Historica - Bonfirraro Editore

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Historica - Bonfirraro Editore
Historica
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Ringrazio il dott. Claudio Torrisi, direttore dell’Archivio di Stato di Caltanissetta,
e i suoi collaboratori; il prof. Liborio Giunta per il contributo iconografico dell’epoca; i giovani dell’ex art. 23 dell’Archivio Storico Comunale di Barrafranca;
la gentile dottoressa Concetta Patti, autrice di una pregevole tesi di laurea sul
brigante Salamone; la mia alunna Lucia Crocillà, lontana parente del Canzio; il
personale docente e non dell’Istituto Magistrale Statale di Barrafranca che in
modi diversi mi ha collaborato; il signor Giuseppe Lo Verme, appassionato di
storia locale, per il suo disinteressato contributo; i responsabili della ricca ed
efficiente Biblioteca Comunale di Prizzi per l’ampia disponibilità offertami nella consultazione di diversi volumi, alcuni dei quali di difficile reperimento.
In copertina:
Grafica Bose Giesse Comunicazione. Foto: Barrafranca Palazzo Municipale (1910) dalla collezione privata del prof. Liborio Giunta. Per gentile concessione.
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SALVATORE VAIANA
UNA STORIA
SICILIANA
FRA OTTOCENTO
E NOVECENTO
Lotte politiche e sociali, brigantaggio e mafia,
clero e massoneria a Barrafranca e dintorni
Presentazione di padre Ennio Pintacuda
Salvo
Bonfirraro
Editore
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© 2000 by Salvo Bonfirraro Editore - Viale Ritrovato 5 - Barrafranca - tel. 0934.464646
Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy
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PRESENTAZIONE
Il presente lavoro di Salvatore Vaiana è un’accurata ricostruzione degli
eventi sociali, politici ed economici che sono accaduti in un paese dell’interno della Sicilia, Barrafranca, centro agricolo situato in quello che nella consolidata tradizione siciliana è stato e continua ad essere considerato il triangolo, economicamente, più depresso dell’isola e che abbraccia il territorio
delle provincie di Agrigento, Caltanissetta ed Enna.
L’Autore è un puntiglioso ricercatore delle fonti storiche e, prima di
scrivere sui fatti, ha instancabilmente attinto a tutto ciò che c’è di reperibile
e riguarda il paese di Barrafranca. La sua ricerca abbraccia un arco di tempo che va, all’incirca, dal 1882 al 1922. Un periodo, pertanto, che è a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio del presente; un ventennio, circa,
dell’Ottocento ed il primo ventennio del Novecento.
In queste note introduttive, prima di fare alcune brevi considerazioni
che mi sono scaturite dalla lettura attenta del lavoro, desidero per prima
cosa esprimere il mio personale plauso all’Autore perché si è impegnato in
un settore dell’indagine storica che io reputo sempre tra i più importanti e
tra quelli ai quali ci si debba, oggi, maggiormente dedicare.
Bisogna, cioè, recuperare la memoria storica dei fatti sociali, economici
e politici che sono accaduti nelle città e nei paesi della Sicilia dalla metà del
secolo scorso ai nostri giorni. E penso sia necessario studiare, attentamente,
tale periodo attingendo in modo completo ed esauriente alle fonti. Bisogna
ricercare e descrivere in modo disarticolato e particolare gli eventi che sono
accaduti.
Infatti dai vari ed approfonditi spezzoni delle storie locali siciliane si
potrà avere finalmente una completa storia della Sicilia che sia meno approssimativa e distorta di talune che sono state pubblicate e che hanno attinto
soltanto a spezzoni di fonti e, pertanto, a notizie incomplete, con la conseguenza di avere fatto “storie” e non “storia”.
È auspicabile che si moltiplichino innanzitutto i lavori di ricerca delle
storie locali, dei personaggi che sono stati protagonisti degli avvenimenti,
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dei vari soggetti politici dei movimenti.
Per la verità negli ultimi anni c’è stato un certo risveglio in questa traiettoria. Lo storico Giuseppe Carlo Marino, recentemente, ci ha dato uno spaccato
molto approfondito, nel suo volume: “Vita politica e martirio di Nicola Alongi
contadino socialista”, di un periodo della storia di Prizzi ch’è coevo a quello che
Vaiana esamina per Barrafranca. Così pure le commemorazioni fatte a S. Stefano di Quisquina di Lorenzo Panepinto e di Bernardino Verro a Corleone
hanno ridestato il ricordo delle difficoltose azioni di riscatto dei movimenti e
delle persone che ne sono state protagoniste.
Salvatore Vaiana con questo studio prosegue nel solco di queste iniziative e
stimola, con il suo esempio, altri ricercatori ad intraprendere tali fatiche in
modo da accrescere la conoscenza e la valorizzazione dei processi storici avvenuti in Sicilia. Possiamo verificare, in tal modo, quel dubbio che ci attanaglia
talvolta e ci fa temere che ci sia una costante nella storia siciliana per cui viene
bloccato, ad un certo momento, il cammino di sviluppo sociale e si vanifica o si
riduce l’opera degli uomini e dei movimenti che hanno fatto nascere e crescere
una coscienza sociale nella gente emarginata e sfruttata. Una costante per cui,
nonostante i successi ottenuti, divengono perdenti coloro che si sono contrapposti, con successo, a chi detenendo il potere economico, politico, ecclesiastico,
giudiziario lo usano per opprimere i deboli.
Ci sono fatti come tanti di quelli descritti in questo saggio e che, peraltro,
continuano a ripetersi che fanno sorgere il dubbio che ci sia una specie di
atavica condanna per cui chi ha speso la propria vita per il progresso della
Sicilia venga assassinato o messo da parte ed emarginato.
Continua a ripetersi, infatti, l’uso della violenza e dell’assassinio come normale strategia e come strumento per eliminare chi mette in atto tentativi per
far prevalere la giustizia; operare un’equa redistribuzione del potere è per migliorare le sorti delle classi sociali più povere.
Vaiana dedica questo suo libro alla memoria di Alfonso Canzio, ultimo
protagonista del riscatto di Barrafranca il cui assassinio conclude l’interessante
periodo esaminato e pieno d’iniziative e di realizzazioni per il progresso sociale. Un martirio senza quel tributo di gloria che spetta a chi dà la vita a conclusione di una sfiancante guerra di liberazione.
Alfonso Canzio, vicepresidente della Lega di miglioramento, stimato per la
sua irreprensibile condotta e per l’intransigenza nell’affermare la legalità, viene descritto dall’Autore come la figura più autorevole del movimento contadino. Egli nacque il 3 luglio 1872. Socialista componente della Congregazione di
carità, fece aderire la Lega di Barrafranca alla “Federazione delle cooperative
agricole siciliane”.
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La data del suo assassinio è significativa, il 27 Dicembre 1919, quando
aveva appena cinquant’anni. Come avvenne per Alongi e Rumore a Prizzi,
l’attività di Canzio fu stroncata da mano omicida in una piccola strada di
Barrafranca. Dopo questo delitto, con l’amministrazione del Sindaco Onofrio
Virone, abile autore del trasformismo che aveva coinvolto la Lega nel governo
del Paese, si vanificarono i successi elettorali del movimento contadino. Fu
completata l’opera di normalizzazione e si spianò la strada per il passaggio al
Fascismo. Prevalse, ancora una volta, il blocco di potere formato dal ceto agrario borghese, dal gruppo del clero possidente e corrotto e dagli amministratori
che erano subordinati alle famiglie dominanti. Tutti costoro furono dopo legittimati e rafforzati dal fascismo. Con esso non ebbero più bisogno di ricorrere
alla violenza omicida ed assassina. Lo stato totalitario divenne violenza esercitata in ogni aspirazione democratica. Oltre quello di Alfonso Canzio, nello
stesso periodo ci fu una vera falcidie nei paesi della Sicilia.
Il 29 Gennaio 1919 venne ucciso a Corleone Giovanni Zangara, segretario
della sezione del partito socialista, il 21 Settembre a Prizzi Giuseppe Rumore
ed il 29 febbraio 1920, nello stesso paese fu assassinato Nicolò Alongi, presidente della Lega di miglioramento. Giovanni Orcel, segretario della FIOM di
Palermo chiuse, il 14 ottobre 1920, la lista dei martiri.
Il periodo trattato dal Vaiana è quello che vide l’esilio dall’Italia di Don
Luigi Sturzo, sacerdote siciliano, grande statista, esule prima a Londra e poi
negli Stati Uniti, e lo scioglimento del Partito popolare da lui fondato.
