tesiautobiografia - Associazione Maria Bianchi
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tesiautobiografia - Associazione Maria Bianchi
Premessa Autunno 1994: in un corridoio dell’Ospedale Civile di Brescia la luminosità e la magia di uno sguardo, che da bambina mi ha fatto per la prima volta innamorare, improvvisamente ricompare; Fabrizio era davanti a me, io davanti a lui. Lo saluto, lo bacio, gli dico: “la prossima volta ti voglio incontrare a casa”. Fabrizio qualche tempo dopo dalla mia visita in ospedale a casa è ritornato eppure, io non ho più avuto il coraggio di andarlo a trovare. Nel Gennaio 1995, a soli diciotto anni, Fabrizio muore di leucemia nello stesso ospedale. Vado a fargli visita a casa sua: ora però… i suoi occhi sono chiusi. Settembre 1998 ore 9.15: il roboante motore del nostro vecchio motocar mi sveglia: mio nonno sta andando nel bosco a raccogliere legna o a portar via l’erba tagliata del giardino. Ore 12.00: prendo il telefono e lo chiamo per invitarlo a pranzo dal momento che è a casa da solo. (Mia nonna è ancora in ospedale per una recente operazione). Dall’altra parte del filo, nessuno risponde. Torna mio padre dal lavoro: “Dov’è il nonno?” mi chiede, “Non lo so, ho provato a chiamarlo, ma non risponde. Sarà a mangiare da Albino” gli dico. “Ma se c’è ancora la sua bici qui da noi ?!”. Senza un attimo di esitazione, mio padre riprende in mano il motorino e si dirige verso il bosco per vedere se il nonno, magari rimasto in panne con il motocar, aveva bisogno d’aiuto. Io avverto qualcosa… ho paura, ciononostante comincio a mangiare. 1 Da lontano improvvisamente sento il motorino ritornare: sta correndo veloce, molto veloce! Mollo di scatto la forchetta, esco e mi ritrovo il volto di mio padre furioso nella sua disperazione: “ E’ morto !” mi dice… Mentre cerco di avvicinarmi, lui si svincola da me, batte un pugno sulla basculante e in lacrime chiede a chi sa chi “ Ma perché adesso ?!”. Io ora sono nel bosco, tra il profumo dell’erba e del fiume, il sole è alto e in questa pace avvolgente accarezzo il volto sereno di mio nonno… come forse, mai ho fatto. Da questo momento in poi, ho cominciato ad avvicinarmi al tema della morte e del morire attraverso lo sguardo di diverse discipline: la filosofia, la religione, la medicina, la sociologia, l’antropologia, la psicologia, per cercare sostanzialmente di capire… Volevo infatti comprendere non il perché della morte, ma il motivo per cui io, Margaux, ho avuto paura ad affrontare Fabrizio e la sua malattia nel momento in cui forse avrebbe avuto più bisogno di vicinanza e, allo stesso tempo, spiegarmi perché, solo pochi anni dopo, attorno al corpo morto di mio nonno, io abbia percepito una grande serenità che mi ha riempito d’amore, nonché una profonda tristezza per non averlo potuto tenere tra le braccia mentre affrontava questo inevitabile, difficile ed importante momento. Tuttavia in occasione di questa tesi, ho voluto spostare l’attenzione da un piano personale del comprendere, all’orizzonte educativo della possibilità e del cambiamento: ridare al malato terminale il diritto di vivere l’ultima fase della propria vita in un modo dignitoso e accompagnato dalle cure e dalla presenza autentica di persone, (famigliari, educatori professionali, volontari, operatori 2 sanitari), che non negano la morte dietro falsi sorrisi ma che accettano di accogliere su di sé i dubbi, gli interrogativi, il dolore, le emozioni che la sua prossimità inevitabilmente suscita. Così, mi sono rivolta all’ Associazione Volontari Domiciliari Assistenza Relazionale Malati Gravi “Maria Bianchi” di Suzzara, che da ben quattordici anni opera sul territorio Mantovano e, tra i tanti stimoli che essa mi ha saputo offrire, Roberta, mi ha letteralmente rapita la lettura di un testo: l’autobiografia di testimonianza in prima persona di un’esperienza di accompagnamento alla morte, nonché momento e spazio fisico di riflessione critica su di sé che ha permesso a Roberta di porsi in una relazione più significativa con il malato terminale, e a me di intravedere le potenzialità della scrittura di sé. Questa tesi allora vuole essere un’ occasione per studiare e analizzare le motivazioni per cui per l’operatore l’autobiografia può diventare uno strumento importante impegnato a costruire una relazione autentica d’accompagnamento con la persona morente. Nel far questo, utilizzerò una metodologia ad “imbuto” che, partendo dai criteri e dalle caratteristiche che vedono l’autobiografia in termini di genere letterario, andrà poi a focalizzare l’attenzione sulla scrittura di sé nel suo essere dispositivo educativo di formazione permanente dell’adulto, fino ad arrivare allo specifico tema dell’autobiografia come possibile strumento per l’operatore in un contesto di accompagnamento alla morte. Nel primo capitolo infatti, a partire dalla storica necessità di dare una definizione di un genere letterario, si aprirà il dibattito tra due diversi autori: il 3 “conservatore” Lejeune e il “progressista” Anglani, impegnati entrambi a promuovere due differenti modalità di accostarsi al testo autobiografico, nonché a disquisire sulle caratteristiche salienti della scrittura di sé (rapporto tra autore, narratore, personaggio; Identità, verità, maschera, confessione; l’autobiografia come atto di conoscenza e costruzione del sé…). Nel secondo capitolo, dopo opportune premesse che pongono in risalto i cambi di paradigma più importanti che permettono all’autobiografia di emergere come metodo di formazione permanente per l’adulto, verranno analizzate le principali scuole europee che interpretano lo strumento autobiografico in termini di dispositivo educativo e che propongono metodologie di utilizzo specifiche e coerenti al loro sistema teorico-epistemologico di riferimento. Nel terzo capitolo, dopo una breve introduzione sui segni e sintomi di una cultura “dell’immortalità immanente” si andranno ad evidenziare i bisogni del malato terminale e le condizioni fondamentali per un dignitoso accompagnamento alla morte: tra cui la necessità che l’operatore trovi degli spazi di tregua per poter riflettere sull’esperienza vissuta e rivolgere uno sguardo consapevole su di sé. A questo punto protagonista della scena sarà l’ autobiografia di Roberta: gli estratti presenti nel capitolo, il testo integrale riportato in Appendice assieme al colloquio avuto con lei, saranno infatti testimonianza di questa esigenza e allo stesso tempo occasione di riflessione attorno all’ utilizzo dello strumento della narrazione di sé in un specifico contesto di accompagnamento, accudimento e “presa in cura” del morente. 4 1.0 L’AUTOBIOGRAFIA COME GENERE LETTERARIO Analisi e metodi a confronto ”Ciascuno di noi porta entro di sé una sorta di scartafaccio, rimaneggiato senza posa del racconto della propria vita. Taluni,più numerosi di quanto si creda,mettono ordine in tale scartafaccio, e scrivono. Quanto agli altri, si può leggere il loro scartafaccio interrogandoli (col registratore)” 1 Philippe Lejeune Coerentemente ad un approccio critico letterario classico, il discorso sull’autobiografia come genere non potrebbe iniziare se non con una buona definizione. Nell’accostarsi ad un testo, storico è infatti il bisogno, se non quasi un dovere più del critico che del lettore, associare il Testo ad un genere ed inserirlo in una categoria formalmente definita e riconosciuta. Tutto ciò che in queste categorie non riesce a rientrare, viene difatti considerata “sperimentazione letteraria” o, nella peggiore delle ipotesi, non viene considerata affatto Letteratura. Tuttavia, proprio l’autobiografia, solo oggi riconosciuta come genere, rende il compito assai arduo: chiunque intraprenda il suo studio è costretto ad immergersi in un vasto numero di opere dalla inesauribile morfologia e 5 ricchezza semantica, dalla pluralità di atti discorsivi e di pratiche dell’enunciazione che nascono da epoche diverse, da diversi modi di accostarsi a se stessi e alla propria vita, da differenti modelli di poetica. L’autobiografia pertanto, pur essendo stata “promossa” a categoria letteraria, rimane a parere di Anglani e Pappalardo, un genere debole ed instabile. Ma, come un serpente che si morde la coda, non è forse l’assiduo tentativo di dare alla Scrittura di sé una definizione rigorosa e specifica, nonché stretta e forse troppo rigida, a renderla una categoria dai tratti così instabili e sfuggenti? Lo stesso Anglani 2 propone allora un metodo che anche in questa tesi si vuole adottare: affrancarsi dal tentativo classico di etichettare, catalogare e dare una definizione di autobiografia, per accogliere invece, e cercare di capire, la varietà di ciò che esiste e di cui disponiamo. La svolta di metodo consiste allora nel tentativo di affrontare e gestire quel disordine e quell’imprevedibilità tipiche della produzione autobiografica, accostandosi semplicemente al testo attraverso la sua lettura, ciò che l’intolleranza e l’ideologia rifiutano a priori, preferendo per prima cosa soffocare l’opera accomunandola ad un genere. Tuttavia, per capire meglio le differenze e gli esiti di due modalità diverse di studiare la Scrittura di sé, vale la pena porre a confronto due autori che rispettivamente le rappresentano: il critico francese Philippe Lejeune e Bartolo Anglani, (docente di Letteratura Comparata e Storia della Critica Letteraria nella facoltà di Lingue dell’università di Bari). 6 1.1 IL PATTO AUTOBIOGRAFICO DI LEJEUNE 1.1.1 Criteri d’analisi. Lo studio dell’autobiografia o Scrittura di sé secondo Lejeune può essere affrontato attraverso tre principali punti di vista: storico, il quale vede affiorare la produzione autobiografica a partire solo dal XVIII secolo come fenomeno di civiltà; psicologico che si sofferma sull’importanza in questo genere della memoria, della costruzione della personalità e dell’autoanalisi; letterario che vuole che il Testo funzioni solo attraverso la sua lettura, nonché mediante l’analisi poetica e critica. Tre sono anche i problemi centrali da porsi nei confronti di questa particolare categoria letteraria: • Il posto e la funzione del testo autobiografico nell’insieme delle opere di un autore. • L’ordine del racconto autobiografico • La relazione fra l’autobiografo, il suo narratore, e il suo “eroe” 1.1.2 Una possibile definizione Elaborare una definizione del genere autobiografico è per Lejeune un compito importante ma complesso perché pone in campo diverse questioni. Per prima quella di delineare i confini sottili esistenti tra autobiografie e biografie, tra romanzo e autobiografia con il rischio di ribadire certezze e di erigere muri tra categorie appellandosi a distinzioni troppo sottili. 7 Oltre a questo,l’esistenza di un vocabolario vago e culturalmente differente lascia aperte problematiche di campi del sapere che non è possibile porre in comunicazione tra loro. Tuttavia è necessario tentare di proporre una definizione. Il modo per arrivare ad un risultato apprezzabile è forse quello di delimitare il campo d’interesse che si intende definire. Fondamentale per Lejeune è individuare uno spazio e un periodo storico circoscritto: la letteratura europea dal 1770 ad oggi. Tale operazione però non vuole negare l’esistenza di produzioni autobiografiche precedenti ed extra europee ma, come dice lo stesso Lejeune, è un tentativo di definire all’interno di una vasta e ricca produzione un’area, uno spazio dai comuni denominatori, oltre il quale, una stessa definizione di autobiografia potrebbe diventare anacronistica e poco pertinente. E’ inoltre fondamentale in questa ricerca assumere il punto di vista del lettore: l’unico che può far funzionare il testo, scritto infatti per essere letto. Ecco allora la definizione di autobiografia che il critico francese propone: “Racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando metta l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità” 3 Quattro sono pertanto gli elementi principali che permettono di delineare questo genere letterario: 9 LA FORMA DEL LINGIAGGIO (racconto in prosa) 9 IL SOGGETTO TRATTATO (scrittura di sé) 8 9 LA SITUAZIONE DELL’ AUTORE (identità tra autore e narratore) 9 POSIZIONE DEL NARRATORE (identità fra narratore e personaggio e visione retrospettiva del racconto) 1.1.3. Autore, Narratore, Personaggio: un rapporto di necessaria identità nel patto autobiografico. Affinché si possa parlare di Autobiografia o Letteratura Intima, per Lejeune sembra indispensabile che tra gli Attori del testo (Autore, Narratore, Personaggio) vi sia assoluta identità. Non importa che il narratore si esprima attraverso il pronome “ IO”, che Gerard Génette chiama “narrazione autodiegetica”4, dove il narratore è il personaggio principale, oppure mediante un “TU” od un lontano “EGLI”. Anche con la terza persona infatti, il narratore, insieme autore e personaggio, può abilmente parlare di sé attraverso i sottili meccanismi della contingenza, dello sdoppiamento, della distanza ironica. Tuttavia, non è strano che il lettore innanzi alla formula “Io sottoscritto” si possa chiedere: “Chi dice – Io…(sono)?” Il concetto di identità solitamente è dato dall’esistenza di un IO presunto, pensato, fisicamente presente. Tuttavia all’Io in cerca di un’identità non basta essere fisicamente presente, resta infatti aperta la domanda “ Chi sei?” – “Sono io” – “ma io chi?”. L’Io per poter essere realmente riconosciuto ha bisogno di un nome, un nome proprio che nel discorso scritto diventa un segno: la firma. 9 La prova dell’esistenza e tutta l’esistenza dell’autore sta nel nome impresso sulla copertina del libro. Un autore, inteso non come persona ma come soggetto che scrive e pubblica, ciononostante, ha l’impegno di responsabilità di una persona reale dichiarando la propria esistenza mediante la firma. Il lettore, coinvolto in questo “contratto sociale”, immagina e riconosce il quel nome stampato l’esistenza come soggetto dell’ autore-narratore-personaggio e considera così il discorso da lui prodotto. Il lettore non verifica, tuttavia crede, in particolare, sostiene Lejeune, quando dello stesso autore esiste almeno un altro testo non autobiografico da lui pubblicato. Anche lo pseudonimo, arteficio dietro il quale un’identità potrebbe volersi celare, in realtà può essere interpretato come un secondo nome, autentico tanto quanto il primo. Lejeune lo considera infatti come manifestazione di una seconda nascita: la scrittura pubblicata. E’ difficile tuttavia che uno pseudonimo venga usato per un’autobiografia. Se nel romanzo autobiografico l’autore può permettersi di negare l’identità col personaggio, anche se il lettore può intravedere o sospettare una certa somiglianza od identità con la vita reale dello scrittore, l’autobiografia “non ammette gradi”,“non è un gioco di indovinelli”5: è un patto dove l’autore esplicitamente accetta di essere narratore e protagonista. Il patto autobiografico è l’identità del nome (autore, narratore, personaggio) che rimanda al nome scritto in copertina, (da quando questa è stata riconosciuta parte del testo). Tutte le forme di questo patto manifestano l’intenzione dell’autore di onorare la propria firma. 10 1.1.4. Il patto referenziale: autobiografia e biografia Autobiografia e biografia sono costruite attorno ad un ulteriore contratto che l’autore stipula implicitamente con il suo ipotetico lettore: “il patto referenziale” strettamente legato al concetto di verità. Differentemente da tutte le opere di finzione, l’autobiografia e la biografia sono definibili opere referenziali in quanto tentano di aggiungere un’ informazione ad una realtà esterna al testo che, proprio come nel discorso scientifico e storico, accetta di sottoporsi ad una prova di verifica. “ Scopo di questo patto, non è la verosimiglianza ma la somiglianza al vero! Non è “l’effetto” del reale ma la sua immagine”6. Se per la biografia il patto referenziale si rispetta nella verità dei fatti, di cui è possibile una verifica oggettiva, nell’autobiografia il patto referenziale, come per il patto autobiografico, è una presa di responsabilità dell’autore, è un giuramento che esso fa nei confronti di se stesso e del suo pubblico, di dire la verità. E’ come se dichiarasse: “Io giuro di dire la verità, come essa mi appare”. Nell’autobiografia non ci sono pertanto fatti oggettivi e verificabili o una loro fedele riproduzione, al contrario in essa viene esplicitata una verità soggettiva, limitata, parziale, un’interpretazione vissuta del mondo e della storia personale e sociale, ma non per questo meno importante. Nell’autobiografia non esistono prove di verifica: in essa l’autore ci racconta ciò che lui solo ci può dire. L’esattezza e l’attendibilità degli eventi riportati e delle interpretazioni fatte non ha importanza. Fondamentale invece è che il patto sia concluso e rispettato, che l’autenticità sia nell’intenzione. 11 1.1.5 Il Modello: la realtà al quale l’enunciato pretende di assomigliare. “Come può un testo avvicinarsi al reale, al Modello?” Questa è una domanda che costantemente i biografi si pongono e che, altrettanto spesso, ritengono implicitamente risolta. Lejeune pensa che l’obiettivo della somiglianza venga posto a due livelli: 9 In un MODO NEGATIVO ( livello degli elementi del racconto), che si traduce in CRITERIO DI ESATTEZZA 9 In MODO POSITIVO ( livello della totalità del racconto) ovvero Attraverso il concetto di FEDELTA’ L’esattezza riguarda l’informazione, la fedeltà il significato. Nel caso specifico del racconto personale il segno “ =” (uguale) che si trova tra il soggetto dell’enunciazione e quello dell’enunciato presuppone identità di fatto e una certa forma di somiglianza. Il problema che rimane è tuttavia capire con chi deve esserci un rapporto di esattezza e fedeltà. Se l’autobiografia fosse scritta al passato il rapporto di somiglianza si potrebbe porre tra il personaggio e il suo modello in modo verificabile come per la biografia. Eppure, così facendo, non si terrebbe conto del fatto che il personaggio è al tempo stesso la persona attuale che produce la narrazione di un passato. Il soggetto dell’enunciato autobiografico è doppio ed inseparabile dal soggetto 12 narrante. Autore, narratore, personaggio legati da un segno di uguaglianza, danno forma ad una relazione complessa: un rapporto di rapporti. “Il narratore sta al personaggio ( passato o attuale) come l’autore sta al modello.” 7 In conclusione allora il concetto di verità, in termini di somiglianza, deve essere ridefinito e pensato non come essere in sé del passato, ma come essere per me stabilito nel presente dell’enunciazione. Anche quell’enunciazione pervasa dall’errore, dalla menzogna, dalla deformazione o dalla dimenticanza è e rimane autentica. 1.1.6 Romanzo e autobiografia: Verità a confronto L’intenzionalità dell’autore di comunicare in modo autentico la sua verità è per l’autobiografia un atteggiamento molto importante. Tuttavia Lejeune accoglie anche la posizione di chi si chiede se ci sia in realtà più verità sull’autore nella finzione che nell’autobiografia stessa. Dice Francais Mauriac: “ La vera ragione della mia pigrizia non è forse dovuta al fatto che i vostri romanzi esprimono l’essenziale di noi stessi? Solo la finzione non mente; essa socchiude nella vita d’un uomo una parte segreta, attraverso la quale scivola, fuori da ogni controllo, la sua anima sconosciuta” 8 Per Mauriac e Gide non è allora l’intenzione che svela la verità di un autore ma, essa emerge spontanea proprio quando l’autore, impegnato in un gioco altro di finzione, si sente libero da un dover dire, da un doversi rappresentare. 13 La finzione non può ingannare, non può alterare e manipolare una verità che non ha mai preteso di essere tale. Eppure secondo Lejeune, nel momento in cui Gide e Mauriac esaltano il romanzo per sminuire l’autobiografia, in realtà non fanno altro che onorarla stabilendo inconsapevolmente uno spazio autobiografico nella loro opera, in cui si dichiara implicitamente di quale ordine è l’ultima verità a cui i loro testi mirano. Proprio attraverso la creazione di questo spazio l’autore invita a leggere nel suo testo “finzione” una verità della natura umana e una fantasticheria rivelatrice dell’individuo. Se nell’autobiografia si parla di patto autobiografico con il lettore, nel caso di romanzi di finzione come quello di Gide e Mauriac dove viene tacitamente creato uno spazio autobiografico, si può parlare di patto fantasmatico, forma indiretta di patto autobiografico. D’altra parte, sostiene Lejeune, critiche e dubbi come quelle sopra citate sono inevitabili. E’ quasi automatico ed umano spingersi nel dubbio e a ricercare scrupolosamente l’errore proprio là dove c’è un tentativo dichiarato di onestà. “ Se l’identità è affermata si cercheranno le incongruenze, se non è affermata si cercheranno le somiglianze.” 9 Inoltre, osserva ancora lo stesso Lejeune “ Che cos’è questa verità che il romanzo permette di avvicinare meglio all’autobiografia, se non la verità personale, individuale ed intima dell’autore, cioè la stessa alla quale mira ogni progetto autobiografico?” 14 1.1.7 Autobiografia e confessione: il caso di Rousseau. La scrittura, con le sue varie e diverse stesure, permette di ricercare, comprendere, formulare ciò che nel solo ricordo non può esistere. Ne le “Confessioni” di Jean Jacques Rousseau è evidente proprio l’impegno nel portare alla luce qualcosa di altro da un banale ricordo; si assiste al tentativo di dischiudere quasi maliziosamente significati nuovi che donano senso ai fatti. Nel famoso episodio della “sculacciata” ricevuta da Rosseau bambino, “ l’Adulto ha dovuto ricominciare più volte per far chiarezza nella logica dell’affettività, complessa e paradossale, oscura a quel bambino che l’ ha vissuta” 10 Attraverso la parola si può infatti tentare di ritrovare il significato nascosto di un discorso criptico in cui forse risiede l’inversione dei codici e il meccanismo della condensazione. 