Ludovico Lanzo

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Ludovico Lanzo
L'ADATTAMENTO E IL CINEMA POSTMODERNO.
IL CASO DI THE GREAT GATSBY
DI LUDOVICO LANZO
Tra fedeltà ed invenzione: l'adattamento
Una forma d'interpretazione
Narrare attraverso un racconto significa comunicare un’esperienza a qualcuno, esporre una vicenda, sia essa: reale, attendibile o inventata. L’elemento comunicativo è dunque il primo fattore che emerge in una narrazione.
[…] si può dire che narrare significa, in linea di massima, comunicare
ad altri esperienze, vere o possibili, che non conoscono, o conoscono in
modo diverso.1
In ambito letterario sembra evidente, mentre si sfogliano le pagine
di un libro, la tendenza dello scrittore a organizzare il racconto in modo
più o meno strategico, affinché si stabilisca un rapporto comunicativo con
1
G. TINAZZI, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Venezia, Marsilio Editori,
2010 [2007], p. 21.
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il suo lettore. Il compito di chi comunica è dunque quello di organizzare
un’esperienza, che altrimenti risulterebbe distorta, dosare la quantità o la
qualità delle informazioni, decidere di mescolare realtà o finzione, scegliere un punto di vista con cui articolare la narrazione.
Queste brevi “istruzioni d’uso” sembrano essere alla base della costruzione di una narrazione scritta, eppure esse sono, allo stesso tempo,
fondamentali per la narrazione audiovisiva.
Il cinema, sin dalle origini, ha dunque utilizzato il racconto scritto
come elemento privilegiato per lo sviluppo dei film. Passando dunque dalla parola scritta all’immagine, molti testi sono stati “adattati” per il grande
schermo e molti altri lo saranno, poiché l’adattamento rappresenta un procedimento molto caro alle industrie cinematografiche.
Verso la fine degli anni Novanta le industrie dell’entertainment, in
particolar modo quella hollywoodiana, realizzarono per il grande schermo una serie di adattamenti, alcuni dei quali hanno riscosso un grande
successo. Primo tra tutti Sense and Sensibility di Ang Lee del 1995, una
delle trasposizioni cinematografiche più famose, tratta dal romanzo di
Jane Austen.
Emblematico è il caso di un film del 1992, diretto da Francis Ford
Coppola e sceneggiato da James V. Hart, nel cui titolo è chiaramente
espresso il nome dell’autore da cui il film trae ispirazione. Si parla di Dracula di Bram Stoker, film che, oltre ad ottenere un incasso plurimilionario,
diventerà un cult.
Seguono, per citarne alcuni: Washington Square di Agnieszka Holland
e Le ali dell’amore di Iain Softley, entrambi del 1997 e tratti dai romanzi di
Henry James; Le ali della libertà del 1994 e Il miglio verde del 1999, diretti e
sceneggiati da Frank Darabont, la cui storia è tratta dai romanzi di Stephen
King, sicuramente tra gli scrittori che hanno più ispirato il cinema.
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Seguendo le valutazioni proposte da Giorgio Tinazzi, il quale afferma che il linguaggio del cinema è eterogeneo e adotta più codici espressivi
come ad esempio l’immagine, la parola, la musica, la luce, il colore, è facile
dedurre che la letteratura e il cinema non rappresentino due ambiti isolati
e tra loro inconciliabili.2 Al contrario, i ponti di collegamento tra questi
due “mondi”, come vengono definiti da Armando Fumagalli, sono continuamente in fase di allestimento.3
Prima di entrare nel merito del “genere” dell’adattamento è opportuno chiarire un concetto:
Ecco una delle grandi regole dell’adattamento: non si può essere letteralmente fedeli al materiale di partenza. […] non si deve essere letteralmente fedeli al materiale di partenza. Questo materiale è in una forma
differente, una forma che non ha la macchina da presa.4
Definire l’adattamento come traduzione priva di ingegno di un testo
letterario può significare minimizzare drasticamente il lungo lavoro che
operano gli sceneggiatori, un lavoro che crea il punto di partenza per la realizzazione di un film. D’altra parte, però, significa riconoscere, probabilmente in modo inconsapevole, uno dei più profondi, e allo stesso tempo
più problematici, significati del termine traduzione.
Alzando lo sguardo verso l’orizzonte della semiotica, più precisamente verso quella che Roman Jakobson definisce intersemiotica5, risulta
evidente che i segni linguistici sono potenzialmente interpretabili attraverso segni non linguistici (musica, film e fumetti ad esempio). La teoria di
Jakobson si concentra, in parte, sullo studio della trasposizione dal raccon2
3
4
5
Ivi, p. 32.
A. FUMAGALLI, I vestiti nuovi del narratore. L’adattamento da letteratura a cinema, Milano,
Il Castoro, 2004, p. 16.
W. GOLDMAN, Which Lie did I Tell? More Adventures in the Screen Trade, Bloomsbury,
London, 2000, p. 179.
R. JAKOBSON, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 54.
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to scritto a quello audiovisivo, un lavoro che ha successivamente attirato
l’attenzione dei maggiori studiosi dell’adattamento, ma che apre le porte a
un problema.
Lo stesso Jakobson non manca di evidenziare la complicazione che
comporta la traduzione da un codice a un altro, dichiarando impossibile
raggiungere un grado di equivalenza tra i due.
Anche l’apparente sinonimia non è equivalenza, poiché ogni singolo
codice contiene, al suo interno, delle connotazioni intraducibili. Dunque,
portando avanti il processo di traduzione da un codice (supponiamo linguistico) a un altro (per esempio audiovisivo) sarà impossibile ottenere una
fedeltà assoluta nella trasmutazione dal primo al secondo codice, proprio
come affermavano le parole di W. Goldman citate sopra. Ecco perché è
possibile parlare di creatività anche nell’ambito dell’adattamento.