Ci fu, anche, l’assassinio dell’on. Giacomo Matteotti e la fine della presenza
del movimento socialista in Italia.
La morte di Alfonso Canzio fece morire a Barrafranca la presenza della
Lega. Soffocò quel che era rimasto di quelle voci coraggiose che riuscirono ad
organizzare non solo i contadini ma anche le donne casalinghe, a farle scendere
in piazza per manifestare per il riconoscimento dei diritti fondamentali nelle
campagne, per la giustizia sociale e contro l’esosità delle tasse.
Barrafranca non fu come altri paesi siciliani che furono trascinati,
occasionalmente, dai territori limitrofi ai flussi di cambiamento. Infatti nacquero e si affermarono nello stesso territorio personaggi di notevole spessore politico che riuscirono oltre a mobilitare uomini e donne, anche ad aprire sedi ed
avere consenso elettorale. Scrive Vaiana che Barrafranca visse in quegli anni
uno dei periodi della storia siciliana di maggiore vivacità sociale. Anche allora
la Sicilia divenne un vero e proprio laboratorio politico ricco di elaborazione
teorica e di sperimentazione. La proposta politica di Don Luigi Sturzo, collegata con la più valida cultura cattolica, anticipatrice degli ulteriori sviluppi della dottrina sociale della Chiesa, diede vita al movimento politico
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dei cattolici ed al partito popolare. Don Sturzo fece superare i veti pontifici e
permettere una grande presenza di cattolici nel Parlamento e nelle altre istituzioni.
Ne scaturirono molteplici iniziative sociali ed economiche, come, ad esempio, le casse rurali, le leghe cattoliche, che si diffusero capillarmente nei vari
paesi della Sicilia. L’enciclica di Leone XIII “Rerum Novarum” diede la grande
legittimazione all’opera di Don Sturzo ed all’impegno dei vescovi e dei sacerdoti progressisti. Questi, anche se non erano molti, furono molto attivi, profondamente spinti dagli ideali di giustizia sociale; ma anche erano sollecitati a
contrapporsi alla grande crescita delle leghe di miglioramento ed al movimento socialista. Queste ultime realtà furono grandemente benemerite a scuotere la
coscienza. Gli scioperi, le manifestazioni, improntate alla lotta di classe, furono
determinati alla riscossa dei ceti popolari che vivevano nella soggezione e nello
sfruttamento. La presenza dei socialisti nel parlamento e nelle varie istituzioni
contribuirono in modo decisivo ad emanare leggi e deliberazioni a favore dei
ceti sociali più deboli. Il decreto Visocchi, ad esempio, approvato il 2 Novembre
1919, rese possibile la concessione delle terre incolte ai contadini, regolò l’affitto e l’enfiteusi. Esso, nonostante la pochezza della normativa rispetto ai bisogni
di riforma, suscitò una dura reazione degli agrari i quali ne ostacolarono l’esecuzione.
Tuttavia, in questo lavoro del Vaiana, non poca perplessità suscita il fatto
di trovare una irrilevante presenza del movimento cattolico, il poco influsso
rilevato dall’azione di Luigi Sturzo e di sacerdoti formati, culturalmente, dalla
dottrina sociale della Chiesa ed operosi nel promuovere organizzazioni come le
leghe bianche e le casse rurali. Viene solo citata la Cassa rurale Maria santissima delle Stelle, fondata dal sacerdote Ferdinando Cinque. Invece sono numerosi i sacerdoti menzionati dal Vaiana descritti come uomini che non hanno nulla
che li faccia riconoscere come Ministri di Dio. Taluni di loro sono schierati con
una fazione politica altri con l’opposta fazione. Molti sacerdoti svolgono attività amministrativa come membri del consiglio comunale. Sono proprietari terrieri
e ricchi possidenti, schierati dalla parte opposta alla povera gente, ai contadini,
ai proletari ed alle loro organizzazioni. Ad esempio, il sacerdote Raffaele
Vasapolli sfrattò la Lega di miglioramento dalla casa che aveva dato in affitto
per darla alla società “La Barrese” che difendeva gl’interessi degli agrari.
Alcuni sacerdoti addirittura sono stati accusati di essere stati mandanti di
omicidi e processati.
L’Autore ci dice che anche a Barrafranca, come in molti altri paesi della
Sicilia, il potere era detenuto da famiglie di possidenti raggruppati in schieramenti opposti e con a capo una famiglia. Essi si scontravano; e per dominare
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gli uni sugli altri usavano la violenza; commissionavano ed eseguivano delitti.
Nel giro di un decennio sono stati uccisi due sindaci. Per i delitti venivano
assoldati dei sicari, e tra questi emerge, in modo particolare, la figura del famoso brigante Salamone Giuseppe il quale, come la sua vittima, ha tutte le caratteristiche di un capomafia.
Questo brigante inviò nel marzo del 1907 un memoriale al corrispondente
del Giornale di Sicilia di Enna intitolato: “Salamone Giuseppe ed il Commendatore Benedetto Giordano, ossia gli abusi fatti da un Sindaco e la giusta vendetta”. Salamone, accusato di parecchi delitti, in riferimento ad uccisioni di
altri briganti che erano stati esecutori di omicidi, parla di collegamenti con
«l’alta mafia». Egli, infatti, durante il processo per l’uccisione del latitante
Failla Mulone, scrive, l’otto Maggio in una lettera al Presidente della Corte
d’Assise dell’Aquila: «Tutti così finiscono la maggior parte dei latitanti che
non obbediscono agli ordini della mafia e ritengo che dove si trova il cadavere
del Failla ve ne sono chissà quanti».
Anche a Barrafranca come in altri paesi della Sicilia i movimenti di progresso dimostrarono fragilità politica e furono strumentalizzati. Si lasciarono
coinvolgere nella gestione amministrativa con l’illusione di contare ed influire,
ma, nei fatti, furono neutralizzati. La sinistra non riuscì ad essere vera forza di
governo. Ed anche allora ebbe la meglio il trasformismo del blocco agrario, del
ceto medio e del clero corrotto.
Le due potenti famiglie che si contrapponevano e si alternavano nel potere:
i Giordano e i Bonfirraro, erano anche abili nel mimetizzarsi e fingersi, secondo
l’occasione e per opportunismo elettorale, come vicini al popolo. I Giordano,
infatti, da sempre reazionari ed oppressori passati all’opposizione della giunta
Bonfirraro, finirono con il guidare i contadini. E l’avvocato Bonfirraro, per
contrapporsi ai Giordano, scrive, addirittura, nel suo diario: «Combatterò sempre e con tutte le mie forze per il bene dei poveri, degli afflitti, degli oppressi e di
tutti i diseredati che par non siano per altro nati che per piangere e dolorare in
omaggio ed esclusiva soddisfazione degli epuloni».
I gruppi dominanti ebbero il sostegno dei deputati eletti al Parlamento
nazionale nel collegio di cui faceva parte Barrafranca, con il modello di riferimento ch’è quello degli altri paesi siciliani. I Bonfirraro, ad esempio, furono
sostenuti dai deputati massoni Calogero Cascino, Rosario Pasqualino Vassallo
e Pietro Lanza di Scalea mentre i Giordano dall’on. Marescalchi. Si parla, anche, di magistrati e di forze dell’ordine che sostenevano l’una o l’altra fazione.
Come già notavo sopra, sorprende in questo libro il numero di sacerdoti
coinvolti nella corruzione amministrativa ed in azioni delittuose. Una schiac-
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ciante maggioranza rispetto alle scarse citazioni di nomi di buoni sacerdoti.
Questa situazione è propria di Barrafranca od, anche, di altri paesi? E come
mai avviene tutto ciò, nonostante grandi figure di vescovi come Mons.
Guttadauro a Caltanissetta e Mons. Sturzo a Piazza Armerina?
I quattro fratelli sacerdoti Vasapolli, ricchi possidenti erano un potente
gruppo di potere, consiglieri comunali ed uniti ai Bonfirraro. Due di essi furono accusati ed incarcerati per l’omicidio Giordano. Il sacerdote Privitelli fu
incarcerato per essersi appropriato del grano della baronessa Angilella Sgadari
di cui era custode. Egli fu condannato dal Presidente Tommaso Mercadante ad
un anno di carcere e 500 mila lire di multa. Fu complice di Giordano in atti
illegali. Il sacerdote Raffaele Paternò fu processato per minaccia a mano armata in difesa del Giordano. Il sacerdote Luigi Piazza fu sospettato di essere uno
dei mandanti dell’omicidio Bonfirraro. Molti furono i sacerdoti eletti e presenti
nel consiglio comunale. Oltre a quelli riportati sopra ci furono anche Angelo
Guerreri e Gaetano Milino. Invece troviamo come mosche bianche solo tre
esponenti del clero, liberali ed aderenti alla carboneria: Bonfirraro, Ippolito e
Iambè.