11 Rousseau però osa qualcosa in più: secondo l’interpretazione di Lejeune, per altri discutibile, egli cerca non solo di interpretare sotto una nuova luce semantica l’evento della sculacciata rivelando le particolari emozioni da lui vissute, ma tenta, attraverso la confessione, di riparare alla vergogna e al senso di colpa provocato dalla consapevolezza di aver provato tali “peccaminose” ed “inappropriate” emozioni. Lejeune tuttavia crede che Rousseau utilizzando proprio il mezzo della confessione, anziché cercare la redenzione del lettore per un confessato peccato, voglia in realtà sedurlo e sorprenderlo con l’ astuto gioco della verità confessata. Nel momento in cui infatti il vero e reale destinatario (lady Marion, 15 Mamam) non esistono più e non possono pertanto essere presenti all’atto della confessione, la confessione nell’autobiografia per il critico francese diventa improbabile se non impossibile. “ Le confessioni autobiografiche sono una sorta di lettera a Rodriguez, che tutti leggono eccetto il destinatario. O che si danno da leggere a tutti non potendo mai trovare il vero destinatario” 12 La stessa scrittura, diventando mediazione, ne dissolve l’autenticità. Per Rousseau allora confessare più che un’ opportunità di dare spazio alla verità, diventa un riparo e una difesa che gli permette di rischiare di dire tutto e non di farlo effettivamente. La scrittura, secondo Lejeune, può dire la verità od il suo contrario, tuttavia questa verità la può dire solo all’inverso: attraverso la descrizione di tutto ciò che nella vita ha impedito di esprimerla e ripetendo gli stessi impedimenti nel discorso. “ Si può certo ristabilire la trasparenza nell’ostacolo, senza però distruggerlo”13 essendo lo stesso anche un riparo. Non a caso, proprio Rousseau amava l’immagine del “ cuore trasparente come cristallo”. Il cristallo, corpo solido, permette alla luce e allo sguardo di passare, tuttavia impedisce il passaggio all’azione (come i suoi scritti). 1.1.8. Dall’Ordine Cronologico all’Ordine dell’Indagine sviluppato con Sartre. Nelle autobiografie prodotte dal Settecento ad oggi l’ordine cronologico nella descrizione degli eventi sembra prevalere. Eppure non è stata stabilita alcuna 16 regola formale che promuova questo tipo di intreccio lineare rispetto a forme di intreccio più complessi. Per Lejeune il più naturale ordine in cui può svolgersi l’autobiografia è quello dell’ indagine, che può svilupparsi attraverso modalità di racconto anche non lineari. A sviluppare questo concetto è lo scrittore e filosofo francese Jean Paul Sartre. Per Sartre l’autobiografia può assumere significato solo in rapporto ad una nuova antropologia. “ L’autobiografia è un momento di indagine dialettica, momento di vertigine o metamorfosi. Una nuova partenza della ricerca è resa possibile dal ritorno critico su di sé”14. Durante questo momento euristico e di cambiamento a partire dal sé, lo scrittore de “La nausea”15 si racconta, non attraverso l’ordine cronologico (come sembrerebbe apparentemente), ma seguendo l’ordine logico della nevrosi. Egli infatti crea e sperimenta con successo un nuovo ordine dialettico coerente allo stile fenomenologico dell’intenzionalità. “ L’anteriorità logica ed esistenziale tenderà ad essere rappresentata come anteriorità storica, tanto più se le verrà assegnata un’anteriorità narrativa.” 16 L’ordine dialettico deriva però anche dalla concezione che Sartre ha del passato. Per il filosofo infatti il passato non può esistere da sé, esiste al contrario sempre in relazione al nostro attuale presente, ( “ L’essere per me”). E non è neppure una somma di presenti in sé che bisognerebbe unire ed allineare in un ordine cronologico! Sorge tuttavia un problema. Se si parte infatti dall’ipotesi che non esiste passato in sé, allora risulta spontaneo chiedersi: 17 • Quale sia il senso dell’autobiografia • Se si può di conseguenza raccontare qualsiasi cosa senza il dovere di essere fedeli nella descrizione del passato La questione si risolve immediatamente se, come suggerisce Lejeune, si predilige l’esigenza di significato come principio primo positivo della ricerca autobiografica e della scrittura di sé. “ Il senso nasce dalla tecnica stessa della descrizione di un vissuto concreto, dove ogni gesto è descritto liberamente” 17 L’esigenza prioritaria del significato genera infatti la struttura del testo in grado di restituire l’ essere per me del passato. L’ autobiografia richiede allora: • L’esigenza di significato (principio positivo) • L’esigenza di esattezza ( principio negativo) Ma l’autobiografia per Sartre sarà anche “ la storia del mio avvenire”, cioè la ricostruzione del “progetto”. L’uomo è ritenuto libero di inventare l’avvenire, di trovare una soluzione nel campo del possibile. I fatti, gli avvenimenti, i sentimenti, i comportamenti, sono intesi non come elementi da organizzare cronologicamente per ricostruire una storia, ma come segni da decifrare per ricomporre un progetto che non appartiene propriamente ad alcun momento, non tanto da non avere storia, ma perché li ingloba tutti. Ogni autobiografia è l’espressione della frase: “Sono diventato io”, che per Sartre diventa: “Mi sono fatto io”. E “ Le parole” 18 , con la sua stessa forma, hanno sintetizzato una vita. 18 1.2 ANGLANI E “I LETTI DI PROCUSTE” Come si è già avuto modo di affermare nell’introduzione, Bartolo Anglani tenta di affrancarsi dal bisogno di definire il concetto di autobiografia a vantaggio di un’ analisi approfondita di tutta quella varietà di esempi, tra loro diversi, di cui disponiamo. Tuttavia in “I letti di Procuste” si spinge oltre. Tentando di dipanare i molteplici fili concettuali e logici che i critici letterari hanno prodotto intorno al tema autobiografico, inevitabilmente pone in risalto il percorso di senso per lui più idoneo nell’accostarsi all’autobiografia come genere debole, instabile, multiforme. 1.2.1 Identità, verità, maschera Per tradizione parlare di autobiografia significa presupporre sia l’identità del soggetto autobiografico con l’autore, sia la verità del racconto. Concetti forti come quello di identità, intesa anche come la necessità di costruire e raccontare se stesso come un Io in rapporto ad una vocazione, un progetto ed un itinerario, e l’esigenza di verità, (il famoso patto con i lettori di Lejeune), a loro volta si intersecano con la poliedrica dimensione della maschera. Ma cosa si intende per maschera? Se ci si pone in un contesto culturale settecentesco essa può essere interpretata come un “teatrino rococò di vezzo e grazia”19, di voluta e ricercata finzione ove l’ Io si occulta e acquisisce un’ Altra identità, altrimenti problematica e frammentata. Tuttavia può anche essere una complessa struttura difensiva, uno spazio privato dal cui interno il soggetto può e sa dire alcune verità importanti, anche rischiose, su se stesso. 19 Nell’analizzare il genere autobiografico ancora una volta emerge il bisogno insistente di chiarire il rapporto tra verità e menzogna. Tanti sono gli scrittori e i critici letterari che si sono posti tale questione, e tante e diverse sono state le risposte. Pascal per primo,con il suo “Design and Truth in Autobiography”20, ponendo in relazione la dimensione del PROGETTO con il concetto di VERITA’, si è chiesto quale tipo di verità sia rintracciabile nell’autobiografia. Tuttavia egli stesso ammette che il compito non è così facile: il rapporto dell’autobiografo con se stesso, con il proprio passato richiamato in un presente e mediato da un processo di autoconoscenza talvolta illusoria, è uno dei fenomeni più intricati nella fenomenologia della elusività del vero. Per Pascal infatti l’atobiografo non è solo un Oggetto riconoscile dall’esterno, ma è anche Soggetto, cioè “personaggio il cui mondo interiore ed esteriore deve la sua apparenza alla maniera in cui egli stesso la vede”21 Così come lo scrittore di sé è essere dal carattere doppio, anche gli stessi avvenimenti registrati nell’autobiografia hanno una doppia valenza rispetto e alla vita reale, e in rapporto al “Self” presente dell’autore. Secondo Anglani tuttavia, anche nelle riflessioni di Pascal si può intravede ancora una volta il “pregiudizio” della distorsione illegittima e dell’alterazione prodotte dall’autobiografo, in quanto soggetto e oggetto, alla verità dell’esistenza, che viene limitata dall’ operazione di ricostruzione del passato a partire dal presente. Pertanto è forse più utile decidere quale sia la verità a cui siamo interessati: La Verità obbiettiva ma irraggiungibile, o la verità del soggetto, limitata, parziale ma resa evidente e tangibile dal testo? 20 Pascal sceglie una verità profonda ed intima che emerge dall’opera autobiografica e che si contrappone alla verità limitata della fiction. Scelta interessante ma, avverte Anglani, spostando tutto l’accento su una verità interiore generata durante la ricerca dell’ Io, si rischia di investire l’autobiografia di un dover essere, non sulla base di prescrizioni teorico-formali ma secondo la dimensione delle autobiografie esclusivamente spirituali, religiose, romantiche. Verrebbero così escluse le autobiografie di carattere illuminista; le inquietudini contemporanee che si affrancano dalla teodicea e dalla forma conclusa e compatta dell’esperienza; le “anti-autobiografie” giocate sull’ironia e sulla controscrittura il cui emblema è “Mark Twain”. Con Francis R. Hart l’intera questione viene reinterpretata. Per Hart infatti il problema del rapporto tra ciò che lui chiama “fictive”, “historical”, “design” e “truth” può essere in realtà uno pseudo problema. Se si ammette infatti che storia e finzione non sono sempre tra loro distinguibili, così come il problema della verità non è separabile da quello dell’Io, inteso non in senso metafisico,si può constatare che: “ L’Io svolge uno o più ruoli strutturali nell’autobiografia: l’Io che è stato celato o costruito a metà; quello che è stato smarrito o conquistato, riconquistato, cercato invano; quello che è stato coltivato,imposto, preservato, sviluppato.” 22 L’autobiografo ogni volta può scegliere un tipo di Io diverso come oggetto e soggetto della sua storia. E ogni Io può “dar luogo a punti di vista numerosi, fluttuanti e misti”23 che impediscono all’interprete di affermare che “alcune persistenze di Io sono più veritiere di altre”24. 21 Il tentativo di Hart è quello di creare un modello flessibile in grado di far coesistere all’interno del genere autobiografico opere che vogliono porre in risalto un Io comprensivo, essenziale, totale, con altrettanti testi che parlano di un vero personale particolare,nonché cronologicamente e analiticamente limitato. C’è però anche chi all’estremo sostiene che l’Autobiografia sia creazione, attività di “model building” (Marc E.Blanchard), e anche menzogna. “ In un mondo di altri – dice Blanchard – il soggetto che pretende di essere se stesso è un bugiardo”! La fiction è perciò connaturata alla scrittura di sé. L’autobiografo pertanto diventa “ voyeur” di se stesso, un Narciso che specchiandosi nell’acqua viene rapito dalla sua stessa figura riflessa. La sua vita, ammirata e pensata, si cristallizza come in un plastico delineato nello spazio e bloccato nel tempo. Tuttavia per Anglani è assurdo pensare la scrittura di sé bloccata dal punto di vista temporale. Egli ritiene infatti che una tale credenza non possa essere altro che la dimostrazione di una forte cecità storico filologica appartenente ad “un certo genere di filosofia”. Per Willis R.Buck il concetto di identità è un fenomeno prettamente linguistico e pertanto una questione su cui è inutile perdersi. Il dibattito che vede coinvolti i concetti di verità da una parte, e fiction – menzogna dall’altra, è tutt’ora aperto. Sono tante le domande che possono essere poste e le diverse angolazioni da cui può essere affrontata la questione. Henry Peyre affermando che l’autobiografia è una forma d’arte si pone il dubbio se, in quanto tale, possa essere “sincera”; Georges May con ironia e ricercato paradosso afferma che probabilmente gli autobiografi più sinceri sono 22 proprio quelli che ammettono la loro insincerità (!); altri sostengono che la ricerca della verità sia di fatto irraggiungibile nel momento in cui si compie un’azione di selezione. A cosa poter credere allora: 9 Alla verità del sé depositata dallo scrittore nelle proprie metafore 9 che tutto è falsificabile, incerto, sospettabile di menzogna 9 oppure, al contrario, che tutto è vero dal momento che ogni scrittore con il suo modo di scrivere e presentare metaforicamente la propria vita, anche mentendo dice la verità. Per Anglani rispondere a questa domanda potrebbe essere quasi superfluo se, una volta per tutte, si accettasse di vivere nell’incertezza e nell’oscillazione costante tra le sfumature di un genere piuttosto che definirne arbitrariamente tinte forti ma “artificiali”. L’ autobiografia ha una natura che Anglani definisce duplice, contraddittoria, problematica e al tempo stesso costruita e sincera. La verità sta tutta nel testo. Altrettanto assurdo allora accettare il punto di vista di alcuni critici che interpretano l’autobiografia sempre come finzione, essendo un’ arte alla ricerca di stile. Non solo, paradossale è anche l’esigenza degli stessi teorici di dover forgiare un metodo decostruttivo in grado di scovare quei momenti di contraddizione e molteplicità, in cui il testo vacilla nei suoi tentativi di costruire una verità fasulla attraverso la finzione. Da dove infatti prenderanno il vero che dimostri la falsità del discorso autobiografico, se non dallo stesso testo etichettato come inaffidabile? I testi autobiografici devono essere oggetto di ricerca non in quanto barriere ma in quanto realtà soggettive ma autentiche. 23 Come dice Paul J. Eakin, la verità autobiografica è rintracciabile proprio in quel processo intricato di auto-scoperta e auto-creazione che permea il testo. 1.2.2 L’Autobiografia come atto di conoscenza e costruzione di sé. A questo punto è ragionevole soffermarsi ad analizzare la stessa nozione di identità, che si vuole ergere a pilastro portante della scrittura di sé . Proprio nel Settecento inizia l’indagine scientifica sulla soggettività e sull’Io con il filosofo Locke. Tuttavia secondo Pizzorusso 25 , il concetto di identità lo si è riferito all’Io solo quando l’unità di questo è diventata problematica. Si ricordi a questo proposito la scena Humiana della proteiformità e impossibilità conoscitiva dell’Io, che ha contribuito a creare la visione moderna di un’identità dalla struttura plurale, flessibile, intelligente. Secondo quest’ottica l’autobiografia prende perciò forma quando l’identità diventa non un punto di partenza, ma un dato da costruire attraverso la memoria, luogo e strumento dell’autoconoscenza. Per Diderot, ricercare la natura dell’Io significa anche porsi un problema autobiografico di storia del soggetto. L’individuo è una ragnatela: incrocio di influssi molteplici, parte di un tutto dai confini sempre mobili ed indefinibili, dove la coscienza coincide con la memoria. “ Il soggetto sperimenta la vertigine della dissoluzione per ritrovarsi intero in lineamenti assai diversi dagli originali, spesso per allineare una serie di maschere giurando ogni volta l’assolutezza di ciascuna di esse.”26 24 Sempre allora ci sarà una contraddizione d’intenti data dall’oscillazione costante e verso “ l’incertitudine” di se stesso sensibile alla duplicità, falsità, incoerenza, e il tentativo di ricostruire un’identità fittizia, ma paradossalmente autentica, attraverso la memoria e la scrittura. Non a caso, è proprio nell’atto di richiamare l’immagine o la metafora della maschera che si accetta e si definisce proprio l’orizzonte della contraddizione. Il soggetto che parla di sé diventa colui che è costretto a fuggire da se stesso e a celarsi dietro un’inevitabile finzione fino a sentirsi “straniero” per… ritrovarsi e scoprire la propria autenticità. L’autobiografia è il prodotto di questo lavoro di mediazione e fuga anche rispetto al soggetto stesso che scrive. Emerge allora, secondo Anglani, una filologia del sospetto tutta centrata sulla convinzione che l’autore sia fondamentalmente un bugiardo sino a quando egli stesso non sarà in grado di mostrare la propria veridicità. L’autobiografia è lo strumento che tenta di riordinare i “frammenti o residui di quel vasto complesso di architetture mentali che è la costruzione dell’ Io” 27 “Il compito del poeta – dice Freeman – non è quello di rappresentare mimeticamente il mondo, né quello di compiere fiction su di esso, ma piuttosto quello di riscriverlo, spingendo la comune conoscenza delle cose ad un livello diverso e più profondo, più reale del reale, oltre l’esteriorità delle cose, mostrando che il mondo è sempre capace di essere pensato daccapo.” Nella narrazione il concetto di riscrittura si palesa nel tentativo di dischiudere, articolare, rivelare quel mondo autentico che, letteralmente, non sarebbe esistito se l’atto della scrittura non si fosse realizzato. E l’Io nel suo raccontarsi, nel raccontare il proprio mondo, ha bisogno dell’immaginazione. Tanto che, se si uccide l’immaginazione, si uccide anche l’Io. 25 E noi, senza un Io che immagina, non saremmo altro che corpi. Per J. Olney la complessità di un Io non potrà mai disvelarsi appieno, esso porta con sé infatti delle profondità inaccessibili, degli spazi segreti indispensabili a preservare il suo ruolo di mediatore tra un Es impulsivo e un SuperEgo direttivo. Tuttavia l’autobiografia può arrivare a conoscere ciò che l’uomo è stato ed è. Strumento legato all’impulso vitale di creazione, la scrittura di sé parte infatti dalla vita e si aggiunge ad essa. Attraverso l’uso di simboli, metafore che permeano la scrittura autobiografica, l’individuo non solo si racconta fino a riconoscersi nella sua storia, ma si scopre e si svela a se stesso costruendosi. Se il Sé è un processo, e non uno stato stabile, e l’autobiografia “ è un momento dell’ Io nel suo divenire che noi vediamo e tocchiamo attraverso le sue metafore” 28 ,tra conoscenza di Sé e autobiografia si crea una permanente circolarità di costruzione e creazione reciproca. Anche per Anglani l’autobiografia è sempre e dovunque atto di conoscenza di Sé. Ogni Sé è un soggetto che in forme diverse dagli altri persegue lo scopo comune e metafisico di concepire “sinteticamente e simbolicamente” lo stato di pienezza e di totalità perduto dall’essere. Il problema della verità autobiografica è risolto allora dal fatto che tutti coloro che sono andati in cerca dell’essere hanno raggiunto anche il vero. Coloridge infatti diceva: “Truth is correlative of being”. John Paul Eakin, ripercorrendo gli studi di Sartre, dice: “L’autoinvenzione si riferisce non solo alla creazione dell’Io nell’autobiografia ma anche all’idea che l’Io, che si tenta di ricostruire nella creazione letteraria, non è dato ma costruito nel corso dello sviluppo del soggetto. (…) La natura 26 immaginaria dell’individualità si può considerare allora un fatto autobiografico.” 1.2.3 La psicoanalisi per Anglani: pericolosa risorsa. La psicoanalisi potrebbe essere uno valido strumento per il pensiero autobiografico che si inoltra nei meandri della riscoperta e costruzione del sé. Nonché il terreno della verità e della menzogna potrebbe esserne il nutrimento. Per quanto riguarda la scrittura di sé la psicoanalisi ha portato notevoli contributi: ha saputo offrire un vocabolario nuovo e secolare che sostituisce i vecchi termini nella descrizione dell’esperienza interiore, trasformando il soggetto dell’autobiografia in un uomo sempre più psico- analitico; ha aiutato ed aiuta il lettore a leggere le autobiografie in modi nuovi, a porre nuove domande, a rendersi attento al detto e al non detto. E proprio dall’incontro tra autobiografia e psicoanalisi è nata una definizione preziosa della scrittura di sé: “ L’autobiografia è un genere letterario nato dal romanticismo, che ci dà la rappresentazione, a partire dal punto di vista specifico del presente, della formazione coerente di un passato individuale, ottenuto con gli strumenti dell’introspezione e della memoria di tipo speciale, al cui interno l’Io è visto come una entità in sviluppo, che muta per stadi definiti, e in cui la conoscenza dell’Io si collega alla conoscenza del mondo esterno, in maniera che entrambe ci garantiscano una presa profonda e vera sulla realtà” Bruce Mazlish29 27 Tuttavia Anglani, mantiene espressamente le distanze da tale disciplina. Egli non accetta di credere nel valore e nell’importanza che la psicoanalisi attribuisce all’inconscio nel riuscire ad esprimere tra le righe delle autobiografie ciò che la consapevolezza tenta di rendere estraneo. Quando la psicoanalisi nello studio delle autobiografie arriva a parlarci di un segreto che, celato nell’inconscio dello scrittore, e a dispetto di sé, a poco a poco la scrittura rivela, per Anglani siamo di fronte ad un vero e proprio abuso di potere e ad un uso indiscreto di tale disciplina. “ E come se- dice il critico italiano- gli psicoanalisti lacaniani ponessero l’ Io profondo in comunicazione con la pagina, a prescindere dalla mediazione della cultura e della letteratura, e per il tramite di un linguaggio che non appartiene a loro e i cui significati non sono essi a decidere.” Se così fosse, si arriverebbe allora sempre a quella filologia del sospetto in cui mentire invece di essere interpretato come la volontà di celare qualcosa, diventa paradossalmente espressione profonda del bisogno di scoprirsi. Ma analizzare tale complessa struttura, basata sulla menzogna e sulla costante finzione, significherebbe allora ricostruire una strategia comunicativa difficile e contraddittoria sull’ipotesi che il bugiardo voglia sempre dire. Allora forse è più facile limitarsi ad ammettere che ogni autobiografo, e ognuno di noi che voglia sperimentarsi attraverso la scrittura intima, racconterà la storia di se stesso più sinceramente che può, o tanto sinceramente quanto può permettersi. 30 Per Duccio Demetrio31 l’autobiografia è inevitabilmente portatrice di un “tempo dell’inconscio” che viene stuzzicato e provocato. Tuttavia l’inconsapevole “occulto” che permea le pagine scritte non può essere completamente 28 svelato: l’oblio, come forma di difesa, nasce per tutelare la mente e la vita nel suo divenire e sarebbe troppo rischioso estinguerlo ! Eppure questo non significa che attraverso la scrittura e le sue metafore non si possa avventurarsi nella ricerca e nella scoperta inediti luoghi interiori su cui “ non avevamo ancora (…) posato uno sguardo consapevole”32 Per queste discrepanze di pensiero, senza nulla togliere all’importanza della psicoanalisi e riconoscendo a tale materia importanti riflessioni nonché decisivi influssi culturali, Anglani preferisce non approfondire l’argomento e lasciare ad altri testi la capacità di analizzare la possibile relazione tra autobiografia e psicoanalisi. 