La libertà espressiva nell’adattamento mette in luce, però, una sorta
di contraddizione: la rielaborazione del testo originale può essere una pratica di considerevole estro creativo, d’altro canto, il nuovo racconto può
trasformarsi in un modello impositivo. In questo caso lo spettatore potrebbe sentirsi deluso dalla trasposizione di un romanzo che ha amato, poiché
di un dato personaggio, con il quale si era identificato, è saltato un tratto,
un’azione, un gesto dalla forte influenza empatica.
Di contro, una trasposizione altamente fedele al testo di riferimento
(ricordando che il grado di assoluta fedeltà non è raggiungibile), può provocare nello spettatore un maggiore apprezzamento, perché le sue aspettative emozionali non sono state tradite.
L’esperienza comunicativa della narrativa audiovisiva
Se, come affermato prima, il cinema trova in molti casi un luogo di
incontro con la letteratura, è anche vero che il primo rimane, rispetto alla
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seconda, un “mezzo” espressivo differente nella sua totalità e concepibile
come un modo diverso di raccontare una storia già scritta, la quale non è
stata semplicemente tradotta, bensì adattata.
Si può dunque parlare, nel caso dell’adattamento, della “seconda
vita”6 di una storia, riproposta in forma diversa.
George Bluestone considera l’ambito letterario e quello audiovisivo
esteticamente autonomi, inoltre, evidenzia come al lettore del libro e allo
spettatore del film vengano richieste due operazioni mentali differenti.7
Poiché un testo letterario è basato sugli elementi del linguaggio verbale, il lettore dovrà prima acquisirne i concetti e, dopo averli compresi,
formulare immagini mentali. Si passa dunque dal processo di comprensione a quello di percezione di un testo. In direzione opposta si muove, invece, il fruitore di un prodotto audiovisivo, al quale viene chiesto di percepire
le immagini sullo schermo e, solo in seguito, arrivare al significato che esse
trasmettono. In questo caso il processo cognitivo prevede prima la fase di
percezione e poi quella di comprensione.
Interessante, per molti aspetti, è lo studio sulla pratica dell’adattamento condotto da Dudley Andrew, il quale propone tre modi per realizzare un adattamento: borrowing, intersection e fidelity of transformation.8
Il “prendere in prestito” è il procedimento più frequente per costruire un film basandosi su uno scritto letterario di successo, poiché esso
sfrutta un testo che rappresenta un archetipo culturale, come ad esempio
le opere di Shakespeare, per poi sviluppare liberamente variazioni sulla
struttura della trama. In questo caso non sarà importante la fedeltà nei
confronti della “fonte” ma la popolarità sul pubblico, infatti: «The success
6
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8
A. FUMAGALLI, I vestiti nuovi del narratore, op. cit., p. 66.
G. BLUESTONE, Novels into film, Berkeley-Los Angeles, University of California
Press, 1957.
J. D. A NDREW, Concepts in film theory, New York, Oxford University Press, 1984, p.
98.
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of adaptations of this sort rests on the issue of their fertility not their
fidelity».9
Con il procedimento dell’intersezione è possibile rappresentare
solo una parte del patrimonio del testo originale, in quanto l’attenzione
dell’adattamento è rivolta solo a uno degli aspetti dell’opera di partenza.
Here the uniqueness of the original text is preserved to such an extent
that it is intentionally left unassimilated in adaptation. The cinema, as a
separate mechanism, records its confrontation with an ultimately intransigent text.10
Per esporre la tipologia di adattamento che riguarda la fedeltà della
trasformazione Andrew compie una suddivisione, distinguendo la fedeltà
alla lettera di un romanzo e fedeltà dello spirito.
La fedeltà alla lettera sembra essere, agli occhi di Andrew, particolarmente alla portata del cinema, in quanto vengono emulati nella
sceneggiatura, in modo meccanico, gli aspetti narrativi del testo-fonte
(come ad esempio la geografia dei luoghi, gli eventi, i punti di vista, i
personaggi e le loro relazioni). Molto più ardua è la ricerca della fedeltà
dello spirito di un romanzo, dove, al lavoro meccanico dello sceneggiatore, vengono contrapposte le caratteristiche “astratte” di un opera
letteraria, ossia atmosfere, ritmo, valori, immagini. Questi elementi
caratteristici, definiti da Andrew “intangibili”, rappresentano parte di
quell’eredità sensibile che l’autore del romanzo voleva trasmettere e
che il cineasta dovrebbe intuire e riprodurre. A tal proposito Andrew,
esattamente come Jakobson, dichiara irraggiungibile la perfetta fedeltà
dello spirito.
9
10
Ivi, p. 99.
Ibidem.
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The cinéaste presumably must intuit and reproduce the feeling of the
original. It has been argued variously that this is frankly impossible
or that it involves the systematic replacement of verbal signifiers by
cinematic signifier, or that is the product of artistic intuition […].11
Tra le teorie che sostengono l’idea che il cinema e la letteratura siano
autonomi, dal punto di vista sia estetico che divulgativo, si colloca la considerazione di Gianfranco Bettetini, in cui vengono evidenziate le variazioni
delle strategie comunicative che si verificano durante la fase di traduzione
di un racconto in un film.12
Dunque, se il contenuto di un testo è la manifestazione pragmatica
di ciò che l’autore ha voluto esprimere, la sua traduzione, secondo Bettetini, dovrebbe: «Implicare anche il rispetto e la restaurazione delle sue
istanze di enunciazione».13
Numerose sono le difficoltà che intervengono in questa fase di traduzione.
Non si potrebbe nemmeno parlare correttamente di traduzioni, in
questo campo, vista la fondamentale funzione pretestuale del riferimento letterario e linguistico: forse non è un caso che la pratica audiovisiva abbia sempre parlato di riduzioni.14
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Ibi, p. 100.