Viene da pensare quanto vantaggioso sarebbe stato per la Sicilia e come si
sarebbero potute diffondere le idee e le iniziative volute dalla “Rerum Novarum”
di Leone XIII se non ci fosse stato un clero come quello che viveva a Barrafranca
ed in altri paesi della Sicilia ai tempi di Don Luigi Sturzo. Fu un periodo nel
quale nacquero uomini di grande statura morale e politica e movimenti con
forti tensioni ideali. I protagonisti dello sviluppo umano e sociale pagarono di
persona, furono martiri ovvero andarono esuli. L’ideologia totalitaria vinse
soprattutto per colpa dei corrotti e dei trasformisti. E proprio in questi nostri
giorni che seguono la fine di questo secolo e del millennio, più che mai abbiamo
bisogno di riproporre alla memoria gli eventi storici come quelli. Attraverso la
lezione della storia, infatti, possiamo avere sempre presenti le insidie ed i modi
subdoli con cui operano le loro alleanze corrotti e trasformisti per bloccare la
crescita della società e delle fasce sociali più deboli.
L’impegno della nostra vita è prova che noi non crediamo che nella storia
siciliana ci siano forze ataviche che riescono sempre a bloccare il progresso e la
crescita democratica. Per questo, non dimenticando il passato lontano e recente, dobbiamo ereditare il coraggio degli eroi che ci hanno preceduto, ed acquisire più capacità strategica per snidare i pericoli ed andare avanti per raggiungere traguardi di giustizia e democrazia.
Padre Ennio Pintacuda
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In memoria di Alfonso Canzio
Alfonso Canzio era un uomo conosciuto per
le sue opere buone. Fortunatamente anche
l’amico corrotto viene ucciso dalla mafia. A
dimostrazione che fu un omicidio [di mafia]
c’è il pacchetto di sigarette messogli accanto.
Liboria Faraci
«Gli abitanti di questo territorio - nota con competenza lo scrittore
locale Franco Balsamo - sono sempre stati ribelli al pagamento di certe tasse o dazi doganali e si sono sempre ribellati ai soprusi evidenti
dei detentori del potere. Da ciò nacque il nome patrocinato da Matteo
Barresi nel 1529: Barrafranca». In questo paese, abitato da cittadini
«indegni di avere la giustizia» secondo il mafioso Turi Passalacqua,
ma per il Balsamo come per noi amanti della libertà per la quale hanno lottato, il 30 luglio 1872 nacque in una povera famiglia contadina
Alfonso Canzio di Alfonso e di Concetta Marchì. Nel secondo decennio del secolo egli fu l’anima del movimento contadino e socialista
della sua città. Un movimento che affondava le sue radici nei fasci
siciliani. Crebbe e si formò politicamente in un ambiente dove la realtà socioeconomica era quella descritta nella famosa Inchiesta in Sicilia
di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, pubblicata il 20 dicembre
1876: la diffusione del latifondo, l’agricoltura degradata, l’analfabetismo e la miseria sociale, a cui si affiancava «l’industria della violenza,
la sola che prosperava realmente».
Questo eroico socialista, che ha pagato con il bene più alto il suo
impegno civile e politico, purtroppo è stato totalmente dimenticato,
seguendo così la sorte di tanti altri dirigenti di locali movimenti che
hanno dato la vita per affermare dei diritti collettivi, ma che hanno
ricevuto come ricompensa alla memoria solo un posto nell’angolo buio
della storia. Perfino la sua morte è diventata un giallo: ignorata dai
due maggiori quotidiani dell’epoca, L’Ora e il Giornale di Sicilia, e
non risultante negli atti di morte dello Stato civile del Comune. Per di
più la famiglia Canzio si è estinta; rimane solo il ramo femminile dei
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Marchì.
A Barrafranca lo ricordano appena una strada secondaria a lui dedicata e poche righe di un saggio e di una storia locale. Poco, troppo
poco per un uomo che ha concluso con il martirio, a soli 47 anni, una
vita interamente dedicata all’affermazione degli ideali di giustizia sociale e di libertà dai bisogni materiali.
Avremmo voluto raccontare la sua vita e le sue lotte, abbiamo tentato, ma ci siamo scontrati con ostacoli di diversa natura. Non ci è
stato possibile consultare delle interviste raccolte anni or sono da un
gruppo di giovani barresi. Infruttuose sono state anche le ricerche
presso gli archivi di Barrafranca, Enna e Caltanissetta. Nondimeno,
volendone conservare il ricordo, abbiamo tentato di ricostruire almeno la storia di quel movimento popolare, dalle prime lontane esperienze mutualistiche al “biennio rosso”, cui idealmente appartiene e
di cui fu per più di un decennio parte importante.
Ci auguriamo che questa breve memoria possa servire da stimolo
almeno ai giovani e, in particolare, agli alunni delle scuole barresi, cui
siamo disposti a mettere a disposizione l’apprezzabile materiale documentale accumulato durante le ricerche, per meglio approfondire
in futuro lo studio sulla sua incisiva azione sociale e politica, ma anche per scoprire le proprie radici e interpretare in profondità la realtà
attuale che in tanti, troppi aspetti va trasformata.
Firma autografa di Alfonso Canzio (rilevata da un documento dell’Archivio
di Stato di Caltanissetta)
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INTRODUZIONE
L’isola a forma di triangolo. La si potrebbe definire un autentico “luogo cinematografico”.
G. Tornatore
Il giovane e bravissimo regista cinematografico siciliano Giuseppe
Tornatore, ideatore della pregevole antologia cinematografica Lo schermo a tre punte, in un suo scritto ci esorta a non stupirci «se, nell’arco di
più di mezzo secolo, dall’epoca del muto sino alla stagione del suono
digitale, è nata una filmografia vastissima sulla Sicilia, la sua storia, il
suo popolo, le sue tragiche contraddizioni». E lo scrittore Leonardo
Sciascia, intervistato da Tornatore, dichiara che «si sono fatti, si fanno e si faranno film sulla Sicilia perché la Sicilia è cinema». Uno di
questi film è In nome della legge di Pietro Germi (1949), che riguarda
una vicenda di mafia avvenuta a Barrafranca cui accenneremo nell’epilogo.
La storia che raccontiamo, con le sue «tragiche contraddizioni»
radicate nell’ingiustizia sociale e con la sua «metaforicità» confermante
l’asserzione di Tornatore secondo cui «tutto in Sicilia diventa prima o
poi una questione di giustizia», ci sembra possedere i requisiti per una
rappresentazione cinematografica, che confermerebbe Barrafranca
come uno di quei “luoghi cinematografici” di cui parla il nostro regista. Quanto ciò possa essere vero lo accerterà autonomamente il lettore, cui intanto offriamo una traccia introduttiva dell’intera vicenda.
La storia in sintesi
Questa storia, unica nel suo intreccio di vicende e personaggi ed
analoga nel contempo a tante altre siciliane, pur avendo le sue radici
nei decenni precedenti, si svolge fra due date, il 1882 e la fine del
1919, che segnano rispettivamente due eventi: la nascita della prima
amministrazione del partito Giordano e la morte di Alfonso Canzio,
capolega e alleato di questo partito.
Il nucleo centrale della storia è costituito dalla quarantennale lotta
ingaggiata da due partiti locali per la conquista o il mantenimento del
potere politico-amministrativo. Da questo nucleo si dipartono diverse
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vicende fra loro intrecciate.
Il lento affacciarsi alla storia contemporanea, fin dai tumulti vandeani
del 1899, e il contraddittorio cammino di lotta del proletariato barrese,
che nella sfera del lavoro e in quella privata subisce le angherie di una
lontana aristocrazia nobiliare e del ceto medio locale, è una di queste
vicende. Fin dai primi anni ottanta del secolo scorso, il proletariato si dà
delle strutture organizzative ora di mutuo soccorso ora sindacali (Società
operaia, Fascio, Lega) egemonizzate ora dall’uno ora dall’altro partito i
quali lo trascinano, compromettendone una chiara presa di coscienza di
classe, nella lunghissima lotta amministrativa.
