colle115
gio. Erano pochi? Erano tanti? Per l’impegno profuso dalle suore non
erano tanti, ma per le tasche dei nostri genitori, sì!
Per quel che riguarda l’acquisizione della nazionalità svizzera, va
detto che offriva indubbiamente vantaggi importanti. Da quel che è
documentato, si capisce quanto fosse grande l’attaccamento al paese
d’origine dell’emigrato che, malgrado in Svizzera avesse costituito la
sua nuova famiglia con la nascita dei figli e vi lavorasse da decine di
anni, non si decideva a fare questo passo, perché non riusciva a recidere le sue radici, tanto più che al nuovo cittadino elvetico era richiesta la
restituzione del passaporto italiano. Una grave umiliazione per lui che
sentiva montare un sentimento di tradimento verso la patria che gli
aveva dato i natali. Al riguardo sono emblematiche le riflessioni di
Marianna e Carmine.
La doppia nazionalità ha senz’altro favorito l’acquisizione di quella
elvetica da parte degli emigrati rendendoli partecipi della vita sociale,
culturale e civile del paese.
A questo punto si potrebbe parafrasare quanto ha detto Annie Cordy,
una celebre cantante belga che vive e ha fatto fortuna in Francia: «Mon
pays est la France, ma patrie la Belgique, je ne pourrais jamais renier ma
patrie!» (il mio paese è la Francia, la mia patria è il Belgio, non potrei
mai rinnegare la mia patria).
Che differenza passa tra gli emigrati di allora e quelli di adesso? I
punti in comune ci sono: le stesse tribolazioni per il lavoro, il doloroso
distacco dalla famiglia e dalle abitudini, lo stesso amore per la patria
abbandonata. A questi punti convergenti, però, si aggiungono grandi differenze, essenzialmente di mentalità e di “tempi”: la nostra emigrazione
era “silenziosa”, non conosceva minimamente i propri diritti. Noi italiani facevamo sforzi enormi per integrarci, per capire le regole ed adeguarci, per far dimenticare agli autoctoni di essere stranieri. Non avevamo il
telefono in casa, non leggevamo i giornali e, per risparmiare, andavamo
solo una-due volte all’anno in Italia, anche se era relativamente vicina.
Ora – come commentano in molti – si ha l’impressione che una parte
di questi nuovi emigrati, senz’altro scolarizzati e medializzati e, dunque,
informati delle leggi, diversamente da noi, conoscano di più i propri
diritti che i doveri. Grazie al telefonino sono sempre in contatto con i
loro cari e l’aereo low cost permette loro di ritornare al proprio paese
con facilità. Da quando, poi, l’Unione Europea si è costituita, si sono
aperte anche le frontiere mentali: le nuove generazioni non si sentono
più straniere da nessuna parte.
116
-VIIIStorie di vita
Domenico Donato De Donato
i chiamo Domenico Donato de Donato, ma per i miei genitori sono Minguccio, per mia moglie e i miei figli Mick, per il
mio miglior amico DeDon, per certi amici svizzeri Donald e per le
suore e gli amici italiani Donato. Dunque tutti i nomi vanno bene.
Sono nato nel marzo 1956 a Masciano, una frazione del comune di
Ariano Irpino nella provincia di Avellino.
Questa contrada è situata sul dorso di una collina, una sola strada
l’attraversa e non ha sbocchi, le case erano e sono costruite da una parte
e dall’altra, ci abitano una quarantina di famiglie.
Le loro risorse sono sempre state il lavoro della terra con buoi e muli
per arare, semina e raccolto del grano a mano. L’unico mezzo meccanico era la trebbiatrice che veniva da un vicino paese dopo la mietitura.
Spesso le coppie si formavano con i giovani dei dintorni. E così fu
per i miei genitori. Per poco tempo hanno lavorato la campagna per
quasi niente, poi mio padre è partito per il servizio militare, assegnato
ad Alessandria.
Dal quel momento mia madre è rimasta insieme ai miei nonni e le
cognate. Non so come abbiano fatto, probabilmente durante un permesso, sta di fatto che sono nato mentre mio padre era a servire la nazione,
un avvenimento che gli ha permesso di accorciare il servizio di leva,
perché aveva famiglia a carico.
Al suo ritorno, ha provato a continuare il lavoro della campagna e
qualche lavoretto qua e là, ma per mantenere una famiglia non bastavano le poche lire che guadagnava. Inoltre aveva comperato, malgrado non avesse denaro, un po’ di terra da una zia emigrata in Argentina
e aveva fatto qualche debito, debiti che doveva onorare. Così ha preso
la decisione di emigrare in Svizzera. Vi erano già paesani e non è
M
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stato difficile ottenere un contratto di lavoro.
Le sue prime mansioni, come stagionale, si sono svolte presso contadini nelle campagne Vodesi (Vaud) e Friburgo. Tornava per tre mesi
a casa, con la speranza che il padrone lo richiamasse per la stagione
successiva.
In quel periodo, per lavorare in Svizzera, bisognava passare una
visita medica a Briga e, buon per lui, godeva di buona salute.
Di questo tempo non ricordo gran che, solo che tra le mie occupazioni c’era quella di andare a prendere l’acqua con l’asino Peppino,
perché in casa non c’era, così come non avevamo la luce.
Con mio cugino andavamo a pascolare le pecore: quando una pecora scappava e lui riusciva a prenderla, le morsicava le orecchie fino a
tagliargliele. Non voleva che le bestie scappassero, ma la sua rabbia non
serviva a nulla perché, il giorno dopo le pecore erano di nuovo in fuga.
Un gioco che facevamo spesso era di prendere Bobbi il mio cane e
metterlo nella carriola costruita da mio padre. Però il cane saltava giù,
allora ricominciavamo per ore e ore. Tra gli animali c’era anche
Bianchina, la nostra mucca da lavoro, con Limoncino il suo vitellino.
Quando mia madre non poteva portarmi con sé, mi lasciava da un
suo zio in fondo al vallo, e lì mi sembrava di stare come in una favola,
in una casetta, con il cortile in pietre e, nel bel mezzo, una pozzanghera con l’acqua dove le galline andavano a bere. Mentre sotto un’acacia
gli uomini di famiglia, seduti su un banco, affilavano la falce e accudivano gli attrezzi da lavoro.
Ogni tanto qualcuno mi portava a scuola, non per imparare, ma per
passare il tempo, perché non avevo l’età scolare e tutti dicevano che
dovevo diventare uno “scrivano”, perché avevo sempre in mano uno
stecchino di paglia e facevo finta di scrivere.