A. FUMAGALLI, I vestiti nuovi del narratore, op. cit., p. 95.
Ibidem.
Ivi. p. 9
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I modelli dell’adattamento
Tutti i colpi sono permessi. Tranne i colpi bassi.15
A conclusione di questo capitolo verrà presentata la classificazione,
proposta da Francis Vanoye16, dei modelli cui si affidano sceneggiatori che
prendono parte alla trasposizione di un sistema semiotico a un altro.
Occorre, però, premettere che esistono, secondo la riflessione di
Vanoye, due grandi “schemi” di sceneggiatura: «classico»,
classico»,
»,, in cui ci si concentra maggiormente sull’azione, sui personaggi, sull’efficacia drammatica
e sulla coerenza logico-psicologica; «moderno»,
moderno»,
»,, caratterizzato dall’ambiguità dei contenuti, che offrono spunti di riflessione.
In ambito letterario, simmetricamente ai due schemi analizzati, esistono le forme di racconto «classico», di tradizione realista, e «moderno»,
frutto dell’esperienza di scrittura di inizio secolo17.
A questo punto, dal confronto dei modelli presentati, nascono quattro combinazioni possibili.
1.
Da un romanzo «moderno» a un film «classico». In questo caso si ricorre a
numerosi tagli, ovviando alla problematicità di un testo troppo lungo e complesso per una sceneggiatura, alla soppressione di un narratore extradiegetico e all’eliminazione di alcuni personaggi. Il film
preso in considerazione da Vanoye è L’insostenibile leggerezza dell’essere,
adattato da Jean-Claude Carrière nel 1988, in cui i personaggi ben
definiti (nei loro caratteri e nella loro psicologia) e il concatenamento lineare delle azioni, evidenziano la decisione di adoperare una
15
F. VANOYE , La sceneggiatura. Forme, dispositivi, modelli, Torino, Lindau, 2011 [1998],
p. 141.
Ibidem.
Ivi, p. 142.
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sceneggiatura classica. Inoltre, a differenza del film, il romanzo si
concentra di volta in volta su un personaggio, questo crea differenze
di prospettive sugli eventi alternate alla voice-over del narratore18.
2.
Dal romanzo «moderno» al film «moderno».. Nel 1955 Michelangelo Antonioni realizza Le amiche, tratto dal racconto di Pavese Tra sole donne. Il racconto originale non appare costruito secondo un’esplicita
progressione drammatica, al contrario, descrive il contesto borghese
della Torino anni ’50 attraverso numerose sequenze di dialogo. La
sceneggiatura, da un lato, sceglie la narrazione oggettiva, o impersonale, che resta maggiormente interessata a un personaggio principale, dall’altro, non rinunciando alla molteplicità dei personaggi
secondari, crea un innesto tra il film corale, che racconta la storia di
tanti protagonisti, e il film collettivo, caratterizzato dalla divisione
a episodi ognuno dei quali diretto da un regista diverso.19 Sia dal
punto di vista letterario che cinematografico, è presente nella storia
una moderna tipologia di narrazione disarticolata e frammentaria
già esercitata, in un certo senso, nel film I vitelloni (Federico Fellini,
1953). Anche in questo caso la pluralità dei personaggi permette
varie articolazioni del racconto, in un continuo incrocio e distacco
dei differenti punti di vista.
3.
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Dal romanzo «classico» al film «classico».. Anche quando si sceglie di rimanere fedeli al testo di riferimento, gli adattamenti possono recare
tracce di sottili variazioni. È il caso di La maschera, novella di Maupassant del 1889, adattata in un episodio del film Il piacere, ad opera
di Max Ophüls e Jacques Natanson del 1952. Nella sceneggiatura
Ivi. pp. 143-144.
Ivi. pp. 145-146.
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vengono accuratamente rispettati, oltre che i luoghi e il concatenamento degli eventi, anche la voce narrante, che lega i tre episodi.
Proprio come per racconto di Maupassant, nel film la voce del narratore conclude un episodio e lo lega a un successivo20.
Essa rappresenta in pratica l’equivalente classico, per il cinema, della
voce narrante realista, semi-obbiettiva, semi-artista, semi-trasparente,
semi-partecipe spesso inserita in un racconto a incastro21.
4.
Dal romanzo «classico» al film «moderno». In questa pratica si sono ci-
mentati molti registi appartenenti alla Nouvelle Vague, appassionati
di letteratura. Vanoye, per analizzare l’ultimo dei modelli, propone l’adattamento di Denaro falso, racconto di Tolstoj pubblicato nel
1911, nel film di Robert Bresson, L’argent. Nel film del 1938 il regista
si dedica a un lavoro di concentrazione dei personaggi, infatti, Ivan
e Stepan si trasformano in Yvon, mentre, numerosi sono gli episodi
soppressi. Ma gli aspetti che rendono la sceneggiatura un evidente
testo moderno sono rappresentati da due scelte. La prima riguarda
la decontestualizzazione: le vicende del racconto di Tolstoj, infatti,
vengono trasposte nella Francia degli anni ’80. La seconda, e forse
quella più rappresentativa del racconto moderno, riguarda l’attenzione posta ai tempi deboli o morti nella scena della rapina, in cui è
adoperato un processo di sdrammatizzazione dei momenti forti22.
È giusto dunque considerare l’adattamento come la fase di appropriazione di un’opera, che nasce in un contento a volte diverso da quello
in cui si sviluppa la rappresentazione cinematografica del suo contenuto.
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Ivi, pp. 147-148.
Ivi, p. 147.
Ivi, p. 149.
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Ciascun autore vive in un epoca dominata da un contesto che, in qualche
modo, influenza la sua sensibilità e spesso accade che, romanziere e sceneggiatore, vivano in due epoche differenti. In un adattamento, il processo
di transfert23, come lo definisce Vanoye, non riguarda soltanto il contenuto
di un testo, ma soprattutto il cambiamento socio-culturale con cui quel
dato testo deve confrontarsi.