I due partiti municipali si contendono il potere utilizzando metodi di
lotta illegali e violenti, quali l’intimidazione, il ricatto, il danneggiamento
materiale, l’omicidio. Ciò ci induce a pensare che ci troviamo di fronte ad
autentiche consorterie di stampo mafioso, analoghe a quelle che Francesco De Santis sul Diritto del 14 agosto 1877 definì «associazioni di
cointeressati», «vere e proprie associazioni a delinquere» o «dei mangia
con tutti». Essi, per conseguire i loro fini di potere, si avvalgono di potenti
referenti politici a livello provinciale e nazionale. Un partito-consorteria
fa riferimento allo schieramento liberale-monarchico, l’altro a quello democratico-repubblicano, fortemente influenzato dalla massoneria.
Leader di uno dei due partiti, e presenza costante nel tempo della
narrazione, è Luigi Bonfirraro, un colto avvocato appartenente a una
prestigiosa famiglia della borghesia proprietaria e delle professioni, in
gioventù d’idee repubblicane e legato ai più alti gradi della massoneria
provinciale. La sua personale vicenda di accanita lotta contro Benedetto
Giordano, potente capo dell’altro partito, apre quasi la storia e la chiude
post mortem attraverso l’esasperata battaglia processuale contro la Lega
di Gagliano e Canzio da parte dei suoi congiunti che vogliono vendicarne la morte e nobilitarne alla memoria l’immagine. La sua presenza costante ne fa il personaggio principale.
Due personaggi eccellenti il Bonfirraro e il Giordano, divisi nella vita,
ma uniti nel tragico finale della morte; vittime (anche) di due killer accomunati pure loro da un analogo destino: dopo una timida comparsa
nelle associazioni contadine, il Fascio e la Lega, sul solco della tradizione
diventeranno temibili briganti.
Dentro la intricata storia, costellata di tanti altri terribili omicidi, si
agita anche una miriade di persone, alcune delle quali svolgono una parte importante, se non decisiva, nello sviluppo degli eventi, come i sacerdoti Benedetto e Raffaele Vasapolli. Notevole è la presenza del clero locale (che
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vanta una lontana tradizione massocarbonara risorgimentale) nella dimensione politica. Incontreremo, infatti, sacerdoti proprietari terrieri e di
zolfare, consiglieri e assessori comunali. Il non expedit di Pio IX aveva
impedito sì la partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche, ma non
alle amministrative, cui invece a Barrafranca parteciparono per decenni
numerosi sacerdoti, che si schierarono con l’uno o l’altro dei due contrapposti partiti, con l’«obiettivo», sulla scia della peggiore interpretazione del Machiavelli, di «acquisire o mantenere il potere», «a prescindere per usare l’espressione di un uomo di chiesa, il gesuita Ennio Pintacuda dalle leggi morali»1 . Una parte di essi alla cura delle anime preferisce la
cura dei beni materiali, altri sono perfino in odor di delitto: i Vasapolli, ad
esempio, amministrano ingenti patrimoni e praticano il prestito ad usura, conoscono le regie galere e le aule giudiziarie.
Non possiamo tacere, infine, la significativa comparsa sulla scena delle
lotte sociali delle coraggiose e decise donne barresi, che, durante una
parossistica e violenta rivolta, per circa un mese, catalizzano l’attenzione
di politici, forze dell’ordine, Prefetto, Ministro degli interni e stampa regionale. Fra queste la leggendaria Catina Balsamo.
Questi emblematici personaggi e gli avvenimenti di cui sono protagonisti, collocano la storia di Barrafranca tra i due secoli accanto a quella di
altri mitici paesi dell’entroterra siciliano come Corleone, Santo Stefano di
Quisquina, Prizzi... che hanno conosciuto sì il cupo terrore mafioso, ma
anche splendidi movimenti di popolo in lotta per il lavoro e la libertà.
É una storia che appartiene non solo ai barresi, ma a tutti i siciliani
perché è uno spaccato emblematico della nostra Isola; e che vuole essere
un modesto contributo non solo alla conservazione della memoria locale,
ma anche alla conoscenza del più ampio mosaico della nostra storia regionale, aggiungendovi un piccolo significativo tassello, ricostruito tenendo in considerazione, nei limiti in cui le frammentarie conoscenze
storiografiche lo consentono, la presenza della massoneria che sovente è
assente nella storiografia ma non nella storia siciliana. Lo abbiamo fatto
attraverso uno scrupoloso studio di tanti inediti documenti d’archivio, di
pubblicazioni locali, delle opere storiografiche e dei saggi più seri sulla
Sicilia post-unitaria; fra cui quelli dei prizzesi Giuseppe Alongi e Tommaso
Mercadante Carrara, punto di riferimento obbligato per lo studio della
vecchia mafia agraria fra Ottocento e primo Novecento. Lavoro che
spero risulti gradito e utile alla comunità barrese, almeno agli eredi di
quella tanta gente che tra i due secoli ha tanto sofferto e lottato per
affermare i loro diritti calpestati da pochi “galantuomini”.
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NOTE
E. Pintacuda, Il guado, Molfetta (BA), edizioni La meridiana, 1995, p. 122.
Il sociologo e pubblicista padre Ennio Pintacuda è nato nel 1933 a Prizzi (PA). Ha studiato
giurisprudenza nell’Università cattolica di Milano, sociologia alla New York University e
teologia nella Pontificia Università Gregoriana.
È impegnato da sempre sul fronte antimafia, e di ciò è testimonianza “Considerazioni per una
ricerca di strategie politiche per lo sviluppo della Sicilia”, una lunga l’introduzione a “Sottosviluppo potere culturale mafia” (1972).
Nel 1968, iniziò l’attività di docente presso il Centro di studi sociali di Palermo. È stato poi
uno dei padri spirituali del movimento “Città per l’Uomo” e della “Rete”. È inoltre promotore
degli stage estivi, una fucina d’idee e proposte concrete per il mondo politico, organizzati a
Prizzi-Filaga dalla Libera Università della Politica, di cui è il fondatore. Lo stage del 1997 sul
tema “Progetto euro-mediterraneo, centralità del ruolo della Sicilia nel ruoli dell’Italia” ha
visto la partecipazione di numerose delegazioni di paesi stranieri, da Israele ai paesi arabi,
dando respiro mediterraneo all’annuale appuntamento, che si è trasformato così in un’occasione di importante dibattito internazionale.
Padre Pintacuda dirige anche il CERISDI, il prestigioso ufficio studi socioeconomici della
Provincia Regionale di Palermo, che ha «in corso di realizzazione grandi progetti finalizzati,
soprattutto, alla formazione di una classe dirigente, preparata ad operare nei settori: economico, burocratico e diplomatico, all’interno dei paesi del Mediterraneo» (E. Pintacuda).
Fra le sue pubblicazioni, oltre quelle citate, ricordiamo: Riforma e problemi di efficienza nella
pubblica amministrazione (1967); Partecipazione democratica e protesta studentesca (1970); I partiti
politici e lo sviluppo della Sicilia (1975); Il sud tra potere e cambiamento (1980); Palermo palcoscenico d’Italia (1986). Di lui si è interessata la stampa italiana e straniera con numerose interviste.
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Barrafranca - panorama (1910)
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Capitolo Primo
PROLOGO: RIVOLTE, BRIGANTAGGIO E CARBONERIA
NELLA BARRAFRANCA BORBONICA
La cognizione della Carboneria si ebbe per la prima
volta qui in Caltagirone e Pietraperzia [...]. Don Giuseppe promise che da suo fratello don Gaetano Abela
avrebbe fatto mandare istruzioni e carte per la loro
organizzazione, ma, queste venute, si trovarono di
Massoneria, e qui volevasi la Carboneria.
Antonio Franco (26 febbraio 1819)
Alla fine del Settecento, Barrafranca, dipendente
amministrativamente da Caltanissetta e confinante con i comuni di
Pietraperzia, Piazza Armerina, Mazzarino e Riesi, era un comune di
una di quelle due aree in cui Sonnino, nella sua Inchiesta, divise la
Sicilia: l’area del latifondo. Essa contava una popolazione di circa 7.000
abitanti che era «eminentemente agricola» e il suo territorio era considerato «il granaio della provincia»1 . Questo territorio a coltura estensiva
per secoli era stato dominato e sfruttato da alcune grandi nobili famiglie feudali, i Friddani, i Camitrici e altri, che preferivano abitare nei
loro castelli di Butera, Pietraperzia, Mazzarino, Piazza Armerina2 .
