Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Dopo tre adattamenti cinematografici (il primo del 1926, muto e andato perduto, il secondo del 1949 con Alan
Ladd e Betty Field, il terzo sceneggiato da Coppola e interpretato da Redford nel 1974), l’ultimo, ad opera del ben
noto regista di Moulin Rouge, fa discutere, per il marchio visivo barocco e scintillante nelle immagini come nella
colonna sonora: è o non è congruente allo spirito di Fitzgerald, questo fasto caotico ed eccessivo?
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
scenografia e costumi:
musica:
distribuzione:
143 MINUTI
USA
2013
BAZ LUHRMANN
FRANCIS SCOTT FITZGERALD
BAZ LUHRMANN, CRAIG PEARCE
SIMON DUGGAN
JASON BALLANTINE, JONATHAN REDMOND, MATT VILLA
CATHERINE MARTIN
CRAIG ARMSTRONG
WARNER BROS
interpreti:
LEONARDO DICAPRIO (Jay Gatsby), TOBEY MAGUIRE (Nick Carraway), CAREY
MULLIGAN (Daisy Buchanan), JOEL EDGERTON (Tom Buchanan), ISLA FISHER (Myrtle Wilson), JASON CLARKE
(George Wilson), ELIZABETH DEBICKI (Jordan Baker), CALLAN MCAULIFFE (Jay Gatsby da giovane), ADELAIDE
CLEMENS (Catherine).
Baz Luhrmann
Nato nel 1962 in Australia, Luhrmann passò l'infanzia nel villaggio di Herons Creek, vcino a Sydney. Il suo
soprannome "Baz" gli fu dato da suo padre, Leonard, gestore di una stazione di benzina e di un cinema, dove
potè nutrirsi di film fin da piccolo. Dopo il divorzio dei suoi genitori, si trasferì a Sydney con la madre e i fratelli.
Dopo aver frequentato l'Istituto nazionale di arte drammatica, con l'intenzione di diventare attore, Luhrmann
lavorò come regista teatrale, dirigendo numerose produzioni tra cui Strictly Ballroom, ma anche classici come La
Bohème e Sogno di una notte di mezza estate: spesso, però, la sua regia si contraddistingueva per la tendenza a
modernizzare i testi trasportandoli nella contemporaneità. Strictly Ballroom, di sua ideazione, fu un enorme
successo: messa in scena con la sua Six Year Old Company, l'opera attraversò l'Australia in tour per tutto il 1987:
grazie alla sua popolarità poté trasformarsi in un film, diretto dallo stesso Luhrmann. Già in questo suo primo
lavoro cinematografico, Luhrmann dimostra uno stile visivamente e musicalmente forte, eccessivo, colorato e
fantasioso. Il film, intitolato Ballroom - Gara di ballo, oltre a sbancare il box-office australiano vinse diversi premi
cinematografici internazionali. Il grande successo, però, arrivò nel 1996 con il film Romeo+Giulietta, rivisitazione
in chiave contemporanea di Shakespeare con Leonardo DiCaprio e Claire Danes (una nomination agli Oscar per le
migliori scenografie). Una parte non piccola del successo di Luhrmann, fin dalle opere teatrali e poi dal primo
film, si deve a Catherine Martin, costumista e scenografa, nonché sua moglie dal 1997.
Nel 2001 Lurhman ottenne un nuovo grande successo mondiale con il musical Moulin Rouge!, con Nicole Kidman
e Ewan McGregor, presentato in anteprima al Festival di Cannes. Il film racconta la Parigi di Toulouse-Lautrec e
degli artisti bohemién di fine Ottocento con i colori pittoreschi di una scenografia irreale e kitsch ma anche
suggestiva e accattivante. La storia, romantica e bizzarra, mescola temi narrativi e motivi musicali da
opera/operetta con brani di Madonna, David Bowie, Fatboy Slim, Massive Attack, Bono, i Queen, i Police e molti
altri. Inoltre, il film gioca con il cinema sia rivisitando il genere del musical, cui ridà nuova linfa, sia attraverso le
citazioni di altri film. La pellicola ricevette due Oscar per i costumi e la scenografia, e tre Golden Globe, come
miglior film (musical/commedia), miglior colonna sonora e miglior attrice (musical/commedia) a Nicole Kidman.
Nicole Kidman interpreta anche la protagonista del successivo Australia (2008), storia di una temeraria
aristocratica inglese rimasta vedova, decisa a combattere per la propria terra, lottando contro i pregiudizi e la
difficoltà di una vita faticosa. Anche stavolta il regista guarda al cinema del passato (Via col vento) per
attualizzarlo, benché fuori da ogni realismo. Il Grande Gatsby, suo ultimo film, inaugura fuori concorso il 66°
Festival di Cannes (2013).