1.2.4 Critiche al patto autobiografico di Lejeune: l’identità tra autore, narratore, protagonista non può esistere. Anglani analizza con interesse gli scritti di Lejeune, tuttavia i problemi cominciano a porsi nel momento in cui il critico francese decide che Rousseau faccia da spartiacque tra un passato preistorico dell’autobiografia, e un presente-futuro in cui l’autobiografia acquisisce la sua vera forma. Non dare importanza a tutta la produzione precedente a Rousseau per Anglani è una cattiva partenza nello studio di questo genere. Ciononostante, il punto di maggiore rottura investe il rapporto tra autore, narratore, personaggio. Ammettere che l’autobiografia debba sempre soddisfare il criterio dell’identità tra autore, narratore e personaggio, senza presupporre gradi, per Anglani 29 significa arrivare ad un’analisi eccessivamente semplificata che nega forzatamente le molteplici sfumature che si presentano davanti ad ogni testo. Tante opere come i Commentari di Giulio Cesare, La Vita Nova di Alighieri, I Saggi di Montagne verrebbero a torto escluse! Per Anglani è inutile stabilire un’identità assoluta tra narratore e autore perché in realtà essa non può esistere. Vi è un tempo proprio della scrittura che pone infatti sempre le distanze tra i due e che non può essere in nessun caso ridotto a zero. E anche se lo fosse, argomenta il critico italiano, l’Io del passato è sempre un Io diverso e Altro dall’ Io attuale dell’ autobiografo, che pur continuando a stare in un rapporto reciproco di continuità, tanto da permettere all’ individuo di sentirsi sempre se stesso, è anche il risultato di naturali e spontanei cambiamenti. Dice Pizzorusso: “ Il bambino che l’autore è stato non può essere riprodotto nella sua integralità.” 33 Nel racconto autobiografico il narratore si trova regolarmente in un rapporto ironico con il suo “ Io più antico” che egli descrive dal punto di vista di un’esperienza e comprensione superiore. La distanza tra narratore, autore ed il suo soggetto è fondamentale per l’autobiografia e ne determina la qualità distintiva.34 Persino nel continuo presente di Montagne c’è distanza tra oggetto e soggetto, quasi ci fossero due Montagne. Ma proprio nella distanza soggetto e oggetto si conoscono e si costruiscono reciprocamente. 30 1.2.5. Verso la definizione di un genere? Dopo esserci posti molti interrogativi rispetto al tema dell’ autobiografia, rimane ancora un dubbio a cui rispondere: possono esistere itinerari di ricerca che non si irrigidiscano su tipologie fondate sulla natura, e che mantengano un atteggiamento flessibile soprattutto in rapporto ad un “genere di confine” mutevole e confuso? Analizzando i testi di diversi teorici contemporanei emergono innumerevoli e differenti proposte di una definizione del genere autobiografico. Arduo allora il compito di chi si sta accostando al testo autobiografico di dover sposare un preciso orizzonte teorico. Tuttavia, non è forse più facile ammettere, come sostiene lo stesso Anglani, che l’ Autobiografia, per le sue infinite forme, non è né un genere, né uno stile, né un linguaggio, quanto piuttosto un atteggiamento letterario emerso prima del Settecento ma configuratosi storicamente in tale periodo ? Non lasciamoci tentare da chi, appellandosi al rigore scientifico, cade nel secolare errore di voler rendere necessaria una definizione classificante ed etichettante che legittima esclusivamente un solo modo di essere del testo autobiografico. Impariamo piuttosto ad accettare e a convivere con la diversità e l’eterogeneità tipica della letteratura autobiografica. Accettiamo l’invito del testo che ci chiede di essere letto senza porre degli ostacoli di forma puramente astratti. I primi passi in questa direzione li ha fatti Jean Starobinski nel momento in cui ha evidenziato che proprio riconoscendo la“genericità estrema” delle condizioni 31 dell’autobiografia è possibile valorizzare la varietà di stili particolari che si generano in essa, ognuno dei quali “è il modo di essere dell’individuo”35. Tuttavia un esempio più recente di empiria non affetta dalla “malattia infantile definitoria e categorizzante” della scienza letteraria è l’ Autobiografia come la intende Robert Folkenflik: “ L’autobiografia (…) non ha leggi ma norme! Scritta solitamente, ma non esclusivamente in prima persona. Può essere in prosa o in versi, veritiera o menzognera, squilibrata verso la fiction o ancorata alla attualità; scritta in tarda età, o a metà della vita, ma anche nella giovinezza. Può essere la prima o la sola produzione. Generalmente narra il passato dello scrittore, ma spesso non fa del passato il suo fine principale.” 36 Note 1. Philippe Lejeune, Il Patto autobiografico. P. 407 - IL MULINO, 1986 – 2. Bartolo Anglani, I letti di Procuste. Teorie e storie dell’autobiografia. – GIUSEPPE LA TERZA EDITORE,1996 3. P.Lejune p.12 4. Gerard Genette definisce il concetto di narrazione autodiegeticada nella sua classificazione delle 'voci’ del racconto a partire da opere di finzione. (Figures III – Paris, Seuil, 1972. Traduzione: “Discorso del racconto” Torino Einaudi, 1976) 5. P.Lejeune, p.38 6. P. Lejeune 7. Francois Mauriac, Commencement d’une vie, in Escrit intimes, Geneve-Paris, La Palatine, 1953 8. P. Lejeune, p.44 9. P. Lejeune, p.27 10. P. Lejeune p.85 32 11. “ la condensazione è la concentrazione di più elementi psichici e dell’energia ad essi legata in un‘unica rappresentazione dotata di notevole intensità. (…) secondo R Jakobson e J. Lacan, alla condensazione sono sottesi gli stessi processi che in ambito linguistico mettono capo alla metafora” Definizione di Umberto Galimberti in Dizionario di Psicologia –UTET 1994 12. P. Lejeune, p.57 13. P. Lejeune, p.95 14. J.P.Sartre in P. Lejeune p.23 15. J.P.Sartre, La nausea – 16. P.Lejeune, p.264 17. P.Lejeune, p 271 18. J.P. Sartre, La nausea 19. B.Anglani, I letti di procuste – Laterza editore, 1996 20. Cambridge,1960 21. B.Pascal, Design and Truth in Autobiography – 1960 – 22. Francis R. Hart 23. Francis R.Hart 24. Francis R.Hart 25. Pizzorusso, Ai margini dell’autobiografia-1986- pp.204-205 26. M. Romano, La maschera e il vampiro – 1984 – pp.36-45 27. Pizzorusso, p.208 28. J.Olney, Autobiography and the Cultural Moment–1980pp.3-27 29. Bruce Mazlish, Autobiography and Psyco-analysis. Between truth and self description. “ Encounter” 1970 30. John M. Coetzee, Truth in autobiography, 1984 31. Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé – 1996 – Cortina Editore 32. Marguerite Yourcenar 33. Pizzorusso, p.208 34. Rendall 1976, p.285 35. Jean Starobinski, La scoperta della libertà – 1965 – Fabbri Editore 36. Robert Folkenflik, “Introduction: the institution of Autobiography in culture” –1993- 33 2.0 L’AUTOBIOGRAFIA NELLA FORMAZIONE EDUCATIVA 2.1 PREMESSE Prima di esaminare analiticamente le caratteristiche dell’autobiografia come strumento di formazione personale in particolar modo dell’adulto e dell’operatore sociale, trovo necessario porre in risalto quelle piccole e grandi rivoluzioni di pensiero che, dando colore e respiro agli ambienti delle scienze sociali, hanno permesso di scoprire le potenzialità di metodi e strumenti alternativi alla conoscenza come le Storie di Vita. 2.1.1 Dalla raccolta dati alla costruzione di significati. Le scienze sociali che si occupano di Adultità e dell’educazione degli adulti (EDA) stanno proprio in questi ultimi decenni scoprendo le potenzialità delle Storie di Vita come strumento di ricerca, formazione e costruzione di significati. Con la crisi dell’oggettivismo e delle scienze positive che hanno sciolto il rigore scientifico e tutta la cultura occidentale dalla ricerca affannosa di una verità unica e oggettiva, le discipline sociali hanno interiorizzato percorsi di conoscenza alternativi, passando da un paradigma essenzialmente fondato “sulla raccolta dati” ad un paradigma orientato sulla “costruzione di significati.” 34 A cambiare non sono solo la natura e gli scopi della conoscenza ma anche il modo con cui il ricercatore ricerca e da forma al proprio sapere. Se la raccolta dati imponeva una distanza e un “guanto in lattice” al ricercatore affinché le “prove” non fossero accidentalmente inquinate e la verità compromessa da una soggettività più demonizzata che conosciuta, il paradigma della costruzione di significati riconosce le potenzialità, e non solo i limiti, di una conoscenza fondata sul rapporto dinamico ed ermeneutico tra le soggettività di osservatore e osservato agito in un contesto storico e mutevole. Come al ricercatore è riconosciuta una soggettività inalienabile, così agli individui, parte integrante di un’epoca spazio temporale oggetto di studi, viene chiesto di testimoniare, leggere, interpretare se stessi e il mondo anche attraverso i propri scritti, densi non solo di cronaca ma anche di significati. Ad avviare la prima rivoluzione sul metodo è stata la ricerca sociologica negli anni Venti con la Scuola di Chicago. Da allora infatti all’interno degli studi sociologici è emersa una corrente di ricerca che ha scelto come fonte principale per la descrizione di processi sottostanti alle grandi trasformazioni, documenti personali, spontanei e sollecitati, densi di significati e intrisi di “umane” emozioni. Tuttavia, è avvenuta in anni più recenti la vera svolta “epistemologica”1 che ha segnato l’importante passaggio da una sociologia “storiografica”, che tenta ancora di quantificare il dato qualitativo imbrigliandolo in classificazioni attraverso l’uso di metodi altrettanto generalizzanti e reificanti, ad una “ nuova sociologia” che cerca di individuare ed interpretare negli scritti autobiografici le invarianti strutturali, ossia “delle convergenze emergenti tematicamente nella storia di vita singole nel quadro dell’orizzonte storico dato” 2. 35 “ Attraverso l’autobiografia possiamo riuscire a conoscere le speranze e le paure della gente, le loro scelte individuali in relazione ai cambiamenti sociali e politici più ampi, i loro motivi razionali ed inconsci per agire, e soprattutto il significato e i valori che loro attribuiscono alle proprie vite”3. I metodi di carattere autobiografico permettono infatti di cogliere ed interpretare vissuti, esperienze e significati nel loro essere singolari, complessi e declinati nel tempo, tutte caratteristiche che i metodi tradizionali hanno eluso per lungo tempo. Ma per cogliere e valorizzare appieno questi documenti personali, al ricercatore vengono richieste nuove capacità che gli permettano di creare un contesto di interazione sociale complesso in grado di trasformare la ricerca in “con- ricerca”. Il principale atteggiamento da stimolare e formare nel ricercatore è pertanto la capacità di Ascolto. Proprio attraverso un ascolto attivo e consapevole il ricercatore entra in contatto con il testo, con l’intervista scritta e orale, creando le basi per un dialogo aperto tra due sguardi differenti sul mondo alla ricerca di un sapere condiviso da costruire e ricostruire. Il ricercatore - osservatore rinuncia a porsi ingenuamente come esterno all’osservazione e si costituisce parte integrante del contesto da osservare e si pone in “dialogo” con esso. “ Ogni intervista biografica è un sistema di ruoli, di aspettative di ingiunzioni, di norme e di valori impliciti, spesso anche di sanzioni. Ogni intervista biografica nasconde tensioni, conflitti e gerarchie di potere (…) le forme e i contenuti di un racconto variano con l’interlocutore”4. Il racconto auto e biografico non descrive esclusivamente una vita ma piuttosto racconta un’interazione presente mediante “il tramite di una vita”5. 36 Pertanto, come sottolinea Laura Formenti6, il lavoro del ricercatore non è più solo quello di recuperare o far ricordare dati, fatti ,eventi appartenenti al passato, ma di riconoscere in che misura il racconto sia di per sé, nel qui ed ora dell’incontro, un agire ed un trasformarsi. E’ proprio l’incontro con la differenza, con l’asimmetria, con modi differenti di interpretare gli eventi che stimola la produzione di sensi e significati nuovi e la co-costruzione di mondi possibili. 2.1.2 Essere adulti: da soggetto in formazione a soggetto della formazione. Tuttavia, affinché l’autobiografia possa divenire strumento di formazione e non solo esclusivamente genere di opera letteraria, c’è bisogno di maturare una nuova consapevolezza che coinvolge l’età adulta e l’essere adulti. Se per secoli l’età adulta è stata interpretata come un momento di stasi e “tranquillità” dal punto di vista evolutivo e dell’apprendimento cognitivo per lasciare spazio all’accumulo di esperienze sulla base di apprendimenti e scoperte già fatte, oggi una tale prospettiva è destinata a decadere. Alla luce infatti di nuovi sguardi infatti, l’adulto è colui che ha una propria storia attraverso cui può affermare non solo la propria identità ma progettare anche la propria continua formazione. Immerso in un ambiente estremamente ricco di stimoli, complesso e mutevole che richiede a ciascun individuo un adattabilità ed una sensibilità al cambiamento sempre maggiore, l’adulto è coinvolto in un processo dinamico di continua costruzione di sé, delle proprie strategie di conoscenza, di scelta, di 37 interazione. Oltre che essere la guida di se stesso egli è protagonista della propria auto-educazione, interprete degli eventi e delle pratiche della propria vita, nonché soggetto e prodotto più o meno inconsapevole di “formazioni e deformazioni continue”7, (intenzionali, occasionali, quotidiane). E proprio l’interazione costante e “vitale” che l’adulto agisce con l’ambiente, lo rende consapevole della necessità di cambiamento e della propria possibile educabilità. Pensarsi educabili significa inoltre riscoprirsi non solo soggetto in formazione ma anche potersi riappropriare della capacità di autotrasformazione dall’ “interno” divenendo e alternandosi da “soggetto in formazione” a “soggetto della formazione” .8 L’ approccio autobiografico nasce e trova spazio proprio in questo contesto: l’individuo si scopre possibile soggetto in e della formazione ma per realizzarsi come tale, ha bisogno di nuove strategie e strumenti per esplorare, apprendere, conoscere, conoscersi ed autovalutarsi. 2.1.3 “ Conosci te stesso !” Una filosofia antica declinata nel tempo. Oggi l’adulto crede nella sua educabilità permanente, nella capacità di autogovernarsi, di diventare “educatore di se stesso” anche attraverso la propria storia di vita narrata. Tuttavia quest’odierna consapevolezza è maturata anche grazie alla presenza costante nel tempo di diverse tradizioni di ricerca e di pensiero che hanno permeato epoche, culture, costumi,influenzandoli e influenzandosi reciprocamente. 38 Con il famoso precetto delfico gnoti seautòn ( “conosci te stesso”) la filosofia greco-romana pone inconsapevolmente le basi della futura psicologia individuale. Anche se, come suggerisce Foucault, il conosci te stesso proposto dall’oracolo in quel determinato contesto non era altro che un’ammonizione per il consultante che lo invitava a non pensarsi un dio e di avere chiara consapevolezza della richiesta che stava per fare, da sempre quel breve precetto è stato interpretato come un vero e proprio invito all’esplorazione di se stessi. In realtà come dice Foucault, questo tipo di interesse può essere più la conseguenza della seconda regola dell’oracolo, per anni sconosciuta, che aveva la funzione essenziale di rendere operativa la massima delfica: l’ epimelèisthai heautou, ovvero il prendersi cura ed occuparsi di sé. La prima interpretazione filosofico-letteraria di questo principio la elabora Agostino in le “Confessioni”. Mosso dalla convinzione che il vero apprendimento non può che avvenire dall’interno, essendo l’uomo l’unico essere ad aver coscienza di sé, egli va alla ricerca del proprio Maestro interiore tramite l’autoanalisi e la meditazione. Durante questo percorso tuttavia, il pensiero che si traduce in parola e la pratica di riscrivere se stessi deve “devotamente” rispettare la “TRIADE concettuale interconnessa di storia, memoria, e narrativa ”9 che rappresentano ancora oggi i punti cardine attorno ai quali si sviluppa la soggettività occidentale e la percezione della traiettoria umana. Dopo Agostino, la pratica del conosci te stesso ha motivato filosofi pedagogisti alla scrittura di trattati finalizzati non tanto a condividere la propria storia di vita, quanto piuttosto, attraverso questa, partendo dalla propria esperienza esemplare, si voleva educare i lettori all’educazione. 39 In anni più recenti, è il pragmatismo americano a rivendicare a gran voce la capacità inesauribile e straordinaria dell’adulto di apprendere da se stesso e dall’esperienza. L’individuo infatti dotato di un potenziale di crescita continuo è perennemente proiettato verso la conquista di indipendenza e autocontrollo che trova e matura attraverso il dialogo quotidiano tra le proprie risorse e un contesto, un contenuto, una relazione. Malcolm Knowles, teorico che traendo spunto dai principi del pragmatismo ha dato forma ad una delle teorie più riconosciute dall’EDA chiamata “Andragogia”, sostiene inoltre che l’adulto entra in un contesto di formazione con un’esperienza quantitativamente maggiore e qualitativamente diversa rispetto ai giovani. Pertanto proprio il vasto spettro di esperienze che l’adulto possiede permette alla formazione l’attivazione di percorsi e metodologie sensibili alle differenze di identità e all’eterogeneità di letture o interpretazioni del mondo che da queste esperienze, magari narrate, emergono. Ecco perché proprio nell’ EDA si assiste alla proliferazione di tecniche esperienziali: simulazione, attività di problem solving, metodo dei casi e metodi di laboratorio.10 La terza tradizione invece dichiara a pieno titolo che la capacità dell’individuo di auto-organizzarsi è parte integrante del sistema cognitivo e ne caratterizza i processi di apprendimento “tout court”. A sviluppare questa teoria, che emerge da un dibattito ancora attuale negli ambienti scientifici e che riguarda il rapporto tra soggetto conoscente e mondo conosciuto, è stato Heinz von Foerster11 con la sua metadisciplina chiamata 40 “cibernetica di secondo ordine” o “ cibernetica dei sistemi osservanti”. Proprio queste teorie sull’auto-organizzazione hanno avuto un’apprezzabile fortuna sia in campo psicoterapeutico che in campo educativo. In seguito avremo occasione di vederne riflessi più concreti rispetto alla scelta autobiografica. Se nel corso della storia sono emersi ripetutamente correnti di pensiero che hanno esaltato la capacità dell’uomo, soprattutto adulto, di conoscersi, autoorganizzarsi e trasformarsi, c’è anche chi tuttavia si pone insistentemente un dubbio: non può essere che l’uomo stimolato ed incoraggiato a rivolgere il proprio desiderio di conoscenza verso se stesso e all’interno dei confini dell’Io, rischi di isolarsi come una monade e di rimanere intrappolato in artificiosa ed eccessiva psicologizzazione ? Il dubbio è presto risolto se si ha l’opportunità di osservare come lo spazio autobiografico oltre ad essere un momento privato di riflessione è allo stesso tempo luogo di negoziazione, condivisione, confronto, di co-costruzione e di con-ricerca. L’approccio formativo autobiografico si fonda infatti “sull’intersoggettività della storia di vita, sul suo essere generata entro (e tramite) una collettività, sempre su uno sfondo storico, culturale e sociale, tramite un linguaggio condiviso. (…) La costruzione-narrazione della storia di vita comporta una redefinizione dei processi mnestici, introspettivi, interpretativi messi in atto dal soggetto narrante (…) come pratiche sociali, linguistiche e trans-formative”12 41 2.1.4 L’autobiografia per l’adulto: momento di riscoperta e reinvenzione. Nell’educazione degli adulti (EDA) l’autobiografia è proprio quello strumento che per sua natura è in grado di interpretare e colmare l’esigenza di formazione e trasformazione dell’adulto. Attraverso pratiche riflessive, narrative, reciprocative, l’autobiografia dona all’adulto il senso e la sensazione di una riscoperta e reinvenzione. Il tipo di formazione allora che l’uso di questo strumento introduce, non è più rivolta a persone in “stato di bisogno” o carenza cognitiva, e non è neppure una formazione “riqualificante” per il personale di aziende, uffici, primi contesti operativi dell’EDA, ma rappresenta una “terza” via volta alla promozione dell’individuo adulto nella sua globalità, proprio in quanto essere adulto. L’approccio autobiografico diventa infatti nell’insieme dell’impresa educativa un momento “ ad alta motivazione intrinseca”13. “La narrazione di sé in un contesto formativo vuole e cerca di dar forma ad una storia con cui poter convivere e riappropriarsi. Una storia che permetta alla donna, all’uomo adulti di comprendere e far comprendere la propria esperienza, in vista di successive trasformazioni. Una storia che però- e qui sta la scommessa della moltiplicazione degli sguardi- per divenire formativa deve anche comprendere in qualche modo i nessi e gli snodi con la storia della cultura di appartenenza, del tempo storico in cui si svolge, della lingua che è usata per raccontarla (…)secondo fertili intrecci tra percorsi e sguardi disciplinari.”14 42 2.1.5 Principi generali della metodologia autobiografica in un contesto di formazione. Prima di inoltrarci nelle caratteristiche specifiche della metodologia autobiografica è necessario focalizzare e riassumere i fondamentali principi teorici che definiscono e giustificano la scelta di tale metodo e strumento. Secondo Laura Formenti l’orientamento autobiografico risponde e necessita della presenza di quattro criteri generali15: 9 CRITERIO DELL’AUTONOMIA ORGANIZZATIVA La fiducia nella competenza dei soggetti. 9 CRITERIO DELL’IMPROVVISAZIONE BIOGRAFICA16 Il riconoscimento dei processi di apprendimento intrinseci auto-generati soprattutto nelle fasi di “transizione”. 9 CRITERIO DELL’INTERDIPENDENZA APPRENDITIVA La circolarità e reciprocità costruttiva tra ricerca e formazione, tra processi di costruzione di senso ed esperienza vissuta. 9 CRITERIO DELLA LEADERSHIP CREATIVA La revisione del ruolo e della funzione dell’educatore non più trainer o insegnante, ma animatore e facilitatore, accompagnatore di apprendimenti autodiretti. 43 Se l’adulto entra nella propria educabilità e educazione mediante la capacità di auto-apprendimento, la scrittura autobiografica può diventare uno strumento e ancor più un metodo di questo processo, essendo capace di cogliere la soggettività, l’unicità, la vitalità dell’adulto e delle sue traiettorie di apprendimento, di trasformazione ed espressione di sé. La facoltà di narrare, per sé o per gli altri, in modo occasionale o continuo, spontaneamente o stimolati, micro o macro eventi della propria vita intrisi di sensazioni, riflessioni, valutazioni, giudizi, emozioni entro un contesto definito e in un certo modo significa costruire se stessi, auto-organizzarsi e formarsi. 