Tra i ricordi più vivi c’è quello di un’automobile regalata da una mia
zia. Ero davvero contento, perché a Masciano l’unico mezzo di trasporto era l’asino, l’unica auto vera l’aveva un vicino di casa, così io avevo
la seconda del paese. Dalla contentezza, mi sono seduto sopra e la macchinina ha fatto scrasch: durata 10 minuti! Me la ricordo tanto bene, era
una ”DS” rossa.
In sintesi la nostra situazione era questa: vivevamo in una casa composta da due stanze, di cui una inglobava cucina, camera da letto, salotto, deposito di patate sotto il letto, la cuccia di Bobbi, e di lato, il parco
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giochi di Limoncino appena nato. L’altra era arredata con la mangiatoia
di Peppino e Bianchina, che ogni mattina passavano in mezzo alla stanza principale per iniziare i lavori nei campi. La casa era composta
anche da un camino per riscaldarci e, come arredamento, avevamo un
bipigas a due fornelli per cucinare, un buffet e un letto.
Tutto sommato la nostra ricchezza si chiamava “miseria”, e si capisce quindi che mio padre cercasse il meglio e, in quel periodo, il meglio
per lui era l’estero.
Sono passati sei anni con le andate e ritorno di mio padre, che nel
frattempo aveva ricevuto il permesso di lavoro “B” (annuale) e si era
trasferito a Ginevra. Un lavoro l’aveva e il suo datore gli aveva anche
affittato la casa, e così propose a mia madre di emigrare a Ginevra. Lei
acconsentì ma solo per qualche mese, e a condizione di portarmi con
sé. Non voleva lasciarmi dai nonni, come faceva la maggior parte degli
altri emigrati.
La partenza
A decisione presa, ci sono volute all’incirca due settimane per vendere quello che si poteva vendere. Mi ricordo che Peppino è stato dato
allo zio che mi guardava ogni tanto, Bobbi è rimasto con i nonni e
Bianchina e Limoncino venduti.
A pochi giorni dal mio sesto compleanno si è partiti da Masciano
con un’auto in direzione di Foggia per prendere il treno che ci portava
a Ginevra.
Non avevo mai visto un treno ed ero impressionato, comunque
penso che si sia viaggiato bene fino a Milano, e lì mi sono preso la
prima paura: eravamo nel nostro scompartimento, mio padre ancora
giù, quando il treno di fianco si muove e mi ha dato l’impressione che
era il mio a muoversi…. Ci siamo poi fermati a Briga per la famosa
visita medica.
L’arrivo
Un compagno di lavoro di mio padre è venuto a prenderci alla stazione di Ginevra con la macchina - ed era nel marzo 1962 - per portarci in una casa al “Chemin des Verjus”.
Si vedeva che la casa era vecchia e umida. Comodità non ce
n’erano (come da noi): delle buone coperte, belle doppie e pesanti ci
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riscaldavano la notte. Però quest’abitazione aveva una specie di
prato abbastanza grande dove poter giocare, da solo.
Lo scopo dell’emigrazione dei miei genitori fu di fare qualche
annetto di sacrifici e tornare al paese, e così subito, d’impegno, mia
madre ha trovato un lavoro alla Migros come operaia, e lì certamente
si è posto il problema del figlio che non sapevano a chi lasciare. Poi,
per facilitare le cose, è uscito fuori che le leggi svizzere non consentivano di tenermi con loro: dovevo tornare in Italia oppure in collegio in
Francia.
Per mia madre non era il caso di mandarmi lontano e, secondo i calcoli fatti da mio padre, aveva lavorato il tempo necessario come lavoratore annuale per potermi tenere. Era quindi solo un problema amministrativo. Passato quest’episodio si è saputo della “Provvidenza” a
Carouge, così mi hanno messo lì di giorno per 2 o 3 mesi, e l’unica cosa
che mi ricordo è che un certo Pippo mi ha dato una rigata in testa mentre si faceva la siesta (Pippo lo vedo ancora ogni tanto ma si è dimenticato dell’episodio).
La mattina per mio padre era un sacrificio enorme portare me
all’asilo e mamma al lavoro con una vecchia bicicletta di recupero.
Sicuramente non capivo gran che della situazione, ma per me andava
bene così, perché quando tornavo a casa avevo un triciclo, una macchina a pedali, il cyclorameur (bicicletta), tutti vecchi ma funzionanti, che
mio padre aveva recuperato nella demolizione auto dove lavorava.
Dovevano certamente mancarmi Peppino, Bobbi, Bianchina e
Limoncino, forse il più duro è stato di sentirmi rinchiuso in quel cortile, rispetto a tutto Masciano a mia disposizione.
Non era nel programma che mia madre restasse a casa per badare ai
figli, ha solo me, ma aveva anche tanto lavoro, perché doveva occuparsi delle pulizie e dei pasti per gli altri familiari scapoli (così si faceva).
Tempo passando, un bel giorno le suore della “Provvidenza” parlarono del collegio “Regina Margherita” del Grand-Saconnex, dove sono
stato ammesso sei mesi dopo il mio arrivo. Nell’agosto del 1962 c`è
stato il terremoto in Irpinia ed io, per fortuna, o per destino, non l’ho
vissuto.
Il collegio
Nei miei primi sei mesi a Ginevra non ho avuto nessuno amichet120
to, a parte quelli che vedevo di giorno alla Provvidenza, ma non erano
né vicini di casa, né paesani e tanto meno familiari.
Una domenica sera, dopo tutte le spiegazioni, i miei mi hanno portato al Grand-Saconnex: non avevo mai visto tanti bambini insieme! Da
agosto fino all’inizio della scuola avevo preso il ritmo normale. Il sabato mio padre veniva a prendermi in bicicletta, poi mi riportava la domenica sera. Inizio tranquillo, non so come parlavo, certamente il dialetto
napoletano (più o meno).
Bene, bene, le cose serie cominciarono a settembre, all’inizio della
scuola con Madame Adert, classe italianissima, tutti del collegio. Mi
hanno messo in prima infantile. Già qualche amico me l’ero fatto:
Nuccio, Pietro, Luciano, Luciana, Sandro ecc... non posso ricordarli
tutti.
Giornata tipica
- In piedi verso le sette.
- Fare il letto, vestirsi e lavarsi i denti.
- Preghiera, colazione (eterno caffelatte con il pane dentro).
- Giacca, cappotto, pèlerine, in fila per due e si partiva per la
scuola, si scendeva “le chemin de l’Erse”, poi si attraversava la grande
strada e noi bravi bravi occupavamo tutto il marciapiede (per i piccoli
era così).
- Arrivo nel cortile con qualche sguardo di traverso agli svizzeri.
- Poi rientro in classe.
Il particolare della giornata tipica della scuola era che a ogni ricreazione noi maschietti facevamo a botte con gli svizzeri e anche le ragazzine ci aiutavano: nella scuola eravamo molti bambini del collegio.