Il suo sottosuolo era ricco di miniere di zolfo il cui sfruttamento
era condotto sul modello latifondiario: il sistema giuridico feudale (legge borbonica del 1808) concedeva al proprietario terriero l’uso del
sottosuolo, per cui le miniere, quando non erano gestite direttamente
dal feudatario, venivano dati in gestione (20-25 anni) ad un esercente, il gabelloto, in cambio dell’estaglio (rendita in natura: zolfo greggio). Barrafranca, come risulta dal grafico I, registrerà nel secolo successivo un apprezzabile aumento demografico da attribuirsi all’industria estrattiva dello zolfo3 . Gli abitanti trovarono nelle zolfare una
seppur parziale valvola di sfogo occupazionale fino a quando la concorrenza straniera di fine Ottocento non le metterà gradualmente in
crisi. Ciò spiega perché, nonostante il tendenziale aumento
demografico, l’istogramma evidenzia nel 1901 un calo, anche se lieve,
di popolazione4 .
17
13168
14000
12000
10000
8000
11026 11068
8454 8928
8426
9155
Abitanti
6000
4000
2000
0
1850
1861
1871
1881
1893
1901
1915
Grafico 1
Che l’attività mineraria fosse fiorente fin dal periodo borbonico ci è
confermato da una «Statistica generale delle zolfare in Sicilia», redatta nel 1839.
L’industria estrattiva era gestita da alcune famiglie aristocratiche,
fra cui i principi Lanza di Trabia e i principi di Butera. Notevole è la
figura di Giuseppe Lanza di Trabia distintosi nella seconda metà del
Settecento per aver estirpato il locale brigantaggio, che disturbava proprio le attività commerciali relative all’esportazione dei prodotti minerari5 . I Lanza entrarono nella storia di Barrafranca nel 1805, attraverso il matrimonio della marchesa di Barrafranca Stefania Branciforte
con Giuseppe Lanza dei principi di Trabia, da cui nacque Pietro (18071855), primo dei Lanza di Trabia ad assumere il titolo di marchese di
Barrafranca. Nel 1832, questi sposò Eleonora Spinelli Caracciolo dei
principi di Scalea ai cui eredi, Giuseppe (1833-1866) e poi Pietro (1862
- ?) furono riconosciuti i titoli di principe di Trabia e di Scalea, marchese di Barrafranca, principe di Pietraperzia, conte di Mussomeli, di
Sommatino e di Mazzarino ecc.6 . Quest’ultimo, oltre ad avere ricoperto cariche nell’Ordine Mauriziano e nell’Ordine di Malta, di deputato e di senatore, era anche un influente Fratello massone7 . I Lanza
non risiedettero in Barrafranca, ma i rapporti con essa non potevano
che essere stretti e frequenti essendo proprietari della miniera di Galati,
la più importante del territorio8 .
Notevole era anche la gestione mineraria da parte della borghesia
18
in ascesa, gabelloti, sacerdoti, ecc. La seguente tabella ci fornisce altre
interessanti informazioni sull’ubicazione e sui proprietari, fra cui due
sacerdoti9 .
Prov.
Comune
Contrada
Proprietari
Altri copropriet.
Cl
Barrafranca
Mintina
Cl
Barrafranca
Mintina
Messina sac. Gaetano
-
-
Cl
Barrafranca
Mintina
Bonferato (sic) Sac. Luigi
-
-
Cl
Barrafranca
Mintina
Principe di Butera
-
Bonincontro Francesco
Principe di Trabia
-
Gabellotti
Scandurra
Tabella n° I
Nel complesso, da questo breve profilo emerge un’economia agricola ed industriale-estrattiva a carattere feudale. La secolare stagnante realtà economica e sociale cominciò a modificarsi a partire dalla
generale crisi di fine Settecento, culminante nel riformismo liberale
del 1810-’1210 .
1.1 RIVOLTE E RIFORME
La rivolta antigiacobina del 1799 a Barrafranca
Che nella Barrafranca di fine Settecento ci fosse una presenza di
liberali o di giacobini che tramasse contro la monarchia borbonica
allo stato delle conoscenze odierne è un’ipotesi che dovrà essere appurata solo da un’accurata ricerca documentale. Un nucleo consistente di giovani liberali c’era sicuramente nella vicina Castrogiovanni.
Qui, nel maggio del 1799, arrivò da Marsiglia don Enrico Varisano
dei Varcasia, un giovane d’idee liberali e - secondo il Landolina - forse
«libero muratore in Francia». Inseritosi presto negli ambienti liberali
ennesi, nel giro di pochi mesi fu in grado di fondare una società segreta denominata I Cavalieri della Torre. Obiettivo dell’associazione clandestina era l’abbattimento della tirannica monarchia borbonica e l’indipendenza della Sicilia 11 . Non sappiamo se il Varisano fosse un
emissario di una qualche organizzazione francese, certo è che già negli
anni precedenti «nel Regno - scrive lo storico massone Stolper - si
19
riunivano i club dei giacobini, ovviamente con sentimenti fortemente
anti-borbonici. Non è illogico che fra loro si trovassero molti massoni
(o ex massoni). Infatti, gli esponenti della tragica Repubblica
Partenopea furono quasi tutti ex Massoni»12 .
In Sicilia, dopo la fuga del re Ferdinando di Borbone da Napoli a
Palermo e la proclamazione della Repubblica partenopea (26 gennaio
1799), il baronaggio e la borghesia agraria si posero l’obiettivo di fermare il grave rischio di una rivoluzione giacobina e, approfittando
dell’occupazione inglese, d’infliggere un duro colpo alla monarchia
borbonica. Questo clima di congiura spinse il governo borbonico ad
istituire una milizia urbana, i miliziotti, per la salvaguardia dell’ordine sociale che, sotto il comando del maresciallo Jauch, diede la caccia
ai giacobino-massoni.
A gennaio e febbraio del 1799, esplosero nell’Isola decine di tumulti popolari. A febbraio, in un’escalation preoccupante che arrivò a
coinvolgere circa quaranta paesi, la rivolta vandeana interessò l’area
barrese: scesero infatti in campo le malfamate popolazioni di
Barrafranca, Mazzarino, Piazza Armerina, Riesi, Pietraperzia13 . Si
ritiene che i tumulti fossero stati fomentati proprio dai miliziotti di
Jauch al servizio della regina Maria Carolina, per colpire sia i giacobini
sia l’aristocrazia filo inglese e antiborbonica.
Fra i moti più cruenti vi fu quello di Caltagirone, che si concluse
con tre pene di morte e con un centinaio di altre gravi condanne.
L’evento resterà nella memoria dei liberali del luogo. In merito, l’abate Oddo scrisse ciò: «Sapeva io purtroppo che verso 1798 o 99 furono
bruciate diverse persone nelle pubbliche piazze di Terranuova e
Caltagirone - come giacobini - dal Popolo, e che in seguito erano stati
impiccati diversi dal Principe di Cutò mandato in Caltagirone colla
cavalleria»14 .
Nel complicato gioco politico sembra che una parte consistente
del baronaggio interpretasse l’alleanza con l’Inghilterra più per realizzare una costituzione di tipo inglese che per salvaguardare sic et
simpliciter la monarchia borbonica. In questo contesto «i veri realisti
furono in realtà le grandi masse popolari, e la piccola e media borghesia dei centri rurali»15 . Perciò sembra plausibile la tesi che vede i baroni costituzionalisti e i contadini realisti antiaristocratici: tutti in ogni
caso antigiacobini.
Ma se la scintilla della rivolta fu la caccia al giacobino sobillatore
dell’ordine costituito, chi erano a Barrafranca i veri o presunti giacobini
20
o liberali contro cui scatenare la malfamata popolazione? La domanda resta inevasa. Sappiamo solo che un centro massonico era la non
lontana Caltagirone, dal 1875 sede della Loggia massonica gli Intraprendenti16 e qualche lustro dopo centro d’irradiazione anche verso
Barrafranca della massocarboneria antiborbonica cui aderirà un numeroso clero.