2.2 ANALISI DEL METODO AUTOBIOGRAFICO L’autobiografia come genere letterario “instabile” e come momento di autoformazione e di cura di sé ha radici antiche di almeno tre secoli. Proprio in quest’apprezzabile periodo essa, come più volte abbiamo ribadito, ha assunto forme e sfumature differenti che si sono evolute con la cultura occidentale di appartenenza. Motivo per cui ad alcuni viene ormai scontato associare alla narrazione di sé un potere dimostrato di trasformazione e conoscenza personale di cui l’adulto può godere. Se pensiamo infatti alla psicoanalisi con il suo reale e simbolico lettino attraverso il quale l’analizzato viene stimolato alla pratica delle “Associazioni Libere”, così come agli innumerevoli e ricorsivi inviti al “conosci te stesso” che la storia del pensiero ha visto rifiorire in epoche diverse, possiamo renderci conto che forse 44 l’autobiografia rischia di essere “un’esperienza tanto comune” da pensarne superflua un’analisi. Al contrario, proprio questa tesi, in accordo con la Formenti, vuole destinare un’ attenzione approfondita alla specifica riscoperta di questo strumento. Si vogliono evidenziare la pregnanza e la significatività connotate ad un uso specifico della scrittura di sé come pratica e “dispositivo”17 educativo. Inoltre, come dice Laura Formenti, si tratta di “(…) tradurne l’operatività e il modo di funzionare in termini di strutture, processi e procedimenti che rendano tali pratiche intelleggibili e ricostruibili. Individuando così con maggiore precisione il loro carattere di dispositivi formativi.”18 2.2.1 Una mappa di culture: scuole e modelli a confronto interpretano lo strumento autobiografico. Sono molte le “scuole” europee e i gruppi che all’interno dell’EDA ribadiscono l’importanza e le potenzialità dello strumento autobiografico. Tuttavia ogni gruppo di ricerca colora e giustifica l’uso della scrittura di sé inserendola in una struttura di senso coerente al proprio modello teorico. Ogni scuola infatti introduce lo strumento autobiografico partendo da premesse specifiche e compiendo scelte epistemologiche e operative distinte, in relazione anche allo sviluppo che l’educazione degli adulti ha avuto in quel determinato territorio e rispetto al modo di concepire l’adulto e la sua educabilità proprio di quella cultura. 45 Pertanto può risultare interessante esplorare i diversi orizzonti di senso che coinvolgono l’autobiografia come strumento cercando di porre in risalto i concetti chiave introduttivi e la metodologia proposta da ogni scuola di formazione . 2.2.1.1 L’area francofona e “il Percorso Storie di Vita”. Pur essendo l’area francofona una categoria astratta che abbraccia autori provenienti da diversi stati (Francia, Svizzera,Belgio, Canada), essa richiama l’esistenza di una sorta di “comunità virtuale” resa unita da un sapere condiviso e da una contaminazione e collaborazione costante. Il principale esponente di questa comunità è il franco-canadese Gaston Pineau. Grazie a questo ricercatore di formazione sociologica l’educazione degli adulti si è arricchita di nuovi concetti. Primo tra questi è il concetto stesso di formazione che, con Pineau, amplia i suoi confini e si definisce come un processo permanente esistenziale, “autopoietico”19. La vera formazione è un processo continuo caratteristico del vivente che rende il soggetto in formazione il vero protagonista dei propri cambiamenti e della propria auto-educabilità. Tuttavia promuovere ed esaltare l’autonomia del soggetto nell’ essere artefice principale della propria formazione, affrancando l’attenzione da tradizionali apprendimenti etero imposti, non significa voler ridurre e rinchiudere l’individuo adulto in un esclusiva ed univoca interazione con se stesso. Al contrario infatti, secondo Pineau , l’adulto nel processo di formazione ha il difficile compito di riuscire a coordinare e articolare in modo complesso almeno tre mondi: sé ( “auto”), gli 46 altri (“etero”), e le cose (“eco”). Proprio attraverso l’interazione personale e dinamica con gli altri, con l’ambiente, con gli oggetti, ognuno dei quali rappresenta uno tra i molti agenti formatori o “maestri dell’uomo” (come li definisce Pineau), l’individuo realizza la propria auto-eco-formazione. Pineau, facendo frequente riferimento a Bachelard, aspira a far ritrovare all’uomo “un rapporto autonomo con la materialità elementare, di rivitalizzare il simbolico e di mettere in connessione, attraverso l’immaginazione, il macro e il microcosmo”,20 passando da “un rapporto d’uso (…) - possessivo e finalizzato con le cose - ad una relazione personale ed intima, che assegna agli atti e agli eventi valori simbolici e significativi invisibili all’interno di un’unità esistenziale interattiva che non separa in modo contrappositivo le polarità descritte .”21 In quest’orizzonte di senso l’autobiografia diventa strumento e medium di riconquista del proprio processo di formazione in quanto offre un importante spazio di riflessione e ricognizione della propria storia di vita. Ripensare e ricostruire la trama della nostra esistenza mediante l’uso della parola, orale o scritta, significa andare oltre se stessi ed avviare un processo di trasformazione e cambiamento “naturale” che solo noi, in prima persona, possiamo gestire, progettare, costruire. Per intraprendere questa pratica è fondamentale che l’adulto esca e si allontani da una dimensione del tempo strutturata in senso cronologico che lascia spazio solo alla descrizione di fatti ed eventi, per immergersi invece in una temporalità “incoativa” e personale strutturata secondo ritmi interiori prodotti dall’emozione del ricordo e del suo contenuto. “Un tempo che meglio e più proficuamente si apre al registro notturno, latente, simbolico, della formazione, al di là di quelle descrizioni diurne, chiare, 47 esplicite spesso caratteristiche dei contesti etero-formativi, oggettivanti e/o fortemente vincolati”22. Dominati da frenetici schemi lineari che prevedono pause standardizzate e non permettono all’individuo di seguire i propri ritmi circadiani, la formazione permanente, ponendosi al di fuori di un tempo cronografico definito), diventa un’ importante occasione per la conquista di un tempo proprio…del vivere. Conquistare il presente, rieducandoci all’attenzione e all’ascolto, avvalersi di un tempo notturno sensibile alle nostre metafore interiori e scoprire il tempo biografico che pone in relazione passato, presente e futuro,sono percorsi fondamentali per un processo di auto-costruzione. Ecco perché Pineau interpreta la narrazione di sé non solo come una pratica educativa, ma come una vera e propria arte dell’esistenza volta “alla conversione dello sguardo .”23 Tuttavia particolare riferimento va fatto a quel movimento francofono chiamato GRAPA (Groupe Richerce sur les Adultes et leurs Processus d’Apprentissage) e fondato a Ginevra da Pierre Dominicé, Matthias Finger e Christian Josso, che ha dato vita ad una metodologia formativa in grado di tradurre in azione gli importanti principi di Pineau. In quindici anni di attività il GRAPA ha infatti costruito un modello di intervento educativo, interpretabile come dispositivo di valorizzando lo strumento autobiografico, invita “ricerca-formazione”, che, ad un “Percorso Storie di vita”. Quest’itinerario formativo si pone l’obiettivo finale di favorire la riflessione rispetto sia ai contenuti, alla forma e ai modi che ogni individuo sceglie per 48 raccontare la propria storia di vita, sia riguardo all’ esperienza stessa di formazione e alla sua capacità o meno di maturare nuove consapevolezze nel soggetto intorno a sé anche mediante il confronto con gli altri. Nel Percorso Storie di Vita è fondamentale infatti la dimensione del gruppo, (costituito da 6 - 12 soggetti provenienti da diverse esperienze e bisogni formativi), in quanto rappresenta uno spazio prezioso per la condivisione e rielaborazione dei percorsi biografici di ciascuno. Vediamo più in dettaglio le tappe24 o fasi di questo processo: 1. SCAMBIO E DI NEGOZIAZIONE. Viene presentato il progetto nei suoi contenuti ed obiettivi e viene chiesto ad ogni partecipante di esprimere le proprie aspettative. 2. RACCONTO ORALE INDIVIDUALE. Date due settimane di tempo per l’elaborazione personale della propria biografia cognitiva o storia di formazione, ogni soggetto per ciascun incontro è invitato a raccontare oralmente la propria storia che verrà poi discussa in gruppo dando spazio a dubbi,domande, spiegazioni ma evitando in modo assoluto il giudizio. 3. SCRITTURA DI UN TESTO AUTOBIOGRAFICO. Ai soggetti viene chiesto coerente poi di produrre un testo scritto che liberamente può essere o al precedente ampliato,trasformarlo, nonché racconto orale, o può essere stravolto da una forma completamente nuova. 4. INTERPRETAZIONE E PRESENTAZIONE INCROCIATA DEI TESTI. Nella fase conclusiva del percorso, è possibile proporre a ciascun partecipante di leggere e studiare la storia di formazione personale di un 49 collega per poi presentarla all’intero gruppo. E’ possibile anche aprire un successivo spazio di discussione ed interpretazione dei contenuti emersi, purché la richiesta e la gestione dell’attività venga fatta dal gruppo e nel gruppo. Il laboratorio proposto dal GRAPA, anche se andrebbe sperimentato più che descritto, pone in risalto alcuni importanti aspetti e peculiarità del mezzo e della metodologia autobiografica. Prima di tutto essa invita a prendere la parola e a dare testimonianza della propria soggettività mediante uno spazio di riflessione appositamente organizzato in cui l’individuo matura una progressiva coscienza di sé e condivide i risultati di questo processo in un contesto di ascolto senza giudizio, ricco di altrettante soggettività. Tuttavia, come dice Laura Formenti25, la presa di parola non è mai assoluta e definitiva ma costituisce sempre un tentativo, “un Balbettio” che può dar vita a diverse trame, tra le tante possibili, sensibili di cambiamento e di rifacimenti progressivi anche mediante l’interazione con il gruppo. La finalità è quella di “esistere come soggetto della parola”26. Ma solo l’Altro, in posizione d’ascolto, può riconoscere nel pensiero udito la soggettività di chi l’ ha pronunciato. “La ricerca delle parole che traducono con esattezza ciò che si prova rispetto al proprio passato è un’esperienza teorica fondamentale. Essa ricompone la distanza tra la pratica e il testo, distanza che gli adulti sentono quando compiono uno sforzo per riprendere a leggere. Il mettere la propria storia in forma scritta pone i partecipanti alla procedura biografica a confronto con il 50 problema della distanza tra interiorità ed esteriorità (…) li pone nel cuore di un dibattito centrale per la formazione, che consiste nel comunicare la dimensione sociale di un’esperienza di vita la cui verità attiene all’autenticità individuale.”27 Proprio in quella distanza, in quello scarto tra soggetto dell’enunciato e soggetto dell’enunciazione, l’individuo avverte il desiderio e la spinta a conoscersi e riconoscersi nello sguardo altrui attraverso la parola posta in comunicazione con l’Altro. La produzione di un discorso che da orale si trasforma in scritto, non è solo un momento mediante cui i protagonisti dell’esperienza formativa possono scoprire e dichiarare la propria soggettività, ma, allo stesso tempo, diventa occasione di analisi e riflessione della stessa esperienza formativa. Si costituisce allora quel circolo ideale proposto da Pineau tra ricerca e formazione: mentre indago su me stesso esploro anche le potenzialità del mezzo e della metodologia proposta. La domanda cruciale infatti è: “Che uso voglio fare di quest’esperienza?”. Con domande, ipotesi, connessioni è il gruppo stesso, e ogni suo componente, a porre in risalto le dinamiche che investono il racconto di vita come processo di formazione da un lato, e i fondamenti, i concetti chiave che riguardano i processi formativi dall’altro. Detto questo è facile allora comprendere quanto sia cambiato anche il ruolo del conduttore: egli non è più l’esperto che interpreta e decide gli esiti di una formazione ma acquisisce la nuova ma non meno complessa e importante funzione di animatore e facilitatore di risorse. Guy de Villers, appartenente al gruppo di ricerca belga chiamato FOPA (Faculté Ouverte Pour einsegnants, èducateurs et formateurs d’Adultes), 51 sostiene che chi gestisce laboratori e percorsi legati alla produzione di storie di vita, dovrebbe stipulare con il gruppo un contratto chiaro in cui siano ben evidenziati gli scopi del ricercatore e promuovere un clima di fiducia in cui i soggetti partecipanti possano liberamente esprimere le proprie motivazioni e aspettative, nonché 2.2.1.2 negoziare i termini del lavoro autobiografico. La Germania e “ l’Autobiografia Tematica Guidata” Anche negli ambienti della cultura socio-pedagogica tedesca l’età adulta viene sempre più riconosciuta nella sua dinamicità e disponibilità all’apprendimento continuo. Peter Alheit sottolinea infatti che l’individuo, coinvolto durante tutto l’arco della sua vita in processi di trasformazione lunghi e intricati, proprio nell’età adulta raggiunge la massima capacità di essere organizzatore attivo del proprio corso di vita. Egli infatti costantemente chiamato dalla propria quotidianità a prendere decisioni e a compiere delle scelte più o meno decisive per il proprio percorso di vita, è più che mai stimolato a far ricorso al potenziale creativo insito in lui. Il corso di vita è allora il terreno privilegiato del cambiamento e “laboratorio permanente” in cui vengono sviluppate abilità particolari e non acquisibili in un contesto alternativo al vivere intenzionale. Tuttavia esistono situazioni in cui le condizioni esterne sono talmente rigide da sembrare impossibile che il singolo individuo possa esercitare un’influenza su di esse con propri schemi d’azione intenzionale. Eppure il soggetto che ha sviluppato una coscienza biografica anche in contesti poco sensibili al cambiamento, riesce a percepire e a valorizzare la propria autonomia. Alheit 52 spiega questa singolare dinamica ricorrendo a due concetti fondamentali: quello di struttura e di habitus. L’autore tedesco sostiene infatti che l’adulto, chiamato nella quotidianità all’attività di problem solving, non sempre è costretto ad elaborare soluzioni nuove ma patrimonio può riproporre esperienziale. strategie Anzi, “in sperimentate condizioni allocate normali, la nel proprio decisionalità individuale è delegata a processori esterni (l’abitudine, le tradizioni ecc.); solo in situazioni particolari interviene la scelta, come meccanismo consapevole ed autonomo .”28 Queste strategie, abitudini, tradizioni interiorizzate che fanno da guida all’agire, Alheit le chiama strutture. La presenza di strutture o habitus, (un insieme di routine, modelli interpretativi, ma anche copioni di linguaggio corporeo scolpiti nell’individuo dalla socializzazione e anni di pratica)29, che apparentemente sembrano ostacolare la libertà e la creatività dell’individuo nel suo relazionarsi con il mondo, paradossalmente affermano e ribadiscono l’autonomia dell’individuo. Esse nascono infatti dalla biografia individuale, sono patrimonio del soggetto, e in esso crescono, si trasformano e danno forma al suo agire. La propria storia di vita e la riflessione maturata attorno ad essa, rappresenta allora per l’adulto una delle più importanti risorse per dare una direzione intenzionale al proprio agire e per promuovere “un modo diverso di apprendere”. Inoltre secondo Alheit, ogni biografia porta in sé un potenziale di vita non vissuta o unlived life. Sono tante infatti le possibili strade che un individuo nel corso della propria vita può intraprendere: egli sceglie di percorrerne solo alcune, ciononostante quelle tante vie inesplorate pongono il loro essere in 53 potenza, nella speranza che un giorno possano tradursi in atto. Andare alla scoperta del proprio potenziale di vita non vissuta “ apre la transizione ad una referenzialità qualitativamente nuova”30: permette di stabilire nuove connessioni all’interno delle strutture o di reinterpretare e ristrutturare l’intero sistema biografico. Pertanto la conoscenza biografica è condizione e strumento necessario affinché si possano realizzare apprendimenti non più cumulativi, che vanno semplicemente ad inserire e ad aggiungere una nuova informazione in una struttura stabile e predefinita, ma transizionali che permettono di “riprogettare i contorni della propria vita entro i contesti specifici in cui la si vive”31. Prendere tra le mani la propria storia di vita con sguardo consapevole e attento alle tante trame di vita possibili in essa racchiuse, è per Alheit non solo un’ attitudine, ma una vera e propria facoltà mentale che lui chiama “biograficità” . Se la biograficità emerge spontaneamente e con forza in quei momenti della vita di un uomo ad alto tasso di trasformazione (migrazioni, cambiamenti di status sociale, discontinuità evolutive), l’educazione e la formazione degli adulti dovrebbero promuovere questa capacità, strettamente legata a forme di apprendimento transizionali, affinché possa diventare per l’adulto una risorsa abituale e non eccezionale nell’affrontare la vita. Secondo Wilhelm Mader32, autore di chiara impostazione fenomenologia, la ricognizione autobiografica è una necessità e un vero compito esistenziale per l’adulto. Egli, impegnato costantemente nella costruzione della propria identità, ha bisogno infatti di elaborare storie, trame di vita in cui riconoscersi, riscoprirsi e con cui convivere. 54 Questa è la premessa principale che ha portato Mader a proporre un interessante modello di lavoro, strutturato ed intenzionale, che pone l’accento sull’ autoriflessione e la centratura tematica. “L’autobiografia tematica guidata”, questo è il nome di tale modello di lavoro, propone l’elaborazione scritta di una biografia educativa rispettando vincoli tematici dati e che si sviluppa attorno ad un processo a struttura ciclica. Ogni ciclo prevede le seguenti fasi33: 1. Presentazione di un tema di interesse biografico e orientamento dei partecipanti attraverso l’uso di metafore e domande. 2. Ogni partecipante è chiamato alla stesura individuale di un testo autobiografico (tempo: 1-2 settimane). 3. Lettura collettiva dei testi a gruppi di 3-4 persone. Durante questa fase è importante porre l’attenzione sulle emozioni, fantasie, pensieri che per associazione la lettura del testo stimola. E’ invece assolutamente bandito in questo lavoro il giudizio e qualsiasi suo derivato: pareri, interpretazioni, consigli. 4. Discussione plenaria sul tema secondo i diversi punti di vista ( cognitivo, sociale, storico, …), richiamando anche la letteratura sul tema, approcci teorici, considerazioni scientifiche, nonché tradizioni e metafore di uso quotidiano. Finita questa fase il ciclo può ricominciare a partire da un nuovo tema posto in campo. La scelta di temi precisi, che per Mader rappresentano gli “organizzatori biografici” e gli “universali” comuni ad ogni vita umana, ( punti di svolta, incontri formativi, la gestione del tempo, la relazione con il corpo, l’apprendere, il denaro, l’alimentazione, gli orientamenti valoriali, il lavoro 55 ecc.), è un elemento fondamentale di questo metodo in quanto consente ai soggetti di misurarsi con la dimensione della possibilità e del vincolo: l’adulto è infatti stimolato ad elaborare una delle tante trame di senso possibili rispetto però ad un contenuto dato, e pertanto condivisibile con il gruppo. “Lavorare su temi prefissati è come aprire una finestra per volta sull’autobiografia: quante più finestre si saranno aperte, tanto più la vita sarà compresa, anche se la totalità biografica interezza.”34 Il esistenziale processo di non potrà conoscenza mai essere dell’uomo vista rimarrà nella per la sua sua complessità e natura sempre incompiuto, ma proprio quest’intrinseco vincolo alla conoscenza assoluta intriga e motiva l’uomo alla ricerca continua di sé . Tuttavia Mader, a differenza dei suoi colleghi francofoni che osano e si spingono molto nei meandri della psicoanalisi, ritiene che la sete di conoscenza debba trovare nutrimento nelle oasi fertili dell’esperienza consapevole e non oltre i confini funzionali dei meccanismi di difesa. L’autobiografia tematica guidata è un percorso di formazione infatti che mira alla condivisione di sensazioni, emozioni, immagini che emergono attraverso il testo e che interpretazioni aprono e le giudizi menti che verso orizzonti stigmatizzano nuovi, e a bloccano differenza di l’esistenza, imprigionandola in una sola possibile definizione. Per un futuro educatore professionale, a cui oggi si richiede la capacità di stimolare e promuovere apprendimenti auto-diretti, può essere un’importante occasione di auto-formazione sperimentare in prima persona la metodologia autobiografica proposta da Mader. 56 2.2.1.3 La Gran Bretagna: l’autobiografia come lotta per il significato. Esperienze e tradizioni come quella del Mass-Observation Archive, che fondano la propria ricerca sull’analisi di documentazioni orali e scritte, nonché lo sviluppo di filosofie del linguaggio e dell’interpretazione che esaltano la metafora del testo, hanno dato ampio respiro allo strumento autobiografico, anche se ancora non esiste in campo strettamente educativo una metodologia ispirata ad essa. Tuttavia anche l’educazione e la formazione degli adulti riconoscono che uno tra i principali bisogni dell’adulto in formazione è quello di raccontarsi. Il soggetto infatti che ha fermato lo sguardo su se stesso, e scopre la complessità del suo io e il senso di frammentazione che in esso dilaga a causa dei molteplici ruoli e adattamenti che il vivere sociale richiede, avverte l’urgenza attraverso la narrazione di sé di trovare un filo conduttore, una storia propria ed unica da condividere e raccontare. Egli va alla ricerca di una trama di significati in grado di dare una forma coerente ad un‘ identità diffusa in molteplici e diversi contesti. Laura Formenti dice : “ La lotta per il significato costituisce l’origine e lo sfondo delle scelte di formazione dell’adulto e delle sue svolte biografiche .”35 Tuttavia è fondamentale per i teorici britannici dell’ EDA che questo processo di narrazione sia orientato all’elaborazione di un testo il più possibile “autentico”, ovvero denso di significati soggettivi, e anche in grado di porre nuove relazioni di senso tra passato e presente. 