tesiautobiografia - Associazione Maria Bianchi

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tesiautobiografia - Associazione Maria Bianchi
Premessa
Autunno 1994: in un corridoio dell’Ospedale Civile di Brescia la luminosità e la magia
di uno sguardo, che da bambina mi ha fatto per la prima volta innamorare,
improvvisamente ricompare; Fabrizio era davanti a me, io davanti a lui.
Lo saluto, lo bacio, gli dico: “la prossima volta ti voglio incontrare a casa”.
Fabrizio qualche tempo dopo dalla mia visita in ospedale a casa è ritornato eppure, io
non ho più avuto il coraggio di andarlo a trovare.
Nel Gennaio 1995, a soli diciotto anni, Fabrizio muore di leucemia nello stesso
ospedale.
Vado a fargli visita a casa sua: ora però… i suoi occhi sono chiusi.
Settembre 1998 ore 9.15: il roboante motore del nostro vecchio motocar mi sveglia:
mio nonno sta andando nel bosco a raccogliere legna o a portar via l’erba tagliata del
giardino.
Ore 12.00: prendo il telefono e lo chiamo per invitarlo a pranzo dal momento che è a
casa da solo. (Mia nonna è ancora in ospedale per una recente operazione).
Dall’altra parte del filo, nessuno risponde.
Torna mio padre dal lavoro: “Dov’è il nonno?” mi chiede,
“Non lo so, ho provato a chiamarlo, ma non risponde. Sarà a mangiare da Albino” gli
dico. “Ma se c’è ancora la sua bici qui da noi ?!”.
Senza un attimo di esitazione, mio padre riprende in mano il motorino e si dirige verso
il bosco per vedere se il nonno, magari rimasto in panne con il motocar, aveva bisogno
d’aiuto.
Io avverto qualcosa… ho paura, ciononostante comincio a mangiare.
1
Da lontano improvvisamente sento il motorino ritornare: sta correndo veloce, molto
veloce!
Mollo di scatto la forchetta, esco e mi ritrovo il volto di mio padre furioso nella sua
disperazione: “ E’ morto !” mi dice…
Mentre cerco di avvicinarmi, lui si svincola da me, batte un pugno sulla basculante e in
lacrime chiede a chi sa chi “ Ma perché adesso ?!”.
Io ora sono nel bosco, tra il profumo dell’erba e del fiume, il sole è alto e in questa
pace avvolgente accarezzo il volto sereno di mio nonno… come forse, mai ho fatto.
Da questo momento in poi, ho cominciato ad avvicinarmi al tema della morte e
del morire attraverso lo sguardo di diverse discipline: la filosofia, la religione,
la
medicina,
la
sociologia,
l’antropologia,
la
psicologia,
per
cercare
sostanzialmente di capire…
Volevo infatti comprendere non il perché della morte, ma il motivo per cui io,
Margaux, ho avuto paura ad affrontare Fabrizio e la sua malattia nel momento
in cui forse avrebbe avuto più bisogno di vicinanza e, allo stesso tempo,
spiegarmi perché, solo pochi anni dopo, attorno al corpo morto di mio nonno,
io abbia percepito una grande serenità che mi ha riempito d’amore, nonché
una profonda tristezza per non averlo potuto tenere tra le braccia mentre
affrontava questo inevitabile, difficile ed importante momento.
Tuttavia in occasione di questa tesi, ho voluto spostare l’attenzione da un
piano personale del comprendere, all’orizzonte educativo della possibilità e del
cambiamento: ridare al malato terminale il diritto di vivere l’ultima fase della
propria vita in un modo dignitoso e accompagnato dalle cure e dalla presenza
autentica di persone, (famigliari, educatori professionali, volontari, operatori
2
sanitari), che non negano la morte dietro falsi sorrisi ma che accettano di
accogliere su di sé i dubbi, gli interrogativi, il dolore, le emozioni che la sua
prossimità inevitabilmente suscita.
Così, mi sono rivolta all’ Associazione Volontari Domiciliari Assistenza
Relazionale Malati Gravi “Maria Bianchi” di Suzzara, che da ben quattordici
anni opera sul territorio Mantovano e, tra i tanti stimoli che essa mi ha saputo
offrire,
Roberta,
mi ha letteralmente rapita la lettura di un testo: l’autobiografia di
testimonianza
in
prima
persona
di
un’esperienza
di
accompagnamento alla morte, nonché momento e spazio fisico di riflessione
critica su di sé che ha permesso a Roberta di porsi in una relazione più
significativa con il malato terminale, e a me di intravedere le potenzialità della
scrittura di sé.
Questa tesi allora vuole essere un’ occasione per studiare e analizzare le
motivazioni per cui
per
l’operatore
l’autobiografia può diventare uno strumento importante
impegnato
a
costruire
una
relazione
autentica
d’accompagnamento con la persona morente.
Nel far questo, utilizzerò una metodologia ad “imbuto” che, partendo dai criteri
e dalle caratteristiche che vedono l’autobiografia in termini di genere
letterario, andrà poi a focalizzare l’attenzione sulla scrittura di sé nel suo
essere dispositivo educativo di formazione permanente dell’adulto, fino ad
arrivare allo specifico tema dell’autobiografia come possibile strumento per
l’operatore in un contesto di accompagnamento alla morte.
Nel primo capitolo infatti, a partire dalla storica necessità di dare una
definizione di un genere letterario, si aprirà il dibattito tra due diversi autori: il
3
“conservatore” Lejeune e il “progressista” Anglani, impegnati entrambi a
promuovere due differenti modalità di accostarsi al testo autobiografico,
nonché a disquisire sulle caratteristiche salienti della scrittura di sé (rapporto
tra autore, narratore, personaggio; Identità, verità, maschera, confessione;
l’autobiografia come atto di conoscenza e costruzione del sé…).
Nel secondo capitolo, dopo opportune premesse che pongono in risalto i cambi
di paradigma più importanti che permettono
all’autobiografia di emergere
come metodo di formazione permanente per l’adulto, verranno analizzate le
principali scuole europee che interpretano lo strumento autobiografico in
termini di dispositivo educativo e che propongono metodologie di utilizzo
specifiche e coerenti al loro sistema teorico-epistemologico di riferimento.
Nel terzo capitolo, dopo una breve introduzione sui segni e sintomi di una
cultura “dell’immortalità immanente” si andranno ad evidenziare i bisogni del
malato
terminale
e
le
condizioni
fondamentali
per
un
dignitoso
accompagnamento alla morte: tra cui la necessità che l’operatore trovi degli
spazi di tregua per poter riflettere sull’esperienza vissuta e rivolgere uno
sguardo consapevole su di sé.
A questo punto protagonista della scena sarà l’ autobiografia di Roberta: gli
estratti presenti nel capitolo, il testo integrale riportato in Appendice assieme
al colloquio avuto con lei, saranno infatti testimonianza di questa esigenza e
allo stesso tempo occasione di riflessione attorno all’ utilizzo dello strumento
della narrazione di sé in un specifico contesto di accompagnamento,
accudimento e “presa in cura” del morente.
4
1.0 L’AUTOBIOGRAFIA COME GENERE
LETTERARIO
Analisi e metodi a confronto
”Ciascuno di noi porta entro di sé
una sorta di scartafaccio, rimaneggiato senza posa
del
racconto della propria vita.
Taluni,più numerosi di quanto si creda,mettono ordine in
tale scartafaccio, e scrivono.
Quanto agli altri, si può leggere il loro scartafaccio
interrogandoli (col registratore)” 1
Philippe Lejeune
Coerentemente
ad
un
approccio
critico
letterario
classico,
il
discorso
sull’autobiografia come genere non potrebbe iniziare se non con una buona
definizione. Nell’accostarsi ad un testo, storico è infatti il bisogno, se non quasi
un dovere più del critico che del lettore, associare il Testo ad un genere ed
inserirlo in una categoria formalmente definita e riconosciuta. Tutto ciò che in
queste
categorie
non
riesce
a
rientrare,
viene
difatti
considerata
“sperimentazione letteraria” o, nella peggiore delle ipotesi, non viene
considerata affatto Letteratura.
Tuttavia, proprio l’autobiografia, solo oggi riconosciuta come genere, rende il
compito assai arduo: chiunque intraprenda il suo studio è costretto ad
immergersi in un vasto numero di opere dalla inesauribile morfologia e
5
ricchezza
semantica,
dalla
pluralità
di
atti
discorsivi
e
di
pratiche
dell’enunciazione che nascono da epoche diverse, da diversi modi di accostarsi
a se stessi e alla propria vita, da differenti modelli di poetica.
L’autobiografia pertanto, pur essendo stata “promossa” a categoria letteraria,
rimane a parere di Anglani e Pappalardo, un genere debole ed instabile.
Ma, come un serpente che si morde la coda, non è forse l’assiduo tentativo di
dare alla Scrittura di sé una definizione rigorosa e specifica, nonché stretta e
forse troppo rigida, a renderla una categoria dai tratti
così instabili e
sfuggenti?
Lo stesso Anglani
2
propone allora un metodo che anche in questa tesi si
vuole adottare: affrancarsi dal tentativo classico di etichettare, catalogare e
dare una definizione di autobiografia, per accogliere invece, e cercare di
capire, la varietà di ciò che esiste e di cui disponiamo. La svolta di metodo
consiste allora nel tentativo di affrontare e
gestire quel disordine e
quell’imprevedibilità tipiche della produzione autobiografica, accostandosi
semplicemente al testo attraverso la sua lettura, ciò che l’intolleranza e
l’ideologia rifiutano a priori, preferendo per prima cosa soffocare l’opera
accomunandola ad un genere.
Tuttavia, per capire meglio le differenze e gli esiti di due modalità diverse di
studiare la Scrittura di sé,
vale la pena porre a confronto due autori che
rispettivamente le rappresentano: il critico francese Philippe Lejeune e Bartolo
Anglani, (docente di Letteratura Comparata e Storia della Critica Letteraria
nella facoltà di Lingue dell’università di Bari).
6
1.1
IL PATTO AUTOBIOGRAFICO DI LEJEUNE
1.1.1
Criteri d’analisi.
Lo studio dell’autobiografia o Scrittura di sé secondo Lejeune può essere
affrontato attraverso tre principali punti di vista: storico, il quale vede affiorare
la produzione autobiografica a partire solo dal XVIII secolo come fenomeno di
civiltà; psicologico che si sofferma sull’importanza in questo genere della
memoria, della costruzione della personalità e dell’autoanalisi; letterario che
vuole che il Testo funzioni solo attraverso la sua lettura, nonché mediante
l’analisi poetica e critica.
Tre sono anche i problemi centrali da porsi nei confronti di questa particolare
categoria letteraria:
•
Il posto e la funzione del testo autobiografico nell’insieme delle opere di
un autore.
•
L’ordine del racconto autobiografico
•
La relazione fra l’autobiografo, il suo narratore, e il suo “eroe”
1.1.2
Una possibile definizione
Elaborare una definizione del genere autobiografico è per Lejeune un compito
importante ma complesso perché pone in campo diverse questioni. Per prima
quella di delineare i confini sottili esistenti tra autobiografie e biografie, tra
romanzo e autobiografia con il rischio di ribadire certezze e di erigere muri tra
categorie appellandosi a distinzioni troppo sottili.
7
Oltre a questo,l’esistenza di un vocabolario vago e culturalmente differente
lascia aperte problematiche di campi del sapere che non è possibile porre in
comunicazione tra loro.
Tuttavia è necessario tentare di proporre una definizione. Il modo per arrivare
ad un risultato apprezzabile è forse quello di delimitare il campo d’interesse
che si intende definire. Fondamentale per Lejeune è individuare uno spazio e
un periodo storico circoscritto: la letteratura europea dal 1770 ad oggi. Tale
operazione però non vuole negare l’esistenza di
produzioni autobiografiche
precedenti ed extra europee ma, come dice lo stesso Lejeune, è un tentativo
di definire all’interno di una vasta e ricca produzione un’area, uno spazio dai
comuni denominatori, oltre il quale, una stessa definizione di autobiografia
potrebbe diventare anacronistica e poco pertinente.
E’ inoltre fondamentale in questa ricerca assumere il punto di vista del lettore:
l’unico che può far funzionare il testo, scritto infatti per essere letto.
Ecco allora la definizione di autobiografia che il critico francese propone:
“Racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della
propria esistenza, quando metta l’accento sulla sua vita individuale, in
particolare sulla storia della sua personalità”
3
Quattro sono pertanto gli elementi principali che permettono di delineare
questo genere letterario:
9 LA FORMA DEL LINGIAGGIO (racconto in prosa)
9 IL SOGGETTO TRATTATO (scrittura di sé)
8
9 LA SITUAZIONE DELL’ AUTORE (identità tra autore e narratore)
9 POSIZIONE DEL NARRATORE (identità fra narratore e personaggio e
visione retrospettiva del racconto)
1.1.3.
Autore, Narratore, Personaggio: un rapporto di
necessaria identità nel patto autobiografico.
Affinché si possa parlare di Autobiografia o Letteratura Intima, per Lejeune
sembra indispensabile
che tra gli Attori del testo (Autore, Narratore,
Personaggio) vi sia assoluta identità.
Non importa che il narratore si esprima attraverso il pronome “ IO”, che
Gerard Génette chiama “narrazione autodiegetica”4, dove il narratore è il
personaggio principale, oppure mediante un “TU” od un lontano “EGLI”. Anche
con la terza persona infatti, il narratore, insieme autore e personaggio, può
abilmente parlare di sé attraverso i sottili meccanismi della contingenza, dello
sdoppiamento, della distanza ironica.
Tuttavia, non è strano che il lettore innanzi alla formula “Io sottoscritto” si
possa chiedere: “Chi dice – Io…(sono)?”
Il concetto di identità solitamente è dato dall’esistenza di un IO presunto,
pensato, fisicamente presente. Tuttavia all’Io in cerca di un’identità non basta
essere fisicamente presente, resta infatti aperta la domanda “ Chi sei?” –
“Sono io” – “ma io chi?”.
L’Io per poter essere realmente riconosciuto ha bisogno di un nome, un nome
proprio che nel discorso scritto diventa un segno: la firma.
9
La prova dell’esistenza e tutta l’esistenza dell’autore sta nel nome impresso
sulla copertina del libro.
Un autore, inteso non come persona ma come soggetto che scrive e pubblica,
ciononostante, ha l’impegno di responsabilità di una persona reale dichiarando
la propria esistenza mediante la firma. Il lettore, coinvolto in questo “contratto
sociale”, immagina e riconosce il quel nome stampato l’esistenza come
soggetto dell’ autore-narratore-personaggio e considera così il discorso da lui
prodotto. Il lettore non verifica, tuttavia crede, in particolare, sostiene
Lejeune, quando dello stesso autore esiste
almeno un altro testo non
autobiografico da lui pubblicato.
Anche lo pseudonimo, arteficio dietro il quale un’identità potrebbe volersi
celare, in realtà può essere interpretato come un secondo nome, autentico
tanto quanto il primo. Lejeune lo considera infatti come manifestazione di una
seconda nascita: la scrittura pubblicata.
E’ difficile tuttavia che uno pseudonimo venga usato per un’autobiografia.
Se nel romanzo autobiografico l’autore può permettersi di negare l’identità col
personaggio, anche se il lettore può intravedere o sospettare una certa
somiglianza od identità con la vita reale dello scrittore, l’autobiografia “non
ammette gradi”,“non è un gioco di indovinelli”5: è un patto dove l’autore
esplicitamente accetta di essere narratore e protagonista.
Il patto autobiografico è l’identità del nome (autore, narratore, personaggio)
che rimanda al nome scritto in copertina,
(da quando questa è stata
riconosciuta parte del testo). Tutte le forme di questo patto manifestano
l’intenzione dell’autore di onorare la propria firma.
10
1.1.4.
Il patto referenziale: autobiografia e biografia
Autobiografia e biografia sono costruite attorno ad un ulteriore contratto che
l’autore
stipula
implicitamente
con
il
suo
ipotetico
lettore:
“il
patto
referenziale” strettamente legato al concetto di verità.
Differentemente da tutte le opere di finzione, l’autobiografia e la biografia sono
definibili opere referenziali in quanto tentano di aggiungere un’ informazione
ad una realtà esterna al testo che, proprio come nel discorso scientifico e
storico, accetta di sottoporsi ad una prova di verifica. “ Scopo di questo patto,
non è la verosimiglianza ma la somiglianza al vero! Non è “l’effetto” del reale
ma la sua immagine”6.
Se per la biografia il patto referenziale si rispetta nella verità dei fatti, di cui è
possibile una verifica oggettiva, nell’autobiografia il patto referenziale, come
per il patto autobiografico, è una presa di responsabilità dell’autore, è un
giuramento che esso fa nei confronti di se stesso e del suo pubblico, di dire la
verità. E’ come se dichiarasse: “Io giuro di dire la verità, come essa mi
appare”. Nell’autobiografia non ci sono pertanto fatti oggettivi e verificabili o
una loro fedele riproduzione, al contrario in essa viene esplicitata una verità
soggettiva, limitata, parziale, un’interpretazione vissuta del mondo e della
storia
personale
e
sociale,
ma
non
per
questo
meno
importante.
Nell’autobiografia non esistono prove di verifica: in essa l’autore ci racconta
ciò che lui solo ci può dire.
L’esattezza e l’attendibilità degli eventi riportati e delle interpretazioni fatte
non ha importanza. Fondamentale invece è che il patto sia concluso e
rispettato, che l’autenticità sia nell’intenzione.
11
1.1.5
Il Modello: la realtà al quale l’enunciato
pretende di assomigliare.
“Come può un testo avvicinarsi al reale, al Modello?”
Questa è una domanda che costantemente i biografi si pongono e che,
altrettanto spesso, ritengono implicitamente risolta.
Lejeune pensa che l’obiettivo della somiglianza venga posto a due livelli:
9 In un MODO NEGATIVO ( livello degli elementi del racconto),
che si traduce in CRITERIO DI ESATTEZZA
9 In MODO POSITIVO ( livello della totalità del racconto) ovvero
Attraverso il concetto di FEDELTA’
L’esattezza riguarda l’informazione, la fedeltà il significato.
Nel caso specifico del racconto personale il segno “ =” (uguale) che si trova tra
il soggetto dell’enunciazione e quello dell’enunciato presuppone identità di
fatto e una certa forma di somiglianza.
Il problema che rimane è tuttavia capire con chi deve esserci un rapporto di
esattezza e fedeltà. Se l’autobiografia fosse scritta al passato il rapporto di
somiglianza si potrebbe porre tra il personaggio e il suo modello in modo
verificabile come per la biografia.
Eppure, così facendo, non si terrebbe conto del fatto che il personaggio è al
tempo stesso la persona attuale che produce la narrazione di un passato. Il
soggetto dell’enunciato autobiografico è doppio ed inseparabile dal soggetto
12
narrante. Autore, narratore, personaggio legati da un segno di uguaglianza,
danno forma ad una relazione complessa: un rapporto di rapporti.
“Il narratore sta al personaggio ( passato o attuale) come l’autore sta al
modello.”
7
In conclusione allora il concetto di verità, in termini di somiglianza, deve
essere ridefinito e pensato non come essere in sé del passato, ma come
essere per me stabilito nel presente dell’enunciazione.
Anche
quell’enunciazione
pervasa
dall’errore,
dalla
menzogna,
dalla
deformazione o dalla dimenticanza è e rimane autentica.
1.1.6
Romanzo e autobiografia: Verità a confronto
L’intenzionalità dell’autore di comunicare in modo autentico la sua verità è per
l’autobiografia un atteggiamento molto importante.
Tuttavia Lejeune accoglie anche la posizione di chi si chiede se ci sia in realtà
più verità sull’autore nella finzione che nell’autobiografia stessa.