La parola ai protagonisti
Intervista al regista e al cast
Come mai ha deciso di trasporre questo romanzo in un nuovo film?
Quand'ero bambino, vidi Butch Cassidy e divenni un grande ammiratore di Robert Redford. Nel 1974, lo rividi ne
Il grande Gatsby e mi resi conto che il film, pur essendo bello, era poco coinvolgente.
Molti anni dopo, viaggiando sulla Ferrovia Transiberiana, deluso dalla realtà poco romantica di quello che mi era
sempre parso un sogno, ero accompagnato da un audiolibro de Il grande Gatsby. Feci così partire l'audiolibro, mi
scolai il vino rosso australiano che avevo con me e mi addormentai: al risveglio, volevo far ripartire l'audiolibro.
Mi resi conto che il romanzo era splendido e aveva una struttura assolutamente cinematografica.
Come ha trasformato il romanzo?
Tutti pensano che io voglia sempre aggiungere qualcosa di mio, ma in realtà io volevo essere fedele al libro e
svelarne la sostanza. L'unica idea che non abbiamo preso direttamente dal romanzo è stata quella che riguarda il
personaggio di Nick Carraway, come e dove stia scrivendo un libro su Gatsby. Volevamo trovare il modo di
mostrare sullo schermo i sentimenti e le riflessioni di Nick sull'uomo, la sua sofferenza. Ma questa 'licenza' è
ispirata a un altro libro di Fitzgerald. Per il resto, ciò che mi interessava era ritrovare sullo schermo la forza attuale
di quel formidabile romanzo: è una storia che parla di noi, del presente.
Francis Ford Coppola, un mio caro amico, aveva scritto la sceneggiatura per il Gatsby di Redford e mi disse che gli
altri libri di Fitzgerald gli erano serviti da ispirazione: mi consigliò di cercare idee nei suoi scritti. Seguii il consiglio:
nelle note de Gli ultimi fuochi (o L'amore dell'ultimo milionario), un'opera rimasta incompiuta, Fitzgerald rivela
che i lettori avrebbero scoperto alla fine da chi e in che modo il romanzo era stato messo insieme. Il personaggio
in questione è una donna, ma il meccanismo narrativo è proprio quello che noi abbiamo introdotto nel film.
Tutto quello che c'è nel film è basato su accurate ricerche. Uno degli aspetti che amo di questo mestiere è
quelòlo dell’approfondimento, della ricerca che fai insieme ai migliori specialisti, agli studiosi più bravi al mondo.
Abbiamo esaminato la vita di Fitzgerald, i suoi romanzi, abbiamo investigato sui modi di vivere negli anni Venti,
abbiamo cercato di capire come il lettore riceveva questo libro nell’epoca in cui fu scritto. Qualcuno mi ha
chiesto: “Cosa c'entrano le zebre di gomma nella piscina?”: ebbene, ho trovato una foto scattata nel 1921 di una
ragazza con una zebra di gomma. Gli anni Venti sono stati un’epoca rivoluzionaria, che ha dato il via a tutto
quanto di strano nel costume e nel comportamento delle persone sia arrivato in seguito. Negli anni Dieci tutto
era conformismo e omologazione, le donne avevano tutte gonne lunghe fino ai piedi. Negli anni venti tutto
cambia, abiti, pettinature, stili di vita. Sono anni che hanno dato vita a una modernità che è ancora la nostra. E
quelli di Fitzgerald sono i ruggenti anni Venti, non quelli carini e leccati che a volte si immaginano.
Uno degli aspetti amati da alcuni ma contestati da altri è l’ttualizzazione della musica
Noi volevamo ricostruire lo stesso tipo di emozione provocato dal libro nei lettori di allora. Ci voleva una musica
di strada, una musica forte, un po’ destabilizzante. Fitzgerald era ossessionato dalla cultura popolare. In Gatsby lo
scrittore introduce quello che allora era un nuovo tipo di musica afro-americana, il jazz. A me il jazz piace molto,
ma ci siamo resi conto che oggi pensiamo al jazz come a qualcosa di raffinato, che in origine non era; era
popolare; era viscerale, scioccante e narrativo. Se avessi usato il jazz sarebbe uscito un film nostalgico. Fitzgerald
non era nostalgico, anzi: aveva 29 anni e scriveva per i giovani. Non volevo un effetto seppia. Perché la verità è
che quando leggi il romanzo, non pensi ad allora, ma pensi ad oggi, ad adesso. Allora pensai: 'Qual è il modo più
immediato di trasmettere l'idea di 'ora e adesso'?' La musica aiuta moltissimo, e se prendi il jazz e lo paragoni alla
musica da strada afro-americana di adesso, il risultato è l'hip-hop. Perciò ho lavorato a stretto contatto con Jay-Z,
e con canzoni e ballate pop.