57 2.2.1.4 L’Italia e il modello “bio-sistemico” di Duccio Demetrio L’Italia ha visto fiorire un largo interesse attorno al mezzo autobiografico. Se alla sociologia e alla storia orale va il merito di avere scoperto e diffuso tale strumento, oggi soprattutto le scienze dell’educazione, come la psicologia e l’educazione degli adulti, si dedicano con particolare attenzione allo studio delle potenzialità trasformative della narrazione di sé. A questo proposito è essenziale riferirsi al modello elaborato da Duccio Demetrio, con la collaborazione del gruppo “Condizione adulta e processi formativi” dell’ Università degli Studi di Milano. Demetrio infatti, da sempre impegnato nell’EDA, è riuscito a far incontrare, dialogare e coesistere una molteplicità di sguardi (fenomenologico, clinico, sistemico-relazionale, costruttivista, interazionista), interessati a spiegare la complessità dell’uomo, in un nuovo modello “eco-sistemico” che vuole “portare uno spirito di ricerca nella quotidianità dell’educazione e insieme vivificare l’ambito della teorizzazione accademica grazie al confronto serrato con la vita, con l’esperienza,con i vissuti individuali così come vengono narrati” 36 anche e soprattutto attraverso l’uso dello strumento autobiografico. Ciò che caratterizza la “micropedagogia” di Demetrio, non è solo la concertazione tra una pluralità di approcci disciplinari, ma è proprio il riferimento costante al concetto di molteplicità, che struttura e permea l’intero sistema. Solo moltiplicando i punti di vista, i fuochi della ricerca, e gli obiettivi educativi si può tentare infatti di cogliere la multiformità dell’uomo e le sue continue metamorfosi. 58 Anche per il docente milanese, obiettivo primario dell’educazione degli adulti è l’auto-formazione: uno spazio che l’adulto si concede per riconoscersi, ricercarsi e riprogettare la propria incompiutezza e “sana” imperfezione. La narrazione di sé non può che essere allora lo strumento privilegiato di un percorso di conoscenza attorno al Sé , essendo spazio nello spazio, luogo intimo, privato, di “benessere e cura”, parallelo od interno all’ autoformazione. “L’autobiografia – dice Demetrio – è il viaggio di formazione forse più importante che ci è dato intraprendere”37. Deve esistere infatti un momento in cui l’ adulto possa prendersi tra le mani per “sviluppare - come disse Marcel Proust - i negativi della propria vita”38. L’uomo, la cui identità è espressa e moltiplicata nei tanti ruoli che egli ha interpretato e nelle diverse maschere che ha indossato più o meno a lungo, inevitabilmente avverte il bisogno di guardarsi allo specchio per riuscire a comporre una trama di senso tra i tasselli di un’ anima e di una vita complessa. Tuttavia, sostiene Demetrio, in quel vetro che riflette è fondamentale che l’individuo non cerchi tanto la perfezione rassicurante ma irreale di un’immagine imperfezione. Solo dell’imperfezione, è che lo rappresenta, lo specchio che in grado raccontare di valorizzando anche tutto ciò che la accetta quanto piuttosto l’umiltà l’uomo e nella la sua la sua modestia totalità, perfezione rifiuta di considerare: le incompiutezze e fragilità di un’ identità e di una vita. Tentare di rincorrere una bella ma inconsistente immagine di sé, come fece Narciso, ci condanna alla delusione e all’annichilimento della nostra identità, imprigionata e cristallizzata da un dover essere irraggiungibile. Inoltre, innamorati e catturati dalla nostra desiderabile visione, diventeremmo muti e sordi verso ogni altro essere non 59 incluso in quella perfezione. Al contrario, secondo Demetrio, accettare di convivere con il disordine e l’imperfezione data dalla “molteplicità di Io” che abitano in noi, apre infiniti itinerari di ricerca verso una rappresentazione possibile ed autentica della propria identità, da condividere e porre in comunicazione con l’Altro. Ritrovare la dimensione del Doppio e dell’essere tanti non porta infatti alla spersonalizzazione,( patologia descritta in psichiatria e in psicoanalisi), ma apre al dialogo e al confronto con gli altri proprio perché i confini dell’Io si dissolvono sino ad occuparci delle storie altrui. Il problema pertanto non è più quello rintracciare il “vero” Io, ma capire chi siamo, quanti siamo e siamo stati. Se infatti , come sostiene Fernando Pessoa, la nostra anima è una “misteriosa orchestra”39, noi possiamo conoscerci solo come “sinfonia”, esplorando l’inesauribile molteplicità data dai pieni e i vuoti della nostra esistenza. “I tanti adulti che abbiamo saputo essere e continuiamo ad essere; i pochi che siamo nella nostalgia dei molti, i niente, senza certezze e sicurezze, con molte paure e sentimenti di vuoto.” 40 Accanirsi nella ricerca di un centro unico e fisso che ci descriva, non tollerando l’idea di essere tanti e dinamici, per Demetrio significa esporre costantemente il proprio Io alla sensazione di frammentazione e divisione, inducendolo pertanto alla nevrosi. Al contrario, concedersi attraverso il pensiero autobiografico “lo spazio di una tregua” o “una stanza tutta per sé”41 entro la quale la molteplicità non viene colpevolizzata ma valorizzata, permette all’individuo di distribuirsi tra le differenze e le somiglianze di un passato e di un presente, tra la continuità o la discontinuità di eventi, emozioni, modi di essere, per poi ritrovarsi e 60 ricomporsi nella coerenza di una possibile trama composta da un Io fattosi tessitore42. Piacevolmente abbandonato nelle stanze della memoria e dell’immaginazione, l’adulto, spettatore di se stesso, posto a distanza dalla stesso pensiero narrativo e autoriflessivo, ha bisogno infatti di un Io tessitore in grado di ritrovare in quella lontananza un’ancora in movimento che possa essere un punto d’incontro e dialogo tra le mille voci di un’esistenza. L’Io narratore diventa alloro allo stesso tempo archeologo, mediatore e tessitore. Egli infatti, inebriato dal desiderio della ri-scoperta e dall’emozione di ricordare, prima si mette a scavare nel “giardino segreto”43 della memoria in cerca degli oggetti di un epoca; va alla ricerca dei frammenti di uno specchio che non è mai stato unico e dove la cronologia non ha importanza; cerca di stabilire una conversazione assidua con le “emozioni diafane”44 dei propri ricordi, dove lo stesso atto di rievocare feconda altre nuove emozioni. Poi, venuto a contatto con la propria pluralità e chiamandoci alla responsabilità di accettarci, l’Io si fa mediatore: ci fa incontrare anche con i nostri Io più odiatati e dimenticati, riconoscendo a tutti legittimità e negoziando il conflitto tra essi esistente. Ed infine avverte l’urgenza di farsi tessitore per costruire nuove e infinite trame di senso tra un “arcipelago di Io”45 che sono stati, sono e saranno. “ I nostri ricordi, che quando erano esperienze ci avevano partorito, fatto crescere, insegnato, ammaestrato, ora diventano i nostri figli dell’anima. Simili a noi, ma liberi da noi; dotati di un proprio movimento. L’emozione è inedita e feconda. Ci scopriamo capaci- con i nostri ricordi- di crearne altri affini, 61 viviamo con Proust il sentimento di rivivere un passato che non era più che la storia di un altro46. (…) Ma questi figli così nostri, forse più nostri di quelli carnali, iniziano così a diventare trama fantastica”47. Riassumendo, lo strumento autobiografico porta con sé almeno cinque importanti “poteri analsegici e ricostituenti”48: 9 Il piacere nel ricordare e nel giocare con le tante immagini e voci “calde”, ma non chiassose, che ci appartengono. Viaggiare nelle dissolvenze della memoria regala infatti una sensazione unica in grado di fondere armoniosamente corpo, percezione e pensiero. Inoltre, il potere curativo della dissolvenza, attraverso la distanza che impone tra il soggetto e l’oggetto della reminescenza, permette all’uomo di ritrovarsi. “Lontano da me in me esisto” 49 disse lo scrittore e poeta Fernando Pessoa. 9 Convivenze. Ogni giorno ognuno racconta se stesso al mondo, con le proprie azioni, con i propri gesti , espressioni e anche con i propri racconti “evanescenti”50. “Socializzare” le scoperte e le conquiste maturate gettando uno sguardo consapevole sulla propria vita, è un evento necessario a cui ci richiama l’essere adulti. 9 Ricomposizioni. Demetrio sostiene che il singolo ricordo non può essere una cura sufficiente. Al contrario è necessario “gettare una rete tra i ricordi” e creare una trama in grado di porre in comunicazione dinamica gli oggetti e i simboli di un’esistenza. Costruire ponti, passaggi tra le libere associazioni della reminescenza è un processo virtuoso 62 perché ad ogni nuovo inter-spazio generato, corrisponde una nuova possibile trama interiore che ci autoalimenta. 9 Artefici di se stessi. Prendersi per mano e concedersi uno spazio nuovo ove scrivere la propria storia, significa porre intenzionalmente in essere la propria auto-formazione e trasformazione. Inoltre, fisicamente celato dietro un gioco di specchi e di ruoli, è l’adulto stesso con il proprio potere creativo che permette all’ autore, al narratore e al protagonista di dar forma ad una storia, che può cambiare, trasformarsi, aggiornarsi o essere interamente riscritta. 9 Spersonalizzazioni. La somiglianza con un termine di lunga tradizione psichiatrica quale quello di “depersonalizzazione”, lo rende forse un concetto molto forte che, se non contestualizzato, potrebbe porsi in conflitto con quanto affermato in precedenza. In realtà per Duccio Demetrio la spersonalizzazione è un evento, un processo che porta l’individuo ad occuparsi non solo della propria storia ma anche di quella altrui. L’adulto dopo essere stato protagonista della propria autobiografia, può essere disposto a fare ricerca autobiografica con metodi più sofisticati ponendo l’attenzione su prodotti autobiografici di altri soggetti, oppure può anche scegliere di diventare educatore autobiografico coinvolgendo chi gli sta accanto in questa metodologia di auto-formazione. “La scrittura autobiografica mira all’impalcatura, all’intreccio di cose e ai motori di esse, per consentirci una riflessione, spietata, adulta, severa su quel 63 che abbiamo visto, attraversando con la nostra vita quella degli altri, i luoghi, le distese felici ed infelici .”51 Ecco allora perché il modello proposto da Duccio Demetrio è stato definito “bio-sistemico”: esso si collega alla vita e alle sue varie forme e permette di strutturare una ricerca attratta dalla complessità dell’esistenza e dei suoi protagonisti. 2.2.2 La svolta “narrativista”. La mappa di orizzonti concettuali ed epistemologici che si è cercato di descrivere voleva essere un’ occasione per potersi orientare all’interno della metodologia autobiografica intesa come dispositivo formativo. Tuttavia a questo punto, non ritengo necessario, come fa Laura Formenti, compiere una scelta adottando il metodo di una particolare scuola. Far coesistere e accostare spazialmente ognuno di questi approcci penso sia un modo infatti per cogliere con un unico sguardo l’insieme di potenzialità che l’autobiografia porta con sé. Spetterà poi ad ogni adulto, nonché educatore, di intraprendere quel percorso che più ritiene idoneo e valido per sé e per i suoi obiettivi. Ciononostante, prima di concludere quest’ area tematica rivolta all’autobiografia come strumento di formazione, voglio concedere particolare spazio al contributo teorico-epistemologico costruttivista che, in particolare, aiuta a capire i processi attraverso i quali la scrittura di sé diventa occasione di conoscenza, formazione e trasformazione. 64 Anche se il costruttivismo comprende un’ insieme di approcci e teorie tra loro differenti che offrono spunti a diversi campi del sapere, lo sguardo si rivolge a quel comune denominatore che rende importante il discorso autobiografico. Il costruttivismo, definito “modo di pensare la conoscenza e l’attività del conoscere”, è orientato in particolar modo a comprendere i processi costitutivi e generativi della conoscenza. Secondo tale orientamento, l’uomo, così come ogni essere vivente, conosce e costruisce la rappresentazione di sé e del mondo, attraverso l’azione e l’interazione con il medium, cioè con l’ambiente e l’intero sistema. Tuttavia, se la conoscenza procede sempre dall’azione, essa viene descritta ed espressa solo mediante il “languaging”: medium linguistico che attraverso il proprio atto, coordina le azioni.52 E’ il languaging “che rende possibile, anzi inevitabile la produzione di una biografia, cioè di una lettura possibile del processo ontogenetico, quindi del percorso di costruzione delle conoscenze”53 e delle sue trasformazioni inarrestabili. Se conoscere significa entrare in rapporto con, allora si può dedurre che la conoscenza concettualmente non potrà mai essere assoluta, oggettiva, né stabile. Infatti nel momento in cui il “soggetto” entra in relazione con l’ “oggetto” della conoscenza, l’interazione reciproca che si forma tra i due allo stesso tempo li trasforma, rendendo così instabile o meglio, in equilibrio dinamico l’operazione cognitiva del conoscere e il prodotto della conoscenza. Tuttavia proprio questa instabilità, invece che demotivare l’uomo alla conoscenza, lo stimola ad interagire con il mondo per conquistare adattamenti nuovi e apprendimenti ricchi di multiversi: “tanti domini di verità quanti sono i domini dell’esistenza che questi realizza nelle proprie distinzioni”54. 65 Dice infatti Munari: “non possiamo non pensare, non possiamo fare a meno di costruire delle teorie sul mondo che ci circonda, e non possiamo non avere un certo tipo di rapporto con le nostre teorie”55 che sappiamo essere “consensuali” e non oggettive. Secondo il punto di vista costruttivista, che accoglie il pensiero di Bateson, ciò che permette all’uomo di costruire il proprio sapere è appunto il “pensare per storie” e il “creare contesti”, ovvero assumere un atteggiamento ermeneutico in grado di mettere in connessione e far conversare gli elementi dell’esperienza. “La conoscenza è conversazionale, in quanto il languaging spiega (cioè genera) i fenomeni tipicamente umani del significato, dell’osservare, della ricorsività autocoscienze, dell’etica, dell’educazione stessa. Le sequenze ricorsive di azione combinata e coordinata che si realizzano tramite la conversazione danno forma alla realtà (la in-formano, tras-formano, de-formano)”56. Il linguaggio, in quanto coordina processi cognitivi, emotivi e relazionali, diventa medium di cambiamento, di trasformazione e di ri-orientamento all’azione perché crea domini consensuali e aumenta così la possibilità di “agire insieme”57. L’autobiografia perciò, più che essere storia di un percorso interiore, può diventare “la storia linguaggiata”58 dei cambiamenti, delle evoluzioni o involuzioni, testimonianza della reciproca interazione tra soggetto e mondo, vale a dire: “storia di interazioni”59. Attraverso la narrazione, la ri-descrizione di sé, che invitano il soggetto a prendere le distanze e a decentrarsi dal punto di vista dominante ed abituale, 66 ancora una volta si “gettano” altre reti tra sé e il mondo, si “mettono in rete” elementi e significati inediti. La narrazione possiede infatti alcune caratteristiche fondamentali60: 9 è per sua natura MOLTEPLICE: da forme ad infiniti intrecci e trame di eventi che utilizzano diversi linguaggi e che si aprono a molteplici livelli di lettura. Dal punto di vista ermeneutico, un racconto è anche un insieme virtualmente infinito di interpretazioni61. 9 È CONTESTUALE: crea connessioni, pertinenze, nessi all’interno più contesti sovrapposti: quello del narratore e del protagonista, quello interno ed esterno al racconto, le condizioni della storia e della sua condivisione… 9 E’ ESPERIENZIALE: genera risonanze, crea emozioni, immagini, fantasie in chi la scrive, la legge, l’ascolta. 9 E’ TEMPORALE. La scrittura trasforma, dilata, ristruttura la dimensione temporale per porla in armonia con l’uomo, con il tempo dell’esperienza e i ritmi del corpo, nello stesso momento in cui tenta di mettere in una relazione di senso passato, presente e futuro. 9 E’ per definizione INCOMPLETA ED INCOMPIUTA: essa non è altro che uno dei tanti racconti possibili. Non è una fotocopia della vita ma una sua interpretazione autentica in quanto coerente alla sua struttura, ma non assoluta. Inter-Azione, languaging e narrazione sono allora i principali motori per la conoscenza, l’apprendimento e la propria auto-tras-formazione. 67 L’autobiografia, come dispositivo educativo, è in grado di accogliere e far coesistere in un unico spazio tutte queste dimensioni. Note 1. F.Ferrarotti, Storia e storie di vita, Laterza, Bari, 1981 2. Ibid., p.45 3. D. Sheridan, “Writing to the Archive: Mass Observation as Autobiography”, Sociology, vol.27, n.1, febbraio 1993, p.28 4. F.Ferrarotti, Storia e storie di vita,cit.,p.44 5. Ibid.,p.45 6. Laura Formenti, La formazione autobiografica,Guerini studio,1998,Milano 7. Ibid., p.14 8. Ibid., p.15 9. M.Freeman, Rewriting the self: history, memory, narrative, Routledge, LondonNew York 1993, p.19 10. M. Knowles, La formazione di adulti come autobiografia, Raffaello Cortina, Milano, 1996; Quando l’adulto impara. Pedagogia e Andragogia, Franco Angeli, Milano, 1993 11. H. von Foerster, Cybernetics of cybernetics, BCL, University of Illinois, Urbana 1974 12. L.Formenti, opera citata,p.22 13. Ibid., p.15 14. Ibid., p.25 15. Ibid., p.16 16. M.C. Bateson, Comporre una vita, Feltrinelli, Milano, 1989 17. Termine coniato da Foucault e ripreso in ambito pedagogico da Roberto Massa. R.Massa, Le tecniche e i corpi. Verso una scienza dell’educazione, Unicopli, Milano,1986; Educare o istruire?La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Unicopli, Milano, 1987. 18. Laura Formenti, opera citata, p.33 19. Termine coniato dal biologo Humberto Maturana per definire il processo di autoproduzione di un sistema strutturalmente determinato (vivente) Cfr. H. Maturana, F. Varala, Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia 1985 20. L.Formenti, opera citata, p.45 21. Ibid., p.44 22. Ibid., p.46 23. P.Bordieu, La misère du monde, Seuil, Paris,1993, p.950 24. C.Josso, L’historie de vie dans un dispositif de recherce-formation :una méditation pour la connaissance de la subjectivité. 25. L.Formenti, Opera cit.,p.51 26. G.DeVillers, L’histoire de vie comme méthode clinique, p.149 27. P.Dominicé, l’histoire de vie comme processus de formation, p.78 28. Laura Formenti, opera citata, p.59 29. Ibidem, p.60 68 30. Ibidem, p.61 31. Ibidem, p.62 32. W.Mader, Thematically guided autobiographical reconstruction. One theory and method of “Guided Autobiography” in adult education, in Alheit 33. Laura Formenti, opera citata, p.64 34. Ibidem, p.65 35. Ibidem, p.70 36. Ibidem, p.77 37. D.Demetrio, Raccontarsi, l’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, 1995, p.145 38. M.Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato, Mondadori, Milano,1993 39. F.C.Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli, Milano, 1986, p.38 40. D.Demetrio, opera citata, p.38 41. Titolo del libro di Virginia Woolf. 42. Termine coniato da Duccio Demetrio 43. Termine usato da Duccio Demetrio nella serata con tema:“Lo specchio imperfetto. Come ritrovare se stessi nella molteplicità dei ruoli sociali”, tenutosi a Brescia il 24 Marzo 1998. 44. D.Demetrio, opera citata, p.74 45. D.Demetrio, opera citata, p.73 46. M. Proust, Il tempo ritrovato, cit., p.141 47. D. Demetrio, opera citata, cit.,p.85 48. D.Demetrio, opera citata, p.46 49. F. Pessoa, opera citata 50. D.Demetrio, opera citata, p.48 51. D.Demetrio, opera citata, p.154 52. L.Formenti, opera citata, p.122 , nota n.13 53. Ibidem, p.93 54. H.Maturana,Autocoscienza e realtà, Raffaello Cortina, Milano 1993, p.23 55. A.Munari, Il sapere ritrovato. Conoscenza, apprendimento, formazione, Guerini e Associati, Milano, 1993. 56. L.Formenti, opera citata, p.100 57. Ibidem, p.101 58. Ibidem, cit. p.104 59. Ibidem, cit. p.104 60. Ibidem, p.109 61. Concetto elaborato da Lyons in W.Lyons, La scomparsa dell’introspezione, Il Mulino, Bologna, 1993 62. L.Formenti, opera citata, p.118 69 3.0 VIVERE LA MORTE: L’AUTOBIOGRAFIA DI “ROBERTA” La testimonianza di un possibile incontro tra narrazione di sé e accompagnamento alla morte Nei capitoli precedenti unica protagonista dell’indagine è stata l’autobiografia. In un primo tempo ho cercato di mettere in evidenza le caratteristiche principali che la identificano come genere e, allo stesso tempo, siamo andati alla ricerca di quelle particolarità che la rendono un modello instabile e multiforme. Poi, interpretando come ricchezza il suo polimorfismo, abbiamo ricostruito le tappe di evoluzione e i luoghi natii di un pensiero che investe l’autobiografia di un preciso e importante ruolo: essere un dispositivo educativo, uno spazio “di benessere e cura” in cui l’adulto può ritrovarsi, autoformarsi e trasformarsi. Ora invece vorrei soffermare lo sguardo su un altro orizzonte semantico: la morte, il morire e l’accompagnamento alla morte. Tuttavia, per il momento, vorrei tenere oscuri i motivi per i quali è stato fatto questo cambio di direzione improvviso e incongruo, nella speranza che il percorso che intraprenderemo generi spontaneamente e a poco a poco quella continuità di senso che ora sembra mancare. 70 3.1 LA MORTE E IL MORIRE OGGI. Definire cos’è la morte è forse il compito più arduo che ci si possa immaginare. Come sostiene Virgilio Melchiore1, tutta la storia del pensiero occidentale è come se fosse in qualche modo bloccata dalla antica obiezione di Epicuro: “Non è possibile interrogarci sulla morte, nè sapere nulla su di essa, perchè fino a quando ci siamo essa non c’è, e quando ci sarà la morte noi non ci saremo più”2. La morte infatti, proprio perché sembra generare un punto al di fuori della vita, appare terribilmente sconosciuta all’Io vivente, così come è il nulla per la ragione. Come è infatti possibile che la coscienza possa comprendere e far esperienza della morte quando la morte non è altro che la caduta e il silenzio della coscienza stessa, oltre che lo spegnersi del movimento della vita? “La morte è l’assenza di ogni esperienza”3. Essa permane nella distanza dall’esperienza. Nessun segno la afferra, nessun segno vi allude, proprio perchè ogni segno rimanda. “ La morte è la possibilità più propria delle nostre impossibilità” (Heidegger). Eppure l’uomo ha bisogno di affidarle un senso che gli permetta di gestire quel sentimento di impotenza che essa gli rimanda. Uno dei più spontanei tentativi è allora quello di contrapporre la morte alla vita, di cui come essere viventi possiamo fare esperienza, per dedurre almeno ciò che la morte non è: non vita. L’uomo con la sola propria ragione sembra non poter arrivare oltre. 