Le radici della questione sociale e territoriale
Quando il crollo della Repubblica partenopea consentì al re il ritorno a Napoli, le aspirazioni dell’aristocrazia furono frustrate. Cacciato una seconda volta nel 1806, il re ritornò a Palermo protetto ancora dalla flotta britannica. Per mantenere l’ordine e per impedire
una possibile rivoluzione, l’ambasciatore inglese lord Bentinck, divenuto con il suo esercito d’occupazione il vero detentore del potere,
promosse storiche riforme favorevoli all’aristocrazia liberale e alla classe media contro la corona, che venne di fatto esautorata, e contro il
popolo. «Come risultato della guerra e dell’occupazione britannica scrive D. Mack Smith -, stava facendo la sua comparsa una classe
media che avrebbe avuto abbastanza denaro per comprare la terra» e
che quindi, come l’aristocrazia terriera, aveva «interesse ad aprire le
proprietà feudali e ad abolire i diritti comuni di pascolo sulla proprietà privata». A questa classe appartenevano, ad esempio, i Bartoli di
Mazzarino e i Mattina di Barrafranca. Essa «era sorta in genere - precisa lo storico inglese - o per aver adottato, invece del grano, un tipo
di coltura più lucrativa in terre ottenute in enfiteusi, o prestando denaro, o amministrando i latifondi come gabelloti»: lo si evince, per la
parte che ci riguarda, dalla tabella n° 1 da cui risultano alcune famiglie che beneficeranno del riformismo.
Sostenitore del riformismo inglese fu l’insigne economista Paolo
Balsamo che nel maggio-giugno 1808 volle verificare “sul campo” lo
stato dell’economia nelle provincie di Caltanissetta, Catania e Siracusa,
fermandosi, fra l’altro, in alcuni dei paesi, come Pietraperzia e
Caltagirone, che erano stati interessati dai sommovimenti del ‘9917 .
Il 28 settembre 1810, il Parlamento siciliano emanò un decreto
sulla costituzione del catasto per la perequazione dei tributi che veniva ad attuare il progetto, irrealizzato, del Caracciolo. Per la sua attuazione, l’anno successivo, furono create le circoscrizioni territoriali
21
(la Sicilia veniva divisa amministrativamente in ventitré comarche o
distretti). In conseguenza di questo decreto, cui seguiranno tante altre leggi di modifica e d’attuazione18 , Barrafranca dovette subire una
«anomalia» circoscrizionale che la condannava in un esiguo territorio di 4.000 ettari, perciò la sua popolazione era costretta a svendere
la propria forza-lavoro oltre che alla nuova borghesia, ai lontani signori della terra degli altri comuni del circondario. Il problema - sul
quale ci soffermeremo più ampiamente - mal affrontato dagli amministratori del tempo, fu risollevato nel 1894 dalla Giunta Giordano,
quasi a compensare il ruolo reazionario svolto da essa nella repressione del fascio locale.
Nel 1812 fu approvata la costituzione siciliana, di cui fu fautore il
Balsamo che s’ispirò al sistema inglese. I suoi tre punti cardine furono
la separazione dei poteri, l’abolizione dei diritti feudali e la garanzia
delle libertà individuali. Sembrava che fosse stato colpito totalmente il
sistema feudale, in realtà queste riforme avevano il vantaggio di liberare l’aristocrazia dai diritti di sovranità della corona sui feudi e di
permetterle di poter alienare parte delle sue terre per coprire i debiti
accumulati. I baroni così, conservando ugualmente le terre non più
feudi, ma latifondi, privarono i contadini dei loro antichi diritti, sia
pure feudali, sulla terra. Dopo questa prima vanificata possibilità di
ancestrale riscatto, al turlupinato contadino, «dichiarato cittadino dalla
legge», per dirla con il Sonnino, ma rimasto «servo ed oppresso», non
rimarrà che aspettare le prossime occasioni.
Altre conseguenze del riformismo
Altre gravi conseguenze di dette riforme riguardarono l’amministrazione della giustizia e l’esercizio della violenza, su cui si
soffermarono Leopoldo Franchetti e Tommaso Mercadante Carrara.
Il Mercadante, un giudice che avrà una sua parte in alcune vicende barresi di fine Ottocento, così ne commenta gli effetti negativi: «Noi
nel 1812 ottenemmo la proclamazione dell’uguaglianza dei cittadini
che fu poi codificata nel 1819. La legge è uguale per tutti si poté scrivere nelle aule di giustizia, ed era una conquista dell’umanità, ma
l’ordinamento stesso della società, la forza delle tradizioni di tanti
secoli di privilegi non tardarono a mettere in evidenza la necessità
che a questa vuota formuletta, della legge uguale per tutti, fosse sosti-
22
tuita l’altra più rispondente alle aspirazioni dell’umanità: la giustizia è
uguale per tutti»19 . Ma sulla reale applicazione di questo principio, in
sé inopinabile, avrà da obiettare l’avvocato Luigi Bonfirraro che si
ritenne vittima proprio dell’ingiustizia del Mercadante.
Sulla violenza, che la classe feudale aveva sempre esercitato servendosi di milizie private, il Franchetti così si esprime: «La differenza
portata dalla abolizione della feudalità nelle relazioni sociali si ridusse dunque a questo: che come la ricchezza, così la prepotenza diventò
accessibile ad un maggior numero, e che quella popolazione di facinorosi, che prima era al servizio dei baroni diventò indipendente; sicché, per
ottenere i suoi servizi bisognò trattare con essa da pari a pari. L’astuzia entrò in maggior proporzione a costituire la forza privata. Ma la
forza rimase sempre il mezzo di ottenere in ogni disputa o gara, la
vittoria definitiva»20 .
Il riformismo del 1810-’12, con le sue leggi sull’alienazione dei feudi
e sulle circoscrizioni territoriali, è quindi la chiave di lettura per comprendere a fondo da un lato le lotte e le rivolte popolari, dall’altro
l’evoluzione del brigantaggio e l’ascesa del ceto medio. In tali avvenimenti vanno individuate le radici più profonde della “nostra storia”.
Intanto è opportuno, limitatamente all’area barrese, soffermarsi
sul vecchio brigantaggio, e poi sul nuovo e sulla classe media che ora
l’utilizzerà ora lo combatterà.
1.2 IL BRIGANTAGGIO
Pur perdendosi nella notte dei tempi e riguardante diverse società
umane, il brigantaggio ha in Sicilia (e in particolare nelle terre, come
quelle dell’area barrese, «che talora erano ostili [...] per gli innumerevoli boschi», i quali ne favorivano la diffusione21 ) una lunga storia
che la storiografia, nonostante la ricchissima bibliografia sul fenomeno, non ha ancora ricostruito nella sua interezza. Diodoro Siculo, richiamandosi allo storico Posidonio di Apamena, ci racconta le orribili
condizioni di miseria degli schiavi in Sicilia che, nel corso del II secolo
d.C., provocarono due rivolte guidate vittoriosamente dallo schiavo
siriaco Euno, che, per un lungo periodo dominò da Enna buona parte
dell’Isola. Lo storico di Agira ha individuato con precisione le radici
23
più remote del brigantaggio, le forme della violenza, il manutengolismo
dei ricchi proprietari terrieri, le complicità della magistratura, la repressione militare come soluzione del problema: tutti aspetti di un
fenomeno destinato a perdurare e a mantenere nel tempo analoghe
caratteristiche tali da lasciar stupefatti22 .
Dalla Sicilia «proprietà terriera di pochi cavalieri» al medioevo
corrono tanti secoli, ma le sue condizioni - è il caso di osservare con il
prestigioso storico barrese Angelo Li Gotti - rimangono immutate, «la
popolazione vive ammassata accanto al castello, lontano dai campi
infestati dalla malaria», e «il brigantaggio» continua ad imperversare 23 .
Il brigantaggio nel Settecento
In tempi meno lontani, Barrafranca diede i natali a due famigerati
briganti: Antonino Romano24 e Rocco Interlandi25 .
Il primo faceva parte, in posizione preminente, di una celebre banda pietrino-barrese che nei decenni 1760-’70 operò in un vasto territorio della Sicilia centrale. Era capitanata da Antonino Di Blasi, detto
Testalonga perché aveva «la testa più alta del campanile della parrocchia» di Pietraperzia26 , e dal suo braccio destro Giovanni Guarnaccia,
entrambi pietrini.
Romano era cognato del Testalonga per averne sposato la sorella
Teresa che, come accadrà alla Maristella del brigante Giuseppe
Salamone, fu la causa del suo brigantaggio: la donna era rimasta vittima delle colpevoli “attenzioni” del bargello del principe di Butera27 .
«Non sapete di Teresa, la sorella di Antonio?».
«Già la conosco - osservava uno degli astanti - la moglie di Antonino Romano. Oh chi non sa di Teresa, una buona donna».