Leonardo DiCaprio è stato la sua prima scelta? E Tobey Maguire?
Sì, ho sempre avuto lui in mente. Leonardo è un mio amico da molti anni, sin dai tempi di Romeo + Gulietta. I
suoi genitori sono miei amici e gli voglio molto bene. Di conseguenza gli amici di Leonardo sono i miei amici;
anche se non allo stesso livello, Tobey lo conoscevo bene già da prima, lo avrei considerato adatto per la parte a
prescindere dall'amicizia che ha con Leonardo. Ma il fatto che tra di loro ci sia un'amicizia profonda, il fatto di
sapere che il viaggio di Leonardo sarebbe stato impegnativo e faticoso, e che Tobey è una persona molto calma e
riflessiva, nonché un attore di immenso talento, mi hanno convinto che fosse davvero la scelta migliore.
Eravamo un triangolo, in realtà, un triangolo collaborativo. Abbiamo avuto i nostri momenti di scontro, le nostre
folli notti che andavano avanti per ore, in cui buttavamo giù le nostre idee, e queste notti sono diventate alcuni
dei momenti più memorabili del film. Ai tempi sembravano pazzie, 'Oh mio Dio, sono le tre del mattino,
dobbiamo girare domani mattina!'. In realtà sono stati scambi appassionati, che puoi avere solo con dei veri
amici e dei veri artisti. Mi considero estremamente fortunato e privilegiato per questo. Non succede a tutti".
Cosa l'ha colpita di Carey Mulligan, per la parte di Daisy?
L'ho conosciuta anni fa: ero a Londra, stavo soggiornando al Sanderson Hotel, e avevo sentito parlare di questa
giovane attrice, così mi sono intrufolato al party di Harvey Weinstein subito dopo la notte degli Oscar. Mi sono
avvicinato a questa deliziosa ragazzina che indossava, mi ricordo, un vestito vintage molto anni '20. La trovai
davvero intelligente e incantevole. Quando le abbiamo fatto il provino siamo rimasti estasiati, Leonardo incluso.
Quando guardi l'interpretazione di Carey, ti accorgi che lei è veramente Daisy. È letteralmente un fiore di serra
che Jay Gatsby vuole proteggere. Questo desiderio di proteggerla ha acceso l'ossessione, ed è qui che risiede la
pazzia.
Come sono costruite le scene delle feste?
Nulla è lasciato al caso o all’imrpovvisazione. Non esistono comparse. Ogni personaggio in scena ha un nome e
un ruolo specifico. Sanno chi sono, ognuno di loro è lì per recitare insieme a DiCaprio, versargli del vino addosso,
costruire la ‘sua’ festa. Diverso è il caso della piccola festa in casa di Myrtle. Ho amato particolarmente quella
scena. Nel libro quella scena è un po’ sfocata, non è descritta nei dettagli. Gli attori non sapevano come
dovevano interpretarla. Avevo appena letto un libro degli anni Venti intitolato The Wild Party (La festa selvaggia,
ndr), che mi era stato dato dal padre di Leonardo. Così abbiamo improvvisato. Ho acceso le telecamere e le ho
lasciate andare per venti minuti, mentre la musica di Jay-z andava a tutto volume. E li ho lasciati fare. È stato
pazzesco. Alcune scene le ho dovute tagliare, erano troppo piccanti.
Recensioni
Simona Santoni. Panorama
Ieri Il grande Gatsby di Baz Luhrmann ha aperto il Festival di Cannes, e non poteva esserci titolo migliore e più
rumorosamente atteso e discusso per dare il via alla kermesse tra nastri colorati, coriandoli e paillettes, quegli
artifici vistosi che animano le feste eccessive nella villa di Gatsby.
Il regista australiano che traspone sul grande schermo il romanzo capolavoro di Francis Scott Fitzgerald "è come
se Luc Besson adattasse Proust", ha detto su Le Monde Jaques Mandelbaum. "È un film artificiale", "Gatsby
organizzava grandi feste per guadagnare l'amore di una donna, Luhrmann ha fatto questo grande film per
guadagnare l'amore degli spettatori e la considerazione dei media", è il commento di Thomas Sotinel sempre sul
quotidiano francese. Alla proiezione per la stampa ieri la reazione è stata fredda, neanche un applauso ha chiuso
la visione di due ore, solo silenzio. E la critica all'indomani è divisa, un po' come è accaduto negli Stati Uniti pochi
giorni fa (stranamente, infatti, il film d'ouverture della Croisette quest'anno non è un'anteprima assoluta).