71 3.1.1 Segni e sintomi di una “cultura dell’immortalità immanente”: la ‘ happy society ’. L’essere umano, invece che accogliere l’amara e devastante consapevolezza di non poter conoscere cosa la morte sia, la ignora, la aggira, la nega cercando di prolungare col pensiero la vita oltre la morte, oppure allontanando tale evento dalla vita stessa, con la speranza di poter realizzare e raggiungere l’immagine della propria immortalità. La psicoanalisi ritiene che ognuno di noi nel suo inconscio sia convinto di non essere mortale. “La propria morte è irrappresentabile – dice Freud- e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo constatare che in realtà continuiamo ad essere ancora presenti come spettatori”4. La civiltà contemporanea porta con sé evidenti segni che suggeriscono l’indisponibilità dell’uomo ad incontrare l’evento morte: “è il discorso, ai nostri giorni, in enfasi crescente, su tutto ciò che sposta l’ago della bilancia verso il prolungamento indefinito della vita, della vittoria sul tempo”5. Non solo infatti, sottolinea Leonardo Ancona, continuano ad esistere venditori di elisir di lunga vita, ma oggi, la stessa scienza medica è schierata in prima linea nel compito di aggiungere anni alla vita. Nello stesso tempo in cui si fa protagonosta di un’incessante guerra contro la malattia e il decesso, con orgoglio partorisce costantemente nuovi metodi per appagare il desiderio di immortalità dell’uomo: prodotti farmaceutici salva-giovinezza (dal Metchnikoff, Voronoff, Gerovital fino al tanto acclamato Viagra), o salva-vita (cura di Bella); programmi salutistici volti alla cura e al culto del corpo; campagne di fertilizzazione artificale con affitti e scambi di utero; trapianti di organi fra 72 animali ed uomo; nonché tutti i processi di manipolazione diretta dei meccanismi della morte e della vita come l’ibernazione, l’ingegneria genetica e la clonazione. “Il tutto - sostiene Ancona - secondo una quasi universale modalità consumistica, interamente interessata alla quantità, più che alla qualità della vita.” 6 In realtà non sembra toccare affatto che l’aumentare indotto della durata della vita possa portare anche a “drammatici problemi di sovrappopolazione, di ineliminabile noia, di lotta per la sopravvivenza e per il diritto lavorativo”7, nonchè a comunità in cui il tasso di anzianità cresce ed esplode con tutti i suoi bisogni fino ad oggi elusi: avere una pensione sufficiente per vivere, non essere esclusi dalla vita di relazione, essere riconosciuti degni di partecipare al mondo anche con la propria “lentezza” e nel progressivo, fisico “appassire”. L’homo faber, troppo spaventato al solo pensiero del “non essere”, è talmente occupato a sconfiggere con ogni mezzo questa eventualità, che lo porta a manipolare ed alterare la stessa sua vita, da non prestare alcuna attenzione agli effetti indesiderati conseguenti a tale presuntuosa operazione. Appartenenti alla stesso orizzonte della “immortalità immanente”8 sono anche tutti quegli atteggiamenti esistenziali che proclamano il proprio diritto alla vita attraverso la morte di coloro che si ritiene essere “diversi”: quelli “che non ci stanno”, quelli che non hanno gli stessi nostri principi, le stesse credenze religiose, nonchè lo stesso colore di pelle. Secondo una follia collettiva infatti, solo la morte di queste persone, rese “scomode”, perchè deprivate di valore, può perpetuare la sopravvivenza serena del proprio gruppo di appartenenza. I vecchi e i nuovi lager, le guerre di religione e di etnia, così come gli scontri tra 73 clan mafiosi, bande di quartiere, tifosi di squadre di calcio (…) sono solo alcuni esempi tipici di una forma di pensiero così strutturata: “Se la morte tocca all’altro non riguarda me e, se la dò all’altro collettivizzato, lo faccio col negare ad un gruppo il diritto alla vita, a favore di un - aberrante ed inesistente - diritto del mio gruppo alla stessa.”9 Inoltre, se prolunghiamo il nostro sguardo consapevole sulla nostra civiltà, possiamo constatare che anche i tanti e contemporanei discorsi sull’eutanasia paradossalmente possono richiamare il desiderio di immortalità dell’uomo. Pur non volendo entrare nel cuore di una complesso dibattito intriso di questioni etiche e morali, si può comunque ammettere che anche là dove si proclamano i diritti verso una morte più umana, non devastata dalla sofferenza, o appesa al funzionamento di una macchina, vi possa essere un’inconscio desiderio di controllare la morte, reso possibile grazie al nostro essere vivi, nonché la sottile e mascherata condanna della malattia grave come parte negativa della vita, come non più vita. Tillard dice:“Tutto il gran parlare che si fa intorno ad essa <l’eutanasia> non viene forse ad eludere il problema di una morte più umana…finendo per collocare il tutto nell’orizzonte della happy society ?”10 3.1.2 La solitudine del morente. Se la società contemporanea rinuncia alla consapevolezza della morte perché ne teme il contagio emotivo, non solo può rendere sempre più sfumato il rito funebre che celebra la sua effettiva presenza, ma può relegare e nascondere la sua venuta entro le mura di un istituto ospedaliero, dove, invece che essere 74 vissuta dal soggetto come esperienza, seppur destabilizzante, intima e privata, viene al contrario resa asettica, medicalizzata. Oggi l’uomo sembra non aver più diritto a morire nel proprio letto, circondato dalle cure dei parenti e dal calore di un ambiente famigliare denso di storia, la sua, perché il desiderio di immortalità della cultura contemporanea ha cercato di dar esilio al morire, soffocandolo paradossalmente all’interno di un’ istituzione sanitaria progettata per guarire un male, piuttosto che per offrire un benessere globale al malato, nonché una migliore qualità di vita (che non si esprime solo nel alleviare il dolore fisico!). Nelle strutture ospedaliere, la malattia si impone sulla persona e diventa l’esclusivo oggetto d’investimento dell’agire terapeutico. “Il funzionale si sostituisce all’umano e, il morente senza diritto, viene condannato alla solitudine” (Luis Vincent Thomas)11. Fino a quando infatti l’ équipe medica, a cui è stato insegnato di essere rigorosamente impermeabili rispetto alle proprie emozioni, ritiene che ci possa essere ancora una speranza di vita, allora tutto l’agire professionale punta i riflettori sulla malattia e si accanisce contro di essa con ogni mezzo possibile. Tuttavia, tutte quelle azioni volte al rispetto e al sostegno della dimensione umana, affettiva, sensoriale, cognitiva, comportamentale del soggetto, vengono considerate in modo marginali e talvolta, vissute come un vero impiccio all’attivismo terapeutico: ecco spiegato il motivo per cui le visite esterne e di sostegno al paziente grave devono essere assolutamente ridotte e brevi. 75 Emblematica la reazione medico-ospedaliera di fronte ai primi tentativi della Kubler-Ross di porre a confronto il mondo sanitario con i concetti di morte e di accompagnamento alla morte. La Kubler-Ross è stata infatti la promotrice delle prime e più estese indagini sul morire rivolte principalmente ai malati terminali di cancro: “l’affezione che costutuisce oggi la seconda causa di morte nel mondo occidentale e la cui diagnosi suona ancora quasi per tutti come annuncio di morte, e che per la sua drammaticità, - assieme all’Aids - ha comunque preso nell’immaginario collettivo il posto che nel passato era stato occupato dalla pestilenza, dal colera, dalla T.B.C.”12 . Ma tra i tanti ed interessanti risultati prodotti da queste ricerche, riprese e approfondite in anni più recenti da Leszcz e Goodwin, ciò che in questo momento vale più la pena sottolineare è la prima difficoltà che l’autrice ha incontrato durante il suo lavoro all’Ospedale Billings di Chicago: la resistenza ostile dei suoi colleghi medici. Infatti alla sua richiesta di poter intervistare con l’aiuto di uno specchio unidirezionale i malati di cancro in fase terminale, i primari dell’Ospedale asserirono che “non c’erano malati vicini alla morte”. In altre parole, essi dimostrarono non solo di avere una forte difficoltà ad accogliere lo scacco terapeutico di una morte prossima, ma la completa e reale chiusura nei confronti di interventi, approcci diversi da quelli ordinari che, a loro parere, avrebbero tolto a questi ultimi tempo prezioso. “ Il messaggio era stato inequivocabile: i medici, soprattutto quelli investiti da maggiori responsabilità o impegnati con i malati più gravi, non intendevano trattare l’argomento morte; e lo facevano con un processo di grossolana 76 negazione, tanto più sconcertante quanto più essi vedevano morire i propri pazienti (…)”13 Proprio perchè anche la scienza medica non sempre riesce a sconfiggere o a ritardare la morte, quando essa inevitabilmente sta per arrivare, ci si trova innanzi a due grandi solitudini: quella del morente emarginato e privato della possibilità di riconoscere ed elaborare la propria morte, (magari sostenuto dalla presenza di un famigliare o di un operatore), e quella dell’ équipe medica che si trova umanamente impreparata a concepire la morte, e profondamente frustrata dal non essere riusciti a combatterla. Anzi, proprio nel momento in cui i medici amaramente realizzano che non c’è più nulla da fare e sono costretti ad arrendersi, il paziente sembra diventare improvvisamente scomodo: il suo letto potrebbe infatti servire a sconfiggere un’ altra battaglia contro la morte e a riscattare quella appena persa. Si passa così dal rifiuto della possibilità del decesso al considerare il paziente come già morto! Dice lo stesso Thomas: “ Si rifiuta al morire la propria durata e quindi il proprio contenuto, prima negandolo e poi riducendolo ad un fatto istantaneo.”14 Tuttavia gli effetti di una costante negazione della morte non si ripercuotono solo sull’agire degli operatori sanitari ma coinvolgono anche tutti quelle persone che in modi diversi assistono e partecipano all’esperienza della morte prossima di un loro caro, amico, conoscente. Impreparati ad accoglierla, disorientati e resi fragili da contrastanti moti interiori che la prossimità del lutto genera, rischiano inconsapevolmente di togliere dignità al soggetto e alla sua ultima, ma non meno importante, fase di 77 vita con atteggiamenti volti ad un ottimismo irreale ed illusorio e con il cosiddetto “ complotto del silenzio ”. “ La paura della morte, infatti, può portare familiari ed operatori ad allontanarsi dal malato proprio nel momento in cui egli ha più bisogno di sentirsi in un contesto di relazione che gli dia protezione e lo aiuti a trovare significato in ciò che vive”16 L’uomo allora non solo ruba a se stesso la consapevolezza della morte ma sottrae a sè e agli altri la propria morte, il diritto di vivere intenzionalmente la propria morte. Proprio quando la società pensa di poter risolvere la questione della morte affidandola alla scienza medica, essa si dimostra non in grado di darle una risposta definitiva. Eppure sarebbe tutto più semplice se un medico riuscisse a dirottare il proprio intervento dal polo del “guarire” ( ideale narcisistico) a quello del “prendersi cura” (investimento dell’oggetto). Nessuno più di un morente infatti, ha bisogno di essere preso in cura. Ciò si realizza non solo con la possibilità di accedere ad una terapia e a prestazioni infermieristiche, ma soprattutto nel creare e mantenere con il malato una “relazione” che lo renda protagonista. Proprio attraverso la relazione e la condivisione dei propri vissuti e delle proprie emozioni, l’individuo in fase terminale può riappropriarsi del proprio morire e può affermarsi come colui che può vivere pienamente la propria morte. “ Poter vivere la propria morte- affermano Paula Pira e Lucia Venturini - può anche voler dire scegliere il significato che si vuol dare alla propria vita. 78 Riappropriarsi della morte può significare riappropriarsi della vita, ristabilendo un’unità tra nascere e morire”15. 3.1.3 Se questo è un uomo: verso un dignitoso accompagnamento alla morte. Da questo momento in poi mi saranno di grande aiuto tutte quelle riflessioni che permettono di orientarci nella dimensione di un accompagnamento rispettoso e dignitoso del malato terminale, ma nate dall’esperienza diretta che l’Associazione di Volontari Domiciliari Assistenza Relazionale Malati Gravi “Maria Bianchi”17 di Suzzara (Mn) ha svolto nei suoi quattordici anni di attività. Parallelamente ad un impegno costante rivolto al sostegno domiciliare ed ospedaliero ai malati terminali, nonché di supporto psicologico ai famigliari nella fase di elaborazione del lutto, l’Associazione Maria Bianchi, anche in collaborazione con diversi enti territoriali, ha creato diversi spazi di riflessione e formazione sull’accompagnamento alla morte aperti non solo ai i propri e futuri volontari, ma anche alla comunità locale. La dispensa “ Accanto a chi soffre. Dolore, emozioni, aiuto psicologico” , a cui in particolare mi riferirò, è testimonianza di queste occasioni di elaborazione del loro essere “accanto a chi soffre”, da cui anche l’operatore sociale, l’educatore professionale possono trarre preziosi e significativi stimoli. Non si tratta infatti di confondere l’identità professionale dell’educatore con quella caratteristica del volontario, ma di far tesoro di un progetto importante e strutturato di un volontariato, che ancora una volta, per primo, ha saputo cogliere il bisogno e l’urgenza di restituire un 79 diritto al malato: vivere la propria morte accompagnato dal calore di una relazione autentica. Volontari, educatori professionali, operatori sanitari, famigliari, anche nel rispetto dei propri specifici ruoli, dovrebbero infatti orientare il proprio operare verso l’orizzonte comune del “prendersi cura”: l’unico in grado di porre al centro l’uomo, prima ancora della malattia. 3.1.3.1 Il malato in fase terminale. “Il malato terminale vive una condizione esistenziale tipica, caratterizzata da una rottura della continuità del progetto di vita e da una modificazione del vissuto soggettivo di questo progetto, nonché dell’identità psicofisica ad esso legata.”18 Posto in un delicato, doloroso spazio di transizione tra un essere presente ed un futuro non essere, creato dalla presenza della malattia terminale, il soggetto si scontra improvvisamente con progressive e diversificate perdite19: ¾ DELL’INDIPENDENZA E DELL’AUTONOMIA, (segni più evidente del proprio essere adulto, il cui progressivo esaurirsi proietta l’individuo nella dimensione della propria decadenza). ¾ DEI RUOLI SOCIALI . L’individuo colpito da una malattia cronico- degenerativa a poco a poco è costretto ad abbandonare la propria professione lavorativa, ad allontanarsi da una vita sociale e di relazione strutturata e coltivata nel tempo, nonché dagli oggetti e dagli ambienti più famigliari. Egli è sempre più esposto al senso di inutilità che rende fragile la sua stessa identità. 80 ¾ DELLA PROPRIA CONSUETA IMMAGINE ESTERIORE. Il corpo, provato dalla malattia e dalla virulenza delle terapie, va incontro a repentini cambiamenti: la perdita dei capelli, il loro imbiancamento, l’invecchiamento precoce di tutto il corpo. Questo porta il soggetto lontano anche dal più consueto mondo dell’apparire: del piacere e del piacersi. ¾ DEL GUSTO E DELL’APPETTITO. Si sfumano sempre più i piaceri e le funzioni dell’ oralità: il primo veicolo di conoscenza che l’essere umano ha con il mondo. ¾ DEL CONTROLLO DEL PROPRIO CORPO che richiama il concetto di dipendenza e progressiva decadenza. ¾ SENSORIALI che rendono difficile la comunicazione. ¾ DELLA COESIONE DEL LINGUAGGIO ¾ DELLA MEMORIA. Perdere la memoria è perdere come parte di se stessi. La confusione mentale ad essa associata porta l’individuo in un punto di “non contatto” tra sé e il mondo. ¾ ALTRE PERDITE che dipendono dalla qualità dell’interazione con l’ambiente e dal modo con cui queste progressive perdite vengono elaborate dal morente. Infatti, il malato terminale, coinvolto nella propria crisi esistenziale può anche perdere la voglia di vivere! Amanda Castello, formatrice, dice: “La persona ha perso o sta perdendo tutto (…) aiutarla a compiere il lutto delle sue perdite è parte integrante dell’accompagnamento alla morte.” 20 81 Allo stesso tempo però, e parallelamente, il malato terminale deve anche affrontare, elaborare, metabolizzare la più intima e dolorosa perdita: la propria vita. L’ angoscia di una morte imminente che improvvisamente recide sogni, desideri, speranze, tra le quali quella di essere immortale, sopraggiunge, si insinua, lo contagia. Ecco allora che durante questo processo, a seconda dello stadio della malattia in cui si trova, il malato terminale può manifestare diversi e contrapposti atteggiamenti, espressione di un particolare modo di entrare in rapporto con la consapevolezza della propria morte. Elizabeth Kubler Ross21 ha posto in risalto cinque tipiche modalità di reazione: LA NEGAZIONE: un meccanismo di difesa che rifiuta di accettare la propria morte. Lo stesso meccanismo che può portare il paziente, in un momento successivo, ad una sorta di sdoppiamento: egli isolandosi dal suo male, potrà discutere della sua malattia come se non gli appartenesse. Oppure talvolta il soggetto potrà far propri atteggiamenti “maniacali” resi manifesti da espressioni come: “Non mi sono mai sentito così in forma!” LA COLLERA: il soggetto è furioso contro un destino ingiusto che la chiamato a morire. Egli si chiede insistentemente con risentimento, rabbia, invidia: “Perché proprio a me?”. Questo sentimento forte può allora portare alla proiezione su gli altri della causa della malattia. Così la caposala diventa irresponsabile, il medico incompetente, i famigliari egoisti, Dio cattivo! IL PATTEGGIAMENTO: la ricerca di un compromesso, di una richiesta di prolungare la propria vita da scambiare con una buona condotta o con una promessa fatta, nella maggior parte delle volte, con Dio. Il malato spesso spera e vuole poter morire quando si sentirà pronto e avrà risolto alcune faccende private. 82 LA DEPRESSIONE. In realtà sono due differenti forme di depressione a cui il malato va incontro: la prima riguarda le molteplici e attuali perdite che la malattia terminale comporta, la seconda è una depressione più profonda, vitale legata agli echi di una perdita ancor più sostanziale: il doversi separare dal mondo. L’ACCETTAZIONE: il soggetto giunge ad accettare serenamente la propria morte. Egli sarà pervaso da un “vuoto di sentimenti, un riposo finale prima del lungo viaggio”22 Anche se queste fasi non si succedono così meccanicamente come la KublerRoss le ha presentate, ma possono tra di loro interconnettersi e rincorrersi secondo un disegno non prestabilito che rispecchia la complessità dell’uomo e dell’interazione dinamica in esso presente tra forze contrapposte, la loro descrizione permette di comprendere quanto sia importante per l’operatore, il famigliare, e più in generale per il caregiver, saper riconoscere queste fasi in modo da poter cogliere le reali richieste della persona e offrire un sostegno il più adeguato possibile. 3.1.3.2 “Prendersi cura”. “ Una delle caratteristiche del rapporto tra il volontario e il morente è quella di concentrare l’attenzione sulla persona, un essere umano, alveare di emozioni, soprattutto per quel che riguarda l’ansia, la lotta per il controllo della vita che rimane, il terrore. (…) il volontario, come interlocutore attivo, viene a porsi come “cassa di risonanza”, specchio, rispondendo direttamente al contenuto emotivo, ossia verbalizzando le emozioni del malato. Nella comunicazione con il malato morente è indispensabile lasciare che sia lui a tenere il ritmo, essere attenti a non confondere i nostri bisogni, desideri e valori con i suoi, e saper decodificare la sua comunicazione simbolica e non verbale.”23 83 In queste poche righe, già possiamo ritrovare i concetti chiave più importanti e determinanti alla base di una buona relazione d’accompagnamento: 9 dirigere l’attenzione sulla persona 9 porsi in Ascolto attivo in modo da essere “cassa di risonanza” in grado di rispettare e restituire le emozioni del malato. 9 rispettare il ritmo del soggetto 9 consapevolezza rispetto alle nostre emozioni e bisogni per non rischiare di confonderli con quelli del malato. 