In classe con Madame Adert è stato bello, ancora oggi non ricordo
se sapevo o no parlare il francese; per l’italiano le suore si occupavano
bene di noi, insegnandocelo attraverso il catechismo e le preghiere.
Il mio primo anno è passato senza troppi imprevisti, mio padre veniva a prendermi in bicicletta il sabato dopo scuola e mi portava a casa,
passavo il resto giocando con i giochi recuperati.
Un sabato si è presa un’altra direzione per andare a casa e così ho
scoperto la nuova abitazione. Siamo andati ad abitare ad Onex in un
fabbricato ancora più vecchio del “Verjus”. Questa casa la chiamavamo “la Carolina”, perché era situata vicino al Chemin de la Caroline.
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La cantina era piena d’acqua su un’altezza di 30 o 40 centimetri. Ma
per noi non era grave, perché abitavamo al primo piano. Uno zio con la
sua famiglia alloggiava al piano terra, così come altre persone della
provincia di Benevento. Nella casa a fianco abitava una famiglia marchigiana con tre ragazzi un po’ più grandi di me che avevano la fortuna di restare con la famiglia tutta la settimana. Con loro, durante il weekend, si facevano le carrozze e le capanne sugli alberi.
Alla “Carolina” c’era sempre gente e il posto per giocare e, spesso e
volentieri, gli uomini passavano le giornate a giocare a carte o a bocce,
se non avevano qualche impegno di lavoro.
Ogni domenica sera, io pronto con il bagnetto fatto in un grosso catino, due uova a occhio di bue mangiate, e il richiamo di mia madre a
mio padre: «Porta Minguccio al collegio!». Ma la partita di bocce non
terminava mai. Infine, dopo una vittoria o una sconfitta, mio padre,
sulla sua vecchia bicicletta ed io sul seggiolino davanti, via per una
decina o forse più chilometri, per arrivare alle sette e mezzo dalle
nostre brave suore quando il tempo era bello, ma se era brutto, il filobus n. 22 ci portava a Place Bel Air, poi la linea 33 al Grand-Saconnex
e uno o due chilometri a piedi. Con tempo cattivo mi si accorciava il
fine settimana perché ci volevano circa due ore per arrivare. Poi le cose
sono andate meglio, mio zio aveva preso la patente di guida e anche
acquistato la macchina, le partite duravano allora più a lungo, perché
era lui che mi riportava in collegio con tempo bello o brutto.
Il primo anno è trascorso senza vacanze, ma abbastanza tranquillo,
bene integrato nel collegio. A scuola la giornata tipica era sempre la
stessa: imparare durante le lezioni, botte durante le ricreazione, e ogni
tanto le punizioni delle suore, in seguito a quelle subite a scuola. Al collegio, compiti, preghiere, catechismo.
Quell’anno ho conosciuto molti amichetti, le sorelle Agri, i
Mugnaio, Sandro, Pietro, Cesare, Paolo, Luciano e Luciana, Maria,
Nuccio (Carmine), Francesco, Murè, Barbara (dalla macchiolina di
caffè sul naso, la cocca delle suore) e una ragazzina che si chiamava
Nerina: mai avuto notizie.
L’anno successivo, mi hanno messo di nuovo nella classe di
Madame Adert, in prima elementare.
Siamo arrivati all’estate 1963 e lì, dopo più di un anno, finalmente le
ferie, il viaggio si è fatto in treno, ci abbiamo messo 24 ore per arriva122
re. Si abitava dai nonni, e le cose non erano cambiate, ci dovevamo adattare con quello che c’era, i giochi con mio cugino erano sempre gli stessi, ma senza Bobbi, altri ragazzini non ce n’erano, comunque una noia.
Al ritorno dalle ferie ho trovato al collegio tre fratellini venuti dalla
Sicilia, i Coco, Carmelo il grande, Maria e Nuccio che aveva circa 3
anni, e subito è diventato la “mascotte” di tutti. Quando padre Angeli
veniva a servire la messa, se lo sedeva sul palmo della mano. Quando
giocavamo a calcio nel cortile e il pallone lo mandavamo fuori, Nuccio
andava a prenderlo, perché era tanto piccolo da passare tra i montanti
del cancello, e le suore non lo sgridavano.
Carmelo ed io siamo coetanei e ci hanno messo nella stessa classe
con Madame Adert. Siamo diventati subito amici. Carmelo era un
ragazzino che non poteva stare fermo, sempre in movimento e sempre
bla bla...., l’unico momento di tranquillità con lui era l’arrivo dell’eterno caffelatte con il pane. Lo guardavo, e vedevo la sua guancia gonfiarsi. «Carmelo che c’è?», «..Humm humm», «Mah».
In fila per due, Carmelo alla mia destra contro la siepe, e appena
poteva, svuotava quello che aveva in bocca. Dal quel momento
Carmelo più nessuno lo teneva tranquillo, in classe era quasi sempre
punito.
Arrivati all’estate 1964, siamo andati in vacanze con la macchina
dello zio, una “Dauphine”. Partendo di notte, non abbiamo mai trovato
il Monte Bianco e così siamo stati costretti a tornare indietro e prendere la direzione del Sempione. Si viaggiava abbastanza bene quando la
macchina teneva la strada, ma se c’era un po’ di vento se ne andava di
qua e di là. Verso sera siamo arrivati a Firenze e, stranamente, le luci
non si accendevano: abbiamo dovuto passare la notte su una piazzola
di sosta. L’indomani si è ripartiti, ma non ricordo se la dinamo dell’auto era stata cambiata. Poi fino a Masciano tutto ok. Nel periodo di trebbiatura, spesso capitava che arrivati a 300 metri da casa non si poteva
passare, perché trovavamo la trebbiatrice che stava lavorando nel bel
mezzo dell’unica strada del paese! Ogni viaggio che si faceva in quegli anni era come partire in spedizione per l’ignoto.
La terza elementare l’ho fatta con Madame Cartier e con il turbolento Carmelo, come detto nel questionario. In quarta è stato l’anno
della classe mista con gli svizzeri, e lì ho fatto amicizia con qualche
ragazzino svizzero.
123
Qualche altro ricordo
Un cambiamento c’è stato nella giornata tipica; noi maschietti dovevamo lavare i piatti dopo pranzo, perché se lo facevano le femminucce
arrivavamo sempre in ritardo a scuola. Eravamo veloci e organizzati,
perché a noi restava anche il tempo per giocare a pallone.
I nostri genitori dovevano venire a prenderci la domenica dopo la
messa e così, prima delle 10.30, non si era a casa, e si stava poco con
loro. Fortunatamente anche i miei genitori avevano comperato l’auto e
così perdevo meno tempo nei tragitti.