Il settimanale New Yorker ha scritto che "la volgarità del Grande Gatsby di Baz Luhrmann è studiata per
conquistare un pubblico giovane e suggerisce che, più che un cineasta, l'autore di Moulin Rouge e Romeo +
Giulietta è un regista di video-clip con sconfinate risorse e una spettacolare assenza di gusto". Il prestigioso
settimanale salva però tutti gli attori. Come fa anche l'Hollywood Reporter, soprattutto lodando Leonardo
DiCaprio e Carey Mulligan per la loro interpretazione "di prima classe", anche se questa "produzione enorme è
esagerata dall'inizio alla fine".
Ma proprio per questo e anche per le sue esagerazioni io invece sono tra chi difende il film, pur nella sua
imperfezione. Ho amato tanto il libro, ho adorato la scrittura potente e superba di Fitzgerald, e mi sento di dire
che il grande scrittore americano non viene snaturato. Viene amplificato, sì, esasperato, ma del resto lui stesso
scriveva, nel descrivere le feste da Gatsby, "tra un'esecuzione e l'altra la gente improvvisava 'numeri' per tutto il
giardino, mentre scoppi di risa felici e inutili si alzavano verso il cielo estivo". La vacuità e la decadenza di una
generazione, quella dell'età del jazz, degli anni Venti, sono l'anima delle sue pagine. E cosa c'è di più futile di
riempire un film di sfarzo, di fuochi di artificio, di colori sparati, di esibizioni e balli, di alcol a fiumi e di musica
rombante e dannatamente suadente?
La colonna sonora è poderosa e intrigante. Luhrmann affianca a note jazz, tipiche dell'epoca descritta, l'hip hop,
che considera l'espressione afroamericana attuale e una sorta di equivalente contemporaneo del jazz (come
spiega in questa intervista) : una commistione davvero affascinante, che a volte può sembrare più protagonista
della narrazione stessa, ma indubbiamente avvince e coinvolge laddove la presa verso la storia viene meno.
Quella che Gatsby (DiCaprio) coltiva verso Daisy (Mulligan) più che un amore è un'ossessione, è un ancorarsi
ostinato a un sogno che non c'è più, a una brama di riscatto che illude di sentimenti profondi. E questo Luhrmann
sa trasmetterlo sullo schermo. Il Gatsby interpretato da DiCaprio è più potente e meno mansueto di quello di
Robert Redford nella versione del 1974, ma fuoriesce comunque come un eroe romantico, solo nella sua
"straordinaria propensione alla speranza", una barca contro corrente risospinta senza posa nel passato.
(...) È la sognante fissazione di Gatsby verso Daisy a commuovere, è l'attaccamento sincero di Nick verso Gatsby a
emozionare, come nel libro.
(…) DiCaprio e Mulligan sono una volta di più sublimi. Leo conferma tutto quanto di buono finora scritto su di lui:
ora riesce a essere elegante e inafferrabile, ora vulnerabile e impacciato, ora temibile... Mulligan rende a Daisy
tutta la sua natura svaporata e frivola, quella sbadataggine tipica di chi sfracella cose e persone e poi si ritira nel
suo denaro o nelle sua ampia sbadataggine, per parafrasare Fitzgerald.
Tobey Maguire nei panni di Nick coglie la profondità disorientata del suo personaggio e l'essere
contemporaneamente dentro e fuori i fatti visti e vissuti. E anche Elizabeth Debicki è una buona scelta per
interpretare la campionessa di golf Jordan Baker.
Il regista, che ha anche scritto la sceneggiatura a quattro mani con Craig Pearce, aggiunge qua e là interessanti
richiami all'attualità, a Wall Street e alla crisi. Il 3D è assolutamente inutile e soprattutto nella parte iniziale
accentua un certo clima di finzione attorno al castello di Gatsby.
Luhrmann ha raccontato che alle fine della première americana gli si è avvicinata un'anziana signora dicendo:
"Ho attraversato mezza America per vedere cosa avevi fatto del romanzo di mio nonno. Penso che lui sarebbe
fiero del film. E sai una cosa? Mi sono piaciute molto anche le musiche".
Suvvia, perché accanirsi tanto contro questo nuovo fiammeggiante Gatsby?