Dice Francais Mauriac:
“ La vera ragione della mia pigrizia non è forse dovuta al fatto che i vostri romanzi
esprimono l’essenziale di noi stessi? Solo la finzione non mente; essa socchiude
nella vita d’un uomo una parte segreta, attraverso la quale scivola, fuori da ogni
controllo, la sua anima sconosciuta”
8
Per Mauriac e Gide non è allora l’intenzione che svela la verità di un autore
ma, essa emerge spontanea proprio quando l’autore, impegnato in un gioco
altro di finzione, si sente libero da un dover dire, da un doversi rappresentare.
13
La finzione non può ingannare, non può alterare e manipolare una verità che
non ha mai preteso di essere tale.
Eppure secondo Lejeune, nel momento in cui Gide e Mauriac esaltano il
romanzo per sminuire l’autobiografia, in realtà non fanno altro che onorarla
stabilendo inconsapevolmente uno spazio autobiografico nella loro opera, in
cui si dichiara implicitamente di quale ordine è l’ultima verità a cui i loro testi
mirano. Proprio attraverso la creazione di questo spazio l’autore invita a
leggere nel suo testo “finzione” una verità della natura umana e una
fantasticheria rivelatrice dell’individuo.
Se nell’autobiografia si parla di patto autobiografico con il lettore, nel caso di
romanzi di finzione come quello di Gide e Mauriac dove viene tacitamente
creato uno spazio autobiografico, si può parlare di patto fantasmatico, forma
indiretta di patto autobiografico.
D’altra parte, sostiene Lejeune, critiche e dubbi come quelle sopra citate sono
inevitabili. E’ quasi automatico ed umano spingersi nel dubbio e a ricercare
scrupolosamente l’errore proprio là dove c’è un tentativo dichiarato di onestà.
“ Se l’identità è affermata si cercheranno le incongruenze, se non è affermata
si cercheranno le somiglianze.”
9
Inoltre, osserva ancora lo stesso Lejeune “ Che cos’è questa verità che il
romanzo permette di avvicinare meglio all’autobiografia, se non la verità
personale, individuale ed intima dell’autore, cioè la stessa alla quale mira ogni
progetto autobiografico?”
14
1.1.7
Autobiografia e confessione: il caso di
Rousseau.
La scrittura, con le sue varie e diverse stesure, permette di ricercare,
comprendere, formulare ciò che nel solo ricordo non può esistere.
Ne le “Confessioni” di Jean Jacques Rousseau è evidente proprio l’impegno nel
portare alla luce qualcosa di altro da un banale ricordo; si assiste al tentativo
di dischiudere quasi maliziosamente significati nuovi che donano senso ai fatti.
Nel famoso episodio della “sculacciata” ricevuta da Rosseau bambino,
“ l’Adulto ha dovuto ricominciare più volte per far chiarezza nella logica
dell’affettività, complessa e paradossale, oscura a quel bambino che l’ ha
vissuta”
10
Attraverso la parola si può infatti tentare di ritrovare il significato nascosto di
un discorso criptico in cui forse risiede l’inversione dei codici e il meccanismo
della condensazione.
11
Rousseau però osa qualcosa in più: secondo l’interpretazione di Lejeune, per
altri discutibile, egli cerca non solo di interpretare sotto una nuova luce
semantica l’evento della sculacciata rivelando le
particolari emozioni da lui
vissute, ma tenta, attraverso la confessione, di riparare alla vergogna e al
senso
di
colpa
provocato
dalla
consapevolezza
di
aver
provato
tali
“peccaminose” ed “inappropriate” emozioni.
Lejeune tuttavia crede che Rousseau utilizzando proprio il mezzo della
confessione, anziché cercare la redenzione del lettore per un confessato
peccato, voglia in realtà sedurlo e sorprenderlo con l’ astuto gioco della verità
confessata. Nel momento in cui infatti il vero e reale destinatario (lady Marion,
15
Mamam) non esistono più e non possono pertanto essere
presenti all’atto
della confessione, la confessione nell’autobiografia per il critico francese
diventa improbabile se non impossibile.
“ Le confessioni autobiografiche sono una sorta di lettera a Rodriguez, che tutti
leggono eccetto il destinatario. O che si danno da leggere a tutti non potendo
mai trovare il vero destinatario”
12
La stessa scrittura, diventando mediazione, ne dissolve l’autenticità.
Per Rousseau allora confessare più che un’ opportunità di dare spazio alla
verità, diventa un riparo e una difesa che gli permette di rischiare di dire tutto
e non di farlo effettivamente.
La scrittura, secondo Lejeune, può dire la verità od il suo contrario, tuttavia
questa verità la può dire solo all’inverso: attraverso la descrizione di tutto ciò
che nella vita ha impedito di esprimerla e ripetendo gli stessi impedimenti nel
discorso.
“ Si può certo ristabilire la trasparenza nell’ostacolo, senza però distruggerlo”13
essendo lo stesso anche un riparo.
Non a caso, proprio Rousseau amava l’immagine del “ cuore trasparente come
cristallo”. Il cristallo, corpo solido, permette alla luce e allo sguardo di passare,
tuttavia impedisce il passaggio all’azione (come i suoi scritti).
1.1.8.
Dall’Ordine Cronologico all’Ordine
dell’Indagine sviluppato con Sartre.
Nelle autobiografie prodotte dal Settecento ad oggi l’ordine cronologico nella
descrizione degli eventi sembra prevalere. Eppure non è stata stabilita alcuna
16
regola formale che promuova questo tipo di intreccio lineare rispetto a forme
di intreccio più complessi.
Per Lejeune il più naturale ordine in cui può svolgersi l’autobiografia è quello
dell’ indagine, che può svilupparsi attraverso modalità di racconto anche non
lineari. A sviluppare questo concetto è lo scrittore e filosofo francese Jean Paul
Sartre.
Per Sartre l’autobiografia può assumere significato solo in rapporto ad una
nuova antropologia.
“ L’autobiografia è un momento di indagine dialettica, momento di vertigine o
metamorfosi. Una nuova partenza della ricerca è resa possibile dal ritorno
critico su di sé”14. Durante questo momento euristico e di cambiamento a
partire dal sé, lo scrittore de “La nausea”15 si racconta, non attraverso l’ordine
cronologico (come sembrerebbe apparentemente), ma seguendo l’ordine
logico della nevrosi.
Egli infatti crea e sperimenta con successo un nuovo ordine dialettico coerente
allo stile fenomenologico dell’intenzionalità.
“ L’anteriorità logica ed esistenziale tenderà ad essere rappresentata come
anteriorità storica, tanto più se le verrà assegnata un’anteriorità narrativa.”
16
L’ordine dialettico deriva però anche dalla concezione che Sartre ha del
passato. Per il filosofo infatti il passato non può esistere da sé, esiste al
contrario sempre in relazione al nostro attuale presente, ( “ L’essere per me”).
E non è neppure una somma di presenti in sé che bisognerebbe unire ed
allineare in un ordine cronologico!
Sorge tuttavia un problema. Se si parte infatti dall’ipotesi che non esiste
passato in sé, allora risulta spontaneo chiedersi:
17
•
Quale sia il senso dell’autobiografia
•
Se si può di conseguenza raccontare qualsiasi cosa senza il dovere di
essere fedeli nella descrizione del passato
La questione si risolve immediatamente se, come suggerisce Lejeune,
si
predilige l’esigenza di significato come principio primo positivo della ricerca
autobiografica e della scrittura di sé.
“ Il senso nasce dalla tecnica stessa della descrizione di un vissuto concreto,
dove ogni gesto è descritto liberamente”
17
L’esigenza prioritaria del significato genera infatti la struttura del testo in
grado di restituire l’ essere per me del passato.
L’ autobiografia richiede allora:
•
L’esigenza di significato (principio positivo)
•
L’esigenza di esattezza ( principio negativo)
Ma l’autobiografia per Sartre sarà anche “ la storia del mio avvenire”, cioè la
ricostruzione del “progetto”. L’uomo è ritenuto libero di inventare
l’avvenire, di trovare una soluzione nel campo del possibile.
I fatti, gli avvenimenti, i sentimenti, i comportamenti, sono intesi non come
elementi da organizzare cronologicamente per ricostruire una storia, ma come
segni
da
decifrare
per
ricomporre
un
progetto
che
non
appartiene
propriamente ad alcun momento, non tanto da non avere storia, ma perché li
ingloba tutti.
Ogni autobiografia è l’espressione della frase: “Sono diventato io”, che per
Sartre diventa: “Mi sono fatto io”.
E “ Le parole”
18
, con la sua stessa forma, hanno sintetizzato una vita.
18
1.2
ANGLANI E “I LETTI DI PROCUSTE”
Come si è già avuto modo di affermare nell’introduzione, Bartolo Anglani tenta
di affrancarsi dal bisogno di definire il concetto di autobiografia a vantaggio di
un’ analisi approfondita di tutta quella varietà di esempi, tra loro diversi, di cui
disponiamo. Tuttavia in “I letti di Procuste” si spinge oltre. Tentando di
dipanare i molteplici fili concettuali e logici che i critici letterari hanno prodotto
intorno al tema autobiografico, inevitabilmente pone in risalto il percorso di
senso per lui più idoneo nell’accostarsi all’autobiografia come genere debole,
instabile, multiforme.
1.2.1
Identità, verità, maschera
Per tradizione parlare di autobiografia significa presupporre sia l’identità del
soggetto autobiografico con l’autore, sia la verità del racconto. Concetti forti
come quello di identità, intesa anche come la necessità di costruire e
raccontare se stesso come un Io in rapporto ad una vocazione, un progetto ed
un itinerario, e l’esigenza di verità, (il famoso patto con i lettori di Lejeune), a
loro volta si intersecano con la poliedrica dimensione della maschera.
Ma cosa si intende per maschera? Se ci si pone in un contesto culturale
settecentesco essa può essere interpretata come un “teatrino rococò di vezzo
e grazia”19, di voluta e ricercata finzione ove l’ Io si occulta e acquisisce un’
Altra identità, altrimenti problematica e frammentata.
Tuttavia può anche essere una complessa struttura difensiva, uno spazio
privato dal cui interno il soggetto può e sa dire alcune verità importanti, anche
rischiose, su se stesso.
19
Nell’analizzare il genere autobiografico ancora una volta emerge
il bisogno
insistente di chiarire il rapporto tra verità e menzogna. Tanti sono gli scrittori e
i critici letterari che si sono posti tale questione, e tante e diverse sono state le
risposte.
Pascal per primo,con il suo “Design and Truth in Autobiography”20, ponendo in
relazione la dimensione del PROGETTO con il concetto di VERITA’, si è chiesto
quale tipo di verità sia rintracciabile nell’autobiografia. Tuttavia egli stesso
ammette che il compito non è così facile: il rapporto dell’autobiografo con se
stesso, con il proprio passato richiamato in un presente e mediato da un
processo di autoconoscenza talvolta illusoria, è uno dei fenomeni più intricati
nella fenomenologia della elusività del vero.
Per Pascal infatti l’atobiografo non è solo un Oggetto riconoscile dall’esterno,
ma è anche Soggetto, cioè “personaggio il cui mondo interiore ed esteriore
deve la sua apparenza alla maniera in cui egli stesso la vede”21
Così come lo scrittore di sé è essere dal carattere doppio, anche gli stessi
avvenimenti registrati nell’autobiografia hanno una doppia valenza rispetto e
alla vita reale, e in rapporto al “Self” presente dell’autore.
Secondo Anglani tuttavia, anche nelle riflessioni di Pascal si può intravede
ancora una volta il “pregiudizio” della distorsione illegittima e dell’alterazione
prodotte
dall’autobiografo,
in
quanto
soggetto
e
oggetto,
alla
verità
dell’esistenza, che viene limitata dall’ operazione di ricostruzione del passato a
partire dal presente.
Pertanto è forse più utile decidere quale sia la verità a cui siamo interessati:
La Verità obbiettiva ma irraggiungibile, o la verità del soggetto, limitata,
parziale ma resa evidente e tangibile dal testo?
20
Pascal
sceglie
una
verità
profonda
ed
intima
che
emerge
dall’opera
autobiografica e che si contrappone alla verità limitata della fiction.
Scelta interessante ma, avverte Anglani, spostando tutto l’accento su una
verità interiore generata durante la ricerca dell’ Io, si rischia di investire
l’autobiografia di un dover essere, non sulla base di prescrizioni teorico-formali
ma secondo la dimensione delle autobiografie esclusivamente spirituali,
religiose, romantiche. Verrebbero così escluse le autobiografie di carattere
illuminista; le inquietudini contemporanee che si affrancano dalla teodicea e
dalla forma conclusa e compatta dell’esperienza;
le “anti-autobiografie”
giocate sull’ironia e sulla controscrittura il cui emblema è “Mark Twain”.
Con Francis R. Hart l’intera questione viene reinterpretata. Per Hart infatti il
problema del rapporto tra ciò che lui chiama “fictive”, “historical”, “design” e
“truth” può essere in realtà uno pseudo problema.
Se si ammette infatti che storia e finzione non sono sempre tra loro
distinguibili, così come il problema della verità non è separabile da quello
dell’Io, inteso non in senso metafisico,si può constatare che:
“ L’Io svolge uno o più ruoli strutturali nell’autobiografia: l’Io che è stato
celato o costruito a metà; quello che è stato smarrito o conquistato,
riconquistato, cercato invano; quello che è stato coltivato,imposto, preservato,
sviluppato.”
22
L’autobiografo ogni volta può scegliere un tipo di Io diverso come oggetto e
soggetto della sua storia. E ogni Io può “dar luogo a punti di vista numerosi,
fluttuanti e misti”23 che impediscono all’interprete di affermare che “alcune
persistenze di Io sono più veritiere di altre”24.
21
Il tentativo di Hart è quello di creare un modello flessibile in grado di far
coesistere all’interno del genere autobiografico opere che vogliono porre in
risalto un Io comprensivo, essenziale, totale, con altrettanti testi che parlano
di un vero personale particolare,nonché cronologicamente e analiticamente
limitato.
C’è però anche chi all’estremo sostiene che l’Autobiografia sia creazione,
attività di “model building” (Marc E.Blanchard), e anche menzogna.
“ In un mondo di altri – dice Blanchard – il soggetto che pretende di essere se
stesso è un bugiardo”! La fiction è perciò connaturata alla scrittura di sé.
L’autobiografo pertanto diventa “ voyeur” di se stesso, un Narciso che
specchiandosi nell’acqua viene rapito dalla sua stessa figura riflessa. La sua
vita,
ammirata e pensata, si cristallizza come in un plastico delineato nello
spazio e bloccato nel tempo.
Tuttavia per Anglani è assurdo pensare la scrittura di sé bloccata dal punto di
vista temporale. Egli ritiene infatti che una tale credenza non possa essere
altro che la dimostrazione di una forte cecità storico filologica appartenente ad
“un certo genere di filosofia”.
Per Willis R.Buck il concetto di identità è un fenomeno prettamente linguistico
e pertanto una questione su cui è inutile perdersi.
Il dibattito che vede coinvolti i concetti di verità da una parte, e fiction –
menzogna dall’altra, è tutt’ora aperto. Sono tante le domande che possono
essere poste e le diverse angolazioni da cui può essere affrontata la questione.
Henry Peyre affermando che l’autobiografia è una forma d’arte si pone il
dubbio se, in quanto tale, possa essere “sincera”; Georges May con ironia e
ricercato paradosso afferma che probabilmente gli autobiografi più sinceri sono
22
proprio quelli che ammettono la loro insincerità (!); altri sostengono che la
ricerca della verità sia di fatto irraggiungibile nel momento in cui si compie
un’azione di selezione.
A cosa poter credere allora:
9 Alla verità del sé depositata dallo scrittore nelle proprie metafore
9
che tutto è falsificabile, incerto, sospettabile di menzogna
9 oppure, al contrario, che tutto è vero dal momento che ogni scrittore
con il suo modo di scrivere e presentare metaforicamente la propria
vita, anche mentendo dice la verità.
Per Anglani rispondere a questa domanda potrebbe essere quasi superfluo se,
una volta per tutte, si accettasse di vivere nell’incertezza e nell’oscillazione
costante tra le sfumature di un genere piuttosto che definirne arbitrariamente
tinte forti ma “artificiali”. L’ autobiografia ha una natura che Anglani definisce
duplice, contraddittoria, problematica e al tempo stesso costruita e sincera. La
verità sta tutta nel testo.
Altrettanto assurdo allora accettare il punto di vista di alcuni critici che
interpretano l’autobiografia sempre come finzione, essendo un’ arte alla
ricerca di stile. Non solo, paradossale è anche l’esigenza degli stessi teorici di
dover forgiare un metodo decostruttivo in grado di scovare quei momenti di
contraddizione e molteplicità, in cui il testo vacilla nei suoi tentativi di costruire
una verità fasulla attraverso la finzione.
Da dove infatti prenderanno il vero che dimostri la falsità del discorso
autobiografico, se non dallo stesso testo etichettato come inaffidabile?
I testi autobiografici devono essere oggetto di ricerca non in quanto barriere
ma in quanto realtà soggettive ma autentiche.
23
Come dice Paul J. Eakin, la verità autobiografica è
rintracciabile proprio in
quel processo intricato di auto-scoperta e auto-creazione che permea il testo.
1.2.2
L’Autobiografia come atto di conoscenza e
costruzione di sé.
A questo punto è ragionevole soffermarsi ad analizzare la stessa nozione di
identità, che si vuole ergere a pilastro portante della scrittura di sé .
Proprio nel Settecento inizia l’indagine scientifica sulla soggettività e sull’Io con
il filosofo Locke. Tuttavia secondo Pizzorusso
25
, il concetto di identità lo si è
riferito all’Io solo quando l’unità di questo è diventata problematica. Si ricordi
a questo proposito la scena Humiana della proteiformità e impossibilità
conoscitiva dell’Io, che ha contribuito a creare la visione moderna di
un’identità dalla struttura plurale, flessibile, intelligente.
Secondo quest’ottica l’autobiografia
prende perciò forma quando l’identità
diventa non un punto di partenza,
ma un dato da costruire attraverso la
memoria, luogo e strumento dell’autoconoscenza.
Per Diderot, ricercare la natura dell’Io significa anche porsi un problema
autobiografico di storia del soggetto. L’individuo è una ragnatela: incrocio di
influssi molteplici, parte di un tutto dai confini sempre mobili ed indefinibili,
dove la coscienza coincide con la memoria.
“ Il soggetto sperimenta la vertigine della dissoluzione per ritrovarsi intero in
lineamenti assai diversi dagli originali, spesso per allineare una serie di
maschere giurando ogni volta l’assolutezza di ciascuna di esse.”26
24
Sempre allora ci sarà una contraddizione d’intenti data dall’oscillazione
costante e verso “ l’incertitudine” di se stesso sensibile alla duplicità, falsità,
incoerenza, e il tentativo di ricostruire un’identità fittizia, ma paradossalmente
autentica, attraverso la memoria e la scrittura. Non a caso, è proprio nell’atto
di richiamare l’immagine o la metafora della maschera che si accetta e si
definisce proprio l’orizzonte della contraddizione. Il soggetto che parla di sé
diventa colui che è costretto a fuggire da se stesso e a celarsi dietro
un’inevitabile finzione fino a sentirsi “straniero” per… ritrovarsi e scoprire la
propria autenticità. L’autobiografia è il prodotto di questo lavoro di mediazione
e fuga anche rispetto al soggetto stesso che scrive.
Emerge allora, secondo Anglani, una filologia del sospetto tutta centrata
sulla convinzione che l’autore sia fondamentalmente un bugiardo sino a
quando egli stesso non sarà in grado di mostrare la propria veridicità.