Non conoscevo niente di Ginevra, a parte la strada per andare a
scuola, e le linea del bus 22 e 33 per venire dalle suore, e un bel giorno, stavo poco bene e suor Lucina non mi ha mandato a scuola. Poiché
il mio male non era così grave, mi ha portato con sé dal dentista. E la
povera suora dopo le cure non c’era più con l’orientamento, e mi disse
«Donato, andiamo a prendere il bus!». «Mah, quale bus?». «Che ti ho
portato a fare!». Nemmeno io sapevo dov’ero. Per finire siamo ritornati in taxi, il primo preso a Ginevra.
Tra gli amici ricordo
Sandro, che anche di notte andava nell’armadio delle medicine del
refettorio e beveva le bottiglie di sciroppo per la gola “Sanasol” e mangiava quelle specie di vitamine a forma di cioccolatini, perché erano
buoni.
Nuccio (Carmine tutti pensavano che fossimo fratelli) ed io che ci
lasciavamo una fetta di pane per tre giorni nella cartella, perché mangiato secco era più buono.
Francesco che mi ha morsicato, e l’ho fatto dormire per mezza giornata dalle botte che gli ho dato, ma devo dire che poi suor Lucina e suor
Amelia mi hanno tirato le orecchie ed i capelli e, appena mi toccavano,
facevo finta di piangere.
La cena speciale: «Chi mangia i carciofi?». Io che non sapevo cosa
fossero non li ho presi. A fianco a me c’era Nuccio che me li ha fatti
assaggiare ed erano buoni. Ho chiesto se potevo averne uno: «Ci pensavi prima...». Mi son detto che li avrei mangiati la volta seguente, ma
i carciofi non sono più arrivati.
Ricordo anche Cesare che aveva problemi di incontinenza, e spesso
bagnava il letto. Per punirlo le suore gli mettevano in testa il lenzuolo
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bagnato per tutta la durata del canto del giovedì mattina. Non era certo
così che poteva guarire se era un problema di salute. All’agitato
Carmelo, che per più di 4 anni ha dovuto bere l’eterno caffelatte con il
pane, il suo problema non era il pane, ma il latte che non sopportava.
Potevano sostituirlo con il tè.
Era nel 1966 quando sono partito dal Grand-Saconnex, potevo restare ancora un po’, ma il motivo perché non mi hanno tenuto non l’ho
mai saputo, poiché la situazione familiare non era cambiata, a parte
l’automobile. La casa era sempre “la Carolina” con la sua gente e le
loro abitudini. Tornando a casa, quello che cambiava, è che ero più
grande e potevo spostarmi da solo.
Riassumendo il periodo al collegio, posso dire che mi son trovato
bene, per un figlio unico. Questa esperienza è stata importante per
imparare a vivere con altra gente. Abbiamo ricevuto un’educazione che
forse neanche i nostri genitori potevano darci, e il punto più positivo è
che abbiamo imparato a leggere e scrivere l’italiano e certamente ci ha
aiutato negli anni seguenti.
La mia fortuna è stata che l’insegnamento scolastico me l’hanno
dato Mesdames Adert e Cartier che hanno fatto sì che l’ apprendimento del francese sia stato più facile, senza niente togliere alle suore per
il loro aiuto nei compiti. D’altronde il rapporto con queste ultime è
stato buono, certamente con le punizione quando le meritavo, ma capitava raramente, ogni tanto mi davano anche del bravo.
Nella scuola non sentivo differenza, forse la differenza la facevamo
noi dal fatto di essere parecchi e, per la verità, un po’ di “casino” lo
facevamo.
Infine c’è stato l’anno in cui ho fatto la comunione e la cresima a
una settimana di distanza. Al termine dell’anno scolastico sono tornato
a casa con i miei, alla Carolina.
L’integrazione
Eravamo venuti per tre o quattro mesi e invece sono passati quattro
anni e mezzo ed era l’anno 1967. Alla ripresa della scuola ormai ero in
quinta, il francese lo avevo imparato, e sono andato all’“Ecole de la
Caroline”. Grazie al fatto che c’erano pochi italiani, di cui nessuno del
collegio, ho avuto qualche amico svizzero, ma pochi, perché le nostre
condizione di alloggio non erano cambiate e riceverli a casa non era
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possibile, anche perché entrambi i genitori non volevano. Gli unici
amici che avevo rimanevano i tre ragazzi marchigiani e i nostri giochi
erano i soliti.
Quell’anno ho perso tutti i contatti con i ragazzi del GrandSaconnex: qualcuno l’ho rivisto in occasione delle feste di beneficenza
che la Capella Italiana organizzava.
Da settembre a febbraio del 1967/68 è andato tutto bene, e non sono
stato lasciato a me stesso, la scuola stava vicina, a pranzo c’era sempre
qualcuno che mi faceva compagnia.
Mia madre ha cambiato lavoro passando alla “Budelleria di
Ginevra”. Successivamente il padrone di mio padre è fallito, e così ha
perso il lavoro e la casa. Abbiamo trovato alloggio nelle baracche per
stagionali del Pont rouge e ci siamo trasferiti nel mese di gennaio.
Per fortuna ci siamo stati solo tre mesi. C’era un unico vano: una
stanza per tre persone compresa la cucina, il bagno in comune ed era
una baracca molto umida, poiché i vestiti che indossavamo, la mattina
li trovavamo bagnati. La scelta di trasferirci al Pont Rouge è stata semplice da fare, non ero troppo lontano dalla scuola, circa 4-5 km da fare
a piedi 4 volte al giorno.
Fin dal nostro arrivo, i miei hanno cercato di trovare una casa più
decente. Dopo tante iscrizioni alle Régie, finalmente gli hanno assegnato un appartamento a l’Etoile des Palettes.
L’appartamento de l’Etoile era piccolino con 3 vani, per paura che
ce ne dessero uno più grande e quindi più costoso, mio padre non l’ha
nemmeno richiesto. Dalla nuova casa c’erano sempre 4 o 5 km da fare
a piedi 4 volte al giorno, e anche lì non ho conosciuto quasi nessuno,
né avuto compagni.
Anche la quinta è passata e alla fine dell’anno scolastico dovevo
restare un mese a casa solo, non potevo andare dai nonni, perché erano
ormai anziani e avevano il loro lavoro da svolgere. I miei genitori per
stare tranquilli, mi hanno mandato in colonia alla Coudre per tre settimane. Ho fatto altre conoscenze di ragazzi svizzeri ed è stata una bella
esperienza. Quello stesso anno ho avuto un’altra bella esperienza: per
non trovarmi svantaggiato di fronte agli altri alunni, i miei mi hanno
mandato in classe bianca e così ho imparato a sciare.