La visione postmoderna
Una nuova strategia comunicativa
Da molti anni, il concetto di cinema postmoderno ha condotto teorici e studiosi verso un dibattito, non ancora concluso, intento a indagare
cambiamenti epistemologici, sociali, tecnologici ed economici, strettamente legati a un panorama mediatico in continua evoluzione. In effetti il cinema non può considerarsi lo stesso di sempre, proprio il termine postmoderno
sembra voler indicare il tentativo di superamento del suo paradigma di riferimento, per adattarsi a un nuovo scenario culturale. Il dibattito, dunque,
fa scaturire un ampio esercizio teorico finalizzato a delimitare un’ipotetica
corrente, o un nuovo modo di fare e intendere il film in direzione postmoderna.
Eppure, proprio a partire dalla nostra definizione, il postmoderno
denuncia di non poter fare a meno del moderno. In questo rapporto di
lontananza e avvicinamento si tenterà di definire quali sono gli elementi
distintivi che hanno portato alcuni film a essere considerati postmoderni.
Per intraprendere questa analisi è opportuno aver presente quanto
il concetto di postmoderno abbia influito sulla società occidentale degli
23
Ibidem.
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ultimi trent’anni, coinvolgendo diversi ambiti disciplinari e mettendo in
discussione i capisaldi della cultura moderna: razionalità, funzionalità, efficienza.24 In che modo? Basti pensare al postmoderno non solo come “stile”
ma anche come “contesto”.
Gianni Canova, ad esempio, ha analizzato gli studi portati avanti da
Fredric Jameson25, quest’ultimo considera il postmoderno come una “logica culturale” e ne definisce i caratteri costitutivi.
1.
Ibridismo: il postmoderno si configura come annullamento della distinzione fra cultura di massa e cultura d’élite, fra dialettica e innovazione. Secondo questo carattere privo di norme estetiche, collassano le distinzioni gerarchiche ed emerge un pluralismo senza un
effettivo criterio di gusto, ma subordinato alle esigenze dell’industria
culturale.26
2.
Frammentarietà: il soggetto postmoderno, vivendo in una società
che si presenta priva di integrità e organizzazione, risulta disorientato e inerme di fronte al mondo che lo circonda. Il concetto di
frammentarietà è praticamente opposto alle tendenze del positivismo, in cui si concepiva l’esistenza di una realtà solida, univoca e
oggettiva. Non si tratta dell’alienazione moderna, quanto, piuttosto, di un vero e proprio smarrimento dell’identità del soggetto.27
Pensando a C’era una volta in America, film del 1984, Sergio Leone,
nel raccontare una storia che coniughi amicizia, tradimento, passione, amore e delitto, decide di adoperare una struttura narrativa
24
Cfr. G. CANOVA, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo,
Milano, Bompiani, 2000, p. 7.
Ivi, p. 9.
Cfr, G. CANOVA, op. cit., p. 9.
Ivi, p. 10.
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labirintica, caratterizzata da quella frammentazione (in questo caso
temporale) tipicamente postmoderna, che tocca il suo apice nella
celebre scena finale: la macchina da presa riprende dall’alto Robert
De Niro, stordito dall’oppio, arrivando fino al primo piano, finché
il suo volto non si scioglie in una risata liberatoria, che lascia lo
spettatore libero di pensare a una commistione tra sogno allucinatorio e memoria.
3.
Euforia: il soggetto postmoderno, in qualche caso, reagisce alla dispersione che lo circonda con una forma intervento che Jameson
chiama “allegria allucinatoria”28, che consiste in una forma di euforia che esprime la volontà del soggetto a voler dominare la realtà in
cui si trova, ne consegue un’emotività molto simile a quella di uno
schizofrenico o di un drogato. Uno dei manifesti che definisce, in
chiave cinematografica, questo elemento del postmoderno è senza
dubbio Taxi Driver. Film del 1976 diretto da Martin Scorsese e sceneggiato da Paul Schrader, in cui si racconta l’angosciante esistenza
di Travis Bickle (Robert De Niro), un tassista reduce del Vietnam,
che trascorre le sue giornate al volante di un taxi e nelle sale di un
cinema a luci rosse.
In una New York carica di criminalità e ipocrisia, Travis decide di
dare un senso alla sua vita, trasformandosi in un sociopatico giustiziere in lotta contro il degrado morale che infesta la città. La carica
di euforia che muove il protagonista sembra essere scaturita dalla
paura verso un mondo non più riconoscibile e privo di una logica. Un contesto in cui, per diventare “qualcuno”, bisogna compiere
azioni estreme.
28
Ivi, p. 11.
79
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4.
Omogeneizzazione dello spazio: l’esperienza spaziale del postmoderno
si fonda anch’essa sul disorientamento e sulla completa assenza di
una prospettiva geografica. Scompaiono le strade, vengono eliminate le distinzioni antitetiche tipicamente moderne (la città contrapposta alla campagna, la piccola cittadina di provincia contro la
grande metropoli).29 Questo aspetto provoca nei soggetti un disorientamento esistenziale e la mancanza di punti di riferimento, che
generano l’incapacità di porsi dentro uno spazio ben preciso.
5.
Presentificazione del tempo: il postmoderno cancella il concetto di storia
per creare una dimensione in cui il tempo e la memoria vengono
distorti. Il passato serve solo come contenitore di immagini che vengono ripescate nel momento in cui si dimostrano utili.