L’autobiografia è lo strumento che tenta di riordinare i “frammenti o residui di
quel vasto complesso di architetture mentali che è la costruzione dell’ Io”
27
“Il compito del poeta – dice Freeman – non è quello di rappresentare
mimeticamente il mondo, né quello di compiere fiction su di esso, ma piuttosto
quello di riscriverlo, spingendo la comune conoscenza delle cose ad un livello
diverso e più profondo, più reale del reale, oltre l’esteriorità delle cose,
mostrando che il mondo è sempre capace di essere pensato daccapo.” Nella
narrazione il concetto di riscrittura si palesa nel tentativo di dischiudere,
articolare, rivelare quel mondo autentico che, letteralmente, non sarebbe
esistito se l’atto della scrittura non si fosse realizzato. E l’Io nel suo
raccontarsi, nel raccontare il proprio mondo, ha bisogno dell’immaginazione.
Tanto che, se si uccide l’immaginazione, si uccide anche l’Io.
25
E noi, senza un Io che immagina, non saremmo altro che corpi.
Per J. Olney la complessità di un Io non potrà mai disvelarsi appieno, esso
porta
con
sé
infatti
delle
profondità
inaccessibili,
degli
spazi
segreti
indispensabili a preservare il suo ruolo di mediatore tra un Es impulsivo e un
SuperEgo direttivo.
Tuttavia l’autobiografia può arrivare a conoscere ciò che l’uomo è stato ed è.
Strumento legato all’impulso vitale di creazione, la scrittura di sé parte infatti
dalla vita e si aggiunge ad essa. Attraverso l’uso di simboli, metafore che
permeano la scrittura autobiografica, l’individuo non solo si racconta fino a
riconoscersi nella sua storia, ma si scopre e si svela a se stesso costruendosi.
Se il Sé è un processo, e non uno stato stabile, e l’autobiografia “ è un
momento dell’ Io nel suo divenire che noi vediamo e tocchiamo attraverso le
sue metafore”
28
,tra conoscenza di Sé e autobiografia si crea una permanente
circolarità di costruzione e creazione reciproca.
Anche per Anglani l’autobiografia è sempre e dovunque atto di conoscenza di
Sé. Ogni Sé è un soggetto che in forme diverse dagli altri persegue lo scopo
comune e metafisico di concepire “sinteticamente e simbolicamente” lo stato
di pienezza e di totalità perduto dall’essere.
Il problema della verità autobiografica è risolto allora dal fatto che tutti coloro
che sono andati in cerca dell’essere hanno raggiunto anche il vero. Coloridge
infatti diceva: “Truth is correlative of being”.
John Paul Eakin, ripercorrendo gli studi di Sartre, dice:
“L’autoinvenzione si riferisce non solo alla creazione dell’Io nell’autobiografia
ma anche all’idea che l’Io, che si tenta di ricostruire nella creazione letteraria,
non è dato ma costruito nel corso dello sviluppo del soggetto. (…) La natura
26
immaginaria
dell’individualità
si
può
considerare
allora
un
fatto
autobiografico.”
1.2.3
La psicoanalisi per Anglani: pericolosa risorsa.
La psicoanalisi potrebbe essere uno valido strumento per il pensiero
autobiografico che si inoltra nei meandri della riscoperta e costruzione del sé.
Nonché il terreno della verità e della menzogna potrebbe esserne il
nutrimento.
Per quanto riguarda la scrittura di sé la psicoanalisi ha portato notevoli
contributi: ha saputo offrire un vocabolario nuovo e secolare che sostituisce i
vecchi termini nella descrizione dell’esperienza interiore, trasformando il
soggetto dell’autobiografia in un uomo sempre più psico- analitico; ha aiutato
ed aiuta il lettore a leggere le autobiografie in modi nuovi, a porre nuove
domande, a rendersi attento al detto e al non detto.
E proprio dall’incontro tra autobiografia e psicoanalisi è nata una definizione
preziosa della scrittura di sé:
“ L’autobiografia è un genere letterario nato dal romanticismo, che ci dà la
rappresentazione, a partire dal punto di vista specifico del presente, della
formazione coerente di un passato individuale, ottenuto con gli strumenti
dell’introspezione e della memoria di tipo speciale, al cui interno l’Io è visto
come una entità in sviluppo, che muta per stadi definiti, e in cui la
conoscenza dell’Io si collega alla conoscenza del mondo esterno, in maniera
che entrambe ci garantiscano una presa profonda e vera sulla realtà”
Bruce Mazlish29
27
Tuttavia Anglani, mantiene espressamente le distanze da tale disciplina.
Egli non accetta di credere nel valore e nell’importanza che la psicoanalisi
attribuisce
all’inconscio
nel
riuscire
ad
esprimere
tra
le
righe
delle
autobiografie ciò che la consapevolezza tenta di rendere estraneo.
Quando la psicoanalisi nello studio delle autobiografie arriva a parlarci di un
segreto che, celato nell’inconscio dello scrittore, e a dispetto di sé, a poco a
poco la scrittura rivela, per Anglani siamo di fronte ad un vero e proprio abuso
di potere e ad un uso indiscreto di tale disciplina.
“ E come se- dice il critico italiano- gli psicoanalisti lacaniani ponessero l’ Io
profondo in comunicazione con la pagina, a prescindere dalla mediazione della
cultura e della letteratura, e per il tramite di un linguaggio che non appartiene
a loro e i cui significati non sono essi a decidere.”
Se così fosse, si arriverebbe allora sempre a quella filologia del sospetto in cui
mentire invece di essere interpretato come la volontà di celare qualcosa,
diventa paradossalmente espressione profonda del bisogno di scoprirsi.
Ma analizzare tale complessa struttura, basata sulla menzogna e sulla costante
finzione, significherebbe allora ricostruire una strategia comunicativa difficile e
contraddittoria sull’ipotesi che il bugiardo voglia sempre dire.
Allora forse è più facile limitarsi ad ammettere che ogni autobiografo, e
ognuno di noi che voglia
sperimentarsi attraverso la scrittura intima,
racconterà la storia di se stesso più sinceramente che può, o tanto
sinceramente quanto può permettersi.
30
Per Duccio Demetrio31 l’autobiografia è inevitabilmente portatrice di un “tempo
dell’inconscio” che viene stuzzicato e provocato. Tuttavia l’inconsapevole
“occulto” che permea le pagine scritte non può essere
completamente
28
svelato: l’oblio, come forma di difesa, nasce per tutelare la mente e la vita nel
suo divenire e sarebbe troppo rischioso estinguerlo ! Eppure questo non
significa che
attraverso la scrittura
e le sue metafore non si possa
avventurarsi nella ricerca e nella scoperta inediti luoghi interiori su cui “ non
avevamo ancora (…) posato uno sguardo consapevole”32
Per queste discrepanze di pensiero, senza nulla togliere all’importanza della
psicoanalisi e riconoscendo a tale materia importanti riflessioni nonché decisivi
influssi culturali, Anglani preferisce non approfondire l’argomento e lasciare ad
altri testi la capacità di analizzare la
possibile relazione tra autobiografia e
psicoanalisi.
1.2.4
Critiche al patto autobiografico di Lejeune:
l’identità tra autore, narratore, protagonista
non può esistere.
Anglani analizza con interesse gli scritti di Lejeune, tuttavia i problemi
cominciano a porsi nel momento in cui il critico francese decide che Rousseau
faccia da spartiacque tra un passato preistorico dell’autobiografia, e un
presente-futuro in cui l’autobiografia acquisisce la sua vera forma. Non dare
importanza a tutta la produzione precedente a Rousseau per Anglani è una
cattiva partenza nello studio di questo genere.
Ciononostante, il punto di maggiore rottura investe il rapporto tra autore,
narratore, personaggio.
Ammettere che l’autobiografia debba sempre soddisfare il criterio dell’identità
tra autore, narratore e personaggio, senza presupporre gradi, per Anglani
29
significa
arrivare
ad
un’analisi
eccessivamente
semplificata
che
nega
forzatamente le molteplici sfumature che si presentano davanti ad ogni testo.
Tante opere come i Commentari di Giulio Cesare, La Vita Nova di Alighieri, I
Saggi di Montagne verrebbero a torto escluse!
Per Anglani è inutile stabilire un’identità assoluta tra narratore e autore perché
in realtà essa non può esistere.
Vi è un tempo proprio della scrittura che pone infatti sempre le distanze tra i
due e che non può essere in nessun caso ridotto a zero. E anche se lo fosse,
argomenta il critico italiano, l’Io del passato è sempre un Io diverso e Altro
dall’ Io attuale dell’ autobiografo, che pur continuando a stare in un rapporto
reciproco di continuità, tanto da permettere all’ individuo di sentirsi sempre se
stesso, è anche il risultato di naturali e spontanei cambiamenti.
Dice Pizzorusso: “ Il bambino che l’autore è stato non può essere riprodotto
nella sua integralità.”
33
Nel racconto autobiografico il narratore si trova regolarmente in un rapporto
ironico con il suo “ Io più antico” che egli descrive dal punto di vista di
un’esperienza e comprensione superiore. La distanza tra narratore, autore ed
il suo soggetto è fondamentale per l’autobiografia e ne determina la qualità
distintiva.34 Persino nel continuo presente di Montagne c’è distanza tra oggetto
e soggetto, quasi ci fossero due Montagne. Ma proprio nella distanza soggetto
e oggetto si conoscono e si costruiscono reciprocamente.
30
1.2.5.
Verso la definizione di un genere?
Dopo esserci posti molti interrogativi rispetto al tema dell’ autobiografia,
rimane ancora un dubbio a cui rispondere: possono esistere itinerari di ricerca
che non si irrigidiscano su tipologie fondate sulla natura, e che mantengano un
atteggiamento flessibile soprattutto in rapporto ad un “genere di confine”
mutevole e confuso?
Analizzando i testi di diversi teorici contemporanei emergono innumerevoli e
differenti proposte di una definizione del genere autobiografico. Arduo allora il
compito di chi si sta accostando al testo autobiografico di dover sposare un
preciso orizzonte teorico.
Tuttavia, non è forse più facile ammettere, come sostiene lo stesso Anglani,
che l’ Autobiografia, per le sue infinite forme, non è né un genere, né uno
stile, né un linguaggio, quanto piuttosto un atteggiamento letterario emerso
prima del Settecento ma configuratosi storicamente in tale periodo ?
Non lasciamoci tentare da chi, appellandosi al rigore scientifico, cade nel
secolare errore di voler rendere necessaria una definizione classificante ed
etichettante che legittima esclusivamente un solo modo di essere del testo
autobiografico. Impariamo piuttosto ad accettare e a convivere con la diversità
e l’eterogeneità tipica della letteratura autobiografica. Accettiamo l’invito del
testo che ci chiede di essere letto senza porre degli ostacoli di forma
puramente astratti.
I primi passi in questa direzione li ha fatti Jean Starobinski nel momento in cui
ha evidenziato che proprio riconoscendo la“genericità estrema” delle condizioni
31
dell’autobiografia è possibile valorizzare la varietà di stili particolari che si
generano in essa, ognuno dei quali “è il modo di essere dell’individuo”35.
Tuttavia un esempio più recente di empiria non affetta dalla “malattia infantile
definitoria e categorizzante” della scienza letteraria è l’ Autobiografia come la
intende Robert Folkenflik:
“ L’autobiografia (…) non ha leggi ma norme!
Scritta solitamente, ma non esclusivamente in prima persona.
Può essere in prosa o in versi, veritiera o menzognera, squilibrata verso la
fiction o ancorata alla attualità; scritta in tarda età, o a metà della vita, ma
anche nella giovinezza.
Può essere la prima o la sola produzione.
Generalmente narra il passato dello scrittore, ma spesso non fa del passato il
suo fine principale.”
36
Note
1. Philippe Lejeune, Il Patto autobiografico. P. 407 - IL MULINO, 1986 –
2. Bartolo Anglani, I letti di Procuste. Teorie e storie dell’autobiografia. –
GIUSEPPE LA TERZA EDITORE,1996
3. P.Lejune p.12
4. Gerard Genette definisce il concetto di narrazione autodiegeticada nella sua
classificazione delle 'voci’ del racconto a partire da opere di finzione.
(Figures III – Paris, Seuil, 1972. Traduzione: “Discorso del racconto” Torino
Einaudi, 1976)
5. P.Lejeune, p.38
6. P. Lejeune
7. Francois Mauriac, Commencement d’une vie, in Escrit intimes,
Geneve-Paris, La Palatine, 1953
8. P. Lejeune, p.44
9. P. Lejeune, p.27
10. P. Lejeune p.85
32
11. “ la condensazione è la concentrazione di più elementi psichici e dell’energia
ad essi legata in un‘unica rappresentazione dotata di notevole intensità. (…)
secondo R Jakobson e J. Lacan, alla condensazione sono sottesi gli stessi
processi che in ambito linguistico mettono capo alla metafora”
Definizione di Umberto Galimberti in Dizionario di Psicologia –UTET 1994
12. P. Lejeune, p.57
13. P. Lejeune, p.95
14. J.P.Sartre in P. Lejeune p.23
15. J.P.Sartre, La nausea –
16. P.Lejeune, p.264
17. P.Lejeune, p 271
18. J.P. Sartre, La nausea
19. B.Anglani, I letti di procuste – Laterza editore, 1996
20. Cambridge,1960
21. B.Pascal, Design and Truth in Autobiography – 1960 –
22. Francis R. Hart
23. Francis R.Hart
24. Francis R.Hart
25. Pizzorusso, Ai margini dell’autobiografia-1986- pp.204-205
26. M. Romano, La maschera e il vampiro – 1984 – pp.36-45
27. Pizzorusso, p.208
28. J.Olney, Autobiography and the Cultural Moment–1980pp.3-27
29. Bruce Mazlish, Autobiography and Psyco-analysis. Between truth and self
description. “ Encounter” 1970
30. John M. Coetzee, Truth in autobiography, 1984
31. Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé – 1996 –
Cortina Editore
32. Marguerite Yourcenar
33. Pizzorusso, p.208
34. Rendall 1976, p.285
35. Jean Starobinski, La scoperta della libertà – 1965 – Fabbri Editore
36. Robert Folkenflik, “Introduction: the institution of Autobiography in culture”
–1993-
33
2.0 L’AUTOBIOGRAFIA NELLA FORMAZIONE
EDUCATIVA
2.1
PREMESSE
Prima di esaminare analiticamente le caratteristiche dell’autobiografia come
strumento
di
formazione
personale
in
particolar
modo
dell’adulto
e
dell’operatore sociale, trovo necessario porre in risalto quelle piccole e grandi
rivoluzioni di pensiero che, dando colore e respiro agli ambienti delle scienze
sociali, hanno permesso di scoprire le potenzialità di metodi e strumenti
alternativi alla conoscenza come le Storie di Vita.
2.1.1 Dalla raccolta dati alla costruzione di significati.
Le scienze sociali che si occupano di Adultità e dell’educazione degli adulti
(EDA) stanno proprio in questi ultimi decenni scoprendo le potenzialità delle
Storie di Vita come strumento di ricerca, formazione e costruzione di
significati. Con la crisi dell’oggettivismo e delle scienze positive che hanno
sciolto il rigore scientifico e tutta la cultura occidentale dalla ricerca affannosa
di una verità unica e oggettiva, le discipline sociali hanno interiorizzato
percorsi di conoscenza alternativi, passando da un paradigma essenzialmente
fondato “sulla raccolta dati” ad un paradigma orientato sulla “costruzione di
significati.”
34
A cambiare non sono solo la natura e gli scopi della conoscenza ma anche il
modo con cui il ricercatore ricerca e da forma al proprio sapere.
Se la raccolta dati imponeva una distanza e un “guanto in lattice” al
ricercatore affinché le “prove” non fossero accidentalmente inquinate e la
verità compromessa da una soggettività più demonizzata che conosciuta, il
paradigma della costruzione di significati riconosce le potenzialità, e non solo i
limiti, di una conoscenza fondata sul rapporto dinamico ed ermeneutico tra le
soggettività di osservatore e osservato agito in un contesto storico e mutevole.
Come al ricercatore è riconosciuta una soggettività inalienabile, così agli
individui, parte integrante di un’epoca spazio temporale oggetto di studi, viene
chiesto di testimoniare, leggere, interpretare se stessi e il mondo anche
attraverso i propri scritti, densi non solo di cronaca ma anche di significati.
Ad avviare la prima rivoluzione sul metodo è stata la ricerca sociologica negli
anni Venti con la Scuola di Chicago. Da allora infatti all’interno degli studi
sociologici è emersa una corrente di ricerca che ha scelto come fonte
principale per la descrizione di processi sottostanti alle grandi trasformazioni,
documenti personali, spontanei e sollecitati, densi di significati e intrisi di
“umane” emozioni.
Tuttavia, è avvenuta in anni più recenti la vera svolta “epistemologica”1 che ha
segnato l’importante passaggio da una sociologia “storiografica”, che tenta
ancora di quantificare il dato qualitativo imbrigliandolo in classificazioni
attraverso l’uso di metodi altrettanto generalizzanti e reificanti, ad una “ nuova
sociologia” che cerca di individuare ed interpretare negli scritti autobiografici le
invarianti strutturali, ossia “delle convergenze emergenti tematicamente nella
storia di vita singole nel quadro dell’orizzonte storico dato” 2.
35
“ Attraverso l’autobiografia possiamo riuscire a conoscere le speranze e le
paure della gente, le loro scelte individuali in relazione ai cambiamenti sociali e
politici più ampi, i loro motivi razionali ed inconsci per agire, e soprattutto il
significato e i valori che loro attribuiscono alle proprie vite”3. I metodi di
carattere autobiografico permettono infatti di cogliere ed interpretare vissuti,
esperienze e significati nel loro essere singolari, complessi e declinati nel
tempo, tutte caratteristiche che i metodi tradizionali hanno eluso per lungo
tempo.
Ma per cogliere e valorizzare appieno questi documenti personali, al
ricercatore vengono richieste nuove capacità che gli permettano di creare un
contesto di interazione sociale complesso in grado di trasformare la ricerca in
“con- ricerca”. Il principale atteggiamento da stimolare e formare nel
ricercatore è pertanto la capacità di Ascolto. Proprio attraverso un ascolto
attivo e consapevole il ricercatore entra in contatto con il testo, con l’intervista
scritta e orale, creando le basi per un dialogo aperto tra due sguardi differenti
sul mondo alla ricerca di un sapere condiviso da costruire e ricostruire.
Il ricercatore - osservatore rinuncia a porsi ingenuamente come esterno
all’osservazione e si costituisce parte integrante del contesto da osservare e si
pone in “dialogo” con esso. “ Ogni intervista biografica è un sistema di ruoli, di
aspettative di ingiunzioni, di norme e di valori impliciti, spesso anche di
sanzioni. Ogni intervista biografica nasconde tensioni, conflitti e gerarchie di
potere (…) le forme e i contenuti di un racconto variano con l’interlocutore”4. Il
racconto auto e biografico non descrive esclusivamente una vita ma piuttosto
racconta un’interazione presente mediante “il tramite di una vita”5.
36
Pertanto, come sottolinea Laura Formenti6, il lavoro del ricercatore non è più
solo quello di recuperare o far ricordare dati, fatti ,eventi appartenenti al
passato, ma di riconoscere in che misura il racconto sia di per sé, nel qui ed
ora dell’incontro, un agire ed un trasformarsi.
E’ proprio l’incontro con la differenza, con l’asimmetria, con modi differenti di
interpretare gli eventi che stimola la produzione di sensi e significati nuovi e la
co-costruzione di mondi possibili.
2.1.2
Essere adulti: da soggetto in formazione a
soggetto della formazione.