Nel frattempo, mio padre aveva trovato il lavoro come livreur, ma è
stata una brutta esperienza, perché la salute ne è stata toccata: dopo la
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sua convalescenza per un intervento chirurgico, si è messo d’impegno
per tornare a fare il lavoro che gli piaceva, il muratore!
L’anno della stabilità 1968/69
Nel cortile dell’ “Ecole des Palettes”, un uomo lungo due metri,
magro come uno stuzzicadenti fa l’appello dei suoi alunni… Tra di me
dicevo: «Non voglio andare nella sua classe...», quando, invece, chiama proprio il mio nome. Rientrando in classe ho rivisto parecchi compagni della colonia, mentre nel cortile della scuola ho ritrovato finalmente l’amico Coco del Grand-Saconnex. Era anche vicino di casa e,
da quel giorno, sono diventato il suo fan, perché giocava a calcio e,
quando potevo, andavo a vederlo alle partite. Per me le cose erano un
po’ diverse, perché il Consolato organizzava corsi d’italiano il giovedì
e i miei mi hanno iscritto con la speranza di prendere la licenza di terza
media, che poteva essere utile in caso di rientro in Italia. Mi hanno
anche iscritto a scuola di musica (ma sono una frana) e così non mi
rimaneva tempo per lo sport.
Per noi ragazzi la nostra integrazione non era più un problema, eravamo in classi miste, i nostri amici erano multinazionali e nel quartiere des Palettes le nazionalità non mancavano.
Del tempo che mi rimaneva del mio giovedì, si andava sulla Plateforme (uno spazio-giochi in catrame) tra i palazzi dove si giocava a calcio, spesso rientravamo con le ginocchia scorticate. Non si capiva perché l’amico Coco, giocatore di calcio all’ala sinistra e anche bravo, il
giovedì doveva essere portiere sull’asfalto! Ad un tratto diceva: «Je
dois rentrer...» e scappava via e, guardando dietro di noi, vedevamo un
cane avanzare piano piano. Aveva una fifa nera dei cani! C’è voluto un
po’ di tempo per scoprire la sua paura.
Cycle d’orientation (C.O.)
Con l’entrata alle scuole medie si entra nell’adolescenza e avremmo
dovuto diventare più seri, perché si doveva cominciare a pensare
all’avvenire. Con due o tre scuole di C.O. vicino, mi hanno messo a
Cayla (St-Jean), noto per accogliere ragazzi non troppo raccomandabili. Ho frequentata la sezione “Generale” G, e la mia professoressa era
anziana ma simpatica, e quello che ricordo è che per farci entrare in
testa il + e – in algebra a ogni lezione faceva forse un chilometro di
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marcia andando avanti o indietro secondo i numeri da sottrarre e da
aggiungere.
Con l’amico Coco quell’anno non abbiamo frequentato lo stesso
istituto, l’hanno mandato a l’ex Necker, una scuola per i ragazzi che
non avevano tanta voglia di studiare, ma che erano portati per le attività manuali. Poiché era un amico della Plate-forme, lo vedevo spesso lì.
Frequentavo i corsi d’italiano e così avevo amici per tutta Ginevra,
ma ci vedevamo soltanto in classe.
Il mio professore d’italiano era Crivelli, e quell’anno ho conosciuto
due ragazzi della provincia di Avellino, ovviamente parlavamo il dialetto e durante la ricreazione giocavamo a carte. Il professore si innervosiva un po’, ma capiva anche che per noi era una noia andare ai corsi,
poi l’unico pomeriggio libero da scuola. Comunque l’anno scolastico si
è concluso con la promozione alla 8ème Generale del C.O. des Voirets
e promosso anche in seconda media.
8ème Generale
Finalmente andavo a scuola vicino casa, il professore Signor Butty,
era una brava persona, ma spesso chiamava mio padre per dirgli che
non andavo tanto bene, che i miei voti scendevano sempre verso il
basso. Sapeva che frequentavo i corsi d’italiano, e così ogni brutto voto
in francese era colpa dell`italiano e ha consigliato a mio padre di farmi
smettere. Ma non era il caso di smettere, dovevo solo impegnarmi di
più per fare tutte e due le cose, senza contare la musica che prendeva
anche lei tempo.
Per superare le difficoltà scolastiche, i miei genitori non avevano
abbastanza conoscenze per aiutarmi, però mio padre mi faceva ripetere il “tedesco”, lui che a malapena sapeva leggere l’italiano. Smettere i
corsi d’italiano quell’anno sarebbe stato un gravissimo errore; andavamo in città al “College Calvin” anche di sera, la mia professoressa era
la signorina Ucelli, una brava donna, capiva al volo le nostre intenzioni: in classe eravamo 40 alunni. Poiché diventava difficile gestire la
classe, decise di farne due: una di 10 e una di 30 allievi. La spiegazione è stata questa: 10 somari (e ne facevo parte), e 30 che avevano invece intenzione di studiare un po’.
I corsi li ho frequentati quasi tutto l’anno, ma i libri sono rimasti
chiusi. A due settimane dall’esame non sapevo se presentarmi o meno,
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ma non volevo nemmeno che i miei genitori sapessero che non avevo
fatto gran che. Che faccio?
La signorina Ucelli mi chiese:
«Allora Donato che facciamo?».
«Non so se mi presento all’esame».
«Fai quello che vuoi, ma se ti presenti e sei promosso vuol dire
che i corsi si possono fare in due settimane».
Mi sono messo d’impegno, ho aperto i libri e mi sono preparato
benino su un solo argomento di ogni materia di cui si doveva passare
l’esame.
Al momento dell’interrogatorio, davanti a tre professori arriva il
tema dell’argomento:
«Allora, Donato, parlami dell’America».
«Mah, l’America non è tanto il mio ramo, parliamo piuttosto
dell’Africa, conosco molte più cose!».
«Va bene!».
E così per tutte le materie.
Il giorno dei risultati ci chiamarono tutti a Carouge, se ricordo bene,
ed io in fondo alla sala a fare lo scemo con altri sei o sette compagni
della famosa classe somara, quando ad un tratto sento il mio nome. Ci
ho messo un po’ per arrivare sul palco a ritirare la pagella.
La signorina Ucelli: «Non ci credevi!», io «Sì sì, signorina, i corsi si
possono fare in due settimane». Senz’altro mi ha dato una buona mano
per promuovermi, lo considero un bell’anno, ho avuto altri compagni.
Malgrado i diversi richiami del Sig. Butty, anche al C.O. sono stato
promosso in 9ème Generale.