Il passato postmoderno è un’Inghilterra vittoriana senza sottoproletariato
(architettura e albergo di Disneyland), o molto spesso gli anni CinquantaSessanta di Happy Days, senza guerra di Corea né Vietnam né problemi
raziali. […] la Francia di Dario Moreno e della Renault Quattro Cavalli,
lontano dalle guerre coloniali.30
Anche le tradizioni stilistiche si appiattiscono e diventano mera merce di consumo o fonte di imitazione, si perde, dunque, la considerazione
di uno “stile cronologico” o “individuale”, che viene sostituito dalla combinazione di più stili, in un procedimento definito pastiche.31
29
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31
Ivi, p. 12.
L. JULLIER, Il cinema postmoderno, Torino, Edizioni Kaplan, 2006, p. 24.
G. CANOVA, L’alieno e il pipistrello, op. cit., p. 13.
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Le immagini del suono
In quelli che Laurent Jullier definisce “film-concerto”, caratterizzati
dalla presenza decisiva della musica come principio fondamentale della
propria costruzione, avviene la vera e propria sollecitazione delle sensazioni dello spettatore. Non a caso per Jullier l’atto di nascita del cinema
postmoderno è rappresentato dall’uscita di Guerre Stellari (George Lucas,
1977), in quanto primo film: «A essere presentato commercialmente con il
sistema sonoro Dolby.32» e in cui la musica prevale sul visivo, avvolgendo
lo spettatore in un’immersione sonora completamente identica a quella
reale. Il progresso della tecnologia ha consentito, infatti, la riproduzione di
suoni omologhi a quelli della vita quotidiana.
Il sonoro dunque rappresenterebbe una dimensione essenziale per
l’esperienza audio-visiva cinematografica. Lo stesso Christian Metz, dovendo distinguere il significante cinematografico da quello di altre arti
quali letteratura, pittura e fotografia, parla di un particolare grado di “percezione” (visiva e uditiva) che consente al cinema di essere più percettivo
rispetto a molti altri mezzi di espressione, poiché mobilita la percezione
dello spettatore su più fronti.33
Nel cinema, suono e immagini giocano su un rapporto di mescolanza, tale rapporto permette allo spettatore di percepire il film come un
evento reale e naturale.
Michel Chion distingue due effetti dovuti all’uso dell’elemento musicale:
1.
Empatico, nella misura in cui partecipa al contenuto emotivo della
scena attraverso ritmi e toni che si adattano, in base alla circostanza,
32
33
Ivi, p. 53.
Cfr. C. M ETZ, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Marsilio, Venezia, 1980,
p. 54.
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a sensazioni di tristezza, gioia, euforia, ecc.34 Un esempio di effetto
empatico potrebbe essere rappresentato dalla scena più importante
del film Eyes Wide Shut (Stanley Kubrik, 1999), in cui il protagonista,
interpretato da Tom Cruise, viene smascherato come intruso durante la festa orgiastica nella villa misteriosa. La musica, firmata Gyorgy
Ligeti, sembrerebbe l’esatta trasposizione sonora dell’emotività stravolta di Bill (Cruise), il quale sente la sua fine imminente.
2.
Anempatico: dove la musica, indifferentemente dalla situazione proposta, rimane sempre la stessa in tutte le scene del film ma, in alcuni
casi cruciali, riesce a raddoppiarne l’effetto emotivo.35 Nel film Naked (Mike Leigh, 1993), la colonna sonora è identica durante tutto
il viaggio del vagabondo protagonista Johnny (David Thewlis) alla
ricerca di se stesso. Pur mantenendo costantemente lo stesso suono,
l’effetto emozionale ne risulta comunque raddoppiato in base alla
scene più o meno dense di emotività.
Il valore aggiunto del sonoro non solo rende l’immagine più completa, ma muta anche il senso della sua visione, in base al contesto in cui
è collocato. Inoltre, il suono, a differenza dell’immagine, non è limitato
entro i confini dello schermo, ma si presenta privo di contorni definiti,
ed è proprio a partire da questa disuguaglianza che si genera il carattere
avvolgente del sonoro.36
34
35
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Cfr. M. CHION, Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 2006, p. 8.
Ivi, p. 9.
Cfr. M. DUFRENNE, L’occhio e l’orecchio, (a cura di Claudio Fontana), Milano, Il
Castoro, 2004, p. 100.
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Questione di punti di vista.
Il cinema contemporaneo, secondo Vincenzo Buccheri, è un fiorire
di soluzioni linguistiche e performative poco considerate in passato. L’uso
dei ralenti, o slow motion, che permette di creare sullo schermo l’effetto di
rallentamento del movimento, di inquadrature enfatiche sui dettagli, di un
montaggio veloce o di innovativi movimenti di macchina, sono tecniche
che rappresentano un nuovo modo di impostare la comunicazione con lo
spettatore, stimolando le sue sensazioni.37
Prendete la sequenza di Goodfellas in cui il protagonista Henry Hill entra
nel locale Bamboo Lounge: sembra una soggettiva del personaggio,
ma è solo una performance della macchina da presa che oscilla tra piano
narrativo ed extranarrativo. Ecco, tutto il cinema contemporaneo è racchiuso in quell’oscillazione, in quell’incertezza.38
Questa considerazione ci porta a credere che qualcosa sia cambiato, che la cinepresa abbia potenziato la propria identità, non limitandosi
a rappresentare la realtà in modo diretto, come nel cinema classico ma:
«rappresentando anche il proprio rappresentare»39.
Entrando nello specifico, premettendo che il modello delineato non
costituisce una norma riguardante tutti i film contemporanei, le inquadrature caratteristiche del cinema postmoderno sono due: le oggettive dense e le
soggettive vuote.
1.
37
38
39
Si definisce oggettiva densa quell’inquadratura che riproduce un’immagine già “trattata”, artificiale, ovvero, l’immagine di un’immagine,
che in un film può essere vista attraverso un monitor o un televisore,
Cfr. V. BUCCHERI, op. cit., p. 13.
Ivi. p. 14.
Ibidem.