Tuttavia, affinché l’autobiografia possa divenire strumento di formazione e non
solo esclusivamente genere di opera letteraria, c’è bisogno di maturare una
nuova consapevolezza che coinvolge l’età adulta e l’essere adulti. Se per secoli
l’età adulta è stata interpretata come un momento di stasi e “tranquillità” dal
punto di vista evolutivo e dell’apprendimento cognitivo per lasciare spazio
all’accumulo di esperienze sulla base di apprendimenti e scoperte già fatte,
oggi una tale prospettiva è destinata a decadere.
Alla luce infatti di nuovi sguardi infatti, l’adulto è colui che ha una propria
storia attraverso cui può affermare non solo la propria identità ma progettare
anche la propria continua formazione.
Immerso in un ambiente estremamente ricco di stimoli, complesso e mutevole
che richiede a ciascun individuo un adattabilità ed una sensibilità al
cambiamento sempre maggiore, l’adulto è coinvolto in un processo dinamico di
continua costruzione di sé, delle proprie strategie di conoscenza, di scelta, di
37
interazione. Oltre che essere la guida di se stesso egli è protagonista della
propria auto-educazione, interprete degli eventi e delle pratiche della propria
vita, nonché soggetto e prodotto più o meno inconsapevole di “formazioni e
deformazioni continue”7, (intenzionali, occasionali, quotidiane).
E proprio l’interazione costante e “vitale” che l’adulto agisce con l’ambiente, lo
rende consapevole della necessità di cambiamento e della propria possibile
educabilità. Pensarsi educabili significa inoltre riscoprirsi non solo soggetto in
formazione
ma
anche
potersi
riappropriare
della
capacità
di
autotrasformazione dall’ “interno” divenendo e alternandosi da “soggetto in
formazione” a “soggetto della formazione” .8
L’ approccio autobiografico nasce e trova spazio proprio in questo contesto:
l’individuo si scopre possibile soggetto in e della formazione ma per realizzarsi
come tale, ha bisogno di nuove strategie e strumenti per esplorare,
apprendere, conoscere, conoscersi ed autovalutarsi.
2.1.3
“ Conosci te stesso !” Una filosofia antica
declinata nel tempo.
Oggi l’adulto crede nella sua educabilità permanente, nella capacità di
autogovernarsi, di diventare “educatore di se stesso”
anche attraverso la
propria storia di vita narrata. Tuttavia quest’odierna consapevolezza è
maturata anche grazie alla presenza costante nel tempo di diverse tradizioni di
ricerca
e
di
pensiero
che
hanno
permeato
epoche,
culture,
costumi,influenzandoli e influenzandosi reciprocamente.
38
Con il famoso precetto delfico gnoti seautòn ( “conosci te stesso”) la filosofia
greco-romana
pone
inconsapevolmente
le
basi
della
futura
psicologia
individuale. Anche se, come suggerisce Foucault, il conosci te stesso proposto
dall’oracolo in quel determinato contesto non era altro che un’ammonizione
per il consultante che lo invitava a non pensarsi un dio e di avere chiara
consapevolezza della richiesta che stava per fare, da sempre quel breve
precetto è stato interpretato come un vero e proprio invito all’esplorazione di
se stessi. In realtà come dice Foucault, questo tipo di interesse può essere più
la conseguenza della seconda regola dell’oracolo, per anni sconosciuta, che
aveva la funzione essenziale di rendere operativa la massima delfica: l’
epimelèisthai heautou, ovvero il prendersi cura ed occuparsi di sé.
La prima interpretazione filosofico-letteraria di questo principio la elabora
Agostino
in
le
“Confessioni”.
Mosso
dalla
convinzione
che
il
vero
apprendimento non può che avvenire dall’interno, essendo l’uomo l’unico
essere ad aver coscienza di sé, egli va alla ricerca del proprio Maestro interiore
tramite l’autoanalisi e la meditazione.
Durante questo percorso tuttavia, il pensiero che si traduce in parola e la
pratica di riscrivere se stessi deve “devotamente” rispettare la “TRIADE
concettuale interconnessa di storia, memoria, e narrativa ”9 che rappresentano
ancora oggi i punti cardine attorno ai quali si sviluppa la soggettività
occidentale e la percezione della traiettoria umana.
Dopo Agostino, la pratica del conosci te stesso ha motivato filosofi pedagogisti
alla scrittura di trattati finalizzati non tanto a condividere la propria storia di
vita, quanto piuttosto, attraverso questa, partendo dalla propria esperienza
esemplare, si voleva educare i lettori all’educazione.
39
In anni più recenti, è il pragmatismo americano a rivendicare a gran voce la
capacità inesauribile e straordinaria dell’adulto di apprendere da se stesso e
dall’esperienza. L’individuo infatti dotato di un potenziale di crescita continuo è
perennemente proiettato verso la conquista di indipendenza e autocontrollo
che trova e matura attraverso il dialogo quotidiano tra le proprie risorse e un
contesto, un contenuto, una relazione.
Malcolm Knowles, teorico che traendo spunto dai principi del pragmatismo ha
dato
forma
ad
una
delle
teorie
più
riconosciute
dall’EDA
chiamata
“Andragogia”, sostiene inoltre che l’adulto entra in un contesto di formazione
con un’esperienza quantitativamente maggiore e qualitativamente diversa
rispetto ai giovani. Pertanto proprio il vasto spettro di esperienze che l’adulto
possiede permette alla formazione l’attivazione di percorsi e metodologie
sensibili alle differenze di identità e all’eterogeneità di letture o interpretazioni
del mondo che da queste esperienze, magari narrate, emergono. Ecco perché
proprio nell’ EDA si assiste alla proliferazione di tecniche esperienziali:
simulazione, attività di problem solving, metodo dei casi e metodi di
laboratorio.10
La terza tradizione invece dichiara a pieno titolo che la capacità dell’individuo
di auto-organizzarsi è parte integrante del sistema cognitivo e ne caratterizza i
processi di apprendimento “tout court”.
A sviluppare questa teoria, che emerge da un dibattito ancora attuale negli
ambienti scientifici e che riguarda il rapporto tra soggetto conoscente e mondo
conosciuto, è stato Heinz von Foerster11 con la sua metadisciplina chiamata
40
“cibernetica di secondo ordine” o “ cibernetica dei sistemi osservanti”. Proprio
queste teorie sull’auto-organizzazione hanno avuto un’apprezzabile fortuna sia
in campo psicoterapeutico che in campo educativo. In seguito avremo
occasione di vederne riflessi più concreti rispetto alla scelta autobiografica.
Se nel corso della storia sono emersi ripetutamente correnti di pensiero che
hanno esaltato la capacità dell’uomo, soprattutto adulto, di conoscersi, autoorganizzarsi e trasformarsi, c’è anche chi tuttavia si pone insistentemente un
dubbio: non può essere che l’uomo stimolato ed incoraggiato a rivolgere il
proprio desiderio di conoscenza verso se stesso e all’interno dei confini dell’Io,
rischi di isolarsi come una monade e di rimanere intrappolato in artificiosa ed
eccessiva psicologizzazione ?
Il dubbio è presto risolto se si ha l’opportunità di osservare come lo spazio
autobiografico oltre ad essere un momento privato di riflessione è allo stesso
tempo luogo di negoziazione, condivisione, confronto, di co-costruzione e di
con-ricerca.
L’approccio
formativo
autobiografico
si
fonda
infatti
“sull’intersoggettività della storia di vita, sul suo essere generata entro (e
tramite) una collettività, sempre su uno sfondo storico, culturale e sociale,
tramite un linguaggio condiviso. (…) La costruzione-narrazione della storia di
vita
comporta
una
redefinizione
dei
processi
mnestici,
introspettivi,
interpretativi messi in atto dal soggetto narrante (…) come pratiche sociali,
linguistiche e trans-formative”12
41
2.1.4
L’autobiografia per l’adulto:
momento di riscoperta e reinvenzione.
Nell’educazione degli adulti (EDA) l’autobiografia è proprio quello strumento
che per sua natura è in grado di interpretare e colmare
l’esigenza di
formazione e trasformazione dell’adulto.
Attraverso pratiche riflessive, narrative, reciprocative, l’autobiografia dona
all’adulto il senso e la sensazione di una riscoperta e reinvenzione.
Il tipo di formazione allora che l’uso di questo strumento introduce, non è più
rivolta a persone in “stato di bisogno” o carenza cognitiva, e non è neppure
una formazione “riqualificante” per il personale di aziende, uffici, primi contesti
operativi dell’EDA, ma rappresenta una “terza” via volta alla promozione
dell’individuo adulto nella sua globalità, proprio in quanto essere adulto.
L’approccio autobiografico diventa infatti nell’insieme dell’impresa educativa un
momento “ ad alta motivazione intrinseca”13.
“La narrazione di sé in un contesto formativo vuole e cerca di dar forma ad
una storia con cui poter convivere e riappropriarsi. Una storia che permetta
alla donna, all’uomo adulti di comprendere e far comprendere la propria
esperienza, in vista di successive trasformazioni. Una storia che però- e qui sta
la scommessa della moltiplicazione degli sguardi- per divenire formativa deve
anche comprendere in qualche modo i nessi e gli snodi con la storia della
cultura di appartenenza, del tempo storico in cui si svolge, della lingua che è
usata per raccontarla (…)secondo fertili intrecci tra percorsi e sguardi
disciplinari.”14
42
2.1.5
Principi generali della metodologia
autobiografica in un contesto di formazione.
Prima
di
inoltrarci
nelle
caratteristiche
specifiche
della
metodologia
autobiografica è necessario focalizzare e riassumere i fondamentali principi
teorici che definiscono e giustificano la scelta di tale metodo e strumento.
Secondo Laura Formenti l’orientamento autobiografico risponde e necessita
della presenza di quattro criteri generali15:
9 CRITERIO DELL’AUTONOMIA ORGANIZZATIVA
La fiducia nella competenza dei soggetti.
9 CRITERIO DELL’IMPROVVISAZIONE BIOGRAFICA16
Il riconoscimento dei processi di apprendimento intrinseci auto-generati
soprattutto nelle fasi di “transizione”.
9 CRITERIO DELL’INTERDIPENDENZA APPRENDITIVA
La circolarità e reciprocità costruttiva tra ricerca e formazione, tra
processi di costruzione di senso ed esperienza vissuta.
9 CRITERIO DELLA LEADERSHIP CREATIVA
La revisione del ruolo e della funzione dell’educatore non più trainer o
insegnante,
ma
animatore
e
facilitatore,
accompagnatore
di
apprendimenti autodiretti.
43
Se l’adulto entra nella propria educabilità e educazione mediante la capacità di
auto-apprendimento, la scrittura autobiografica può diventare uno strumento e
ancor più un metodo di questo processo, essendo capace di cogliere la
soggettività,
l’unicità,
la
vitalità
dell’adulto
e
delle
sue
traiettorie
di
apprendimento, di trasformazione ed espressione di sé.
La facoltà di narrare, per sé o per gli altri, in modo occasionale o continuo,
spontaneamente o stimolati, micro o macro eventi della propria vita intrisi di
sensazioni, riflessioni, valutazioni, giudizi, emozioni entro un contesto definito
e in un certo modo significa costruire se stessi, auto-organizzarsi e formarsi.
2.2
ANALISI DEL METODO AUTOBIOGRAFICO
L’autobiografia come genere letterario “instabile” e come momento di autoformazione e di cura di sé ha radici antiche di almeno tre secoli.
Proprio in quest’apprezzabile periodo essa, come più volte abbiamo ribadito,
ha assunto forme e sfumature differenti che si sono evolute con la cultura
occidentale di appartenenza. Motivo per cui ad alcuni viene ormai scontato
associare alla narrazione di sé un potere dimostrato di trasformazione e
conoscenza personale di cui l’adulto può godere. Se pensiamo infatti alla
psicoanalisi con il suo reale e simbolico lettino attraverso il quale l’analizzato
viene stimolato alla pratica delle “Associazioni Libere”, così come agli
innumerevoli e ricorsivi inviti al “conosci te stesso” che la storia del pensiero
ha visto rifiorire in epoche diverse, possiamo renderci conto che forse
44
l’autobiografia rischia di essere “un’esperienza tanto comune” da pensarne
superflua un’analisi.
Al contrario, proprio questa tesi, in accordo con la Formenti, vuole destinare
un’ attenzione approfondita alla specifica riscoperta di questo strumento. Si
vogliono evidenziare la pregnanza e la significatività connotate ad un uso
specifico della scrittura di sé come pratica e “dispositivo”17 educativo. Inoltre,
come dice Laura Formenti, si tratta di “(…) tradurne l’operatività e il modo di
funzionare in termini di strutture, processi e procedimenti che rendano tali
pratiche intelleggibili e ricostruibili. Individuando così con maggiore precisione
il loro carattere di dispositivi formativi.”18
2.2.1
Una mappa di culture: scuole e modelli a
confronto interpretano lo strumento
autobiografico.
Sono molte le “scuole” europee e i gruppi che all’interno dell’EDA ribadiscono
l’importanza e le potenzialità dello strumento autobiografico. Tuttavia ogni
gruppo di ricerca
colora e giustifica l’uso della scrittura di sé inserendola in
una struttura di senso coerente al proprio modello teorico. Ogni scuola infatti
introduce lo strumento autobiografico partendo da premesse specifiche e
compiendo scelte epistemologiche e operative distinte, in relazione anche allo
sviluppo che l’educazione degli adulti ha avuto in quel determinato territorio e
rispetto al modo di concepire l’adulto e la sua educabilità proprio di quella
cultura.
45
Pertanto può risultare interessante esplorare i diversi orizzonti di senso che
coinvolgono l’autobiografia come strumento cercando di porre in risalto i
concetti chiave introduttivi e la metodologia proposta da ogni scuola di
formazione .
2.2.1.1
L’area francofona e “il Percorso Storie di Vita”.
Pur essendo l’area francofona una categoria astratta che abbraccia autori
provenienti da diversi stati (Francia, Svizzera,Belgio, Canada), essa richiama
l’esistenza di una sorta di “comunità virtuale” resa unita da un sapere
condiviso e da una contaminazione e collaborazione costante.
Il principale esponente di questa comunità è il franco-canadese Gaston Pineau.
Grazie a questo ricercatore di formazione sociologica l’educazione degli adulti
si è arricchita di nuovi concetti.
Primo tra questi è il concetto stesso di formazione che, con Pineau, amplia i
suoi confini e si definisce come un processo permanente esistenziale,
“autopoietico”19. La vera formazione è un processo continuo caratteristico del
vivente che rende il soggetto in formazione il vero protagonista dei propri
cambiamenti e della propria auto-educabilità. Tuttavia promuovere ed esaltare
l’autonomia
del
soggetto
nell’
essere
artefice
principale
della
propria
formazione, affrancando l’attenzione da tradizionali apprendimenti etero
imposti, non significa voler ridurre e rinchiudere l’individuo adulto in un
esclusiva ed univoca interazione con se stesso. Al contrario infatti, secondo
Pineau , l’adulto nel processo di formazione ha il difficile compito di riuscire a
coordinare e articolare in modo complesso almeno tre mondi: sé ( “auto”), gli
46
altri (“etero”), e le cose (“eco”). Proprio attraverso l’interazione personale e
dinamica
con gli altri, con l’ambiente, con gli oggetti, ognuno dei quali
rappresenta uno tra i molti agenti formatori o “maestri dell’uomo” (come li
definisce Pineau), l’individuo realizza la propria auto-eco-formazione.
Pineau, facendo frequente riferimento a Bachelard, aspira a far ritrovare
all’uomo “un rapporto autonomo con la materialità elementare, di rivitalizzare
il simbolico e di mettere in connessione, attraverso l’immaginazione, il macro e
il microcosmo”,20 passando da “un rapporto d’uso (…) - possessivo e finalizzato
con le cose - ad una relazione personale ed intima, che assegna agli atti e agli
eventi valori simbolici e significativi invisibili all’interno di un’unità esistenziale
interattiva che non separa in modo contrappositivo le polarità descritte .”21
In quest’orizzonte di senso l’autobiografia diventa
strumento e medium di
riconquista del proprio processo di formazione in quanto offre un importante
spazio di riflessione e ricognizione della propria storia di vita. Ripensare e
ricostruire la trama della nostra esistenza mediante l’uso della parola, orale o
scritta,
significa
andare
oltre
se
stessi
ed
avviare
un
processo
di
trasformazione e cambiamento “naturale” che solo noi, in prima persona,
possiamo gestire, progettare, costruire.
Per intraprendere questa pratica è fondamentale che l’adulto esca e si
allontani da una dimensione del tempo strutturata in senso cronologico che
lascia spazio solo alla descrizione di fatti ed eventi, per immergersi invece in
una temporalità “incoativa” e personale strutturata secondo ritmi interiori
prodotti dall’emozione del ricordo e del suo contenuto.
“Un tempo che meglio e più proficuamente si apre al registro notturno,
latente, simbolico, della formazione, al di là di quelle descrizioni diurne, chiare,
47
esplicite spesso caratteristiche dei contesti etero-formativi, oggettivanti e/o
fortemente vincolati”22.
Dominati da frenetici schemi lineari che prevedono pause standardizzate e non
permettono all’individuo di seguire i propri ritmi circadiani, la formazione
permanente, ponendosi al di fuori di un tempo cronografico definito), diventa
un’ importante occasione per la conquista di un tempo proprio…del vivere.
Conquistare il presente, rieducandoci all’attenzione e all’ascolto, avvalersi di
un tempo notturno sensibile alle nostre metafore interiori e scoprire il tempo
biografico che pone in relazione passato, presente e futuro,sono percorsi
fondamentali per un processo di auto-costruzione.
Ecco perché Pineau interpreta la narrazione di sé non solo come una pratica
educativa, ma come una vera e propria arte dell’esistenza volta “alla
conversione dello sguardo .”23
Tuttavia particolare riferimento va fatto a quel movimento francofono
chiamato GRAPA (Groupe Richerce sur les Adultes et leurs Processus
d’Apprentissage) e fondato a Ginevra da Pierre Dominicé, Matthias Finger e
Christian Josso, che ha dato vita ad una metodologia formativa in grado di
tradurre in azione gli importanti principi di Pineau.
In quindici anni di attività il GRAPA ha infatti costruito un modello di intervento
educativo,
interpretabile
come
dispositivo
di
valorizzando lo strumento autobiografico, invita
“ricerca-formazione”,
che,
ad un “Percorso Storie di
vita”.
Quest’itinerario formativo si pone l’obiettivo finale di favorire la riflessione
rispetto sia ai contenuti, alla forma e ai modi che ogni individuo sceglie per
48
raccontare la propria storia di vita, sia riguardo all’ esperienza stessa di
formazione e alla sua capacità o meno di maturare nuove consapevolezze nel
soggetto intorno a sé anche mediante il confronto con gli altri.
Nel Percorso Storie di Vita è fondamentale infatti la dimensione del gruppo,
(costituito da 6 - 12 soggetti provenienti da diverse esperienze e bisogni
formativi), in quanto rappresenta uno spazio prezioso per la
condivisione e
rielaborazione dei percorsi biografici di ciascuno.
Vediamo più in dettaglio le tappe24 o fasi di questo processo:
1. SCAMBIO E DI NEGOZIAZIONE. Viene presentato il progetto nei suoi
contenuti ed obiettivi e viene chiesto ad ogni partecipante di esprimere
le proprie aspettative.
2. RACCONTO ORALE INDIVIDUALE. Date due settimane di tempo per
l’elaborazione personale della propria biografia cognitiva o storia di
formazione, ogni soggetto per ciascun incontro è invitato a raccontare
oralmente la propria storia che verrà poi discussa in gruppo dando
spazio a dubbi,domande, spiegazioni ma evitando in modo assoluto il
giudizio.