Alberto Crespi. L'Unità
È evidente fin dai titoli di testa che «Il grande Gatsby» è un sogno. Il vecchio logo della Warner Bros si trasforma
nelle iniziali di Jay Gatsby, il protagonista del film e del romanzo di Francis Scott Fitzgerald. (...) Accanto al
civettuolo cottage di Nick sorge un palazzo tetro e misterioso, dove una sera il giovane viene invitato ad una
festa. Ci arriva e scopre che c'è tutta New York: gli ospiti si ubriacano alla faccia del Proibizionismo e fanno
baldoria come se non esistesse un domani, ma nessuno sembra conoscere il proprietario della magione che paga
da bere a tutti quanti. Nick, però, lo incontra: è Jay Gatsby, altro riccone la cui opulenza appare inspiegabile. Non
si sa da dove venga, come abbia fatto i soldi, che cosa voglia dalla vita. Nick diventa suo amico, ma capisce ben
presto che a Gatsby interessa una cosa sola: Daisy, la delicata Daisy (...) È Fitzgerald, l'età del jazz, l'America che si
avvia verso Wall Street senza ancora saperlo (pochi romanzi come Il grande Gatsby, uscito nel 1925, hanno visto
arrivare la Grande Depressione con tanta lungimiranza). Ma al tempo stesso è un'altra cosa. Fitzgerald lavorò
anche come sceneggiatore, descrivendo poi l'esperienza nel romanzo incompiuto The Last Tycoon, recentemente
ritradotto in italiano con il titolo L'amore dell'ultimo milionario. Ma la sua esperienza a Hollywood non fu
felicissima, e quando scriveva per sé era ben poco «filmico». Per Il grande Gatsby vale un po' il discorso fatto
l'anno scorso da Cannes per On the Road di Kerouac, fatto salvo che la qualità letteraria è infinitamente
maggiore: sembra cinematografico, ma non lo è. Il fatto stesso che sia narrato da Nick Carraway, e che la sua
attendibilità di narratore/testimone sia tutta da verificare (verifica che spetta al lettore, stimolato da Fitzgerald
con incredibile sapienza), lo rende incompatibile con la flagrante oggettività di ciò che appare sullo schermo.
Luhrmann e il suo sceneggiatore, Craig Pearce, assumono invece la voce narrante di Nick e affidano a Tobey
Maguire, l'attore che lo interpreta, il compito di interloquire con lo spettatore. Come viene risolto l'impasse? Con
una scelta, a ben vedere, molto astuta: trasformando tutto in un sogno, in un lungo flash-back che Carraway,
anziano e alcolizzato, rievoca inizialmente per venire incontro alle richieste dello psichiatra che lo ha in cura. Il
dubbio, quindi, diventa la natura stessa del film: Nick dice la verità o sta inventando tutto? Non lo sapremo mai,
in ossequio alla famosa massima di John Ford in L'uomo che uccise Liberty Valance: se la verità contraddice la
leggenda, stampate la leggenda. Baz Luhrmann stampa (filma) la leggenda. Gatsby è un mistero che la voce di
Nick dipana pian piano, senza mai arrivare a una soluzione. L'amore impossibile per Daisy diventa una scusa, un
tirante narrativo che serve a Luhrmann per incastrare un sogno dentro l'altro. Il 3D e il digitale rendono tutto
amabilmente finto e, per paradosso, squisitamente «vintage». La New York anni '20 ricreata al computer sfuma
armoniosamente nelle lussuosissime dimore di Long Island, ricostruite in Australia. Le scene delle feste sono
mirabolanti, e confermano come Luhrmann, prima ancora che un regista, sia un abilissimo confezionatore di
giocattoli e un delirante scenografo. Il film è barocco, eccessivo, troppo lungo, qua e là un po' noioso. DiCaprio
sembra nato per fare Gatsby, gli altri attori - a cominciare da Carey Mulligan, che per rendere Daisy credibile
dovrebbe avere assai più fascino sono poco più che corretti.