«Costei. L’amico le aveva posto gli occhi addosso, perché, come sapete, vorrebbe tutte le donne. Una sera il marito lo sorprese che ronzava attorno la
sua casa, e lo stramazzò a terra con due buoni colpi alla testa; accorsero da
un lato gli sgherri, dall’altro Antonio, e fu un parapiglia. Che ne seguì?
Teresa pel terrore si ammalò cosi fieramente, che da lì a poco sen morì, il
marito va ramingo per le montagne, Antonio fu cacciato dal castello».
«Bella giustizia che fanno, esclamava un robusto operaio, tirandosi con
furia il cappello di paglia»28 .
24
Con Vincenzo Linares, che si rifà in parte al Villabianca29 (fonte
primaria per la conoscenza delle imprese della banda), le gesta trasfigurate di quei banditi diventano nel 1840, anno di pubblicazione della versione definitiva dei Promessi sposi30 , il romanzo popolare Il
masnadiere siciliano, che il Capuana bollerà come “saggio primitivo,
incerto, impacciato”, giudizio in parte condizionato dalla sua interpretazione del brigantaggio31 . Nell’Introduzione al romanzo il Linares
presenta così il suo protagonista:
«Coraggioso per indole, feroce per bisogno, aspro per costume, fiero e selvaggio, egli fa guerra aperta a’ ricchi, avari ed a’ potenti. Pronto al bene come
alla colpa, voi lo vedrete correre in soccorso dell’orfanella e del povero oppresso, affrontare ogni pericolo, sopportare i disagi, inebriarsi di sangue e di
vendette, vedrete quale strana ed atroce giustizia sa egli rendere in mezzo
delle campagne. Un miscuglio in somma di vizi e di virtù, di coraggio e di
ferocia, un soggetto comico e tragico ad un tempo, come la moda del romanzo lo vuole, come la mente di Victor Hugo lo immaginerebbe nel suo grottesco sistema: tal è il masnadiere siciliano»32 .
Il valente terzetto Di Blasi-Guarnaccia-Romano scorrazzava nel
nisseno e oltre33, creando seri disagi specialmente alle attività economiche, minacciando «la sicurezza dei viaggi e del commercio di chiunque non avesse comprato da lui un salvacondotto»34 . Per tal motivo il
Marchese Fogliani, viceré di Sicilia, raccolse le rimostranze di due potenti aristocratici ed anzi affidò l’incarico d’estirpare il banditismo
proprio ad uno di essi: «Il principe di Trabia fu perciò incaricato di
arruolare un corpo di uomini per catturarlo, ma il criminale [Di Blasi]
fu preso soltanto quando i suoi complici ricevettero dei fogli stampati
in cui si garantiva loro una ricompensa e il perdono gratuito in cambio della sua cattura»35 . I primi componenti della banda ad essere
catturati furono «Arcangelo Di Vita alias Tingimi, Pietro Antonio
Vizzini detto volgarmente l’Ogliara, Raimondo Ciaccio e Stefano Lo
Presti, che fe’ tutti quattro afforcare in Mussumeli il 12 febraro 1767 e
rimettere le teste in Palermo, che inghirlandate di erbe si condussero
per la città» 36 . Il Testalonga fu catturato il 18 febbraio 1767 in un
antro nei dintorni di Castrogiovanni assieme ad Antonino Romano, a
Stefano Pircò e a due fratelli di Lo Presti: «A 7 marzo 1767, sabato.
Furono giustiziati in Mussomeli li due capi banditi Antonino Testalonga
ed Antonino Romano, con altri tre dei loro consoci, due delli quali
25
erano fratelli germani. Furono quindi trasportati in questa capitale li
loro teschi alli 9, giorno di lunedì, e l’indomani furono condotti, per
tutta la città, accompagnati con continue scariche de’ moschetti da
molti soldati dell’illustre principe di Trabia, vicario generale»37. «Doppo
ciò finalmente le stesse teste e i loro busti, resi notomizzati, cioè fatti in
quarti dai carnefici, si mandarono nel regno a marcire all’aere sui
tronchi d’alberi a pubblico esempio in vari luoghi e strade di passi
regi». Migliore destino ebbe la «testa del Testalonga»: «qual reliquia
più preziosa, se ne fe’ dono alla città di Pietraperzia, luogo natio di
detto reo, dove pendola si fe’ restare dalle balestriere della prigione
baronale»38 . In seguito anche il superstite Guarnaccia fu arrestato a
Regalbuto assieme a tre membri della banda. Processato «dalli giudici
del Tribunale della regia Gran Corte criminale», fu condannato
all’impiccagione. La pena fu eseguita in piazza Marina a Palermo:
«A 10 novembre 1776, lunedì. Vi fu giustizia di forca nel piano della
Marina nelle persone di quattro scorridori di campagna, tra i quali vi
fu il famoso Giovanni Guarnaccia di Pietraperzia, di anni 26, uno dei
principali compagni del bandito Testalonga»39 . Con queste esecuzioni pubbliche esemplari il governo borbonico cercava da sempre di
controllare eventuali ribellioni dovute alla miseria popolare; facevano
parte delle note tre “F”, “forca, feste, farina”, con cui i siciliani convissero per tanti secoli.
Il decennio successivo, il capobanda Rocco Interlandi, «villano naturale di Barrafranca», infestò con la sua «compagnia di fuoriusciti»
un ampio territorio della Sicilia centrale: «Le scorrerie di questi ladri scrive il Villabianca - ch’erano al numero di dieci, le irruzioni, le ruberie
che facevano nelle strade regie pubbliche chiamaron l’attenzione più
premurosa del Sovrano a riparare i danni e le rovine che ne pativa il
commercio». Sulla testa del «forte serpente» barrese fu posta una taglia così alta da convincere «il governatore della terra di Castellobuono,
ch’era amico del ladro Interlandi», a collaborare con l’avvocato fiscale della Gran Corte Filadelfio Artale, incaricato del Re per la cattura
del brigante. Nel marzo del 1778, il Governatore attirò in un tranello
l’amico e dopo «nobili trattamenti, pranzi e intrattenimenti di allegrie, quando l’ebbe a punto questo di non temere quegli della sua
fede, in una notte, dopo una festa di ballo, lo fe’ assaltare in casa della
sua meretrice e legato portarlo alle carceri». Il 22 marzo del 1779, fu
impiccato anch’egli nel piano della Marina di Palermo40 .
Nella prima metà dell’Ottocento, in provincia di Caltanissetta il
26
brigantaggio era ancora abbastanza praticato; G. Fiume ne ha individuato i centri più interessati: «Santa Caterina, San Cataldo,
Serradifalco, Resuttana, Mazzarino, Butera, Mussomeli, Calascibetta,
Barrafranca». Nei territori finitimi di Barrafranca, Pietraperzia,
Mazzarino e Riesi operavano le bande di Lorenzo Parrinello, uno stimato sacerdote di Aidone, e di Paneperso, ovverosia Angelo Altomare
di Mazzarino, che in un secondo momento si allearono per un controllo più ampio del territorio41 . Ma queste bande, dopo il 1812, non
erano più quelle di Testalonga, Romano e Interlandi poiché subirono
quella metamorfosi di cui parla il Franchetti, che consiste in una graduale indipendenza della “popolazione di facinorosi” dai baroni: «Con
l’abolizione della feudalità - nota la studiosa Fiume, sulla scia di
Franchetti - si delinea una nuova figura di protettore e di mandante
proveniente dalla classe dei “civili”, di quei “gentiluomini” che hanno goduto dell’opportunità di accedere al possesso della terra e delle
cariche comunali e che da lì costruiscono vistose fortune personali.
Anzi, in questo periodo, il banditismo è, a nostro avviso, uno degli
strumenti usati dal ceto emergente nell’accanita competizione che
conduce al monopolio delle cariche pubbliche, non la “guardia armata del feudo”»42. Una tale analisi ci permette di comprendere meglio,
pur nella specificità locale, il rapporto fra ceto medio e briganti a
Barrafranca a cavallo fra Ottocento e Novecento.
1.3 IL CETO MEDIO FRA OPPOSIZIONE MASSOCARBONARA E GESTIONE DEL POTERE
La massocarboneria siciliana
Dopo il Congresso di Vienna, nel contesto generale di diffusione
delle sette segrete in Europa, iniziò in Sicilia una prima timida attività
carbonara che ebbe come centro propulsore Caltagirone.