3. SCRITTURA DI UN TESTO AUTOBIOGRAFICO. Ai soggetti viene
chiesto
coerente
poi di produrre un testo scritto che liberamente può essere o
al
precedente
ampliato,trasformarlo, nonché
racconto
orale,
o
può
essere
stravolto da una forma completamente
nuova.
4. INTERPRETAZIONE E PRESENTAZIONE INCROCIATA DEI TESTI.
Nella fase conclusiva del percorso, è possibile proporre a ciascun
partecipante di leggere e studiare la storia di formazione personale di un
49
collega per poi presentarla all’intero gruppo. E’ possibile anche aprire
un successivo spazio di discussione ed interpretazione dei contenuti
emersi, purché la richiesta e la gestione dell’attività venga fatta dal
gruppo e nel gruppo.
Il laboratorio proposto dal GRAPA, anche se andrebbe sperimentato più che
descritto, pone in risalto alcuni importanti aspetti e peculiarità
del mezzo e
della metodologia autobiografica.
Prima di tutto essa invita a prendere la parola e a dare testimonianza della
propria
soggettività
mediante
uno
spazio
di
riflessione
appositamente
organizzato in cui l’individuo matura una progressiva coscienza di sé e
condivide i risultati di questo processo in un contesto di ascolto senza giudizio,
ricco di altrettante soggettività.
Tuttavia, come dice Laura Formenti25, la presa di parola non è mai assoluta e
definitiva ma costituisce sempre un tentativo, “un Balbettio” che può dar vita a
diverse trame, tra le tante possibili, sensibili di cambiamento e di rifacimenti
progressivi anche mediante l’interazione con il gruppo.
La finalità è quella di “esistere come soggetto della parola”26. Ma solo
l’Altro, in posizione d’ascolto, può riconoscere nel pensiero udito la soggettività
di chi l’ ha pronunciato.
“La ricerca delle parole che traducono con esattezza ciò che si prova rispetto al
proprio passato è un’esperienza teorica fondamentale. Essa ricompone la
distanza tra la pratica e il testo, distanza che gli adulti sentono quando
compiono uno sforzo per riprendere a leggere. Il mettere la propria storia in
forma scritta pone i partecipanti alla procedura biografica a confronto con il
50
problema della distanza tra interiorità ed esteriorità (…) li pone nel cuore di un
dibattito centrale per la formazione, che consiste nel comunicare la dimensione
sociale di un’esperienza di vita la cui verità attiene all’autenticità individuale.”27
Proprio in quella distanza, in quello scarto tra soggetto dell’enunciato e
soggetto dell’enunciazione, l’individuo avverte il desiderio e la spinta a
conoscersi e riconoscersi nello sguardo altrui attraverso la parola posta in
comunicazione con l’Altro.
La produzione di un discorso che da orale si trasforma in scritto, non è solo un
momento mediante cui i protagonisti dell’esperienza formativa possono
scoprire e dichiarare la propria soggettività, ma, allo stesso tempo, diventa
occasione di analisi e riflessione della stessa esperienza formativa.
Si costituisce allora quel circolo ideale proposto da Pineau tra ricerca e
formazione: mentre indago su me stesso esploro anche le potenzialità del
mezzo e della metodologia proposta.
La domanda cruciale infatti è: “Che uso voglio fare di quest’esperienza?”.
Con domande, ipotesi, connessioni è il gruppo stesso, e ogni suo componente,
a porre in risalto le dinamiche che investono il racconto di vita come processo
di formazione da un lato, e i fondamenti, i concetti chiave che riguardano i
processi formativi dall’altro.
Detto questo è facile allora comprendere quanto sia cambiato anche il ruolo
del conduttore: egli non è più l’esperto che interpreta e decide gli esiti di una
formazione ma acquisisce la nuova ma non meno complessa e importante
funzione di animatore e facilitatore di risorse.
Guy de Villers, appartenente al gruppo di ricerca belga chiamato FOPA
(Faculté Ouverte Pour einsegnants, èducateurs et formateurs d’Adultes),
51
sostiene che chi gestisce laboratori e percorsi legati alla produzione di storie di
vita, dovrebbe stipulare con il gruppo un contratto chiaro in cui siano ben
evidenziati gli scopi del ricercatore e promuovere un clima di fiducia in cui i
soggetti partecipanti possano liberamente esprimere le proprie motivazioni e
aspettative, nonché
2.2.1.2
negoziare i termini del lavoro autobiografico.
La Germania e “ l’Autobiografia Tematica Guidata”
Anche negli ambienti della cultura socio-pedagogica tedesca l’età adulta viene
sempre più riconosciuta nella sua dinamicità e disponibilità all’apprendimento
continuo. Peter Alheit sottolinea infatti che l’individuo, coinvolto durante tutto
l’arco della sua vita in processi di trasformazione lunghi e intricati, proprio
nell’età adulta raggiunge la massima capacità di essere organizzatore attivo
del proprio corso di vita. Egli infatti costantemente chiamato dalla propria
quotidianità a prendere decisioni e a compiere delle scelte più o meno decisive
per il proprio percorso di vita, è più che mai stimolato
a far ricorso al
potenziale creativo insito in lui.
Il corso di vita è allora il terreno privilegiato del cambiamento e “laboratorio
permanente” in cui vengono sviluppate abilità particolari e non acquisibili in un
contesto alternativo al vivere intenzionale.
Tuttavia esistono situazioni in cui le condizioni esterne sono talmente rigide da
sembrare impossibile che il singolo individuo possa esercitare un’influenza su
di esse con propri schemi d’azione intenzionale. Eppure il soggetto che ha
sviluppato una coscienza biografica anche in contesti poco sensibili al
cambiamento, riesce a percepire e a valorizzare la propria autonomia. Alheit
52
spiega questa singolare dinamica ricorrendo a due concetti fondamentali:
quello di struttura e di habitus.
L’autore tedesco sostiene infatti che l’adulto, chiamato nella quotidianità
all’attività di problem solving, non sempre è costretto ad elaborare soluzioni
nuove
ma
patrimonio
può
riproporre
esperienziale.
strategie
Anzi,
“in
sperimentate
condizioni
allocate
normali,
la
nel
proprio
decisionalità
individuale è delegata a processori esterni (l’abitudine, le tradizioni ecc.); solo
in situazioni particolari interviene la scelta, come meccanismo consapevole ed
autonomo .”28 Queste strategie, abitudini, tradizioni interiorizzate che fanno da
guida all’agire, Alheit le chiama strutture. La presenza di strutture o habitus,
(un insieme di routine, modelli interpretativi, ma anche copioni di linguaggio
corporeo scolpiti nell’individuo dalla socializzazione e anni di pratica)29, che
apparentemente sembrano ostacolare la libertà e la creatività dell’individuo nel
suo relazionarsi con il mondo, paradossalmente affermano e ribadiscono
l’autonomia dell’individuo. Esse nascono infatti dalla biografia individuale, sono
patrimonio del soggetto, e in esso crescono, si trasformano e danno forma al
suo agire.
La propria storia di vita e la riflessione maturata attorno ad essa, rappresenta
allora per l’adulto una delle più importanti risorse per dare una direzione
intenzionale al proprio agire e per promuovere “un modo diverso di
apprendere”.
Inoltre secondo Alheit, ogni biografia porta in sé un potenziale di vita non
vissuta o unlived life. Sono tante infatti le possibili strade che un individuo nel
corso della propria vita può intraprendere: egli sceglie di percorrerne solo
alcune, ciononostante quelle tante vie inesplorate pongono il loro essere in
53
potenza, nella speranza che un giorno possano tradursi in atto. Andare alla
scoperta del proprio potenziale di vita non vissuta “ apre la transizione ad una
referenzialità
qualitativamente
nuova”30:
permette
di
stabilire
nuove
connessioni all’interno delle strutture o di reinterpretare e ristrutturare l’intero
sistema biografico. Pertanto la conoscenza biografica è condizione e strumento
necessario affinché si possano realizzare apprendimenti non più cumulativi,
che vanno semplicemente ad inserire e ad aggiungere una nuova informazione
in una struttura stabile e predefinita, ma transizionali che permettono di
“riprogettare i contorni della propria vita entro i contesti specifici in cui la si
vive”31. Prendere tra le mani la propria storia di vita con sguardo consapevole
e attento alle tante trame di vita possibili in essa racchiuse, è per Alheit non
solo un’ attitudine, ma una vera e propria facoltà mentale che lui chiama
“biograficità” .
Se la biograficità emerge spontaneamente e con forza in quei momenti della
vita di un uomo ad alto tasso di trasformazione (migrazioni, cambiamenti di
status sociale, discontinuità evolutive), l’educazione e la formazione degli
adulti dovrebbero promuovere questa capacità, strettamente legata a forme
di apprendimento transizionali, affinché possa diventare per l’adulto una
risorsa abituale e non eccezionale nell’affrontare la vita.
Secondo Wilhelm Mader32, autore di chiara impostazione fenomenologia, la
ricognizione autobiografica è una necessità e un vero compito esistenziale per
l’adulto. Egli, impegnato costantemente nella costruzione della propria
identità, ha bisogno infatti di elaborare storie, trame di vita in cui riconoscersi,
riscoprirsi e con cui convivere.
54
Questa è la premessa principale che ha portato Mader a proporre un
interessante modello di lavoro, strutturato ed intenzionale, che pone l’accento
sull’ autoriflessione e la centratura tematica.
“L’autobiografia tematica guidata”, questo è il nome di tale modello di
lavoro, propone l’elaborazione scritta di una biografia educativa rispettando
vincoli tematici dati e che si sviluppa attorno ad un processo a struttura ciclica.
Ogni ciclo prevede le seguenti fasi33:
1. Presentazione
di
un
tema
di
interesse
biografico
e
orientamento
dei
partecipanti attraverso l’uso di metafore e domande.
2. Ogni partecipante è chiamato alla stesura individuale di un testo autobiografico
(tempo: 1-2 settimane).
3. Lettura collettiva dei testi a gruppi di 3-4 persone. Durante questa fase è
importante porre l’attenzione sulle emozioni, fantasie, pensieri che per
associazione la lettura del testo stimola.
E’ invece assolutamente bandito in
questo lavoro il giudizio e qualsiasi suo derivato: pareri, interpretazioni,
consigli.
4. Discussione plenaria sul tema secondo i diversi punti di vista ( cognitivo,
sociale, storico, …), richiamando anche la letteratura sul tema, approcci teorici,
considerazioni scientifiche, nonché tradizioni e metafore di uso quotidiano.
Finita questa fase il ciclo può ricominciare a partire da un nuovo tema posto in
campo.
La
scelta
di
temi
precisi,
che
per
Mader
rappresentano
gli
“organizzatori biografici” e gli “universali” comuni ad ogni vita umana, ( punti
di svolta, incontri formativi, la gestione del tempo, la relazione con il corpo,
l’apprendere, il denaro, l’alimentazione, gli orientamenti valoriali, il lavoro
55
ecc.), è un elemento fondamentale di questo metodo in quanto consente ai
soggetti di misurarsi con la dimensione della possibilità e del vincolo: l’adulto è
infatti stimolato ad elaborare una delle tante trame di senso possibili rispetto
però ad un contenuto dato, e pertanto condivisibile con il gruppo. “Lavorare su
temi prefissati è come aprire una finestra per volta sull’autobiografia: quante
più finestre si saranno aperte, tanto più la vita sarà compresa, anche se la
totalità
biografica
interezza.”34
Il
esistenziale
processo
di
non
potrà
conoscenza
mai
essere
dell’uomo
vista
rimarrà
nella
per
la
sua
sua
complessità e natura sempre incompiuto, ma proprio quest’intrinseco vincolo
alla conoscenza assoluta intriga e motiva l’uomo alla ricerca continua di sé .
Tuttavia Mader, a differenza dei suoi colleghi francofoni che osano e si
spingono molto nei meandri della psicoanalisi, ritiene che la sete di conoscenza
debba trovare nutrimento nelle oasi fertili dell’esperienza consapevole e non
oltre i confini funzionali dei meccanismi di difesa.
L’autobiografia tematica guidata è un percorso di formazione infatti che mira
alla condivisione di sensazioni, emozioni, immagini che emergono attraverso il
testo
e
che
interpretazioni
aprono
e
le
giudizi
menti
che
verso
orizzonti
stigmatizzano
nuovi,
e
a
bloccano
differenza
di
l’esistenza,
imprigionandola in una sola possibile definizione.
Per un futuro educatore professionale, a cui oggi si richiede la capacità di
stimolare e promuovere apprendimenti auto-diretti, può essere un’importante
occasione di auto-formazione sperimentare in prima persona la metodologia
autobiografica proposta da Mader.
56
2.2.1.3
La Gran Bretagna: l’autobiografia come lotta per il
significato.
Esperienze e tradizioni come quella del Mass-Observation Archive, che fondano
la propria ricerca sull’analisi di documentazioni orali e scritte, nonché lo
sviluppo di filosofie del linguaggio e dell’interpretazione che esaltano la
metafora del testo, hanno dato ampio respiro allo strumento autobiografico,
anche se ancora non esiste in campo strettamente educativo una metodologia
ispirata ad essa.
Tuttavia anche l’educazione e la formazione degli adulti riconoscono che uno
tra i principali bisogni dell’adulto in formazione è quello di raccontarsi. Il
soggetto infatti che ha fermato lo sguardo su se stesso, e scopre la
complessità del suo io e il senso di frammentazione che in esso dilaga a causa
dei molteplici ruoli e adattamenti che il vivere sociale richiede, avverte
l’urgenza attraverso la narrazione di sé di trovare un filo conduttore, una
storia propria ed unica da condividere e raccontare. Egli va alla ricerca di una
trama di significati in grado di dare una forma coerente ad un‘ identità diffusa
in molteplici e diversi contesti. Laura Formenti dice : “ La lotta per il significato
costituisce l’origine e lo sfondo delle scelte di formazione dell’adulto e delle sue
svolte biografiche .”35
Tuttavia è fondamentale per i teorici britannici dell’ EDA che questo processo
di narrazione sia orientato all’elaborazione di un testo il più possibile
“autentico”, ovvero denso di significati soggettivi, e anche in grado di porre
nuove relazioni di senso tra passato e presente.
57
2.2.1.4
L’Italia e il modello “bio-sistemico” di Duccio Demetrio
L’Italia ha visto fiorire un largo interesse attorno al mezzo autobiografico. Se
alla sociologia e alla storia orale va il merito di avere scoperto e diffuso tale
strumento, oggi soprattutto le scienze dell’educazione, come la psicologia e
l’educazione degli adulti, si dedicano con particolare attenzione allo studio
delle potenzialità trasformative della narrazione di sé.
A questo proposito è essenziale riferirsi al modello elaborato da Duccio
Demetrio, con la collaborazione del gruppo “Condizione adulta e processi
formativi” dell’ Università degli Studi di Milano.
Demetrio infatti, da sempre impegnato nell’EDA, è riuscito a far incontrare,
dialogare e coesistere
una molteplicità di sguardi (fenomenologico, clinico,
sistemico-relazionale, costruttivista, interazionista), interessati a spiegare la
complessità dell’uomo, in un nuovo modello “eco-sistemico” che vuole “portare
uno spirito di ricerca nella quotidianità dell’educazione e insieme vivificare
l’ambito della teorizzazione accademica grazie al confronto serrato con la vita,
con l’esperienza,con i vissuti individuali così come vengono narrati”
36
anche e
soprattutto attraverso l’uso dello strumento autobiografico.
Ciò che caratterizza la “micropedagogia” di Demetrio, non è solo la
concertazione tra una pluralità di approcci disciplinari, ma è proprio il
riferimento costante al concetto di
molteplicità, che struttura
e permea
l’intero sistema. Solo moltiplicando i punti di vista, i fuochi della ricerca, e gli
obiettivi educativi si può tentare infatti di cogliere la multiformità dell’uomo e
le sue continue metamorfosi.
58
Anche per il docente milanese, obiettivo primario dell’educazione degli adulti è
l’auto-formazione: uno spazio che l’adulto si concede per riconoscersi,
ricercarsi e riprogettare la propria incompiutezza e “sana” imperfezione. La
narrazione di sé non può che essere allora lo strumento privilegiato di un
percorso di conoscenza attorno al Sé , essendo spazio nello spazio, luogo
intimo, privato, di “benessere e cura”, parallelo od interno all’ autoformazione. “L’autobiografia – dice Demetrio – è il viaggio di formazione forse
più importante che ci è dato intraprendere”37.
Deve esistere infatti un momento in cui l’ adulto possa prendersi tra le mani
per “sviluppare - come disse Marcel Proust - i negativi della propria vita”38.
L’uomo, la cui identità è espressa e moltiplicata nei tanti ruoli che egli ha
interpretato e nelle diverse maschere che ha indossato più o meno a lungo,
inevitabilmente avverte il bisogno di guardarsi allo specchio per riuscire a
comporre una trama di senso tra i tasselli di un’ anima e di una vita
complessa.
Tuttavia,
sostiene
Demetrio,
in
quel
vetro
che
riflette
è
fondamentale che l’individuo non cerchi tanto la perfezione rassicurante ma
irreale
di
un’immagine
imperfezione.
Solo
dell’imperfezione,
è
che
lo
rappresenta,
lo
specchio
che
in
grado
raccontare
di
valorizzando anche tutto ciò che la
accetta
quanto
piuttosto
l’umiltà
l’uomo
e
nella
la
sua
la
sua
modestia
totalità,
perfezione rifiuta di considerare: le
incompiutezze e fragilità di un’ identità e di una vita. Tentare di rincorrere una
bella ma inconsistente immagine di sé, come fece Narciso, ci condanna alla
delusione e all’annichilimento della nostra identità, imprigionata e cristallizzata
da un dover essere irraggiungibile. Inoltre, innamorati e catturati dalla nostra
desiderabile visione, diventeremmo muti e sordi verso ogni altro essere non
59
incluso in quella perfezione. Al contrario, secondo Demetrio, accettare di
convivere con il disordine e l’imperfezione data dalla “molteplicità di Io” che
abitano in noi, apre infiniti itinerari di ricerca verso una rappresentazione
possibile ed autentica della propria identità, da condividere e porre in
comunicazione con l’Altro. Ritrovare la dimensione del Doppio e dell’essere
tanti non porta infatti alla spersonalizzazione,( patologia descritta in psichiatria
e in psicoanalisi), ma apre al dialogo e al confronto con gli altri proprio perché
i confini dell’Io si dissolvono sino ad occuparci delle storie altrui.
Il problema pertanto non è più quello rintracciare il “vero” Io, ma capire chi
siamo, quanti siamo e siamo stati.
Se infatti , come sostiene Fernando Pessoa, la nostra anima è una “misteriosa
orchestra”39, noi possiamo conoscerci solo come “sinfonia”, esplorando
l’inesauribile molteplicità data dai pieni e i vuoti della nostra esistenza. “I tanti
adulti che abbiamo saputo essere e continuiamo ad essere; i pochi che siamo
nella nostalgia dei molti, i niente, senza certezze e sicurezze, con molte paure
e sentimenti di vuoto.”
40
Accanirsi nella ricerca di un centro unico e fisso che ci descriva, non tollerando
l’idea di essere tanti e dinamici, per Demetrio significa esporre costantemente
il proprio Io alla sensazione di frammentazione e divisione, inducendolo
pertanto alla nevrosi.
Al contrario, concedersi attraverso il pensiero autobiografico “lo spazio di una
tregua” o “una stanza tutta per sé”41 entro la quale la molteplicità non viene
colpevolizzata ma valorizzata, permette all’individuo di distribuirsi tra le
differenze e le somiglianze di un passato e di un presente, tra la continuità o la
discontinuità di eventi, emozioni, modi di essere, per poi ritrovarsi e
60
ricomporsi nella coerenza di una possibile trama composta da un Io fattosi
tessitore42.