Giulia D’Agnolo Vallan. Il Manifesto
(…) Il regista australiano di ‘Strictly Ballroom’, ‘Romeo and Juliet’ e ‘Moulin Rouge’ (serata d’apertura a Cannes
2001) in ‘Il grande Gatsby’ insegue l’adattamento totale di un testo rimasto inespugnabile a molteplici «assalti»
(incluso quello piuttosto insipido con Robert Redford, nel 1974). Di tante trasposizioni tentate negli anni, infatti,
l’unica decretata come «riuscita» è stata ‘Gatz’, della Elevator Repair Company, una lettura integrale del testo (lo
spettacolo durava più di otto ore) che, nel 2012, ha spopolato sul palcoscenico di New York. Fan dichiarato di
‘Gatz’, Luhrmann «attacca» il grandissimo piccolo romanzo dell’autore di St. Paul, armato di CGI tridimensionale,
a cavallo di cineprese multiple, in continuo movimento e con una fastidiosa predilezione per le riprese dall’alto
(ispirate pare a una precisa frase del romanzo), ma anche con devozione letterale – le parole dal libro (80mila
copie vendute solo l’anno scorso. Scribner’s ne aveva pubblicate 23mila nel 1925, quasi tutte rimasero
invendute), si scompongono infatti in caratteri galleggianti verso il pubblico, cortesia del 3D. (…)
Si tratta di un oggetto facilissimo da odiare (come hanno fatto tanti critici americani o alcuni colleghi all’uscita
della proiezione di Cannes), ma che non si merita l’indignazione che ha suscitato. Leonardo Di Caprio è un Gatsby
molto più riuscito, complesso, di quanto non furono i suoi Edgar J. Hoover e Howard Hughes. E’ un Gatsby più
dolorosamente ftzgeraldiano, internamente diviso, di quello timidamente introspettivo di Redford. In lui fa
capolino Orson Welles – il mistero del self made man Charles Foster Kane, ma anche il trasformista Mr Arkadin,
con i suoi megaparties. Le scene in cui ha spazio sono infatti le migliori – il suo primo incontro con Daisy (Carey
Mulligan, troppo inerte, esistenzializzata, per la ragazza la cui voce «aveva il suono del denaro»), o il celebre
dialogo con Nick sul passato che ritorna. Curiosamente trattandosi di un film di Luhrmann, le scene più fastose e
piene di personaggi – le grosse feste alla casa di Gatsby (turrita come il castello di Disneyland), popolata da
senatori, gangster, stelle del cinema e cantanti che sembrano a Cab Calloway risultano le più meccaniche, le
meno ispirate. Visivamente in esse non c’è nulla che non avesse già fatto (meglio probabilmente) in ‘Moulin
Rouge’. Il 3D non aiuta. Anzi, è difficile non pensare che «I folli anni venti» sarebbero stati molto più folli in due
dimensioni, magari in bianco e nero (il libro è noto per la sua brevità, 180 pagine). ‘Il Grande Gatsby’ (due ore e
23 minuti) è film «tanto» che però si sente poco. (…) Luhrmann cita diligentemente Fitzgerald ma gli sfugge la
radicalità tranchant, la limpidezza di visione del romanzo e, cosa principale, la sua tragica, meravigliosa
«americanità».”
Giuseppe Gangi. Ondacinema
Quando si annuncia l'improvviso spostamento della distribuzione di un film molto atteso, diviene inevitabile
pensarne male: all'epoca di "Shutter Island" si parlò subito di flop e l'accoglienza tiepida americana appariva
preparata a tavolino. L'ultima fatica di Baz Luhrmann, annunciato a Natale e poi fatto uscire a maggio (sfruttato
anche come proiezione di apertura del Festival di Cannes), non si discosta poi molto da questa parabola, ma con
una più calcata accentuazione negativa. I giornali a stelle e strisce hanno dato dalle preview responsi ultranegativi, seguiti dalla critica francese che, per smontare le grandi produzioni americane, non si fa di certo
pregare.
Le attese accumulatesi negli ultimi tempi su "Il grande Gatsby" erano notevoli, anche considerando che il
progetto che si stava profilando all'orizzonte era perfetto per un autore che ha sfruttato al meglio il suo talento
immaginifico quando ha rielaborato opere e scenari del passato confondendoli con dettagli, ritmi musicali,
atteggiamenti del presente, in un ammodernamento che non tradisce lo spirito, pur fornendo una rilettura
originale e personale. Jay Gatsby è poi un personaggio-chiave della letteratura americana del Novecento: la sua è
una storia bigger than life, una parabola che si staglia all'apice di un boom economico che sembrava inarrestabile
ma la cui caduta di Icaro profetizzava con qualche anno di anticipo il crack del 1929. Conviene quindi mettere le
mani avanti, affermando che di film che eguaglino la bellezza dell'amaro capolavoro di Francis Scott Fitzgerald,
pubblicato nel 1925 ancora non ne sono arrivati, nonostante le trasposizioni siano quattro. Quella più famosa,
firmata da Jack Clayton nel 1974, era un adattamento calligrafico e stantio, sebbene la sceneggiatura fosse stata
scritta da Francis Ford Coppola (e iniziata da Truman Capote), ma il regista de "Il Padrino" confesserà anni più
tardi che lo script da lui redatto era stato mandato probabilmente al macero.