La 9ème, l’anno della serietà
Quell‘anno l’insegnante di classe era giovane. Anche il professore di
matematica era giovane e divertente; la sua prima presentazione: «Je
m’appelle Martinoli», facile da ritenere: «Martin au lit» (Martino a
letto). «Non l’ho inventato, l’ha detto veramente lui». Il professore di
disegno, Lucky Luke, era pelato e aveva una mèche di capelli lunghi da
una parte sola e se la faceva passare dall’altra parte, da lì il soprannome.
Questi erano gli ingredienti per passare un buon anno e cominciare
a pensare seriamente a quello che volevamo fare del nostro avvenire.
Del tempo passato con la maestra di classe non c’è stato niente di
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particolare e ricordo che, poverina, attraversando la strada, si è fatta
mettere sotto da un’auto ed è stata assente per un bel po’ di tempo.
Il nostro Martinoli, ha avuto la pazienza di spiegare sempre due
volte le cose, se non tre: mezza classe faceva casino e l’altra bene o
male ascoltava e alla domanda: «Vous avez compris?», «Non rien du
tout». E così la spiegazione ripartiva con il solito casino durato tutto
l’anno. Ero abbastanza bravo alle lezione di disegno, è stata l’unica
materie dove i voti si avvicinavano al sei (il voto più alto nel Cantone
di Ginevra).
La Scelta professionale
È l’anno della scelta per l’avvenire: studio o apprendistato?
Debbo dire che il Cycle d’orientation non mi ha orientato troppo,
certamente non avevo i voti abbastanza alti per studiare, ma non sapevo proprio cosa scegliere delle scuole seguenti: Collège, Ecole de
mécanique, Ecole des arts et métiers, ecc.... Nemmeno i miei genitori
avevano le informazioni per consigliarmi.
Per fortuna mia, da quando ho avuto una matita in mano per disegnare, mi sono sentito a mio agio e, durante i diversi stage che ho fatto
l’ultimo anno, ero attirato dal mestiere di disegnatore, ....ma di che?
Mio padre ha imparato a fare il mestiere di muratore sul terreno, senza
andare a scuola e sapevo che avevano i disegni per costruire le case. Poi
sapevo anche che in Italia il geometra misurava i terreni e costruiva
anche le case, ho imparato questo perché dal terremoto nell’Irpinia del
1962 parecchie case le ha costruite “Gigino lu geometra”. Ho fatto
qualche stage in uffici tecnici della ventilazione, edilizia e disegnatore
di mobili (ensemblier).
Avevo scelto: dessinateur en bâtiments, era questo il mestiere che
corrispondeva di più a quello che volevo fare e, se rientravamo in Bassa
Italia, potevo svolgerlo anche lì. Mi sono messo d’impegno per trovarmi un padrone per settembre, sono stato fortunato, il padrone l’avevo
ed anche vicino casa, ma c’erano degli esami di ammissione.
Eravamo 80 ragazzi a passare gli esami per tre corpi di mestieri di
disegnatori: Edilizia, Genio civile, e Geometra. Risultato dell’esame: non
idoneo per la professione. Perso anche il padrone, e adesso che faccio?
La formazione professionale non mi ha aiutato molto, non mi ha trovato niente di niente. Leggendo i giornali tutti i giorni ho visto un
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annuncio: “Cherche apprentis dessinateur en machines”, «Che sarà?»,
mi sono detto. Ho telefonato, preso l’appuntamento, visitato la fabbrica, e ho visto delle macchine industriali per l’imballaggio di formaggi
“La Vache qui rit”, le leve che si muovevano, il formaggio che colava,
s’impachettava.... Un bel mestiere, un mestiere dove bisogna avere
molta immaginazione e la visione in 3 D, mi avevano detto. Poteva
andare bene, ma mi hanno anche annunciato che c’era l’esame da passare .... Ancora! Per fortuna però eravamo solo due e mi è andata bene.
Frequentando il CEPTA (centro professionale), ho saputo che mi
sono trovato nel mestiere più difficile da imparare facendo l’apprendistato, ed è un mestiere che si posiziona tra il meccanico di precisione
(manuale) e l’ingegnere meccanico (intellettuale). In caso di rientro in
Bassa Italia avrei dovuto cambiare professione.
Ho terminato in cinque anni, di cui un anno pensavo più alle ragazzine che alla resistenza dei materiali.
Spesso penso che se mi avessero dato la possibilità di lavorare nel
ramo edilizia, mi sarei sentito più a mio agio, perché corrisponde di più
al mio carattere, oggi magari avrei un’altra posizione professionale,
perché le scalate gerarchiche sono più facili.
La conclusione di questo capitolo è che il bambino di 6 anni con lo
stecchino di paglia secca che doveva fare “lo scrivano”, si è ritrovato
con una matita in mano per tutta la vita, in una professione che non
sapeva nemmeno che esistesse.
I vent’anni e più
Ormai si era quasi capito, in Italia non si tornava più. Una professione
l’avevo imparata e gli amici me li ero fatti. Come tutti gli altri ragazzi,
non vedevo l’ora di arrivare ai 18/20 anni per comprarmi la macchina. Si
va in città, gli amici cambiano, si conoscono altre persone, ma chissà perché si è formata una cerchia di italiani, quelli come noi venuti bambini e
quelli venuti a Ginevra quasi adulti. Il nostro incontro avveniva al Prater
Bar, La Crémière ...poi si andava a ballare a l’Hit Club a Losanna, alla
Voile d’Or e, la domenica pomeriggio, al Milord. Con tanti amici, del
Grand-Saconnex ne sono rimasti pochi, come se non avessimo più legami, più niente in comune, e poi ognuno stava facendo la propria strada.
Una domenica pomeriggio al Milord incontro una ragazza, carina,
ma seduta, visto la mia statura (160 cm) ho aspettato che si alzasse per
131
controllare la sua: era più piccola di me, allora l’ho invitata a ballare.
Le ho fatto la corte e proposto di uscire insieme, ma la risposta è stata
no. Siamo rimasti amici, ma non ci vedevamo spesso. Nell’anno 197980 ci frequentavamo di più, perché si era creato un gruppetto di ragazzi che si incontravano e che avevano gli stessi interessi.
Una sera di gennaio 1980, c’era la neve e questo gruppetto stava in
città, Maria (la ragazza seduta), aveva un problema di catene da neve
per la sua auto: le ho proposto le mie e le ho proposto anche di creare
qualcosa di serio tra di noi. Mi ha risposto: «Proviamo».
La prova
La nostra prova dura da 29 anni, abbiamo due figli, Deborah e Dario
e, da buoni italiani, li abbiamo mandati alla Provvidenza per il catechismo, per conservare la lingua dei loro antenati. Ormai i corsi d’italiano
erano integrati alla scuola svizzera e, sempre per il motivo di conservare la lingua, li hanno frequentati lì, con la differenza che i professori
dicevano: «Bravi, le lingue sono importanti».