Piacevolmente abbandonato nelle stanze della memoria e dell’immaginazione,
l’adulto, spettatore di se stesso, posto a distanza dalla stesso pensiero
narrativo e autoriflessivo, ha bisogno infatti di un Io tessitore in grado di
ritrovare in quella lontananza un’ancora in movimento che possa essere un
punto d’incontro e dialogo tra le mille voci di un’esistenza.
L’Io narratore diventa alloro allo stesso tempo archeologo, mediatore e
tessitore.
Egli infatti, inebriato dal desiderio della ri-scoperta e dall’emozione di
ricordare, prima si mette a scavare nel “giardino segreto”43 della memoria in
cerca degli oggetti di un epoca; va alla ricerca dei frammenti di uno specchio
che non è mai stato unico e dove la cronologia non ha importanza; cerca di
stabilire una conversazione assidua con le “emozioni diafane”44 dei propri
ricordi, dove lo stesso atto di rievocare feconda altre nuove emozioni.
Poi, venuto a contatto con la propria pluralità e chiamandoci alla responsabilità
di accettarci, l’Io si fa mediatore: ci fa incontrare anche con i nostri Io più
odiatati e dimenticati, riconoscendo a tutti legittimità e negoziando il conflitto
tra essi esistente.
Ed infine avverte l’urgenza di farsi tessitore per costruire nuove e infinite
trame di senso tra un “arcipelago di Io”45 che sono stati, sono e saranno.
“ I nostri ricordi, che quando erano esperienze ci avevano partorito, fatto
crescere, insegnato, ammaestrato, ora diventano i nostri figli dell’anima. Simili
a noi, ma liberi da noi; dotati di un proprio movimento. L’emozione è inedita e
feconda. Ci scopriamo capaci- con i nostri ricordi- di crearne altri affini,
61
viviamo con Proust il sentimento di rivivere un passato che non era più che la
storia di un altro46. (…) Ma questi figli così nostri, forse più nostri di quelli
carnali, iniziano così a diventare trama fantastica”47.
Riassumendo, lo strumento autobiografico porta con sé almeno cinque
importanti “poteri analsegici e ricostituenti”48:
9 Il piacere nel ricordare e nel giocare con le tante immagini e voci
“calde”, ma non chiassose, che ci appartengono. Viaggiare nelle
dissolvenze della memoria regala infatti una sensazione unica in grado
di fondere armoniosamente corpo, percezione e pensiero.
Inoltre, il potere curativo della dissolvenza, attraverso la distanza che
impone tra il soggetto e l’oggetto della reminescenza, permette all’uomo
di ritrovarsi.
“Lontano da me in me esisto”
49
disse lo scrittore e poeta Fernando
Pessoa.
9 Convivenze. Ogni giorno ognuno racconta se stesso al mondo, con le
proprie azioni, con i propri gesti , espressioni e anche con i propri
racconti “evanescenti”50. “Socializzare” le scoperte e le conquiste
maturate gettando uno sguardo consapevole sulla propria vita, è un
evento necessario a cui ci richiama l’essere adulti.
9 Ricomposizioni. Demetrio sostiene che il singolo ricordo non può
essere una cura sufficiente. Al contrario è necessario “gettare una rete
tra i ricordi” e creare una trama in grado di porre in comunicazione
dinamica gli oggetti e i simboli di un’esistenza. Costruire ponti, passaggi
tra le libere associazioni della reminescenza è un processo virtuoso
62
perché ad ogni nuovo inter-spazio generato, corrisponde una nuova
possibile trama interiore che ci autoalimenta.
9 Artefici di se stessi. Prendersi per mano e concedersi uno spazio
nuovo ove scrivere la propria storia, significa porre intenzionalmente in
essere la propria auto-formazione e trasformazione. Inoltre, fisicamente
celato dietro un gioco di specchi e di ruoli, è
l’adulto stesso con il
proprio potere creativo che permette all’ autore, al narratore e al
protagonista
di
dar
forma
ad
una
storia,
che
può
cambiare,
trasformarsi, aggiornarsi o essere interamente riscritta.
9 Spersonalizzazioni. La somiglianza con un termine di lunga tradizione
psichiatrica quale quello di “depersonalizzazione”, lo rende forse un
concetto molto forte che, se non contestualizzato, potrebbe porsi in
conflitto con quanto affermato in precedenza. In realtà per Duccio
Demetrio
la spersonalizzazione è un evento, un processo che porta
l’individuo ad occuparsi non solo della propria storia ma anche di quella
altrui.
L’adulto
dopo
essere
stato
protagonista
della
propria
autobiografia, può essere disposto a fare ricerca autobiografica con
metodi più sofisticati ponendo l’attenzione su prodotti autobiografici di
altri soggetti, oppure può anche scegliere di diventare educatore
autobiografico coinvolgendo chi gli sta accanto in questa metodologia di
auto-formazione.
“La scrittura autobiografica mira all’impalcatura, all’intreccio di cose e ai
motori di esse, per consentirci una riflessione, spietata, adulta, severa su quel
63
che abbiamo visto, attraversando con la nostra vita quella degli altri, i luoghi,
le distese felici ed infelici .”51
Ecco allora perché il modello proposto da Duccio Demetrio è stato definito
“bio-sistemico”: esso si collega alla vita e alle sue varie forme e permette di
strutturare una ricerca attratta dalla complessità dell’esistenza e dei suoi
protagonisti.
2.2.2
La svolta “narrativista”.
La mappa di orizzonti concettuali ed epistemologici che si è cercato di
descrivere voleva essere un’ occasione per potersi orientare all’interno della
metodologia autobiografica intesa come dispositivo formativo.
Tuttavia a questo punto, non ritengo necessario, come fa Laura Formenti,
compiere una scelta adottando il metodo di una particolare scuola. Far
coesistere e accostare spazialmente ognuno di questi approcci penso sia un
modo infatti per cogliere con un unico sguardo l’insieme di potenzialità che
l’autobiografia porta con sé.
Spetterà poi ad ogni adulto, nonché educatore, di intraprendere quel percorso
che più ritiene idoneo e valido per sé e per i suoi obiettivi.
Ciononostante,
prima
di
concludere
quest’
area
tematica
rivolta
all’autobiografia come strumento di formazione, voglio concedere particolare
spazio al contributo teorico-epistemologico costruttivista che, in particolare,
aiuta a capire i processi attraverso i quali la scrittura di sé diventa occasione
di conoscenza, formazione e trasformazione.
64
Anche se il costruttivismo comprende un’ insieme di approcci e teorie tra loro
differenti che offrono spunti a diversi campi del sapere, lo sguardo si rivolge a
quel comune denominatore che rende importante il discorso autobiografico.
Il costruttivismo, definito “modo di pensare la conoscenza e l’attività del
conoscere”, è orientato in particolar modo a comprendere i processi costitutivi
e generativi della conoscenza. Secondo tale orientamento, l’uomo, così come
ogni essere vivente, conosce e costruisce la rappresentazione di sé e del
mondo, attraverso l’azione e l’interazione con il medium, cioè con l’ambiente e
l’intero sistema.
Tuttavia, se la conoscenza procede sempre dall’azione, essa viene descritta ed
espressa solo mediante il “languaging”: medium linguistico che attraverso il
proprio atto, coordina le azioni.52 E’ il languaging “che rende possibile, anzi
inevitabile la produzione di una biografia, cioè di una lettura possibile del
processo ontogenetico, quindi del percorso di costruzione delle conoscenze”53 e
delle sue trasformazioni inarrestabili.
Se conoscere significa entrare in rapporto con, allora si può dedurre che la
conoscenza concettualmente non potrà mai essere assoluta, oggettiva, né
stabile. Infatti nel momento in cui il “soggetto” entra in relazione con l’
“oggetto” della conoscenza, l’interazione reciproca che si forma tra i due allo
stesso tempo li trasforma, rendendo così instabile o meglio, in equilibrio
dinamico l’operazione cognitiva del conoscere e il prodotto della conoscenza.
Tuttavia proprio questa instabilità, invece che demotivare l’uomo alla
conoscenza, lo stimola ad interagire con il mondo per conquistare adattamenti
nuovi e apprendimenti ricchi di multiversi: “tanti domini di verità quanti sono
i domini dell’esistenza che questi realizza nelle proprie distinzioni”54.
65
Dice infatti Munari: “non possiamo non pensare, non possiamo fare a meno di
costruire delle teorie sul mondo che ci circonda, e non possiamo non avere un
certo
tipo
di
rapporto
con
le
nostre
teorie”55
che
sappiamo
essere
“consensuali” e non oggettive.
Secondo il punto di vista costruttivista, che accoglie il pensiero di Bateson, ciò
che permette all’uomo di costruire il proprio sapere è appunto il “pensare per
storie” e il “creare contesti”, ovvero assumere un atteggiamento ermeneutico
in
grado
di
mettere
in
connessione
e
far
conversare
gli
elementi
dell’esperienza.
“La conoscenza è conversazionale, in quanto il languaging spiega (cioè genera)
i fenomeni tipicamente umani del significato, dell’osservare, della ricorsività
autocoscienze, dell’etica, dell’educazione stessa. Le sequenze ricorsive di
azione combinata e coordinata che si realizzano tramite la conversazione
danno forma alla realtà (la in-formano, tras-formano, de-formano)”56.
Il linguaggio, in quanto coordina processi cognitivi, emotivi e relazionali,
diventa medium di cambiamento, di trasformazione e di ri-orientamento
all’azione perché crea domini consensuali e aumenta così la possibilità di
“agire insieme”57.
L’autobiografia perciò, più che essere storia di un percorso interiore, può
diventare “la storia linguaggiata”58 dei cambiamenti, delle evoluzioni o
involuzioni, testimonianza della reciproca interazione tra soggetto e mondo,
vale a dire: “storia di interazioni”59.
Attraverso la narrazione, la ri-descrizione di sé, che invitano il soggetto a
prendere le distanze e a decentrarsi dal punto di vista dominante ed abituale,
66
ancora una volta si “gettano” altre reti tra sé e il mondo, si “mettono in rete”
elementi e significati inediti.
La narrazione possiede infatti alcune caratteristiche fondamentali60:
9
è per sua natura MOLTEPLICE: da forme ad infiniti intrecci e trame
di eventi che utilizzano diversi linguaggi e che si aprono a molteplici
livelli di lettura. Dal punto di vista ermeneutico, un racconto è anche un
insieme virtualmente infinito di interpretazioni61.
9 È CONTESTUALE: crea connessioni, pertinenze, nessi all’interno più
contesti sovrapposti: quello del narratore e del protagonista, quello
interno ed esterno al racconto, le condizioni della storia e della sua
condivisione…
9 E’ ESPERIENZIALE: genera risonanze, crea emozioni, immagini,
fantasie in chi la scrive, la legge, l’ascolta.
9 E’ TEMPORALE. La scrittura trasforma, dilata, ristruttura la dimensione
temporale per porla in armonia con l’uomo, con il tempo dell’esperienza
e i ritmi del corpo, nello stesso momento in cui tenta di mettere in una
relazione di senso passato, presente e futuro.
9 E’ per definizione INCOMPLETA ED INCOMPIUTA: essa non è altro
che uno dei tanti racconti possibili. Non è una fotocopia della vita ma
una sua interpretazione autentica in quanto coerente alla sua struttura,
ma non assoluta.
Inter-Azione, languaging e narrazione sono allora i principali motori per la
conoscenza, l’apprendimento e la propria auto-tras-formazione.
67
L’autobiografia, come dispositivo educativo, è in grado di accogliere e far
coesistere in un unico spazio tutte queste dimensioni.
Note
1. F.Ferrarotti, Storia e storie di vita, Laterza, Bari, 1981
2. Ibid., p.45
3. D. Sheridan, “Writing to the Archive: Mass Observation as Autobiography”,
Sociology, vol.27, n.1, febbraio 1993, p.28
4. F.Ferrarotti, Storia e storie di vita,cit.,p.44
5. Ibid.,p.45
6. Laura Formenti, La formazione autobiografica,Guerini studio,1998,Milano
7. Ibid., p.14
8. Ibid., p.15
9. M.Freeman, Rewriting the self: history, memory, narrative, Routledge, LondonNew York 1993, p.19
10. M. Knowles, La formazione di adulti come autobiografia, Raffaello Cortina,
Milano, 1996; Quando l’adulto impara. Pedagogia e Andragogia, Franco Angeli,
Milano, 1993
11. H. von Foerster, Cybernetics of cybernetics, BCL, University of Illinois, Urbana
1974
12. L.Formenti, opera citata,p.22
13. Ibid., p.15
14. Ibid., p.25
15. Ibid., p.16
16. M.C. Bateson, Comporre una vita, Feltrinelli, Milano, 1989
17. Termine coniato da Foucault e ripreso in ambito pedagogico da Roberto Massa.
R.Massa, Le tecniche e i corpi. Verso una scienza dell’educazione, Unicopli,
Milano,1986; Educare o istruire?La fine della pedagogia nella cultura
contemporanea, Unicopli, Milano, 1987.
18. Laura Formenti, opera citata, p.33
19. Termine coniato dal biologo Humberto Maturana per definire il processo di
autoproduzione di un sistema strutturalmente determinato (vivente) Cfr. H.
Maturana, F. Varala, Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia 1985
20. L.Formenti, opera citata, p.45
21. Ibid., p.44
22. Ibid., p.46
23. P.Bordieu, La misère du monde, Seuil, Paris,1993, p.950
24. C.Josso, L’historie de vie dans un dispositif de recherce-formation :una
méditation pour la connaissance de la subjectivité.
25. L.Formenti, Opera cit.,p.51
26. G.DeVillers, L’histoire de vie comme méthode clinique, p.149
27. P.Dominicé, l’histoire de vie comme processus de formation, p.78
28. Laura Formenti, opera citata, p.59
29. Ibidem, p.60
68
30. Ibidem, p.61
31. Ibidem, p.62
32. W.Mader, Thematically guided autobiographical reconstruction. One theory and
method of “Guided Autobiography” in adult education, in Alheit
33. Laura Formenti, opera citata, p.64
34. Ibidem, p.65
35. Ibidem, p.70
36. Ibidem, p.77
37. D.Demetrio, Raccontarsi, l’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina
Editore, 1995, p.145
38. M.Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato, Mondadori,
Milano,1993
39. F.C.Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli, Milano, 1986, p.38
40. D.Demetrio, opera citata, p.38
41. Titolo del libro di Virginia Woolf.
42. Termine coniato da Duccio Demetrio
43. Termine usato da Duccio Demetrio nella serata con tema:“Lo specchio
imperfetto. Come ritrovare se stessi nella molteplicità dei ruoli sociali”, tenutosi
a Brescia il 24 Marzo 1998.
44. D.Demetrio, opera citata, p.74
45. D.Demetrio, opera citata, p.73
46. M. Proust, Il tempo ritrovato, cit., p.141
47. D. Demetrio, opera citata, cit.,p.85
48. D.Demetrio, opera citata, p.46
49. F. Pessoa, opera citata
50. D.Demetrio, opera citata, p.48
51. D.Demetrio, opera citata, p.154
52. L.Formenti, opera citata, p.122 , nota n.13
53. Ibidem, p.93
54. H.Maturana,Autocoscienza e realtà, Raffaello Cortina, Milano 1993, p.23
55. A.Munari, Il sapere ritrovato. Conoscenza, apprendimento, formazione, Guerini
e Associati, Milano, 1993.
56. L.Formenti, opera citata, p.100
57. Ibidem, p.101
58. Ibidem, cit. p.104
59. Ibidem, cit. p.104
60. Ibidem, p.109
61. Concetto elaborato da Lyons in W.Lyons, La scomparsa dell’introspezione, Il
Mulino, Bologna, 1993
62. L.Formenti, opera citata, p.118
69
3.0 VIVERE LA MORTE:
L’AUTOBIOGRAFIA DI “ROBERTA”
La testimonianza di un possibile incontro
tra narrazione di sé e accompagnamento alla morte
Nei capitoli precedenti unica protagonista dell’indagine è stata l’autobiografia.
In un primo tempo ho cercato di mettere in evidenza le caratteristiche
principali che la identificano come genere e, allo stesso tempo, siamo andati
alla ricerca di quelle particolarità che la rendono un modello instabile e
multiforme. Poi, interpretando come ricchezza il suo polimorfismo, abbiamo
ricostruito le tappe di evoluzione e i luoghi natii di un pensiero che investe
l’autobiografia di un preciso e importante ruolo: essere un dispositivo
educativo, uno spazio “di benessere e cura” in cui l’adulto può ritrovarsi,
autoformarsi e trasformarsi.
Ora invece vorrei soffermare lo sguardo su un altro orizzonte semantico:
la morte, il morire e l’accompagnamento alla morte.
Tuttavia, per il momento, vorrei tenere oscuri i motivi per i quali è stato fatto
questo cambio di direzione improvviso e incongruo, nella speranza che il
percorso che intraprenderemo generi spontaneamente e a poco a poco quella
continuità di senso che ora sembra mancare.
70
3.1
LA MORTE E IL MORIRE OGGI.
Definire cos’è la morte è forse il compito più arduo che ci si possa immaginare.
Come sostiene Virgilio Melchiore1, tutta la storia del pensiero occidentale è
come se fosse in qualche modo bloccata dalla antica obiezione di Epicuro:
“Non è possibile interrogarci sulla morte, nè sapere nulla su di essa, perchè
fino a quando ci siamo essa non c’è, e quando ci sarà la morte noi non ci
saremo più”2.
La morte infatti, proprio perché sembra generare un punto al di fuori della
vita, appare terribilmente sconosciuta all’Io vivente, così come è il nulla per la
ragione. Come è infatti possibile che la coscienza possa comprendere e far
esperienza della morte quando la morte non è altro che la caduta e il silenzio
della coscienza stessa, oltre che lo spegnersi del movimento della vita?
“La morte è l’assenza di ogni esperienza”3. Essa permane nella distanza
dall’esperienza. Nessun segno la afferra, nessun segno vi allude, proprio
perchè ogni segno rimanda. “ La morte è la possibilità più propria delle nostre
impossibilità” (Heidegger).
Eppure l’uomo ha bisogno di affidarle un senso che gli permetta di gestire quel
sentimento di impotenza che essa gli rimanda.
Uno dei più spontanei tentativi è allora quello di contrapporre la morte alla
vita, di cui come essere viventi possiamo fare esperienza, per dedurre almeno
ciò che la morte non è: non vita.
L’uomo con la sola propria ragione sembra non poter arrivare oltre.
71
3.1.1
Segni e sintomi di una “cultura dell’immortalità
immanente”: la ‘ happy society ’.
L’essere umano, invece che accogliere l’amara e devastante consapevolezza di
non poter conoscere cosa la morte sia, la ignora, la aggira, la nega cercando di
prolungare col pensiero la vita oltre la morte, oppure allontanando tale evento
dalla vita stessa, con la speranza di poter realizzare e raggiungere l’immagine
della propria immortalità.
La psicoanalisi ritiene che ognuno di noi nel suo inconscio sia convinto di non
essere mortale. “La propria morte è irrappresentabile – dice Freud- e ogni
volta che cerchiamo di farlo possiamo constatare che in realtà continuiamo ad
essere ancora presenti come spettatori”4.