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senza che questo sia oggetto dello sguardo del personaggio. In altre
parole rappresenta un’inquadratura che conduce lo spettatore a una
partecipazione più intensa degli eventi narrati.
Lo stesso vale per il secondo tipo di oggettiva densa, in cui un’immagine ripropone un’altra immagine. Un caso tipico è rappresentato dal
film Provaci ancora Sam (Herbert Ross, 1972), la cui scena finale è un chiaro
riferimento al film Casablanca (Michael Curtiz, 1942). In questo caso lo
spettatore è invitato a partecipare sensibilmente alla rappresentazione con
l’utilizzo di immagini familiari, che potrebbe aver già visto.40
2.
40
41
Si definisce soggettiva vuota l’inquadratura in cui l’azione della cinepresa è evidente al punto da suggerire l’intervento di un soggetto
nascosto nella scena.
Il primo esempio di soggettiva vuota si verifica nel momento in cui
la macchina da presa inquadra un oggetto da vicino che, in realtà,
non è visto da nessun personaggio in scena.
Un secondo caso di soggettiva vuota avviene quando la cinepresa
lavora in modo “innaturale” attraverso movimenti vorticosi e sofisticati, come nel caso della scena all’ingresso dello zoo nel film
Batman-Il ritorno (Tim Burton, 1992), o i frenetici viaggi sulla scopa
nei film di Harry Potter.
Il terzo e ultimo caso di soggettiva vuota avviene paradossalmente quando un’inquadratura è in soggettiva, quindi lo spettatore si
cala effettivamente nei panni di un soggetto per vedere ciò che lui
vede, però ad avere “gli occhi” in questo caso non è un personaggio
umano, ma qualcosa privo di vita.41 Nel film Qualunquemente (GiuIvi, pp. 16-17.
Ivi, p. 20.
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lio Manfredonia, 2011), quando Cetto (Antonio Albanese) e Melo
(Davide Giordano) seppelliscono il cane, c’è un momento in cui
le immagini sono viste dall’interno della buca. Non trattandosi del
punto di vista di un personaggio, la ripresa può essere considerata
in soggettiva vuota.
Fitzgerald e Luhrmann: The Great Gatsby
Frammenti di un’epoca: gli aspetti della narrazione.
Rileggendo quanto ho scritto finora, mi rendo conto che ho dato
l’impressione di essere stato assorbito unicamente dagli avvenimenti
di tre serate nell’arco di alcune settimane. Invece si è trattato solo di
avvenimenti casuali in un’estate assai piena […].42
A partire dalle parole rivelatrici di Francis Scott Fitzgerald, si porrà
subito l’attenzione a uno degli aspetti più rappresentativi della storia di
Jay Gatsby: la narrazione. Il Grande Gatsby si presenta come un romanzo
impregnato di vaghezza e di mistero, dove la narrazione non procede in
modo “classicamente” lineare, ma avanza, alla stregua del suo protagonista, con elegante elusività.
Le parole del libro non intendono semplicemente descrivere alcuni avvenimenti, al contrario desiderano mostrarli, come l’immagine di un
film, farli ascoltare come all’interno di una sala al cinema.
Fitzgerald elimina in modo sistematico ogni aspetto narrativo che
potrebbe appesantire il racconto. Rinunciando a un tessuto linguistico che
esplichi istantaneamente il vero senso del suo messaggio. Lo scrittore mira
a stabilire un rapporto con il lettore attraverso l’evocazione di immagini,
42
F. SCOTT FITZGERALD, Il grande Gatsby, a cura di FRANCA CAVAGNOLI, Milano,
Feltrinelli, 2011, p. 106.
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85
colori e suoni, in una mescolanza di elementi intenta a costruire un’atmosfera che potrebbe essere definita impressionista, perché nulla è descritto
nel dettaglio ma è suggerito, e, allo stesso tempo, cinematografica.
Nel suo romanzo Fitzgerald mostra di saper padroneggiare la
tecnica del montaggio cinematografico: sa in quale momento esatto
una scena va conclusa, un’altra tagliata, un’altra ancora ripresa più
avanti con una leggera variante. Il non detto che Hemingway lasciava
fuori nelle parole, Fitzgerald lo lascia fuori nell’azione ricorrendo a
un montaggio sapiente.43
Si potrebbe dunque dire che alcune delle caratteristiche del cinema postmoderno siano già presenti nella più famosa opera letteraria di
Fitzgerald. La narrazione frammentaria e il gusto per il non detto sono
alla base della comunicazione audiovisiva postmoderna e, di conseguenza,
rappresentano alcune delle fondamenta su cui si “edifica” il film di Baz
Luhrmann.
Il passato di Gatsby emerge in modo non lineare attraverso veloci
flashback, costituiti da immagini scolorite dal tempo, mentre la storia vera
e propria è raccontata da un personaggio intradiegetico, Nick Carraway
(Tobey Maguire), a cui viene consigliato di scrivere la sua esperienza vissuta a Long Island tra l’estate e l’autunno del 1922. Dal punto di vista di
questo narratore-personaggio si dispiega in modo disorganico la narrazione. Alla scrittura viene quindi affidata una forte funzione simbolica: un’occasione per rivivere il passato, fissarne alcuni momenti chiave e superarne
l’ossessione. La scrittura viene, dunque, utilizzata sia come espediente narrativo, che come artificio per conferire rilievo al personaggio di Nick, uno
scrittore a cui viene proposto di mettere su carta le sue ossessioni per il
passato, i suoi ricordi legati alla figura di Gatsby.
43
Ivi, p. 13.
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L’idea di rappresentare Nick ricoverato in un ospedale psichiatrico
non è certamente fedele al racconto originale del grande Gatsby, eppure
non può dirsi completamente estranea all’immaginario dello scrittore.