Da qui partì e s’irradiò quella trama che trovò terreno fertile a
Pietraperzia e Barrafranca. A documentarlo è un protagonista di primo piano della lotta antisettaria avviata agli inizi del 1817 dal governo borbonico: Antonio Franco, giudice della Gran Corte Civile di
Palermo e deputato di Calascibetta e Castrogiovanni al Parlamento
27
siciliano nel 1813-’14, conoscitore, pertanto, dell’ennese. «La cognizione
della carboneria - scrive il giudice Franco - si ebbe per la prima volta qui
in Caltagirone ed in Pietraperzia per mezzo del sac. don Luigi Oddo,
allorché nel 1815 da Calabria passò in Sicilia». L’opera di proselitismo fu
avviata, oltre che dal detto sacerdote (conoscitore della carboneria barrese),
da padre Vincenzo Conti (Messina) e dai fratelli Giuseppe e Gaetano
Abela (Siracusa), da alcuni singolari personaggi mandati in missione in
Sicilia probabilmente dalla massoneria della penisola e dall’Alta Vendita
di Napoli L’Indipendenza Italiana, il poeta Bartolomeo Sestini (Pistoia), il
dentista Orazio Leone (Roma) e l’oculista Francesco Fasani.
A proposito dei rapporti massoneria-giacobinismo e massoneriacarboneria è utile riportare alcune testimonianze. Da “Informazioni di
polizia” risulta che «Luigi Oddo di Francesco ha sublimi gradi nell’ordine massonico, è di principi liberali, appartiene alla Loggia del Maestro
Generale»43 . Lo storico Labate c’informa che nel 1820 a Siracusa «in
casa di Vincenzo Oddo [...] si riunivano i Franchi Muratori». Dalle parole dell’Oddo risulta poi come vi sia un filo rosso che collega massoni,
giacobini e carbonari: «Sapevo io troppo bene che il Conti aveva dato
alloggio e anche cibato a sue spese per molti mesi nel suo Convento certi
Giacobini di Reggio di Calabria [...] per carbonari e massoni; non dubitai
che quest’uomo non fosse tale. Non m’ingannai. Appena mi vide, cominciò a chiedermi notizie de’ suoi amici; che cosa facessero i massoni e
i carbonari. Dissi: “Nel Regno di Napoli vi sono molti di questi... e qui?”.
“Oh qui gl’inglesi hanno esercitato queste cose pubblicamente”. Per assicurarsi di me mi fece diversi segni. Io finsi di non corrispondervi per
timore»44 . Riguardo a Gaetano Abela, il Franco lo descrive come un
«uomo d’irregolare condotta, che per tredici anni servì la Francia in impieghi militari e civili, che fu aggregato in Calais alla setta dei Massoni».
L’abate Oddo parla della presenza di Logge massoniche a Caltagirone:
«Qui si pretende erigere in capitolo la nostra Loggia di Caltagirone - dice un
massone calatino all’Oddo - acciò potessimo ricevere, e conferire alti gradi sì
nell’una che nell’altra società. Siete invitato a darci l’onore di appartenere alla
nostra Loggia di Caltagirone»45 ;
e a Siracusa:
«La persona che passò da Caltagirone era un certo Abela (D. Giuseppe) che
veniva da Palermo. Conosceva egli D. Salvatore Carmito barone, il quale apparteneva alla Loggia di Siracusa. Costui gli fece conoscere i Compagni. Inteso
28
che la Loggia era semplice, e non poteva dare che soli gradi infimi, s’impegnò
ad elevarla a gradi capitolari. Gli propose un di lui Fratello (d. Gaetano) il
quale, essendo Rosa croce, e che aveva facoltative grandissime, poteva soddisfarli»46 .
La città di Messina, scrive ancora il Labate, «era corsa e ricorsa da
esploratori, Massoni e Carbonari si riuniscono, s’intendono, stabiliscono i
loro piani»47 . Il Lemmi arriva alla conclusione che «nella Sicilia, come
del resto in tutte le altre parti d’Italia, trovavansi insieme carbonari e
massoni. Coloro che organizzarono le Vendite in Caltagirone, in Piazza
e in Pietraperzia, i fratelli Abela cioè il Sestini e lo stesso Oddo, per tacere
del P. Conti, appartenevano di certo alla Massoneria».
Come si può constatare, fonti diverse concorrono ad ipotizzare un
legame fra massoneria e carboneria, perciò indicheremo con il termine
massocarboneria l’organizzazione settaria di chiara matrice massonica
che in Sicilia ebbe l’obbiettivo di diffondere le Vendite carbonare48 .
La massocarboneria nel pietrino-barrese
Dopo aver fondato a Caltagirone la Vendita denominata Impazienti
(poi cambiata in Vigilanti all’Ordone di Caltagirone), il Sestini proseguì per
Piazza Armerina mentre il Leone e l’oculista si avviarono verso Gela,
tutti nell’intento di aprire nuove Vendite. I Cugini Sestini, Conti, Oddo e
Leone si ritrovarono poi, come convenuto, a Pietraperzia49 .
«La cognizione della Carboneria si ebbe la prima volta [...] in
Caltagirone ed in Pietraperzia». Qui fu costituita la Vendita intitolata
Cauloniati risorti.
«Il padre [Vincenzo] Conti - secondo la Relazione del giudice Franco - mostrava
un Diploma in Pergamena con due suggelli uno di ceralacca, l’altro a fumo, in
cui gli si dava il titolo di fondatore maggiore e la facoltà di aprire vendite a suo
piacere. Si diceva spedito questo diploma dalla Vendita all’Ordone di Napoli,
detta l’Ardita [...]. Costituì in Pietraperzia una regolare associazione di sette
individui, compresovi il sacerdote Oddo, cioè il dott. don Francesco
Bevilacqua, nipote di Oddo, il dott. don Aurelio Miccichè, don Michele de
Literis, sacerdote don Ignazio Dinarello, sacerdote don Vincenzo Puzzangara
e don Felice Nicastro. Costoro prestarono il giuramento in mano del riferito
padre Conti, il quale scrisse il Diploma di fondazione munito del suggello e
lo consegnò al dott. Bevilacqua»50 .
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Alla fine del 1818 «perveniva al governo una denunzia, per la quale
erano svelate delle occulte macchinazioni criminose in Caltagirone». In
seguito alla quale furono spiccati mandati d’arresto nei confronti di Francesco e Vincenzo Conti, Orazio Leone, Gaetano e Giuseppe Abela, cui
seguì il processo.
Da Pietraperzia la massocarboneria si diffuse presto a Barrafranca,
ma non sappiamo se si fosse costituita in Vendita ed eventualmente quale ne fosse il nome, anche se da un elenco fornito dallo storico Ligotti
risulta un numero di carbonari barresi più che sufficiente ad aprire una
regolare Vendita51 .
L’Oddo nella sua Istoria parla di «alcuni individui di Barrafranca»
appartenenti alla carboneria, ma di cui durante il «Processo» «non si
fece motto. L’autore cita alcuni (forse i più in vista) di tali individui, fra
cui D. Giovanni d’Ippolito (non figura nell’elenco del Ligotti) e «tre Preti», «Luigi Bonsirraro (sic), Rocco Ippolito» (risultano entrambi nel detto
elenco) e D. Santo Iambe (non è nell’elenco)52.
La famiglia Bonfirraro
Le adesioni di sacerdoti barresi alla carboneria furono molto più numerose di quelle menzionate. L’adesione di Luigi Bonfirraro, proprietario della menzionata miniera in contrada Mintina e membro di una famiglia di ceto medio tra le più importanti ed influenti, è indubbiamente
quella che per la nostra storia merita di essere evidenziata.
Nell’Ottocento borbonico di distinsero altri Bonfirraro: Vincenzo, che
risulta schedato in una lista di «anarchici o riformatori» antiborbonici
del 1826; don Antonio, presidente del Comitato di Allistamento della
Guardia Nazionale durante la rivoluzione del ‘48; Giuseppe e Pasquale,
sindaci nel crepuscolo borbonico (1856-’59)53 . Alcuni come oppositori al
regime borbonico altri come sostenitori, tutti parteciparono attivamente
alla lotta politica locale.
Una famiglia, dunque, protesa alla conquista del potere municipale
e destinata a giocare per circa un sessantennio, dalla sindacatura di Giuseppe Bonfirraro (1856) alla morte del sindaco Luigi Bonfirraro (1914),
un ruolo di primo piano nella storia amministrativa di Barrafranca.
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