La civiltà contemporanea porta con sé evidenti segni che suggeriscono
l’indisponibilità dell’uomo ad incontrare l’evento morte: “è il discorso, ai nostri
giorni, in enfasi crescente, su tutto ciò che sposta l’ago della bilancia verso il
prolungamento indefinito della vita, della vittoria sul tempo”5. Non solo infatti,
sottolinea Leonardo Ancona, continuano ad esistere venditori di elisir di lunga
vita, ma oggi, la stessa scienza medica è schierata in prima linea nel compito
di aggiungere anni alla vita. Nello stesso tempo in cui si fa protagonosta di
un’incessante guerra contro la malattia e il decesso, con orgoglio partorisce
costantemente
nuovi
metodi
per
appagare
il
desiderio
di
immortalità
dell’uomo: prodotti farmaceutici salva-giovinezza (dal Metchnikoff, Voronoff,
Gerovital fino al tanto acclamato Viagra), o salva-vita (cura di Bella);
programmi salutistici volti alla cura e al culto del corpo; campagne di
fertilizzazione artificale con affitti e scambi di utero; trapianti di organi fra
72
animali ed uomo; nonché tutti i processi di manipolazione diretta dei
meccanismi della morte e della vita come l’ibernazione, l’ingegneria genetica e
la clonazione. “Il tutto - sostiene Ancona - secondo una quasi universale
modalità consumistica, interamente interessata alla quantità, più che alla
qualità della vita.”
6
In realtà non sembra toccare affatto che l’aumentare indotto
della durata
della vita possa portare anche a “drammatici problemi di sovrappopolazione, di
ineliminabile noia, di lotta per la sopravvivenza e per il diritto lavorativo”7,
nonchè a comunità in cui il tasso di anzianità cresce ed esplode con tutti i suoi
bisogni fino ad oggi elusi: avere una pensione sufficiente per vivere, non
essere esclusi dalla vita di relazione, essere riconosciuti degni di partecipare al
mondo anche con la propria “lentezza” e nel progressivo, fisico “appassire”.
L’homo faber, troppo spaventato al solo pensiero del “non essere”, è talmente
occupato a sconfiggere con ogni mezzo questa eventualità, che lo porta a
manipolare ed alterare la stessa sua vita, da non prestare alcuna attenzione
agli effetti indesiderati conseguenti a tale presuntuosa operazione.
Appartenenti alla stesso orizzonte della “immortalità immanente”8 sono anche
tutti quegli atteggiamenti esistenziali che proclamano il proprio diritto alla vita
attraverso la morte di coloro che si ritiene essere “diversi”: quelli “che non ci
stanno”, quelli che non hanno gli stessi nostri principi, le stesse credenze
religiose, nonchè lo stesso colore di pelle. Secondo una follia collettiva infatti,
solo la morte di queste persone, rese “scomode”, perchè deprivate di valore,
può perpetuare la sopravvivenza serena del proprio gruppo di appartenenza. I
vecchi e i nuovi lager, le guerre di religione e di etnia, così come gli scontri tra
73
clan mafiosi, bande di quartiere, tifosi di squadre di calcio (…) sono solo alcuni
esempi tipici di una forma di pensiero così strutturata:
“Se la morte tocca all’altro non riguarda me e, se la dò all’altro collettivizzato,
lo faccio col negare ad un gruppo il diritto alla vita, a favore di un - aberrante
ed inesistente - diritto del mio gruppo alla stessa.”9
Inoltre, se prolunghiamo il nostro sguardo consapevole sulla nostra civiltà,
possiamo constatare che anche i tanti e contemporanei discorsi sull’eutanasia
paradossalmente possono richiamare il desiderio di immortalità dell’uomo. Pur
non volendo entrare nel cuore di una complesso dibattito intriso di questioni
etiche e morali, si può comunque ammettere che anche là dove si proclamano
i diritti verso una morte più umana, non devastata dalla sofferenza, o appesa
al funzionamento di una macchina, vi possa essere un’inconscio desiderio di
controllare la morte, reso possibile grazie al nostro essere vivi,
nonché la
sottile e mascherata condanna della malattia grave come parte negativa della
vita, come non più vita.
Tillard dice:“Tutto il gran parlare che si fa intorno ad essa <l’eutanasia> non
viene forse ad eludere il problema di una morte più umana…finendo per
collocare il tutto nell’orizzonte della happy society ?”10
3.1.2
La solitudine del morente.
Se la società contemporanea rinuncia alla consapevolezza della morte perché
ne teme il contagio emotivo, non solo può rendere sempre più sfumato il rito
funebre che celebra la sua effettiva presenza, ma può relegare e nascondere la
sua venuta entro le mura di un istituto ospedaliero, dove, invece che essere
74
vissuta dal soggetto come esperienza, seppur destabilizzante,
intima e
privata, viene al contrario resa asettica, medicalizzata.
Oggi l’uomo sembra non aver più diritto a morire nel proprio letto, circondato
dalle cure dei parenti e dal calore di un ambiente famigliare denso di storia, la
sua, perché il desiderio di immortalità della cultura contemporanea ha cercato
di dar esilio al morire, soffocandolo paradossalmente all’interno di un’
istituzione sanitaria progettata per guarire un male, piuttosto che per offrire
un benessere globale al malato, nonché una migliore qualità di vita (che non si
esprime solo nel alleviare il dolore fisico!).
Nelle strutture ospedaliere, la malattia si impone sulla persona e diventa
l’esclusivo oggetto d’investimento dell’agire terapeutico.
“Il funzionale si sostituisce all’umano e, il morente senza diritto, viene
condannato alla solitudine” (Luis Vincent Thomas)11.
Fino a quando infatti l’ équipe medica, a cui è stato insegnato di essere
rigorosamente impermeabili rispetto alle proprie emozioni, ritiene che ci possa
essere ancora una speranza di vita, allora tutto l’agire professionale punta i
riflettori sulla malattia e si accanisce contro di essa con ogni mezzo possibile.
Tuttavia, tutte quelle azioni volte al rispetto e al sostegno della dimensione
umana,
affettiva,
sensoriale,
cognitiva,
comportamentale
del
soggetto,
vengono considerate in modo marginali e talvolta, vissute come un
vero
impiccio all’attivismo terapeutico: ecco spiegato il motivo per cui le visite
esterne e di sostegno al paziente grave devono essere assolutamente ridotte e
brevi.
75
Emblematica la reazione medico-ospedaliera di fronte ai primi tentativi della
Kubler-Ross di porre a confronto il mondo sanitario con i concetti di morte e di
accompagnamento alla morte.
La Kubler-Ross è stata infatti la promotrice delle prime e più estese indagini
sul morire rivolte principalmente ai malati terminali di cancro: “l’affezione che
costutuisce oggi la seconda causa di morte nel mondo occidentale e la cui
diagnosi suona ancora quasi per tutti come annuncio di morte, e che per la
sua drammaticità, - assieme all’Aids - ha comunque preso nell’immaginario
collettivo il posto che nel passato era stato occupato dalla pestilenza, dal
colera, dalla T.B.C.”12 .
Ma tra i tanti ed interessanti risultati prodotti da queste ricerche, riprese e
approfondite in anni più recenti da Leszcz e Goodwin, ciò che in questo
momento vale più la pena sottolineare è la prima difficoltà che l’autrice ha
incontrato durante il suo lavoro all’Ospedale Billings di Chicago: la resistenza
ostile dei suoi colleghi medici. Infatti alla sua richiesta di poter intervistare con
l’aiuto di uno specchio unidirezionale i malati di cancro in fase terminale, i
primari dell’Ospedale asserirono che “non c’erano malati vicini alla morte”. In
altre parole, essi dimostrarono non solo di avere una forte difficoltà ad
accogliere lo scacco terapeutico di una morte prossima, ma la completa e reale
chiusura nei confronti di interventi, approcci diversi da quelli ordinari che, a
loro parere, avrebbero tolto a questi ultimi tempo prezioso.
“ Il messaggio era stato inequivocabile: i medici, soprattutto quelli investiti da
maggiori responsabilità o impegnati con i malati più gravi, non intendevano
trattare l’argomento morte; e lo facevano con un processo di grossolana
76
negazione, tanto più sconcertante quanto più essi vedevano morire i propri
pazienti (…)”13
Proprio perchè anche la scienza medica non sempre riesce a sconfiggere o a
ritardare la morte, quando essa inevitabilmente sta per arrivare, ci si trova
innanzi a due grandi solitudini: quella del morente emarginato e
privato
della possibilità di riconoscere ed elaborare la propria morte, (magari
sostenuto dalla presenza di un famigliare o di un operatore), e quella dell’
équipe medica che si trova umanamente impreparata a concepire la morte, e
profondamente frustrata dal non essere riusciti a combatterla.
Anzi, proprio nel momento in cui i medici amaramente realizzano che non c’è
più nulla da fare e sono costretti ad arrendersi, il paziente sembra diventare
improvvisamente scomodo: il suo letto potrebbe infatti servire a sconfiggere
un’ altra battaglia contro la morte e a riscattare quella appena persa.
Si passa così dal rifiuto della possibilità del decesso al considerare il paziente
come già morto!
Dice lo stesso Thomas: “ Si rifiuta al morire la propria durata e quindi il
proprio
contenuto,
prima
negandolo
e
poi
riducendolo
ad
un
fatto
istantaneo.”14
Tuttavia gli effetti di una costante negazione della morte non si ripercuotono
solo sull’agire degli operatori sanitari ma coinvolgono anche tutti quelle
persone che in modi diversi assistono e partecipano all’esperienza della morte
prossima di un loro caro, amico, conoscente.
Impreparati ad accoglierla, disorientati e resi fragili da contrastanti moti
interiori che la prossimità del lutto genera, rischiano inconsapevolmente di
togliere dignità al soggetto e alla sua ultima, ma non meno importante, fase di
77
vita con atteggiamenti volti ad un ottimismo irreale ed illusorio e con il
cosiddetto “ complotto del silenzio ”.
“ La paura della morte, infatti, può portare familiari ed operatori ad
allontanarsi dal malato proprio nel momento in cui egli ha più bisogno di
sentirsi in un contesto di relazione che gli dia protezione e lo aiuti a trovare
significato in ciò che vive”16
L’uomo allora non solo ruba a se stesso la consapevolezza della morte ma
sottrae a sè e agli altri la propria morte, il diritto di vivere intenzionalmente
la propria morte.
Proprio quando la società pensa di poter risolvere la questione della morte
affidandola alla scienza medica, essa si dimostra non in grado di darle una
risposta definitiva.
Eppure sarebbe tutto più semplice se un medico riuscisse a dirottare il proprio
intervento dal polo del “guarire” ( ideale narcisistico) a quello del “prendersi
cura” (investimento dell’oggetto).
Nessuno più di un morente infatti, ha bisogno di essere preso in cura. Ciò si
realizza non solo con la possibilità di accedere ad una terapia e a prestazioni
infermieristiche, ma soprattutto nel creare e mantenere con il malato una
“relazione” che lo renda protagonista. Proprio attraverso la relazione e la
condivisione dei propri vissuti e delle proprie emozioni, l’individuo in fase
terminale può riappropriarsi del proprio morire e può affermarsi come colui
che può vivere pienamente la propria morte.
“ Poter vivere la propria morte- affermano Paula Pira e Lucia Venturini - può
anche voler dire scegliere il significato che si vuol dare alla propria vita.
78
Riappropriarsi della morte può significare riappropriarsi della vita, ristabilendo
un’unità tra nascere e morire”15.
3.1.3
Se questo è un uomo: verso un dignitoso
accompagnamento alla morte.
Da questo momento in poi mi saranno di grande aiuto tutte quelle riflessioni
che permettono di orientarci nella dimensione di un accompagnamento
rispettoso e dignitoso del malato terminale, ma nate dall’esperienza diretta
che l’Associazione di Volontari Domiciliari Assistenza Relazionale
Malati Gravi
“Maria Bianchi”17 di Suzzara (Mn) ha svolto nei suoi
quattordici anni di attività.
Parallelamente ad un impegno costante rivolto al sostegno domiciliare ed
ospedaliero ai malati terminali, nonché di supporto psicologico ai famigliari
nella fase di elaborazione del lutto, l’Associazione Maria Bianchi, anche in
collaborazione con diversi enti territoriali, ha creato diversi spazi di riflessione
e formazione sull’accompagnamento alla morte aperti non solo ai i propri e
futuri volontari, ma anche alla comunità locale. La dispensa “ Accanto a chi
soffre. Dolore, emozioni, aiuto psicologico” , a cui in particolare mi riferirò, è
testimonianza di queste occasioni di elaborazione del loro essere “accanto a
chi soffre”, da cui anche l’operatore sociale, l’educatore professionale possono
trarre preziosi e significativi stimoli. Non si tratta infatti di confondere l’identità
professionale dell’educatore con quella caratteristica del volontario, ma di far
tesoro di un progetto importante e strutturato di un volontariato, che ancora
una volta, per primo, ha saputo cogliere il bisogno e l’urgenza di restituire un
79
diritto al malato: vivere la propria morte accompagnato dal calore di una
relazione autentica.
Volontari, educatori professionali, operatori sanitari, famigliari, anche nel
rispetto dei propri specifici ruoli, dovrebbero infatti orientare il proprio operare
verso l’orizzonte comune del “prendersi cura”: l’unico in grado di porre al
centro l’uomo, prima ancora della malattia.
3.1.3.1
Il malato in fase terminale.
“Il malato terminale vive una condizione esistenziale tipica, caratterizzata da
una rottura della continuità del progetto di vita e da una modificazione del
vissuto soggettivo di questo progetto, nonché dell’identità psicofisica ad esso
legata.”18
Posto in un delicato, doloroso spazio di transizione tra un essere presente ed
un futuro non essere, creato dalla presenza della malattia terminale, il
soggetto si scontra improvvisamente con progressive e diversificate perdite19:
¾
DELL’INDIPENDENZA E DELL’AUTONOMIA, (segni più evidente del proprio
essere adulto, il cui progressivo esaurirsi proietta l’individuo nella dimensione
della propria decadenza).
¾
DEI
RUOLI
SOCIALI
.
L’individuo
colpito
da
una
malattia
cronico-
degenerativa a poco a poco è costretto ad abbandonare la propria professione
lavorativa, ad allontanarsi da una vita sociale e di relazione strutturata e
coltivata nel tempo, nonché dagli oggetti e dagli ambienti più famigliari. Egli è
sempre più esposto al senso di inutilità che rende fragile la sua stessa identità.
80
¾
DELLA PROPRIA CONSUETA IMMAGINE ESTERIORE. Il corpo, provato
dalla malattia e dalla virulenza delle terapie, va incontro a repentini
cambiamenti: la perdita dei capelli, il loro imbiancamento, l’invecchiamento
precoce di tutto il corpo. Questo porta il soggetto lontano anche dal più
consueto mondo dell’apparire: del piacere e del piacersi.
¾
DEL GUSTO E DELL’APPETTITO. Si sfumano sempre più i piaceri e le funzioni
dell’ oralità: il primo veicolo di conoscenza che l’essere umano
ha con il
mondo.
¾
DEL CONTROLLO DEL PROPRIO CORPO che richiama il concetto di
dipendenza e progressiva decadenza.
¾
SENSORIALI che rendono difficile la comunicazione.
¾
DELLA COESIONE DEL LINGUAGGIO
¾
DELLA MEMORIA. Perdere la memoria è perdere come parte di se stessi. La
confusione mentale ad essa associata porta l’individuo in un punto di “non
contatto” tra sé e il mondo.
¾
ALTRE PERDITE che dipendono dalla qualità dell’interazione con l’ambiente e
dal modo con cui queste progressive perdite vengono elaborate dal morente.
Infatti, il malato terminale, coinvolto nella propria crisi esistenziale può anche
perdere la voglia di vivere!
Amanda Castello, formatrice, dice: “La persona ha perso o sta perdendo tutto
(…) aiutarla a compiere il lutto delle sue perdite è parte integrante
dell’accompagnamento alla morte.”
20
81
Allo stesso tempo però, e parallelamente, il malato terminale deve anche
affrontare, elaborare, metabolizzare la più intima e dolorosa perdita: la propria
vita. L’ angoscia di una morte imminente che improvvisamente recide sogni,
desideri, speranze, tra le quali quella di essere immortale, sopraggiunge, si
insinua, lo contagia.
Ecco allora che durante questo processo, a seconda dello stadio della malattia
in cui si trova, il malato terminale può manifestare diversi e contrapposti
atteggiamenti, espressione di un particolare modo di entrare in rapporto con la
consapevolezza della propria morte.
Elizabeth Kubler Ross21 ha posto in risalto cinque tipiche modalità di reazione:
‰
LA NEGAZIONE: un meccanismo di difesa che rifiuta di accettare la propria
morte. Lo stesso meccanismo che può portare il paziente, in un momento
successivo, ad una sorta di sdoppiamento: egli isolandosi dal suo male, potrà
discutere della sua malattia come se non gli appartenesse. Oppure talvolta il
soggetto potrà far propri atteggiamenti “maniacali”
resi manifesti da
espressioni come: “Non mi sono mai sentito così in forma!”
‰
LA COLLERA: il soggetto è furioso contro un destino ingiusto che la chiamato
a morire. Egli si chiede insistentemente con risentimento, rabbia, invidia:
“Perché proprio a me?”. Questo sentimento forte può allora portare alla
proiezione su gli altri della causa della malattia. Così la caposala diventa
irresponsabile, il medico incompetente, i famigliari egoisti, Dio cattivo!
‰
IL PATTEGGIAMENTO: la ricerca di un compromesso, di una richiesta di
prolungare la propria vita da scambiare con una buona condotta o con una
promessa fatta, nella maggior parte delle volte, con Dio. Il malato spesso spera
e vuole poter morire quando si sentirà pronto e avrà risolto alcune faccende
private.
82
‰
LA DEPRESSIONE. In realtà sono due differenti forme di depressione a cui il
malato va incontro: la prima riguarda le molteplici e attuali perdite che la
malattia terminale comporta, la seconda
è una depressione più profonda,
vitale legata agli echi di una perdita ancor più sostanziale: il doversi separare
dal mondo.
‰
L’ACCETTAZIONE: il soggetto giunge ad accettare serenamente la propria
morte. Egli sarà pervaso da un “vuoto di sentimenti, un riposo finale prima del
lungo viaggio”22
Anche se queste fasi non si succedono così meccanicamente come la KublerRoss le ha presentate, ma possono tra di loro interconnettersi e rincorrersi
secondo un disegno non prestabilito che rispecchia la complessità dell’uomo e
dell’interazione dinamica in esso presente tra forze contrapposte, la loro
descrizione permette di comprendere quanto sia importante per l’operatore, il
famigliare, e più in generale per il caregiver, saper riconoscere queste fasi in
modo da poter cogliere le reali richieste della persona e offrire un sostegno il
più adeguato possibile.
3.1.3.2
“Prendersi cura”.
“ Una delle
caratteristiche del rapporto tra il volontario e il morente è quella di
concentrare l’attenzione sulla persona, un essere umano, alveare di emozioni,
soprattutto per quel che riguarda l’ansia, la lotta per il controllo della vita che rimane,
il terrore. (…) il volontario, come interlocutore attivo, viene a porsi come “cassa di
risonanza”,
specchio,
rispondendo
direttamente
al
contenuto
emotivo,
ossia
verbalizzando le emozioni del malato.
Nella comunicazione con il malato morente è indispensabile lasciare che sia lui a
tenere il ritmo, essere attenti a non confondere i nostri bisogni, desideri e valori con i
suoi, e saper decodificare la sua comunicazione simbolica e non verbale.”23
83
In queste poche righe, già possiamo ritrovare i concetti chiave più importanti e
determinanti alla base di una buona relazione d’accompagnamento:
9 dirigere l’attenzione sulla persona
9 porsi in Ascolto attivo in modo da essere “cassa di risonanza” in grado
di rispettare e restituire le emozioni del malato.
9 rispettare il ritmo del soggetto
9 consapevolezza rispetto alle nostre emozioni e bisogni per non rischiare
di confonderli con quelli del malato.