Proprio in uno dei suoi romanzi incompleti dal titolo Gli ultimi fuochi,
Fitzgerald concepì un protagonista intento a scrivere un romanzo all’interno di un sanatorio.
Dunque, se da un lato il film ha sottratto qualcosa al racconto
originale, come ad esempio il personaggio del padre di Gatsby, dall’altro
è riuscito a includere parte dell’immaginario di Fitzgerald non presente
nel suo capolavoro.
Il film articola la sua narrazione a partire dal punto di vista di Nick
che, fedelmente a quanto scritto nel romanzo, si trasforma in una sorta
di personaggio ambivalente, dalla triplice funzione: quella di narratore
esterno ai fatti, quella di personaggio che partecipa al dramma e, infine,
quella di spettatore.
Nella scena del festino organizzato da Tom Buchanan (Joel Edgerton) nell’appartamento della sua amante Myrtle (Isla Fisher), Nick, nel
tentativo di fuga, viene messo con le spalle al muro da Tom, che lo convince a restare: «Nick, so che ti piace guardare, vuoi rimanere a guardare
o vuoi scendere in campo?». La battuta, in realtà assente nel romanzo,
mette in risalto la figura controversa di narratore-personaggio, incarnata
da Nick, che si trasforma, pochi istanti dopo, in quella di narratorespettatore. Nel momento in cui Nick, sotto l’effetto della droga, guarda
fuori dalla finestra vede se stesso e pronuncia queste parole:
Eppure, alta sopra la città, la nostra fila di finestre gialle doveva aver
dato il contributo in termini di segreti umani a chi per caso avesse alzato gli occhi dalle strade all’imbrunire, e così pure a me che guardavo
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in su meravigliato. Ero dentro e fuori, simultaneamente incantato e
respinto dalla inesauribile varietà della vita.44
A questo punto il montaggio concede libero sfogo all’estetica postmoderna, presentando nell’inquadratura lo sguardo attonito di Nick che
fa da sfondo alle numerose finestre di un palazzo, le quali, a loro volta, si
aprono verso realtà variegate. La sequenza rientra nei parametri delle inquadrature postmoderne che Vincenzo Buccheri definisce oggettive dense45,
trattate nel secondo capitolo.
Se Nick fosse semplicemente testimone delle azioni, sarebbe relegato al suo personale punto di vista soggettivo, invece, diventando autore,
egli ha la possibilità di muoversi liberamente, entrare e uscire, guardare se
stesso personaggio con gli occhi dell’autore.
Infine, l’immersione dello spettatore all’interno della narrazione è
consolidata grazie all’effetto digitale che consente alle parole del testo originale di comparire fluttuanti nello schermo, mentre i veloci movimenti di
macchina da presa fungono da “collante” tra una scena e l’altra del film.
Luhrmann esprime così l’esigenza di dare tangibilità alla scrittura di
Fitzgerald, evidenziandola come se fosse parte integrante degli avvenimenti
raccontati nel film.
44
45
Ivi, p. 87.
V. BUCCHERI, Sguardi sul postmoderno, op. cit., p. 15.
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Fig. 1 - Lo sguardo di Nick.
Rombo di motori, musica jazz e hip-pop: la dimensione sonora
Nelle notti d’estate dalla casa del mio vicino giungeva la musica. Nei
suoi giardini blu uomini e ragazze andavano e venivano come falene
tra i sussurri e lo champagne e le stelle.46
Al centro della scena, tra le grandi star di Hollywood, si colloca la
protagonista indiscussa del film: la colonna sonora.
Baz Luhrmann mantiene un’estrema cura per il dettaglio musicale,
che non è mai utilizzato come semplice accompagnamento, ma si dimostra
essere la fondamentale sorgente attraverso cui gli aspetti più profondi delle
personalità dei protagonisti possono rivelarsi.
La colonna sonora si mette dunque al servizio del testo letterario, mescolando in modo dirompente i ritmi del jazz e pop, con l’intento di evocare
le atmosfere provocanti e trasgressive che la musica suscitava negli anni Venti.
46
F. SCOTT FITZGERALD, Il grande Gatsby, p. 90.
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Brani come A little party never killed nobody di Fergi e Bang Bang di
Will.I.Am conferiscono una pregnante connotazione di eccesso alle feste
organizzate da Gatsby, un lusso sfrenato che trova il suo riflesso nei personaggi, esuberanti e grotteschi, rappresentanti di un’epoca caratterizzata
dall’abbondanza.47
Il torbido hip-hop di Jay-Z e Kanye West con No church in the wild
mette in risalto quegli aspetti della corruzione per il potere e il denaro
che gravano nell’età dei Roaring Twenties, mentre la canzone Young and
Beautiful di Lana Del Rey condensa, attorno alla propria melodia, i sentimenti di amore, passione e i ricordi di un nostalgico passato, su cui
trovano sostegno il personaggio di Daisy (Carey Mulligan) e di Gatsby
(Leonardo DiCaprio). Il brano, infatti, viene messo in risalto nelle sequenze in cui i due amanti ritrovano la loro intimità, come nelle scena
in cui Gatsby invita per la prima volta Deisy a raggiungerlo nel suo
castello.
E ancora, l’energia dei moderni ritmi degli XX, volti a conferire un
alone di mistero al personaggio di Gatsby, uniscono, con il brano Together,
il vertice della musica elettronica contemporanea a quello delle avvolgenti
battute jazz anni Venti di Louis Armstrong (Saint Louis Blues), in un processo di ibridazione caratteristico dei film postmoderni.