9 Capacità di leggere e decodificare i messaggi anche simbolici e non verbali In particolare però, la prima e fondamentale capacità del caregiver, dalla quale dipendono e derivano tutti gli altri atteggiamenti, è la capacità d’ascolto: entrare in silenzio in comunicazione empatica con l’altro. Pur essendo consapevoli di sé, delle proprie emozioni, delle proprie paure o fantasmi che la prossimità della morte evoca, e proprio in virtù di questa consapevolezza, l’operatore deve avvicinarsi all’altro e permettere che il mondo del malato fluisca in lui, per comprenderlo, arricchirlo con rispetto e restituirlo. “L’ascolto attivo può essere considerato una forma più sofisticata di empatia, ossia la capacità di percepire con precisione sentimenti e vissuti sperimentati dall’altro, la capacità di entrare nella realtà dell’altro senza perdere se stessi”24. E’ la capacità di ascolto attivo che porta l’operatore, il volontario, il famigliare a capire cosa in quel momento è giusto fare o non fare, dire o non dire. 84 Quando infatti il malato allontana da sè la gravità della sua malattia attraverso il meccanismo di difesa della negazione, è essenziale accogliere e rispettare questo rifiuto e accettare di rimanere in attesa. La negazione infatti è una strategia prevalentemente inconscia che l’Io adotta per mantenere un equilibrio psichico in quel momento indispensabile. “Occorrono sensibilità e intuizione per riconoscere i momenti in cui il malato assume la realtà della situazione e i momenti in cui preferisce guardare a qualcosa di più vivace e piacevole: in tal caso permettiamogli di fantasticare su cose più felici, anche se improbabili, senza fargli notare le contraddizioni.”25 Lo stesso vale per l’atteggiamento di collera e di condanna che il malato dirige con forza sull’intera realtà che lo circonda, mettendo a dura prova la capacità di resistenza di tutte quelle persone impegnate ad assisterlo e ad accudirlo. Anche in questo caso è importante infatti che chi è vicino al malato accetti e permetta a questa collera irrazionale di uscire, nella consapevolezza che dopo la tempesta arriverà la quiete necessaria ad affrontare gli utimi istanti di vita. “Ma questo lo possiamo fare solo se prima avremo affrontato la nostra paura della morte, i nostri desideri distruttivi, e avremo preso coscienza delle nostre difese, che molto possono interferire sul modo di trattare il malato”26. Nella fase di “depressione” , la persona invoca silente il diritto di poter piangere ed essere triste per quanto lascia e lascerà: proprio in questo momento infatti egli realizza e affronta il lutto di se stesso e delle sue progressive perdite. La sua tristezza va quindi rispettata e accompagnata da una vicinanza fisica che non vuole parole. “L’over-protection”, data da un affannosa ricerca di consolare il malato attraverso frasi che lo incoraggiano a 85 guardare il lato positivo delle cose, non può che creare in lui ulteriore dolore. Proiettato nella direzione opposta, egli può avvertire infatti solo una profonda solitudine in quell’ incolmabile scarto tra ciò che sente e ciò che gli atri gli rimandano. Delicato è anche il momento in cui il malato terminale raggiunge quel vuoto di sentimenti simbolo della accettazione della sua morte. Pur non essendo né un momento felice, né l’equivalente della rassegnazione, il “doloro psichico” dato dall’angoscia devastante della morte, sembra essere sparito per lasciare spazio esistenziale alla quiete. Questo è il momento in cui il malato ha più che mai bisogno di pace e di non essere coinvolto dagli affanni del mondo esterno. Non sente più il desiderio di parlare, tuttavia con il suo silenzio pretende la nostra presenza, e il conforto dato dalla sicurezza che lo accompagneremo sino alla fine. “Ci sono malati che lottano sino all’ultimo e conservano una speranza che rende loro quasi impossibile raggiungere questo stadio di accettazione. La maggioranza invece smette di lottare e accetta la morte senza disperazione, senza paura. E’ importante saper distinguere due casi diversi: 9 il caso in cui il malato rinuncia prematuramente a lottare quando avrebbe ancora possibilità di prolungare la propria vita e quindi va incoraggiato a sperare, a non lasciarsi andare; 9 il caso in cui il malato è arrivato ad accettare la fine ed il suo unico desiderio è riposare e morire in pace”27 86 Qui si apre il grande e difficile “capitolo” della speranza intrecciato inevitabilmente a quello del dire e non dire: del mettere a conoscenza il malato che il suo male lo renderà mortale, oppure no. La speranza è una dimensione permanente e naturale che può abbracciare tutte le fasi del morire e coinvolgere non solo il malato, ma anche la sua famiglia, il volontario, l’educatore, gli operatori sanitari. In quanto essere umani, “come non possiamo fissare continuamente il sole senza rimanere accecati”,(citazione tratta da un’intervista della Kubler-Ross e ripresa a sua volta da Leonardo Ancona28), così non possiamo, anche durante l’esperienza di approssimazione alla morte, pensare sempre ad essa. Pur accettandola infatti, nulla può togliere al malato la speranza di essere salvato da una nuova cura. I caregivers, da parte loro, pur nella consapevolezza e chiarezza dei rischi della malattia, potranno confermare allora al soggetto e fargli sentire che ogni cosa possibile sarà fatta a sua favore, e in qualunque modo potrà contare sulla loro costante presenza. Da tutti questi discorsi emerge che il malato terminale ha un bisogno primario fondamentale: quello di essere trattato come Persona. Riconoscere che, oltre e nei i limiti di una malattia, ci sta un individuo portatore di diritti è il primo segno di rispetto che un operatore sanitario o sociale può realizzare. Il morente anche se reso fragile da una malattia terminale o dall’approssimarsi stesso della morte, può avere ancora molte risorse ed essere in grado di compiere delle scelte. Egli può infatti a pieno diritto scegliere di vivere e non di 87 subire il trattamento terapeutico e allo stesso tempo, può decidere quale significato attribuire a questa ultima, finale esperienza. Per far questo il soggetto ha bisogno che l’operatore sanitario, l’educatore, così come i famigliari smettano di banalizzare la morte negandola o mascherandola dietro un falso ottimismo. La persona ha certo diritto a sperare ma non nell’ignoranza di una possibilità taciuta quanto piuttosto, proprio nella consapevolezza di questa eventualità. Spesso infatti la decisione dei famigliari o dei professionisti di non mettere al corrente il paziente della sua infausta situazione, più che essere un modo per preservare il morente da un dolore maggiore, è un inconsapevole tentativo di salvaguardare se stessi. L’angoscia della morte e del possibile lutto, ci fa talmente paura da renderci incapaci ad affrontare una relazione impegnativa che chiede la nostra sincerità, la nostra impotenza e la vicinanza nel silenzio. Negare inoltre la possibilità al soggetto di sapere, con l’illusione di preservarlo dal tormento della verità, significa esporlo alla ancor più incomprensibile contraddizione e falsità di una relazione che, in un certo senso, lo esclude già dalla comunicazione. Anche il doveroso autocontrollo, l’ottimismo perenne e i sorrisi vuoti di chi spesso ruota attorno al soggetto di cure, si pongono talvolta in così netta contraddizione sia con il dolore intenso provocato dal male inguaribile, sia con quello più profondo ed interiore dato dalla consapevolezza di dover morire, da alienare il morente dalla sua stessa intenzionale esistenza. Prima ancora di varcare la soglia della vita, l’uomo si sente già morto ed estraneo a quel conessere in grado di unire in un orizzonte di senso comune il vivere e il morire. 88 Il malato terminale allora, più che di risposte ha bisogno di percorrere questa ultima ed irripetibile fase accompagnato dalla presenza di persone pronte e capaci di porsi in posizione d’ ascolto. L’individuo che sta per morire spesso infatti ci chiede di essere presenti proprio attraverso la nostra impotenza. Dobbiamo allora affrancarci dall’ ansia e dall’ idea di dover fare e di dover dire. L’arma più potente che il caregiver ha a disposizione è infatti la propria presenza fisica, anche e ancor di più se è “senza parole” e sente di non aver nulla da dire. “ La capacità di offrire un aiuto non verbale - dice B. Genevay - è legata all’abilità di ricevere dalla persona che muore”.29 Gli occhi che guardano ( o non guardano), i movimenti delle mani o della testa, il colore della pelle o i suoni del nostro corpo rappresentano già un potente mezzo di comunicazione. “ Se basta una parola, non fare un discorso. Se basta un gesto, non dire una parola. Se basta uno sguardo, evita il gesto. Se basta il silenzio, tralascia anche lo sguardo”30 L’ascolto unito alla presenza diventa infatti un ascolto parlante.31 Questo connubio può infatti veicolare il messaggio: “ Ti sono accanto, insieme siamo difronte ad un mistero, ti accompagnerò nella tenebra finchè sarà possibile: muoviamoci assieme verso quella soglia che temi e di cui io stesso non ho sapere”. 89 “L’ascolto - dice Maria Grazia Soldati - è la più semplice forma di terapia e, tramite essa, rispondere alla domanda del malato diventa una impresa meno difficoltosa”.32 L’operatore sociale investito del ruolo di accompagnare l’utente verso la propria morte, deve quindi imparare ad ascoltare il personale linguaggio di colui che sta per morire. Solo così infatti può aiutarlo ad essere protagonista anche dell’ultimo capitolo della vita. 3.1.3.3 L’operatore è chiamato ad interrogarsi. L’educatore, o il caregiver, per poter costruire con il malato terminale una relazione d’accompagnamento significativa, deve prima di tutto essere disponibile a porsi in posizione attiva con se stesso. Egli deve calarsi nella propria intimità esistenziale e avere il coraggio e la forza per confrontarsi con le proprie angoscie, paure, con i fantasmi vaganti che la malattia e la morte suscitano. Coloro che infatti svolgono una professione d’aiuto hanno di fronte alla morte la stessa esperienza di dolore, di mistero, di paura e negazione che hanno tutti gli altri esseri umani. Può essere allora estremamente importante che l’operatore sociale si crei uno spazio in cui potersi chiedere all’infinito: “ Che cos’è la morte”; uno spazio in cui il mistero della pretesa morte possa essere accolto dalla coscienza senza la di essere compreso e disvelato; uno spazio in cui dar voce alle emozioni che da questo incontro derivano. 90 Per potersi avvicinare a colui che sta per morire ed accompagnarlo verso una morte dignitosa, l’operatore, anche in quanto essere (uomo), deve prima accogliere ed elaborare una propria consapevolezza rispetto all’essere mortali. Chi infatti nega la morte, non può permettersi di parlarne ed è quindi facile che possa trasmettere questo rifiuto al malato stesso, rendendo impossibile quella comunicazione vitale sulla sua morte. Non solo, l’operatore deve anche imparare a tollerare il proprio e altrui dolore psichico per poter incontrare il malato nella sua sofferenza senza uscirne devastato. “ L’operatore, – dice Cristina Pregno – proprio perché non è colui che è colpito direttamente dalla sofferenza – anche se ne avverte la possibilità e il riflesso – ha il compito di cercare le uscite da questa condizione, centrandosi sulle potenzialità dell’individuo con cui è in relazione, sulle sue risorse, quindi, e sulle prospettive di ‘vita altra’ che il dolore propone, cioè evidenziare le nuove strategie che la mutata situazione di vita può generare; facendo ciò l’operatore apre immense prospettive di conoscenza, per sé e per la persona: l’operatore impara, e quindi cresce, dalla sofferenza umana e dalla relazione con chi soffre.”33 Al contrario, se il caregiver, posto a stretto contatto con la sofferenza e l’ineluttabilità della morte, non sa riconoscere, gestire e condividere la natura delle proprie emozioni, il rischio di burn-out si fa quasi inevitabile. Più l’operatore si lascia assorbire dalle emozioni del morente e risucchiare dall’evento morboso senza la possibilità di gettare su di esso uno sguardo consapevole, più avvertirà un senso di vertigine ed annichilimento quando colui che ha accudito per mesi se ne andrà. 91 Certamente ognuno di noi, come dice Jaspers, muore solo, e noi non possiamo penetrare nella sua morte ma possiamo solamente avvicinarci ad essa rimanendo al di qua ad ammirare quell’assoluto silenzio che ci è impossibile penetrare. Eppure, forse proprio nell’esperienza di questo silenzio la coscienza accoglie la morte e le da un senso. Dice Melchiore: “ E se fosse proprio questo silenzio, questo inesorabile e irreversibile silenzio dell’altro a diventare per me – la prima- esperienza radicale e costitutiva della coscienza di morte?”.34 Forse allora il sapere della morte sorge nel momento in cui l’uomo vede ciò che l’animale non vede: il cadavere il “mortuum”. Il cadavere diventa infatti simbolo e segno di un’ assenza, che sta qui nella presenza ma allo stesso tempo è distante e sibolo di un incolmabile distacco. E di fronte a questo cadavere l’uomo spettatore come si comporta? Attraverso il pianto, il lamento, il prendersi cura della vestizione della salma e il rivolgersi ad essa con la parola, l’individuo cerca di inoltrarsi oltre quel muro dell’ assenza per perpetuare il legame affettivo e la relazione che si era costruita assieme. Oppure, può rimproverare in modo appassionato e dolente al morto di averlo tradito e lasciato solo, interrompendo quella comunione di vita, che impedisce a colui che è rimasto di continuare a vivere. Ricoeur dice: “ Il silenzio dell’altro risuona analogicamente come la possibile non risposta di me stesso a tutte le parole degli uomini”. La morte di una persona cara allora per l’uomo può costituirsi ragionevolmente come la prima anticipazione della propria morte. 92 Ma a questo proposito penso sia illuminante ascoltare le parole che Pirandello scrisse quando venne a conoscenza della morte della madre: “ ...in fondo, nel tempo che è intercorso fra la morte di mia madre e il momento in cui l’ho saputo, io ho continuato a pensarla viva. Questo significa che dentro la mia mente ella può vivere indipendentemente dal fatto che viva realmente. Questa constatazione mi fa comprendere che io posso continuare a far vivere mia madre dentro di me anche se lei non c’è più. Ma proprio questo mi fa pensare che la morte di mia madre significa che lei non potrà mai più pensare a me nella sua mente. Così io non incontrerò più nella vita una persona che mi possa guardare con gli occhi con cui mi guardava mia madre. Sono morto dunque io dentro mia madre.” 35 Queste parole ci fanno essenzialmente capire come nello stesso tempo in cui noi conserviamo sottoforma di memoria e rappresentazione la presenza dei nostri cari defunti, il lutto per noi si connoti anche come perdita della propria immagine negli altri. Dice infatti Melchiore: “ il silenzio irreversibile dell’altro suona forse già come mio silenzio e, in qualche modo già come mia morte: d’ora in poi ciò che io potevo essere, fare ed amare con l’altro non sarà più possibile, inesorabilmente, ineluttabilmente. Si tratta della caduta di uno sguardo, di una persona e anche della caduta di un centro, di una sorgente personale di possibilità che io stesso sono con l’altro.” 36 Ma allora emerge un’ altra importante consapevolezza: lo statuto originario dell’uomo non è quello della singolarità, dell’isolamento, ma quello del “ con- 93 essere”. Interrogarci sulla morte e accoglierla attraverso l’esperienza di chi la vive, ci porta allora verso un nuovo orizzonte positivo dell' esistenza. Nel con-essere e nel nostro essere in relazione reciproca con l’altro, la vita e la morte assieme possono avere un senso. Tuttavia se l’uomo non accetta la fatica di accogliere con pazienza la domanda sulla morte allora, dice Francesco Campione, “stiamo abbandonando il morto al suo destino”37 e, allo stesso tempo, di fronte alla semplice e silente richiesta di colui che sta per morire di non essere lasciato solo in questo difficile passaggio, sembriamo paralizzati e sordi rispetto al suo bisogno perché non avvertiamo altro che un profondo senso di colpa per essere sopravvissuti. Leggeremo così nel morente non una richiesta d’aiuto ma paradossalmente un’accusa che egli stesso ci rivolge: l’essere vivi. Ecco confermato ancora una volta il motivo per cui, colui che accompagna il malato terminale nella sua ultima fase di vita, deve porsi in ascolto anche di se stesso. Dice Genevay: “Dobbiamo essere consapevoli e responsabili delle nostre reazioni e delle nostre risposte di controtransfer. Negare i nostri sentimenti verso chi muore è spesso dannoso per l’utente, ma può essere anche molto pericoloso per noi stessi. Ammettere la propria impotenza nei confronti della morte è terapeutico sia per l’operatore che per l’utente: si crea un legame, una collaborazione, una complicità.” 38 Condividere con gli utenti e con gli altri operatori il nostro essere “umani” di fronte alla morte ci aiuta a rendere elastico il nostro equilibrio, ad essere autentici verso noi stessi e coerenti con i nostri utenti. “Un adeguata 94 espressione del lutto accresce la nostra abilità di continuare a lavorare con i morenti in modo creativo ed efficace”.39 Se riusciamo infatti ad affrontare le nostre reazioni emotive più intense e il loro significato senza sentirci troppo minacciati, allora possiamo impegnarci in una relazione di sostegno responsabile. “ Anche la capacità di dire addio ai nostri utenti dipende dalla nostra disponibilità a confrontarci con le tecniche di controtransfer e a far un efficace lavoro su di noi rispetto al lutto.”40 Nel far questo è però necessario che l’operatore abbia non solo una “stanza tutta per sé” in cui concedersi la tregua della riflessione, ma anche la possibilità del confronto. L’ educatore non può e non deve infatti rinunciare alla possibilità confrontarsi anche con un gruppo di supporto professionale di dove il controtransfer sia considerato un processo terapeutico positivo e quindi un ‘importante strumento della relazione d’aiuto. “ Dato che siamo tutti parzialmente ciechi, il meglio che possiamo fare è sostenerci l’un con l’altro, così che la vista di uno possa compensare la miopia dell’altro e viceversa.” ( Waelder, in Menninger e Holman, 1973, p,94) 95 3.2 IN PRIMA PERSONA: UN’ESPERIENZA NARRATA DI ACCOMPAGNAMENTO. Dopo tutte queste molteplici riflessioni, che rappresentano il considerevole impegno di estrapolare dalla ricchezza dell’esperienza un Concetto che la possa rappresentare, credo sia altrettanto importante concedersi la possibilità di ritornare all’unicità di ognuno di questi percorsi di dolore e accompagnamento lasciandoci “con-volgere” dall’ autobiografia di chi ha accettato di partecipare intenzionalmente a questa “ad-ventura”. Roberta, volontaria dal 1990 dell’Associazione Maria Bianchi, pur essendo riuscita ad affrontare e accompagnare la morte del padre in una dimensione di autentica vicinanza, aiutata dal costante confronto con l’Associazione, solo nel 1994 si è sentita pronta ad intraprendere percorsi di accompagnamento e sostegno a malati terminali. La prima persona che ha incontrato in questo cammino è stata Emma, una signora, sua vicina di casa, malata di tumore al fegato. Proprio a partire da questo incontro Roberta ha sentito l’urgenza di scrivere. 96 3.2.1 L’autobiografia di Roberta Sailetto 12 Marzo 1994 (…) Come, perché, quando ho deciso di offrire il mio aiuto Emma è una mia vicina di casa e in passato sono stata da lei chiamata per farle delle iniezioni. Andarla a trovare, offrirle la mia disponibilità per eventuali prestazioni infermieristiche in caso di bisogno, mi sembrava un obbligo. Ma andarla a trovare dopo la preparazione avuta e le esperienze di gruppo fatte nella associazione Maria Bianchi, significava cercare di dare, oltre che la mia disponibilità per qualcosa di pratico, aiuto relazionale. Questo pensiero mi agitava, mi rendeva insicura. Comunque sapevo che prima o poi mi sarei trovata di fronte ad una persona impegnativa che doveva mettere alla prova sia le mie conoscenze che le mie capacità relazionali. La prova si presentava dura e quindi dovevo prepararmi. Non mi risultava realizzabile far coincidere tanti atteggiamenti che mi sembravano contrastanti: un minimo di professionalità, rimanere vigile per non lasciarmi coinvolgere emotivamente, non lasciarmi sfuggire la situazione dalle mani e nello stesso tempo dimostrare comprensione al suo problema e partecipe alla sua sofferenza. Quali parole usare? Avrei saputo mettere al centro la persona e il suo problema? Sarei stata capace di trattenermi dal fuggire la situazione e parlare d’altro? Magari, peggio ancora, avrei parlato di me o delle mie cose (sono molto egocentrica). (…) 97 12 MARZO 1994: PRIMO INCONTRO (…) R. “Buongiorno Signora Emma! Sono venuta a trovarla.” E. “ Hai fatto bene. Entra”. R. “Non vorrei averla disturbata !” E. “E da cosa?”. R. “… non so, magari stava facendo qualche lavoretto”. Emma sorride e avviandosi al divano mentre io la seguo… “Vuoi vedere il lavoro che fa Emma? Mi corico qui, mi stendo questa coperta sopra, e poi anche quest’altra e guardo la televisione quando ne ho voglia altrimenti leggo il giornale quando gli occhi me lo consentono. Diversamente Emma fa cuccina qui e cerca di stare buona…buona”. I gesti accompagnano le parole e alla fine è raggomitolata sul divano, sotto le coperte, con la testa appoggiata alle mani a guisa di cuscino sopra il bracciolo del divano. R. “ posso sedermi?”. E. “Ma certo” e si siede anche lei. “Emma, piano piano sta arrivando alla fine”. R. “ Ha questo dubbio?” E. “Non ho un dubbio: ne sono certa” Emma scandisce le parole, parla un po’ a bassa voce. Sembra abbia anche difficoltà respiratorie. Le parole che dice sembrano mattoni e pensate da molto tempo. E. “ Non sono stupida e so leggere quello che sta scritto. E’ Pietro che non si convince e io devo fingere quando c’è lui e fare il viso sorridente. Ma io so quello che ho e cerco di vivere alla giornata il più serenamente possibile. Vuoi leggere anche tu che sei dell’ambiente ?” R. “Si, se lei vuole”. (…) 98 Emma mi allunga la cartella clinica. E. “Leggi anche tu, certe parole non le capirai neanche tu, ma non c’è bisogno di capire molto. Basta sapere leggere le parole che contano.” Mi aiuta a sfogliare e a cercare le parole che contano. Mi fa leggere mentalmente le diagnosi delle biopsie effettuate al pancreas e al fegato. La diagnosi parla di tumore al fegato. R. “ Certo che la diagnosi è chiara”. (Non sono sicura di essermi espressa così). E. “Ne hanno fatte due, hai letto? E la seconda conferma la prima. Hai visto? (dice quasi sorridendo) parlano di incisione a Stella di Mercedes! Pensa: persino la Stella di Mercedes mi hanno fatta (dice con enfasi). Vuoi vederla la Stella di Mercedes?”. R. “Com’è la Stella di Mercedes?”. Emma solleva l’abito e mi fa vedere il tipo di taglio a forma di stella di Mercedes. Io tocco il taglio che si è rimarginato molto bene e seguo con il dito i segni rimasti dell’incisione. R. “Si è rimarginato molto bene.” E. “ Sì, fuori è tutto bello, ma è dentro, è sotto…” e mi guarda fissamente. E. “Tu pensi che con quello che hai letto Emma possa guarire?”. Mi guarda con gli occhi dilatati e mi fissa senza batter ciglia. E’ uno sguardo grande, grandissimo. Tutto mi sembra scomparire: ci sono solo i suoi occhi: grandi e neri. Non posso bleffare, fingere, menare il can per l’aia, non si può scantinare. Lei è lì che aspetta. Mi hanno fatto una domanda ed io devo rispondere. R. “ E’ difficile”. 99 E. “ Così mi piaci: è difficile. Oh, finalmente! Non so se durerà un anno, sei mesi, due settimane, ma è difficile. Porto via tutto, perché se rientra Pietro e vede queste carte in giro non è contento. Lui non vuole che ne parli e io devo fare finta di niente”. Raccoglie tutto e porta via la borsina bianca piena di carte. Quella mia parola – difficile – mi ritorna ancora nelle orecchie: la mia intenzione era forse quella di iniziare una frase del tipo:…difficile poter essere certi del grado di malattia etc. etc… ma Emma la bloccata lì, dove voleva lei. Si è adattata la mia risposta alle sue esigenze, forse quello che lei voleva confermare. Forse non voleva solo confermare, ma voleva sincerità; non voleva finzioni. Vuole affrontare questa sua realtà dura e vuole delle persone vicino che sappiano con lei sopportare queste sue realtà. (…) 9 APRILE 1994, ORE 21 (…) Sono arrivate le tre del mattino e sento Emma che mi dice: “Scappa!” e dopo un po’: “Fuggi!”. Mi avvicino a lei. E. “Fuggi!” mi ripete guardandomi dritta negli occhi. R. “Perché?”. E. “Io cerco di fuggire: vorrei fuggire da me stessa e da questa pancia! Ma tu scappa!”. Restiamo in silenzio. Emma è ad occhi chiusi e respira faticosamente. Ogni tanto cerca di incamerare più aria che può facendo un verso che mi spaventa perché mi coglie all’improvviso. E. “Non volevo coinvolgere nessuno, ma pensi di riuscire a stare con me?”. R. “Credo di sì”. 100 E. “Che ore sono?”. R. “ Le tre”. E. “Abbiamo due ore e poi alle cinque sarà tutto finito. Pensi di farcela a rimanere qui: solo io te?”. R. “Ce la faremo” rispondo decisa. La mia mente era sconvolta. Ero terrorizzata perché non riuscivo a capire bene cosa mi stesse succedendo, cosa Emma mi stava chiedendo. Avevo paura che lei mi stesse chiedendo di stare con lei mentre moriva. Ma, intanto, adesso stava male: vomitava (nonostante il sondino) in una bacinella che io le sorreggevo. Con una mano tenevo la bacinella, e con l’altro braccio l’aiutavo a rimanere sollevata per favorirle il vomito. R. “Chiamo l’infermiera?”