Noi italiani della seconda generazione abbiamo potuto indirizzare,
consigliare e aiutare i nostri figli nelle loro scelte professionali e, debbo
dire, che per Deborah l’italiano le è stato utile per i suoi studi, perché
le ha permesso di accedere alla maturità moderna più facilmente.
Nel frattempo, i miei genitori hanno comprato un appartamento in
paese, a Ariano Irpino, dopo il terremoto dell’80. L’appartamento è
stato venduto e si è iniziato a costruire una grande casa per tre famiglie
in periferia del paese, con la speranza che un giorno ci fosse il rientro
in Italia. La casa non è mai stata finita.
Avanzando con gli anni, quando si andava in Italia, si andava solo a
lavorare per via della casa, più gli anni passavano, più il ritorno era lontano, si è cominciato a vendere i terreni di Masciano, qualche anno
dopo una piccola casa.
Non ho mai pensato di prendere la nazionalità svizzera per via del
servizio militare e nemmeno i miei genitori vi hanno provato a causa di
Schwarzenbach. Anche mio figlio, Dario, non l’ha presa, sempre per il
motivo del militare, solo Deborah si è decisa, lei è un po’ più viaggiatrice e ha voluto assicurarsi il ritorno in caso di partenza.
La decisone
L’ultimo pezzettino d’Italia è stato venduto nel 2007, ormai le spese
132
annue c’erano, i genitori, in pensione, non sono persone che possono
restare 4-5 mesi in Italia con il figlio ed i nipoti a Ginevra. Per i figli
l’Italia è bella per le ferie, quasi tutti gli anni siamo andati giù e hanno
visto il tipo di vita che fanno i loro coetanei, e non è loro piaciuta.
Ancora oggi c’è poco avvenire per i giovani nella zona, eccetto che per
ragioniere o geometra. E anche ai diplomati in questi campi, per lavorare, occorre la raccomandazione.
Nel frattempo abbiamo comprato un appartamento, sia io che i miei
genitori, ma si sa che in Svizzera la casa non è mai tua. Ci sono voluti
48 anni per capire che non si ritornava alle origine. Una scelta senz’altro all’inizio difficile per i genitori, perché la scritta sui cartelli dei
ristoranti “Chien et Rital interdit” (proibito ai cani e agli italiani) era
rivolta a loro, ma hanno capito che la nostra patria non poteva accontentare tutti e che il nostro avvenire era qui.
Della vita attuale sono soddisfattissimo, ho una bella famiglia, problemi di lavoro fino ad oggi non ne ho avuto e svolgo sempre lo stesso
mestiere, a parte che la matita é stata sostituita dal mouse. Maria lavora per conto proprio come parrucchiera, Dario è venditore di automobili, dopo aver fatto il mestiere di meccanico, e Deborah si è trasferita
a Berna per svolgere il suo mestiere di ingegnere paesaggistico.
Attualmente comincio a pensare di prendere la nazionalità svizzera,
ma non per nazionalismo, più per convenienza per il nostro avvenire
prossimo, la pensione, che magari potremo passarla in Italia, con la
possibilità di ritornare in caso di problemi.
Un’esperienza mi mancherà professionalmente: avrei voluto tanto
lavorare con qualche ditta italiana, ma purtroppo non è stato possibile.
L’amico
L’unico contatto del Grand-Saconnex che mi è rimasto è l’amico
Coco. Si è calmato un bel po’ e non ha più paura dei cani: ha avuto
un pastore tedesco di pura razza, era la razza canina che gli metteva
paura da piccolo. Anche lui ha trovato la sua strada, è carrozziere e
lavora per conto proprio, ha una bella famiglia con due ragazzi, un
figlio e una figlia, e una sera, mentre scrivevo questa storia, ho ricevuto un SMS che mi annunciava che era nonno.
Da quando sono nati i bambini, quasi ogni anno andiamo a riposarci a Riccione per qualche giorno e ogni tanto ci facciamo passare qual133
Da sinistra: Nuccio, Donato e Francesco
che divertimento, come andare al Gran Premio di F1 o di moto GP. I
nostri figli non hanno le stesse frequentazioni, ma quando si vedono si
rispettano, finiscono anche le serate insieme qualche volta.
E concludo con una riflessione della figlia di Coco: «Non arrivo a
capire come mai da più di 40 anni siete amici e non ci sono mai state
storie tra di voi». E una di mio figlio: «Se siamo qua dobbiamo ringraziare nonno».
Marzo 2010
134
Storia di una madre emigrata: Armentina Bonini
ono arrivata in Svizzera nel 1957 per raggiungere mio marito
che vi lavorava già da un anno. Aveva trovato per me un posto
di lavoro in un atelier di “couture”. Un posto a metà giornata dove praticamente facevo di tutto: dalle pulizie alla cucitura di capi, alle consegne. Per fortuna la “padrona” era italiana, mentre il marito era svizzero tedesco. La prima consegna dovetti farla solo dopo una settimana dal
mio arrivo. Mi diedero una bicicletta, mi spiegarono il percorso, e via.
Non sapevo nemmeno leggere le targhe delle strade, i passanti a cui
chiedevo non capivano. Poi, per fortuna, trovai un italiano che mi indicò meglio la strada e così riuscii a fare la consegna del mio primo
pacco.
Una volta, a forza di pedalare alla ricerca dell’abitazione dove dovevo portare il vestito, per sbaglio, sono arrivata al confine tra la Svizzera
e la Francia. Meno male che buona parte del Cantone di Ginevra tocca
una frontiera, perché oltre non potevo andare: c’erano i doganieri a fermarmi.
I primi tempi, per orientarmi, memorizzavo certi punti di riferimento come negozi, campanili, alberi particolari. Se ero già passata di lì,
voleva dire che giravo in tondo. Poi, con il tempo, ho imparato i quartieri e le varie vie della città. Successivamente ho cambiato mestiere.
Sono andata a fare la fioraia in uno dei più grandi negozi della città. E
anche lì ero “la bonne à tout faire” nel senso esatto della parola.
Qualsiasi cosa c’era da fare, l’Armentina, detta Tina, era presente: dalla
pulizia della casa personale dei padroni a quella del negozio, alla realizzazione di corbeilles di fiori alla vendita. Tutto, perfino la pittura!
Avevo le mani d’oro e il lavoro non mi ha mai spaventata, ero una vera
macchina da lavoro e, infatti, mi chiamavano: la machine. Inoltre, dal
mondo contadino portavo un forte senso di onestà e lealtà. I miei
padroni (in Italia si dice datori di lavoro, ma la sostanza non cambia)
erano molto contenti di essere capitati con una come me e mi hanno
tenuta fino a quando ho deciso io di ritornare in Italia.