Quindi mescoliamo un pezzo di hip-hop di Jay-Z con uno jazz, non
lo faccio per sentirmi bravo, lo faccio per dare al pubblico l’idea di che
cosa significasse nel 1925 leggere quel libro.48
Al Great Gatsby di Luhrmann si adatta particolarmente la definizione
di film-concerto coniata da Laurent Jullier, il quale considera il film postmo47
48
E. ELIA, Il grande Gatsby, in “SegnoFilm”, nr. 181, 2013, p. 41.
B. M. OSBORNE, B. LUHRMANN, Il grande Gatsby. Bonus Disc [DVD], 2013.
90
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derno come un’esperienza audiovisiva che immerge lo spettatore in un
“bagno sonoro”, dove a prevalere sono le percezioni sensoriali ed emotive
e non quelle cognitive.49
Sempre di Jullier è la teoria dei doppi esatti, riguardante quei suoni del
mondo reale che, per mezzo delle tecnologie acustiche moderne, possono
essere ricreati omologamente al cinema, e proprio il film di Luhrmann si
rivela essere paradigma di questa considerazione.
Alle nove di un mattino di fine luglio, la splendida macchina di Gatsby
avanzò sobbalzando lungo il vialetto sassoso fino alla mia porta ed
emise uno scoppio melodioso con il clacson a tre note.50
In una scena del film, Gatsby si presenta a casa di Nick con una
Duesemberg gialla e lo invita a pranzare a New York in sua compagnia.
Le sequenze successive riprendono i due che sfrecciano lungo il ponte di
Queensboro accompagnati dal fragore del motore della vettura.
In verità, durante le riprese, l’automobile è senza motore, eppure nel
film il suono è quello autentico di una Duesemberg degli anni Venti. Per
ottenere una copia esatta del rombo di una Duesy, il microfonista Wayne
Pashley ha registrato Jay Leno mentre ne guidava una delle sue, in questo
modo Luhrmann ha potuto rimanere fedele all’auto che probabilmente
era guidata da Gatsby, ottenendone una copia esatta del suono originale.
49
50
L. JULLIER, Il cinema postmoderno, op. cit., p. 54.
F. S. FITZGERALD, Il grande Gatsby, op. cit., p. 112.
91
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Fig. 2 – Gatsby e Nick a bordo della Duesemberg.
Il fascino di una città perduta: lo sguardo alla scenografia
New York cominciava a piacermi: il suo piccante
senso di avventura la notte, e il senso di appagamento
che il continuo guizzare di uomini e donne e macchine
dà all’occhio inquieto.51
Gli anni Venti rappresentano il momento in cui New York si mostra al mondo. Ciò che veramente ruggisce in quegli anni è la gigantesca amplificazione della vendita delle immagini, specialmente attraverso il
nuovo veicolo dei mass media. Le feste si fanno più grandi e dissolute, gli
spettacoli più ricchi, gli edifici più alti e gli alcolici più economici. Questa
irrequietezza apparentemente felice rasenta, invece, un profondo senso di
angoscia e preoccupazione. Tra il turbinio di queste atmosfere si inscrive
la pellicola de Il grande Gatsby, caratterizzata, in ogni scena, dalla forte corrispondenza alla realtà degli anni Venti.
51
F. S. FITZGERALD, Il grande Gatsby, op. cit., p. 107.
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Fig. 3 – New York anni Venti.
Fig. 4 – Ricostruzione digitale di New York.
Anche se è l’Australia il luogo delle locations del film, la scenografia
resta in ogni caso costruita ad hoc per rimanere, quanto più possibile, vicina
a quella descritta da Fitzgerald. Bisognerà comunque distinguere i luoghi
del romanzo e quelli del film.
East e West Egg, sulla Gold Coast di Long Island, nel romanzo
sono le località di Nick Carraway e di Jay Gatsby, mentre nella realtà corri93
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spondono ai villaggi di Kings e Sands Point, sulle due sponde della Manhasset bay.
Per la tenuta di Gatsby, Francis Scott Fitzgerald si ispirò alle ville
coloniali presenti sulla Gold Coast negli anni Venti, ambientando il romanzo nel Long Island Sound.
Fig. 5 – Il castello di Gatsby nel film.
Quella del film, invece, è stata ricreata negli studi cinematografici di
Sydney. La piscina, ad esempio, è stata costruita su un set separato, dove
in seguito sono state incluse le parti del terrazzo che scendevano fino alla
spiaggia. La vera spiaggia, però, si trovava nella località di Doll’s Point,
vicino Sydney. Il grande salone, insieme al giardino sul retro e il terrazzo,
sono stati ricostruiti in set diverso.
La dimora del protagonista, caratterizzata dalla forte presenza della
luce, è il luogo in cui tutta la città si raduna per partecipare alle feste, le
quali diventano il simbolo della dissolutezza imperante.
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Le luci e il colore in cui sono immerse le descrizioni del romanzo, conferiscono al racconto l’idea di una simbologia iconografica. Come
spiegato da Eliana Elia, i simboli del romanzo, legati alla semantica del
colore, sono i medesimi di quelli rappresentati nel film.52
La luce verde del faro e il gesto che Gatsby compie come se volesse
afferrarla, rappresenterebbero la speranza del ritorno di un passato lontano, un’epoca che, invano, il protagonista sogna di rivivere.53
Fig. 6 – Gatsby e la luce del faro.
La valle delle ceneri, dove vive l’amante di Tom insieme al marito
Wilson, è stata ricreata nei sobborghi di Balmain e Rozelle, ma un luogo
simile esisteva davvero a Long Island negli anni Venti, oggi chiamato Citi
Field Stadium.
52
53
E. ELIA, Il grande Gatsby, op. cit., p. 41.
Ibidem.
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Fig. 7 - White Bay Power Station.
La descrizione del paesaggio, nell’opera letteraria, viene degnamente
riproposta nel film come un luogo di desolazione e povertà occultato dalle
luci e dallo sfarzo ostentate dalla città. Il linguaggio iconografico, anche in
questo caso, si esprime al pari delle parole di Fitgerald, evocando quell’atmosfera di rovina che la città è destinata a incontrare.
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