. Spero mi dica di sì. Emma, riprendendosi un pochino mi risponde decisa: “No! Dobbiamo farcela io e te: dobbiamo arrivare io e te sino alla fine. Non abbiamo bisogno dell’infermiera ora: dobbiamo farcela da sole. Rimani qui vicino!”. Ripongo la bacinella e mi curvo su di lei riappoggiandola al letto. Col suo braccio mi accarezza la schiena e: “Fa presto, prenditi la sedia, spostala di qua e siediti vicino: ce la dobbiamo fare da sole! Siediti comoda, altrimenti, poi, la schiena ti duolerà !”. Prendo la sedia e mi metto alla sua sinistra. Le prendo la mano che mi stringerà forte per quasi tutto il resto della notte. Intreccerà le sue dita con le mie, serrandole a volte come in una morsa. La sua mano è piccola e le sue dita sono affusolate, le unghie ben curate. A volte allenterà la stretta e infilerà la sua mano lungo il mio braccio, sotto la manica della felpa. Altre volte mi accarezzerà i capelli e il viso. Continuerà così a toccarmi e a tenermi vicino a lei cercando di lottate comunque e di non lasciarsi andare: fa smorfie terribili di dolore, ma quello che mi spaventa di più sono quelle sue 101 prese fameliche d’aria che mi fanno sobbalzare per il loro rumore improvviso. E. “Fa un ultimo sforzo per me, te ne prego: dammi uno specchio, fa questo sacrificio! Dopo che mi sarò guardata allo specchio, potrò anche dirmi addio e andarmene!”. (…) Ritorno subito: lei è terrorizzata, mi chiama e non vuole essere sola. Supplica l’infermiera: “Mi lasci qui vicino a Roberta, non la mandi via” e continua a chiamarmi. Si tranquillizza solo quando le riprendo la mano e mi risiedo vicino a lei. Poi, sgrana gli occhi quasi supplichevoli e quasi piangendo mi chiede: “Mi vuoi ancora bene?”. La guardo, prima meravigliata di una simile domanda e poi mi sembra quasi che una scossa elettrica mi attraversi il corpo: tutta la tensione, l’angoscia di una notte sembra dissolversi con questa domanda. Questa richiesta di amore mi apre la testa, gli occhi, l’anima. Non ci sono più barriere tra me e lei: c’è qualcosa che mi unisce e che vivrà finché una di noi vivrà: sento di amarla, di amare la sua sofferenza, di amare quel suo corpo gonfio e distrutto dentro, quei suoi occhi alteri e supplichevoli; di amare questa donna a volte così dura e anche così fragile. (…) Queste sono solo alcune delle pagine che Roberta ha scritto. Tuttavia questi pochi estratti vogliono essere sia un’occasione per avvicinarsi al testo e orientarsi rispetto al tema, sia un invito per il lettore affinché, nel momento che riterrà più opportuno, possa concedersi la straordinaria esperienza di immergersi nella lettura integrale dell’autobiografia di Roberta che potrà trovare in Appendice. 102 3.3 “URGENZE” 3.3.1 L’urgenza di comprendere: a colloquio con Roberta. Penso che l’autobiografia di Roberta non sia solo la testimonianza scritta di un’esperienza vissuta di assistenza e di presa in cura di una donna malata, in cui il lettore può cogliere i temi più ricorsivi e propri dell’essere vicino alla morte. Questa narrazione ci regala molto di più. Ci porta alle soglie e dentro lo spazio privato di Roberta che tenta non di rappresentare la realtà, ma di farla scaturire dalla propria intimità, di dar voce alle immagini catturate ed elaborate da uno sguardo interiore posto in comunicazione sensibile con il mondo. Essa ci permette di incontrare nella complessità di piani tra loro intersecati, ( degli eventi, delle emozioni, fragilità e la forza di delle riflessioni, delle ricerche di senso), la Emma che dice “ ho paura” , che è pervasa da una violenta e feroce paura di tutto, e le inquietudini, la felicità, l’esigenza di fermarsi a capire e a comprendersi di Roberta, l’unica tra pochi, che ha saputo ascoltare silente e accogliere il dolore e la sofferenza che Emma ha voluto affidarle. Tuttavia, pur avendo tra le mani questo scritto denso di vita e di significati, che mi ha aperto gli orizzonti e mi ha motivato ad intraprendere questo viaggio tematico all’interno dell’autobiografia come possibile metodologia per l’operatore di accompagnamento alla morte, ho avvertito l’esigenza di 103 incontrare Roberta per capire e comprendere, assieme a lei, quale relazione di senso possa esistere tra l’esperienza di sostegno e accudimento dei malati terminali e la sua necessità di scrivere. Riuscire a cogliere la natura e le caratteristiche di questo legame è infatti un passaggio irrinunciabile per costruire un possibile ponte tra il tema dell’ autobiografia, come dispositivo educativo, e quello dell’ accompagnamento alla morte. 3.3.2 L’urgenza di Roberta: scrivere. Natura e caratteristiche del suo fare autobiografia. Roberta già da ragazza scriveva e teneva un diario personale. Tuttavia il rincorrersi incessante di eventi, ( il lavoro, il matrimonio, i figli…), l’ hanno sommersa a tal punto da non lasciarle spazio e desiderio per continuare questa pratica. Solo quando nel 1994 si avvicina ad Emma nel momento più delicato ma importante della sua vita, per partecipare con lei alla sua sofferenza, Roberta avverte la necessità di ricominciare a scrivere. L’esperienza che stava vivendo era talmente ricca, forte, densa di emozioni inconsuete da dover assolutamente trovare uno spazio fisico e mentale per poterla elaborare. Tuttavia Roberta dice: “ Questa necessità non partiva da me, era Emma che chiedendomi in silenzio di essere presente, mi chiamava a scrivere.” L’altro, il malato, nel momento in cui ci pone incessantemente delle domande, non cerca risposte immediate, suggerite dalla razionalità del vivere comune e che 104 ci spingono inutilmente ad una loro affannosa ricerca, ma piuttosto ci invita ad accogliere su di noi gli stessi interrogativi. Lui non ha bisogno di risposte, noi invece dobbiamo avere il coraggio di andare alla ricerca di noi stessi: dei nostri dubbi, delle nostre imperfezioni , dei nostri fantasmi, delle nostre paure, nonché delle nostre più nascoste ed intense emozioni, per poter essere totalmente ed autenticamente presenti nel qui ed ora della relazione con il morente. Roberta ha trovato nella scrittura autobiografica quest’occasione. Tuttavia, coerentemente al percorso concettuale intrapreso in questa tesi, la prima domanda che dobbiamo porci, anche se a posteriori, è capire in che modo lo scritto di Roberta possa essere definito autobiografia. Adottando il punto di vista di Lejeune, possiamo leggere l’elaborato di Roberta in termini autobiografici fino a quando rivolgiamo l’attenzione esclusivamente a due condizioni: il patto autobiografico, che garantisce al lettore che colui che scrive corrisponde all’Io che parla, e il patto referenziale che si esprime in un’ implicita dichiarazione da parte dello scrittore di dire tutta la verità. Roberta infatti, sembra aver inconsapevolmente rispettato entrambi i patti: l’ Io di cui ci parla e “R” che propone nei dialoghi la rappresentano, così come l’urgenza che ha di scrivere proviene proprio dal desiderio di andare alla ricerca della propria autenticità. Eppure, accettare: l’autrice confessa anche qualcosa che Lejeune non potrebbe lei, Roberta, nel momento in cui inizia a scrivere sente che l’identità tra autore, narratore, personaggio, si dissolve: la voce interiore narrante prende il sopravvento, trascinandola in un avventura verso una meta 105 sconosciuta e colma di importanti ma anche dolorose scoperte: il suo essere molteplice. “ Io inizio che sono una persona ma finisco per esserne un’altra, che non conosco, in cui non mi riconosco ” ma che esiste, con o senza la sua consapevolezza. La scrittura è per Roberta il mezzo e lo strumento per promuovere un flusso di coscienza incontrollato, lontano dalla ragione e “ vicinissimo al cuore ” che la porta ogni volta ad esplorare “ un elemento nuovo di quella molteplicità” del suo essere. “Tante volte affiorano da quelle pagine aspetti di me inediti, dolorosi, scomodi che mi stordiscono e mi è difficile accettare proprio perché ho sempre cercato, più o meno inconsapevolmente, di tenerli lontano. Talvolta, solo quando sto per riporre la penna, addirittura mi accorgo di essere innamorata della persona a cui mi sto dedicando e allora, a questo punto, inizia un nuovo compito: affrontare queste scoperte e lavorarci sopra affinché possano diventare una risorsa.” “ Non solo – dice Roberta – bisogna avere il coraggio di lasciarsi andare per poter scrivere tutto quello che pretende di uscire, ma anche per accettare di averlo scritto ! Solo in questo modo trovo che la narrazione di sé possa essere uno spazio di auto-formazione. Il diario che da giovane tenevo era sostanzialmente diverso da i tanti quaderni che oggi gelosamente custodisco nel mio comodino: in quell’occasione non ero libera di scrivere tutto, sia per paura che potesse essere letto, sia perché non permettevo a me stessa di conoscere cose che non avrei mai voluto sapere.” 106 Ma accanto alla capacità di mettersi responsabilmente a confronto con se stessi, occorre anche una forza e un’ energia particolare per intraprendere, dopo la scrittura, un difficile processo di elaborazione, ciò che lei chiama “ un lavoro di pulizia infinito” che la porta a ricomporsi proprio nella consapevolezza della sua molteplicità. Duccio Demetrio “imperfezione dice dello infatti specchio” che dobbiamo per poterci andare in alla esso ricerca dell’ riconoscere e responsabilmente accettare come “arcipelago di Io”. Ritrovarsi tanti non costituisce infatti un pericolo per l’individuo: egli non rischia di perdersi od annullarsi nei tanti Io che gli appartengono, al contrario proprio questa nuova consapevolezza lo stimola a riscoprirsi e reinventarsi in una nuova unità di senso capace di far coesistere, e non di scindere così come la società propone, luce ed ombra, emozione e ragione, corpo e anima, vita e morte. Roberta ha capito che solo permettendo ai suoi molteplici Io di emergere, potrà raggiungere quella coerenza interiore in grado di tradursi in significativa presenza verso se stessa e verso Emma. Tuttavia quando dalla scrittura emergono immagini e situazioni troppo complesse, troppo dolorose, troppo difficile da poter elaborare nella solitudine della propria intimità, Roberta si rivolge all’ Associazione per condividere con essa il faticoso percorso di ricomposizione. Ma se Roberta avverte nella scrittura di sé questa asimettria di ruoli, dove la voce narrante domina e si slega non solo dalla ragione ma anche dall’ autorità dell’ autore, che solo alla fine scopre di essere stato spodestato, allora non 107 potremmo – come Lejeune sostiene – permetterci di interpretare tale forma dello scrivere come autobiografia. Eppure, se cogliamo l’invito di Anglani, che ci propone di non mettere regole a priori ma di dedurle dal testo, accettando di confrontarci con la sua lettura, potremmo piacevolmente scoprire che proprio in questo scarto inevitabile tra il soggetto dell’enunciato e l’oggetto dell’enunciazione, il pensiero autobiografico prende forma e può diventare strumento per l’adulto di autoformazione, così come lo è stato per Roberta. Avvicinarsi e inoltrarsi nell’autobiografia di Roberta consente inoltre di percepire una caratteristica importante, ma non così ovvia, della scrittura di sé: il suo essere estremamente intrisa di elementi che richiamano non solo la soggettività dell’individuo e della sua storia di vita, ma che contemporaneamente ci parlano dell’intero mondo, quel mondo percepito, interiorizzato, e con cui l’individuo si pone costantemente in relazione. Roberta, infatti, a partire dal suo essere in relazione con Emma, malata terminale di cancro, sente l’esigenza di andare alla ricerca di uno sguardo consapevole su di sé attraverso la scrittura. La parola scritta diventa allora il mezzo di questa impresa e l’esperienza d’accompagnamento che sta vivendo il contenuto della narrazione. Attraverso il pensiero narrativo Roberta interpreta e mette in comunicazione ciò che ha visto, udito, sentito, pensato, provato nello stare accanto ad Emma, dando forma ad una trama di senso inedita che apre le porte ad una stanza interiore di auto-scoperta ma che, allo stesso tempo, si affaccia costantemente sul mondo. 108 L’autobiografia di Roberta allora suggerisce e conferma l’intersoggettività delle storie di vita e il loro essere non solo pratiche private, ma sociali, linguistiche e trans-formative perché in grado di coordinare, come sostiene Pineau, tre mondi: sé, gli altri e le cose. Esiste infatti un’innegabile circolarità tra esperienza vissuta e costruzioni di senso. Se l’esperienza autobiografica proposta sta in un rapporto di particolare vicinanza con gli orientamenti teorico-epistemologici proposti nei capitoli precedenti, ed in particolare ci porta a riscoprire molti temi propri della micropedagogia di Duccio Demetrio, tuttavia in questa prima autobiografia che Roberta ha prodotto, non ritrovo un elemento che ritenevo e ritengo possa moltiplicare le scoperte per colui che scrive: la temporalità “incoativa” (Pineau) che non è sensibile all’ordine cronologico degli eventi ma ridispone quest’ultimi rispettando i ritmi interiori prodotti dal ricordo, dall’emozione di ricordare e del suo contenuto. I salti temporali, l’intersezione di più piani temporali e spaziali, le associazioni di pensieri e di immagini possono infatti essere un terreno molto fertile su cui poterci interrogare. La narrazione di Roberta è invece molto legata all’ordine cronologico e da questo non si distacca quasi mai, quasi come se si fosse affidata un compito: offrire un riferimento temporale, offrire la cronologia di una storia a chi per colpa della malattia, non è più in grado di mantenere un contatto con essa. Un altro aspetto che per Roberta non diventa necessario nel suo fare autobiografia è la ricerca delle parole che traducano con esattezza ciò che sente. Nel momento in cui infatti si lascia andare e comincia a scrivere, le 109 parole prendono forma spontaneamente e si susseguono come in vero e proprio flusso di coscienza. Alla fine, quando questo processo giunge al termine, non avverte il bisogno di rielaborare il testo prodotto perché trova in esso coerenza con ciò che prova. Probabilmente proprio la costanza e l’urgenza con la quale Roberta utilizza lo strumento autobiografico non offre un senso a questa ulteriore, e in sé importante, ricerca lessicale. Secondo Roberta, la richiesta di Emma di porsi prima di tutto in rapporto autentico con se stessa è stata un’occasione non solo per costruire una significativa relazione con lei, ma per ristabilire una comunicazione nuova con il proprio essere. “ Adesso – dice- nella relazione con l’altro, e in particolare con il malato terminale, io ci sono tutta ! ” E se l’autobiografia fino ad oggi è stata strumento di ricerca della sua molteplicità, nonché occasione per conoscersi, accettarsi, trasformarsi, in questo momento dichiara che non le serve più. Non ha più bisogno di spazi in cui poter ristabilire la comunicazione con se stessa, perché ha costruito un ponte permanente con ciò che sente e con le proprie anche irrazionali emozioni che lascia libere di fluire per poter incontrare quelle dell’altro. Testimonianza di questo cambiamento è infatti l’adozione da parte di Roberta di una nuova forma dello scrivere, nonché uno strumento per comunicare a distanza: la lettera. L’epistola, avendo per sua natura un destinatario altro da noi, ha la virtù di stabilire una comunicazione tra due esseri. Roberta, accettando i propri moti 110 interiori, non ha più timore di donare e restituire all’altro la ricchezza di ciò che sente attraverso la relazione con lui. Si sente oggi libera di poter esprimere e descrivere con le parole scritte il proprio amore e di imbucare la lettera che le contiene senza paura di essere fraintesa: questo desiderio d’amore infatti lo percepisce negli occhi del malato terminale. Tuttavia non voglio spingermi oltre nell’affrontare il tema dell’epistola perché non è l’oggetto di questa tesi, anche se potrebbe essere il punto di partenza per una nuova ricerca. Note 63. V.Melchiore, La costituzione della coscienza di morte, cap.II in AA.VV., La morte oggi, Feltrinelli, Milano,1985, pp. 55-63. 64. Epicuro, Lettera sulla felicità ( a Meneceo), paragrafo n.125, Stampa Alternativa, 1993 65. C.Sini, Irrazionalità e morte, cap.III in AA.VV., La morte oggi, Feltrinelli, Milano,1985, pp. 55-63. 66. S.Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Parte IIa, Il nostro modo di considerare la morte; Opere complete VIII, Torino, Boringhieri, 1976, p.137 67. L.Ancona, L’assistenza psicologica e spirituale: la verità di fronte alla morte, tratto dal sito www.psychomedia.it , Telematic Review Sezione: CICLO VITALE, area: Exitus e lutto. 68. Ibidem 69. Ibidem 70. Ibidem, Citazione di Leonardo Ancona 71. Ibidem 72. J.M.R.Tillard, La morte, enigma o mistero? Bose, Edizioni Qiqajon,1998,p.19 73. L.V.Thomas, Gestione di vita, gestione di morte, cap.IV di La morte oggi, opera citata, pag.115-130. 74. L.Ancona, opera citata. 75. Ibidem 76. L.V.Thomas, opera citata. 77. P.Pira, L.Venturini, Le immagini e il vissuto della morte nell’uomo, cap.IV de la Morte Oggi, opera citata, p.142 78. N.Ferrari, Compiti del volontario domiciliare, in Accanto a chi soffre. Dolore emozioni, aiuto psicologico, Atti di un percorso formativo tenutosi a Mirandola, Aprile-Giugno 1999, promosso dall’Associazione Volontari Domiciliari 111 Relazionale Malati Gravi “ Maria Bianchi” in collaborazione con il Comune di Mirandola -Progetto Famiglie. P.11 79. Associazione Maria Bianchi 80. N.Ferrari, L’ammalato in fase avanzata di malattia, in Accanto a chi soffre, opera citata, p.9 81. A.Castello, L’elaborazione del lutto: percorso d’avvicinamento. In Accanto a chi soffre, opera citata, pp.28-29 82. Ibidem 83. E.Kubler-Ross, La morte e il morire, Assisi, Cittadella Editrice 1992 84. Ibidem 85. N.Ferrari, Compiti del volontario domiciliare, in Accanto a chi soffre, opera citata, p.12 86. Ibidem, p.14 87. N.Ferrari, La morte e il morire. Elizabeth Kubler-Ross e le fasi del morire, in “Accanto a chi soffre”, opera citata, p.3 88. Ibidem, p.4 89. Ibidem, p.6 90. L.Ancona, opera citata 91. B.Genevay e R.Katz, Le emozioni dell’operatore nella relazione di aiuto, cap.2, pp.24-32 92. Tratto da “Se questo è un uomo…Il Valore dell’ascolto”, atti del convegno, Monza, Ottobre 1998, p.51 93. Citazione di Maria Ilaria Grosso, in Se questo è un uomo, opera citata, p.54 94. M.G.Soldati, Dentro la morte, in Vivereoggi, n.10, Dic./Gen ’95, p.50-55 95. C.Pregno, Autobiografie: la relazione di aiuto, in Rassegna di Servizio Sociale, n.2, aprile/giugno, 1998, p.9 96. V.Melchiore, opera citata 97. riportato da F.Fornari, La morte e il lutto, cap. V, in La morte oggi, opera citata pp.69-79 98. V.Melchiore, opera citata 99. F.Campione, Passaggio all’ignoto, in Adultità n.5, 1997, pp.50-58 100.B.Genevay e R.Katz, opera citata. 101.Ibidem 102.Citazione tratta da Se questo è un uomo: Il valore dell’ascolto, atti del convegno di Monza, ottobre 1998, p.59 112 Considerazioni finali Esistono tanti modi di accostarsi alla morte e al morire. Roberta ha deciso di stare accanto a chi soffre. Postasi in posizione di rispettoso ascolto nei confronti del malato terminale ha potuto cogliere la richiesta più importante che questo le rivolgeva: essere presente al suo dolore, nonché accogliere e dare riparo alla sua paure. Il morente non ci chiede di far proprie queste emozioni, ma al contrario chiede a noi di confrontarci in prima persona con le nostre sofferenze, debolezze, i contrasti e le incertezze della nostra vita: la nostra impotenza di fronte alla morte. Nel momento in cui con la nostra vicinanza cerchiamo di ridare alla persona malata il diritto di vivere dignitosamente l’ultima fase della propria vita, egli ci propone, attraverso il suo quotidiano accoglimento della vita, una significativa esperienza: riappropriarci delle nostre emozioni e ricostruire un rapporto intimo con noi stessi. L’ accompagnamento alla morte stimola l’educatore professionale in particolare, e ogni persona che decida di assumersi questo compito, a coltivare dei giardini “segreti” in cui le vicende, profondamente umane, che incontra durante questo viaggio , possano essere rivissute, interiorizzate, riscritte. Proprio in questo contesto, allora l’autobiografia può diventare per l’operatore sociale, non solo occasione di formazione permanente, ma specifico strumento di accompagnamento alla morte. 113 Attraverso la presa di parola, il piacere del ricordo e la distanza che la scrittura pone tra il soggetto e l’oggetto della narrazione, l’adulto ha infatti la possibilità di incontrare i propri Io più nascosti e di porli in rapporto dinamico con la propria consapevolezza in una prospettiva di trasformazione e cambiamento. Solo l’educatore o il caregiver che riesce a tessere un autentico dialogo con se stesso può realmente porsi in comunicazione con chi ha più bisogno di questa autenticità: il malato terminale. Con questo non voglio affermare che l’autobiografia sia l’unico mezzo che l’operatore abbia a disposizione per costruire una significativa relazione di accompagnamento. Tuttavia la scrittura di sé per l’educatore può essere una preziosa risorsa che, se associata ad un costante confronto con il gruppo, può avere notevoli valenze e risonanze sulla relazione stessa. L’esperienza di Roberta né è una semplice testimonianza. L’indagine e la ricerca che ho svolto attorno alla scrittura di sé come dispositivo educativo ne vuole invece mostrare la valenza da un punto di vista teorico-epistemologico e psico-pedagogico. Questa tesi non è stata un’ occasione per dimostrare la validità scientifica di una teoria e nemmeno per elaborare un nuovo paradigma, quanto piuttosto, essa è diventata spazio fisico e mentale che ha permesso al mio essere educatore di interrogarsi rispetto alla significatività di uno strumento che potrebbe, indirettamente, contribuire a riscattare una morte rubata. 114 In particolare allora rivolgo queste mie riflessioni proprio all’educatore professionale assieme a due auguri: per primo, quello di poter essere sempre più presente in un contesto di accompagnamento del malato terminale e di sostegno rivolto ai famigliari per l’elaborazione del lutto; per secondo invece, l’auspicio che nell’urgenza e nella complessità del lavoro che è chiamato a svolgere, non perda la sana abitudine di interrogarsi anche attraverso la propria autobiografia: strumento personale che gli è stato offerto durante la sua formazione scolastica e a partire dal quale si è sperimentato e posto costantemente in discussione nel gruppo. 115