All’inizio Monsieur Vontobel, il fioraio, aveva capito che faticavo a
leggere in francese per cui voleva mandarmi a seguire un corso di questa lingua pagando lui le spese. Come potevo dirgli che avevo altrettanta difficoltà in italiano, poiché avevo fatto solo fino alla terza elemen-
S
135
tare? Certo, l’istruzione è sempre stata il mio più profondo rimpianto.
Mi ricordo che una volta si discuteva in gruppo e il Sig. Vontobel
vantò, con orgoglio, i meriti dei soldati svizzeri che avevano saputo
resistere a Hitler. Gli feci notare che non erano i quattro fucili schierati ad aver fermato l’armata tedesca, ma le casseforti dove i ricchi europei avevano messo in salvo il loro denaro. Rimase colpito da questa
riflessione ed esclamò: «Oh de Dieu, j’y avais pas pensé, sacrée Tina!
(non ci avevo pensato)».
In Svizzera, appena sono arrivata, ho capito subito d’essere l’ultima
ruota del carro, ma la mia era una ruota d’acciaio e i sacrifici che dovetti fare, li feci perché volevo assolutamente migliorare la mia situazione economica, volevo realizzare qualcosa nella vita.
Questo desiderio era poi quello di tutti noi emigrati e non sapevamo
che grazie a questa forza di volontà, indirettamente, con i nostri risparmi, le nostre rimesse, aiutavamo anche l’economia del nostro paese.
Certo, se mi volto indietro vedo che l’emigrazione è stata un pane
duro da mandare giù: sono stata sfruttata, alcuni datori di lavoro hanno
approfittato del fatto che ero emigrante per pagarmi poco, farmi lavorare il doppio, senza nessun contratto sindacale e talvolta non hanno
nemmeno pagato per intero i contributi mutualistici. Ma la cosa che mi
ha più amareggiato nel soggiorno svizzero è stata che ci sentivamo
totalmente abbandonati dalle autorità italiane, proprio noi che aiutavamo l’Italia a risollevarsi economicamente.
Provo tanta tristezza ancora oggi quando penso a quei permessi di
soggiorno che non ci consentivano di cambiare datore di lavoro, che
non ci permettevano di cambiare mestiere ma, soprattutto, che non ci
permettevano di portare i figli a vivere con noi, cosa di cui abbiamo più
sofferto. Ho dovuto lasciare mio figlio di appena tre anni alle cure di
mia madre. Sapevo che avrebbe avuto tutto l’affetto, ma è stato difficile sia per me, separarmi da lui, sia per lei, che ha dovuto prendersi questa grande responsabilità. Ma non avevo scelta, perché senza soldi non
si può vivere decorosamente e io volevo che i miei figli non avessero a
patire quello che stavo soffrendo io. La scelta del collegio è stata obbligata, ma era anche meglio così, perché durante tutta la settimana, quando si lavorava anche tredici ore al giorno, i miei figli potevano vivere
in un luogo protetto e non in mezzo alla strada. E, poi, il sabato ci ritrovavamo….
136
Primi anni ’60. Armentina al lavoro durante le feste di Ginevra
Sono comunque contenta di essere ritornata in Italia. Sono convinta
che se avessi continuato a restare in Svizzera non sarei mai arrivata ai
miei 87 anni, perché a Ginevra la mutua passa un’assistenza medica di
base e per farti curare bene devi essere ricco. Poi qui, nella mia terra,
ho ritrovato la gente che mi somiglia, che ha voglia di scherzare e di
ridere come me e un’organizzazione per gli anziani davvero eccezionale. Vicino casa ho due associazioni dove ho potuto conoscere tanti
amici, passare il tempo con loro ballando e giocando a carte.
Gennaio 2011
137
Et ici, au moins, je peux parler?
“
139
Introduction
“
141
I.
Histoire de l’émigration italienne à Genève
“
145
II.
Histoire de l’internat “Regina Margherita”
du Grand-Saconnex
“
161
A partir des années ’50,
les fils d’émigrés italiens au “Regina Margherita”
“
173
Ecole élémentaire du Grand-Saconnex
et les enfants italiens de l’internat
“
183
V.
L’après-internat
“
191
VI.
Témoignages
Rapport école-internat:
souvenirs du Maître principal
et de la Mère supérieure
“
197
Questionnaire sur la vie à l’internat et à l’école
rempli par le anciens pensionnaires
“
201
“
“
245
245
“
264
Note
“
267
Notes
“
273
Bibliografia - Bibliographie
“
279
Ringraziamenti
“
281
Remerciements
“
282
III.
IV.
VII.
VIII.
Histoires de vie migratoire
- Domenico Donato DE DONATO
- Une mère, Armentina BONINI,
raconte son émigration
284
Barbara Bertolini
Nasce a Viano (RE), un paesino dell’entroterra emiliano. Nel 1959 raggiunge i genitori emigrati a Ginevra. Dopo
aver frequentato le scuole di lingua francese, ha svolto vari incarichi professionali in multinazionali francesi, prima in
Svizzera poi in Italia, dove è tornata dal
1973.
Sposata con un molisano, vive ora a
Campobasso, dove è stata per molti anni
insegnante di madrelingua francese presso le scuole superiori statali
della regione.
Iscritta all’Ordine dei giornalisti dal 1983, è stata corrispondente per
il Molise dell’Agenzia ANSA e de Il Giornale di Montanelli.
Insieme alla collega Rita Frattolillo nel 1998 ha pubblicato
Molisani, milleuno profili e biografie, il primo dizionario completo su
tutti i personaggi di spicco del Novecento del Molise o originari di questa regione e, nel 2007, Il tempo sospeso. Donne nella storia del
Molise.
Indice - Index
E qui, almeno posso parlare?
p.
5
Introduzione
“
7
Si sono ritrovati quarant’anni dopo i figli
di emigrati per riconciliarsi con il proprio passato
“
11
I.
Storia dell’emigrazione italiana a Ginevra
“
15
II.
Storia del collegio “Regina Margherita”
del Grand-Saconnex
“
31
Dagli anni ’50 in poi
e i figli degli italiani al “Regina Margherita”
“
47
e i bambini italiani del collegio
“
57
V.
Il dopo collegio
“
65
VI.
Testimonianze
Rapporto scuola-collegio:
ricordi del Maestro principale
e della Madre superiora
“
69
Questionario d’indagine sul collegio
e la scuola compilato dagli ex convittori
“
75
III.
IV.
VII.
VIII.
Scuola elementare del Grand-Saconnex
Storie di vita
“
- Domenico Donato De Donato
“
- Storia di una madre emigrata: Armentina Bonini “
283
117
117
135
Finito di stampare nel mese di luglio 2011
da
ilmiolibro.it - Gruppo Editoriale L’Espresso