Il lavoro di adattamento è fedelissimo alla lettera fitzgeraldiana, cosa che può sorprendere solo chi ha
dimenticato la rielaborazione shakespeariana di "Romeo + Giulietta". La voce fuori campo di Nick è molto
sfruttata e, tramite la sua posizione in avanti nel tempo, si possono idealizzare e mistificare determinati
momenti: come il lirico primo sguardo che la macchina da presa posa su Daisy, presentata in un salone dalle
tende bianche, in un'atmosfera dal candore accecante, o quando facciamo la conoscenza di Gatsby, sullo sfondo
di un profluvio di fuochi d'artificio. Il regista australiano non risparmia nessun movimento di macchina, tra
carrellate, dolly, panoramiche e virtuali accelerazioni, trucchi digitali e continue sovrimpressioni: il movimento è
il combustibile del suo cinema, insieme a un montaggio che ha le sincopi del videoclip anche grazie alla colonna
sonora che, invece di una ricostruzione filologica, mescola charleston e Lana Del Rey, George Gershwin e Bryan
Ferry, con il refrain assassino di "A Little Party Never Killed Nobody", dove uno swing di sax si accoppia alla voce
di Fergie e a un tripudio di synth da techno-music.
La ricostruzione dell'Età del Jazz passa attraverso bisbocce e feste faraoniche e, oltre alle scenografie maggiorate
con la computer graphics, Luhrmann si appoggia molto alle lumeggiature della fotografia di Simon Duggan, che
lavora non solo sulla composizione cromatica, ma anche sulla dicotomia espressiva tra profondità di campo e
sfocature. La grandeur che vuole esprimere Gatsby attraverso le feste che devono diventare ombelico del mondo
per attirarvi tutte le persone che contano, sperando di incontrarne solo una, è il paradosso che schiaccia il
meraviglioso personaggio di Fitzgerald. L'appropriazione della fonte - evidentemente amata dal regista - si ferma
però su un piano formale e, per di più, la narrazione di Fitzgerald riprende le redini del film giusto dopo la metà,
arrestando Luhrmann, la cui orgia visiva si trasforma giustamente in festival del pacchiano e dell'eccesso. Il
motivo per cui questo "The Great Gatsby" non è il capolavoro che alcuni di noi attendevano (ma né, tantomeno,
il fallimento di cui molti parlano a sproposito), è l'avere di meno e non di più: meno Luhrmann e, quasi di
conseguenza, meno delle atmosfere di Fitzgerald. Un eccesso limitato e un languore malinconico che presenta il
conto nelle battute finali, senza la tessitura costante in un racconto che è la quintessenza del melodramma,
fondato com'è sul tentativo di ritornare a un idillio lontano ed effimero (metaforizzato dalla luce verde dall'altra
parte della baia).
(…) La direzione degli attori è il principale vettore di osservazione emotivo per Luhrmann e non è un caso che ci
sia variazione di stile recitativo, tra il compassato e l'isterico, con persino un passaggio da sophisticated comedy
(il tè in casa Carraway). Da questo punto di vista, ineccepibile è il casting, in cui, forse, solo il rude Joel Edgerton
risulta un po' stereotipato, mentre è azzeccato Tobey Maguire nella sua maschera da uomo comune in mezzo a
eventi straordinari, triste la Daisy di Carey Mulligan, donna superficiale e "noncurante" e, infine, Leo DiCaprio che
alle prese con Gatsby pone in calce una delle sue caratterizzazioni più profonde. Jay Gatsby sembra infatti scritto
appositamente per lui, ma l'attore trentottenne riesce a donargli oltre alla dovuta allure carismatica anche
l'irrequietezza psichica tipica degli oscuri eroi di Welles - chiudendo il cerchio di un'influenza evidente ma spesso
taciuta. (...)
Marianna Cappi. Mymovies
Nella primavera del 1922, il giovane Nick Carraway si trasferisce a Long Island, in una villetta che confina con la
villa delle meraviglie di Gatsby, un misterioso milionario che è solito organizzare feste memorabili e del quale si
dice di tutto ma si sa molto poco. Cugino della bella e sofisticata Daisy Buchanan, moglie di un ex campione di
polo, Nick viene a conoscenza del passato intercorso tra Daisy e Gatsby e si presta ad ospitare un incontro tra i
due, a cinque anni di distanza. Travolto dal clima ruggente dell'età del jazz, da fiumi di alcol e dalla tragedia di un
amore impossibile, Nick si scoprirà testimone, complice e disgustato, del tramonto del sogno americano.
Tra la versione del 1974, sceneggiata da Coppola ma cinematograficamente poco consistente, e la rilettura
odierna firmata Baz Luhrmann, che invece carica l'impianto visivo fino quasi a soffocare la voce amara e toccante
del romanzo di Scott Fitzgerald, è lecito sognare una giusta temperatura di trasposizione, che resta ancora ideale,
e rinnova la sfida ai cineasti a venire, com'è nella natura dei grandi classici di fare.
Non c'è dubbio, infatti, che nel libro di Fitzgerald ci sia un corpo che domanda di essere tradotto esattamente con
il linguaggio del cinema e della musica: è quello che parla della trasformazione fisica del protagonista, dei
costumi che indossa, dell'architettura che abita, degli straordinari eventi che ospita; dell'epoca che incarna. E non
è tanto su questo fronte, come verrebbe da pensare pregiudizialmente, che il film di Luhrmann è ridondante: il
regista australiano sa animare come pochi altri una festa cinematografica e qui lo conferma a più riprese, sulle
note di un r'n'b contemporaneo che aspira a giocare il ruolo inebriante che all'epoca giocava il jazz. Ma c'è anche
un'anima, nel romanzo, autobiografica e disperata, che parla molto più in sordina di quanto non faccia il film di
Luhrmann, che pecca in più riprese di un'eccessiva esplicitazione dei sentimenti in campo (…).
D'altronde, insistendo sul tema del guardare e dell'essere guardati, è il regista stesso a fornire un'indicazione per
la lettura del suo lavoro. Nick è un osservatore della vita, un voyeur, Gatsby ha la fama di essere una spia e vive
per raggiungere quella luce verde al di là dell'acqua che guarda senza posa, i due si tengono sotto controllo dalle
rispettive finestre, mentre un paio di giganteschi occhi maschili (simili a quelli di donna dipinti da Francis Cugat,
che Fitzgerald volle come copertina) scruta come un dio pagano il distretto operaio dove i ricchi sostano per il
tempo dei loro sporchi comodi. Luhrmann, cioè, denuncia per primo e ribadisce ad oltranza il carattere
eminentemente visivo del proprio operato, invitando il pubblico a godere dei fuochi d'artificio, dello "spettacolo
spettacolare", e dissuadendolo dal "pretendere troppo", come impudentemente osa invece fare Gatsby.
Marco Luceri. Il Corriere Fiorentino
Quando Hollywood decide di sfidare la crisi rispolvera di solito i classici. In apertura di un Festival di Cannes
partito un po’ sottotono (meno gente e meno movimento quest’anno sulla Croisette) ha così calato, come da
copione, i pezzi da novanta. E così «Il grande Gatsby» di Baz Lurhmann (quello di «Moulin Rouge», per
intenderci) ripropone un testo sacro della letteratura americana, firmato dal grande Scott Fitzgerald, e ce lo
riconsegna sotto una nuova luce, quella di una rutilante contemporaneità che tutto divora, tutto centrifuga, tutto
riplasma, annullando i confini tra passato, presente e futuro. Una specie di film-saggio, insomma, sicuramente
frutto di un’abilissima strategia commerciale (siamo pur sempre a Hollywood), che sarebbe tuttavia sbagliato
liquidare solo come tale. Il più evidente merito del film (qui a Cannes la criticona ha storto parecchio il naso) è
dunque quello di non aver fatto un’operazione-nostalgia, né nei confronti del «modello» letterario, né verso i
precedenti adattamenti per il cinema (i cinéphiles ricorderanno quello con Robert Redford e Mia Farrow, del
1974), ma di aver adattato la magnifica e crepuscolare vicenda di decadenza raccontata da Fitzgerald all’estetica
di oggi.
È così che i ruggenti anni Venti non hanno molto della leggendaria Età del Jazz, ma appaiono come un gigantesco
contenitore fuori dalla Storia, in cui convergono, senza soluzione di continuità, suggestioni, visioni, ritmi e
immaginari di un’epoca – un eterno presente in chiave vintage – indefinibile. È il principale motivo per cui il film
fa dell’eccesso, in ogni senso, la sua stessa ragione «di vita»: spettacolare oltre ogni misura, barocco, kitsch,
velocissimo, debordante, questo Grande Gatsby trova nella continua e forzata sottolineatura di ogni sua
componente stilistica (regia, recitazione, montaggio, musiche) la dimostrazione di come e quanto la Hollywood
contemporanea sia capace, sotto nuove forme, di dare linfa vitale alla propria mitologia. Il fascino di questo filmbaraonda risiede tutto in questo tentativo, e cioè quello di rendere ancora narrativamente stupefacente la
propria funzione nel mondo, quella dell’entertainment, possibilmente sulla cara vecchia (nuova?) via dei lustrini e
delle star. E allora quale miglior modello se non quello di Fitzgerald, che primo tra i grandi scrittori americani,
aveva raccontato i cuori di tenebra che popolavano Hollywood e dintorni (insuperato resta in questo senso il suo
romanzo incompiuto, «Gli ultimi fuochi»)? Perché dietro ogni luccicante lustrino si nasconde sempre il male,
dietro le immagini l’inganno, dietro la superficie il niente.