9 Capacità di leggere e decodificare i messaggi anche simbolici e non
verbali
In particolare però, la prima e fondamentale capacità del caregiver, dalla quale
dipendono e derivano tutti gli altri atteggiamenti, è la capacità d’ascolto:
entrare in silenzio in comunicazione empatica con l’altro. Pur essendo
consapevoli di sé, delle proprie emozioni, delle proprie paure o fantasmi che la
prossimità della morte evoca, e proprio in virtù di questa consapevolezza,
l’operatore deve avvicinarsi all’altro e
permettere che il mondo del malato
fluisca in lui, per comprenderlo, arricchirlo con rispetto e restituirlo.
“L’ascolto attivo può essere considerato una forma più sofisticata di empatia,
ossia la capacità di percepire con precisione sentimenti e vissuti sperimentati
dall’altro, la capacità di entrare nella realtà dell’altro senza perdere se
stessi”24.
E’ la capacità di ascolto attivo che porta l’operatore, il volontario, il famigliare
a capire cosa in quel momento è giusto fare o non fare, dire o non dire.
84
Quando infatti il malato allontana da sè la gravità della sua malattia attraverso
il meccanismo di difesa della negazione, è essenziale accogliere e rispettare
questo rifiuto e accettare di rimanere in attesa.
La negazione infatti è una strategia prevalentemente inconscia che l’Io adotta
per mantenere un equilibrio psichico in quel momento indispensabile.
“Occorrono sensibilità e intuizione per riconoscere i momenti in cui il malato
assume la realtà della situazione e i momenti in cui preferisce guardare a
qualcosa di più vivace e piacevole: in tal caso permettiamogli di fantasticare
su cose più felici, anche se improbabili, senza fargli notare le contraddizioni.”25
Lo stesso vale per l’atteggiamento di collera e di condanna che il malato dirige
con forza sull’intera realtà che lo circonda, mettendo a dura prova la capacità
di resistenza di tutte quelle persone impegnate ad assisterlo e ad accudirlo.
Anche in questo caso è importante infatti che chi è vicino al malato accetti e
permetta a questa collera irrazionale di uscire, nella consapevolezza che dopo
la tempesta arriverà la quiete necessaria ad affrontare gli utimi istanti di vita.
“Ma questo lo possiamo fare solo se prima avremo affrontato la nostra paura
della morte, i nostri desideri distruttivi, e avremo preso coscienza delle nostre
difese, che molto possono interferire sul modo di trattare il malato”26.
Nella fase di “depressione” , la persona invoca silente il diritto di poter
piangere ed essere triste per quanto lascia e lascerà: proprio in questo
momento infatti egli realizza e affronta il lutto di se stesso e delle sue
progressive perdite. La sua tristezza va quindi rispettata e accompagnata da
una vicinanza fisica che non vuole parole. “L’over-protection”, data da un
affannosa ricerca di consolare il malato attraverso frasi che lo incoraggiano a
85
guardare il lato positivo delle cose, non può che creare in lui ulteriore dolore.
Proiettato nella direzione opposta, egli può avvertire infatti solo una profonda
solitudine in quell’ incolmabile scarto tra ciò che sente e ciò che gli atri gli
rimandano.
Delicato è anche il momento in cui il malato terminale raggiunge quel vuoto di
sentimenti simbolo della accettazione della sua morte. Pur non essendo né un
momento felice, né l’equivalente della rassegnazione, il “doloro psichico” dato
dall’angoscia devastante della morte, sembra essere sparito per lasciare spazio
esistenziale alla quiete.
Questo è il momento in cui il malato ha più che mai bisogno di pace e di non
essere coinvolto dagli affanni del mondo esterno. Non sente più il desiderio di
parlare, tuttavia con il suo silenzio pretende la nostra presenza, e il conforto
dato dalla sicurezza che lo accompagneremo sino alla fine.
“Ci sono malati che lottano sino all’ultimo e conservano una speranza che
rende loro quasi impossibile raggiungere questo stadio di accettazione. La
maggioranza invece smette di lottare e accetta la morte senza disperazione,
senza paura. E’ importante saper distinguere due casi diversi:
9 il caso in cui il malato rinuncia prematuramente a lottare quando
avrebbe ancora possibilità di prolungare la propria vita e quindi va
incoraggiato a sperare, a non lasciarsi andare;
9 il caso in cui il malato è arrivato ad accettare la fine ed il suo unico
desiderio è riposare e morire in pace”27
86
Qui si apre il grande e difficile “capitolo” della speranza intrecciato
inevitabilmente a quello del dire e non dire: del mettere a conoscenza il
malato che il suo male lo renderà mortale, oppure no.
La speranza è una dimensione permanente e naturale che può abbracciare
tutte le fasi del morire e coinvolgere non solo il malato, ma anche la sua
famiglia, il volontario, l’educatore, gli operatori sanitari.
In quanto essere umani, “come non possiamo fissare continuamente il sole
senza rimanere accecati”,(citazione tratta da un’intervista della Kubler-Ross e
ripresa a sua volta da Leonardo Ancona28), così non possiamo, anche durante
l’esperienza di approssimazione alla morte, pensare sempre ad essa. Pur
accettandola infatti, nulla può togliere al malato la speranza di essere salvato
da una nuova cura.
I caregivers, da parte loro, pur nella consapevolezza e chiarezza dei rischi
della malattia, potranno confermare allora al soggetto e fargli sentire che ogni
cosa possibile sarà fatta a sua favore, e in qualunque modo potrà contare sulla
loro costante presenza.
Da tutti questi discorsi emerge che il malato terminale ha un bisogno primario
fondamentale: quello di essere trattato come Persona. Riconoscere che, oltre e
nei i limiti di una malattia, ci sta un individuo portatore di diritti è il primo
segno di rispetto che un operatore sanitario o sociale può realizzare.
Il morente anche se reso fragile da una malattia terminale o dall’approssimarsi
stesso della morte, può avere ancora molte risorse ed essere in grado di
compiere delle scelte. Egli può infatti a pieno diritto scegliere di vivere e non di
87
subire il trattamento terapeutico e allo stesso tempo, può decidere quale
significato attribuire a questa ultima, finale esperienza.
Per far questo il soggetto ha bisogno che l’operatore sanitario, l’educatore,
così come i famigliari smettano di banalizzare la morte negandola o
mascherandola dietro un
falso ottimismo. La persona ha certo diritto a
sperare ma non nell’ignoranza di una possibilità taciuta quanto piuttosto,
proprio nella consapevolezza di questa eventualità.
Spesso infatti la decisione dei famigliari o dei professionisti di non mettere al
corrente il paziente della sua infausta situazione, più che essere un modo per
preservare il morente da un dolore maggiore, è un inconsapevole tentativo di
salvaguardare se stessi. L’angoscia della morte e del possibile lutto, ci fa
talmente paura da renderci incapaci ad affrontare una relazione impegnativa
che chiede la nostra sincerità, la nostra impotenza e la vicinanza nel silenzio.
Negare inoltre la possibilità al soggetto di sapere, con l’illusione di preservarlo
dal tormento della verità, significa esporlo alla ancor più incomprensibile
contraddizione e falsità di una relazione che, in un certo senso, lo esclude già
dalla comunicazione.
Anche il doveroso autocontrollo, l’ottimismo perenne e i sorrisi vuoti di chi
spesso
ruota attorno al soggetto di cure, si pongono talvolta in così netta
contraddizione sia con il dolore intenso provocato dal male inguaribile, sia con
quello più profondo ed interiore dato dalla consapevolezza di dover morire, da
alienare il morente dalla sua stessa
intenzionale esistenza. Prima ancora di
varcare la soglia della vita, l’uomo si sente già morto ed estraneo a quel conessere in grado di unire in un orizzonte di senso comune il vivere e il morire.
88
Il malato terminale allora, più che di risposte ha bisogno di percorrere questa
ultima ed irripetibile fase accompagnato dalla presenza di persone pronte e
capaci di porsi in posizione d’ ascolto.
L’individuo che sta per morire spesso infatti ci chiede di essere presenti
proprio attraverso la nostra impotenza. Dobbiamo allora affrancarci dall’ ansia
e dall’ idea di dover fare e di dover dire.
L’arma più potente che il caregiver ha a disposizione è infatti la propria
presenza fisica, anche e ancor di più se è “senza parole” e sente di non aver
nulla da dire.
“ La capacità di offrire un aiuto non verbale - dice B. Genevay - è legata
all’abilità di ricevere dalla persona che muore”.29 Gli occhi che guardano ( o
non guardano), i movimenti delle mani o della testa, il colore della pelle o i
suoni del nostro corpo rappresentano già un potente mezzo di comunicazione.
“ Se basta una parola, non fare un discorso.
Se basta un gesto, non dire una parola.
Se basta uno sguardo, evita il gesto.
Se basta il silenzio, tralascia anche lo sguardo”30
L’ascolto unito alla presenza diventa infatti un ascolto parlante.31 Questo
connubio può infatti veicolare il messaggio: “ Ti sono accanto, insieme siamo
difronte ad un mistero, ti accompagnerò nella tenebra finchè sarà possibile:
muoviamoci assieme verso quella soglia che temi e di cui io stesso non ho
sapere”.
89
“L’ascolto - dice Maria Grazia Soldati - è la più semplice forma di terapia e,
tramite essa, rispondere alla domanda del malato diventa una impresa meno
difficoltosa”.32
L’operatore sociale investito del ruolo di accompagnare l’utente verso la
propria morte, deve quindi imparare ad ascoltare il personale linguaggio di
colui che sta per morire. Solo così infatti può aiutarlo ad essere protagonista
anche dell’ultimo capitolo della vita.
3.1.3.3
L’operatore è chiamato ad interrogarsi.
L’educatore, o il caregiver, per poter
costruire con il malato terminale una
relazione d’accompagnamento significativa, deve prima di tutto essere
disponibile a porsi in posizione attiva con se stesso.
Egli deve calarsi nella propria intimità esistenziale e avere il coraggio e la forza
per confrontarsi con le proprie angoscie, paure, con i fantasmi vaganti che la
malattia e la morte suscitano. Coloro che infatti svolgono una professione
d’aiuto hanno di fronte alla morte la stessa esperienza di dolore, di mistero, di
paura e negazione che hanno tutti gli altri esseri umani.
Può essere allora estremamente importante che l’operatore sociale si crei uno
spazio in cui potersi chiedere all’infinito: “ Che cos’è la morte”; uno spazio in
cui il mistero della
pretesa
morte possa essere accolto dalla coscienza senza la
di essere compreso e disvelato; uno spazio in cui dar voce alle
emozioni che da questo incontro derivano.
90
Per potersi avvicinare a colui che sta per morire ed accompagnarlo verso una
morte dignitosa, l’operatore,
anche in quanto essere (uomo), deve prima
accogliere ed elaborare una propria consapevolezza rispetto all’essere mortali.
Chi infatti nega la morte, non può permettersi di parlarne ed è quindi facile
che possa trasmettere questo rifiuto al malato stesso, rendendo impossibile
quella comunicazione vitale sulla sua morte.
Non solo, l’operatore deve anche imparare a tollerare il proprio e altrui dolore
psichico per poter incontrare il malato nella
sua sofferenza senza uscirne
devastato.
“ L’operatore, – dice Cristina Pregno – proprio perché non è colui che è colpito
direttamente dalla sofferenza – anche se ne avverte la possibilità e il riflesso –
ha il compito di cercare le uscite da questa condizione, centrandosi sulle
potenzialità dell’individuo con cui è in relazione, sulle sue risorse, quindi, e
sulle prospettive di ‘vita altra’ che il dolore propone, cioè evidenziare le nuove
strategie che la mutata situazione di vita può generare; facendo ciò l’operatore
apre immense prospettive di conoscenza, per sé e per la persona: l’operatore
impara, e quindi cresce, dalla sofferenza umana e dalla relazione con chi
soffre.”33
Al contrario,
se il caregiver, posto a
stretto contatto con la sofferenza e
l’ineluttabilità della morte, non sa riconoscere, gestire e condividere la natura
delle proprie emozioni, il rischio di burn-out si fa quasi inevitabile.
Più
l’operatore si lascia assorbire dalle emozioni del morente e risucchiare
dall’evento morboso senza la possibilità di gettare su di esso uno sguardo
consapevole, più avvertirà un senso di vertigine ed annichilimento quando
colui che ha accudito per mesi se ne andrà.
91
Certamente ognuno di noi, come dice Jaspers, muore solo, e noi non possiamo
penetrare nella sua morte ma possiamo solamente avvicinarci ad essa
rimanendo al di qua ad ammirare quell’assoluto silenzio che ci è impossibile
penetrare. Eppure, forse proprio nell’esperienza di questo silenzio la coscienza
accoglie la morte e le da un senso.
Dice Melchiore: “ E se fosse proprio questo silenzio, questo inesorabile e
irreversibile silenzio dell’altro a diventare per me – la prima- esperienza
radicale e costitutiva della coscienza di morte?”.34
Forse allora il sapere della morte sorge nel momento in cui l’uomo vede ciò
che l’animale non vede: il cadavere il “mortuum”. Il cadavere diventa infatti
simbolo e segno di un’ assenza, che sta qui nella presenza ma allo stesso
tempo è distante e sibolo di un incolmabile distacco.
E di fronte a questo cadavere l’uomo spettatore come si comporta? Attraverso
il pianto, il lamento, il prendersi cura della vestizione della salma e il rivolgersi
ad essa con la parola, l’individuo cerca di inoltrarsi oltre quel muro dell’
assenza per perpetuare il legame affettivo e la relazione che si era costruita
assieme. Oppure, può rimproverare in modo appassionato e dolente al morto
di averlo tradito e lasciato solo, interrompendo quella comunione di vita, che
impedisce a colui che è rimasto di continuare a vivere.
Ricoeur dice: “ Il silenzio dell’altro risuona analogicamente come la possibile
non risposta di me stesso a tutte le parole degli uomini”.
La morte di una persona cara allora per l’uomo può costituirsi ragionevolmente
come la prima anticipazione della propria morte.
92
Ma a questo proposito penso sia illuminante ascoltare le parole che Pirandello
scrisse quando venne a conoscenza della morte della madre:
“ ...in fondo, nel tempo che è intercorso fra la morte di mia madre e il
momento in cui l’ho saputo, io ho continuato a pensarla viva. Questo significa
che dentro la mia mente ella può vivere indipendentemente dal fatto che viva
realmente. Questa constatazione mi fa comprendere che io posso continuare a
far vivere mia madre dentro di me anche se lei non c’è più. Ma proprio questo
mi fa pensare che la morte di mia madre significa che lei non potrà mai più
pensare a me nella sua mente. Così io non incontrerò più nella vita una
persona che mi possa guardare con gli occhi con cui mi guardava mia madre.
Sono morto dunque io dentro mia madre.”
35
Queste parole ci fanno essenzialmente capire come nello stesso tempo in cui
noi conserviamo sottoforma di memoria e rappresentazione la presenza dei
nostri cari defunti, il lutto per noi si connoti anche come perdita della propria
immagine negli altri.
Dice infatti Melchiore: “ il silenzio irreversibile dell’altro suona forse già come
mio silenzio e, in qualche modo già come mia morte: d’ora in poi ciò che io
potevo
essere,
fare
ed
amare
con
l’altro
non
sarà
più
possibile,
inesorabilmente, ineluttabilmente. Si tratta della caduta di uno sguardo, di una
persona e anche della caduta di un centro, di una sorgente personale di
possibilità che io stesso sono con l’altro.”
36
Ma allora emerge un’ altra importante consapevolezza: lo statuto originario
dell’uomo non è quello della singolarità, dell’isolamento, ma quello del “ con-
93
essere”. Interrogarci sulla morte e accoglierla attraverso l’esperienza di chi la
vive, ci porta allora verso un nuovo orizzonte positivo dell' esistenza.
Nel con-essere e nel nostro essere in relazione reciproca con l’altro, la vita e la
morte assieme possono avere un senso.
Tuttavia se l’uomo non accetta la fatica di accogliere con pazienza la domanda
sulla morte allora, dice Francesco Campione, “stiamo abbandonando il morto
al suo destino”37 e, allo stesso tempo, di fronte alla semplice e silente richiesta
di colui che sta per morire di non essere
lasciato solo in questo difficile
passaggio, sembriamo paralizzati e sordi rispetto al suo bisogno perché non
avvertiamo altro che un profondo senso di colpa per essere sopravvissuti.
Leggeremo così nel morente non una richiesta d’aiuto ma paradossalmente
un’accusa che egli stesso ci rivolge: l’essere vivi.
Ecco confermato ancora una volta il motivo per cui, colui che accompagna il
malato terminale nella sua ultima fase di vita, deve porsi in ascolto anche di se
stesso.
Dice Genevay: “Dobbiamo essere consapevoli e responsabili delle nostre
reazioni e delle nostre risposte di controtransfer. Negare i nostri sentimenti
verso chi muore è spesso dannoso per l’utente, ma può essere anche molto
pericoloso per noi stessi.
Ammettere la propria impotenza nei confronti della morte è terapeutico sia per
l’operatore che per l’utente: si crea un legame, una collaborazione, una
complicità.” 38
Condividere con gli utenti e con gli altri operatori il nostro essere “umani” di
fronte alla morte ci aiuta a rendere elastico il nostro equilibrio, ad essere
autentici verso noi stessi e coerenti con i nostri utenti. “Un adeguata
94
espressione del lutto accresce la nostra abilità di continuare a lavorare con i
morenti in modo creativo ed efficace”.39
Se riusciamo infatti ad affrontare le nostre reazioni emotive più intense e il
loro significato senza sentirci troppo minacciati, allora possiamo impegnarci in
una relazione di sostegno responsabile.
“ Anche la capacità di dire addio ai nostri utenti dipende dalla nostra
disponibilità a confrontarci con le tecniche di controtransfer e a far un efficace
lavoro su di noi rispetto al lutto.”40
Nel far questo è però necessario che l’operatore abbia non solo una “stanza
tutta per sé” in cui concedersi la tregua della riflessione, ma
anche la
possibilità del confronto.
L’ educatore non può e non deve infatti rinunciare alla possibilità
confrontarsi anche con un gruppo di supporto professionale
di
dove il
controtransfer sia considerato un processo terapeutico positivo e quindi un
‘importante strumento della relazione d’aiuto.
“ Dato che siamo tutti parzialmente ciechi, il meglio che possiamo fare
è sostenerci l’un con l’altro, così che la vista di uno possa compensare
la miopia dell’altro e viceversa.”
( Waelder, in Menninger e Holman, 1973, p,94)
95
3.2
IN PRIMA PERSONA: UN’ESPERIENZA NARRATA
DI ACCOMPAGNAMENTO.
Dopo tutte queste molteplici riflessioni, che rappresentano il considerevole
impegno di estrapolare dalla ricchezza dell’esperienza un Concetto che la
possa rappresentare, credo sia altrettanto importante concedersi la possibilità
di
ritornare
all’unicità
di
ognuno
di
questi
percorsi
di
dolore
e
accompagnamento lasciandoci “con-volgere” dall’ autobiografia di chi ha
accettato di partecipare intenzionalmente a questa “ad-ventura”.
Roberta, volontaria dal 1990 dell’Associazione Maria Bianchi, pur essendo
riuscita ad affrontare e accompagnare la morte del padre in una dimensione di
autentica vicinanza, aiutata dal costante confronto con l’Associazione, solo nel
1994 si è sentita pronta ad intraprendere percorsi di accompagnamento e
sostegno a malati terminali.
La prima persona che ha incontrato in questo cammino è stata Emma, una
signora, sua vicina di casa, malata di tumore al fegato.
Proprio a partire da questo incontro Roberta ha sentito l’urgenza di
scrivere.
96
3.2.1
L’autobiografia di Roberta
Sailetto 12 Marzo
1994
(…)
Come, perché, quando ho deciso di offrire il mio aiuto
Emma è una mia vicina di casa e in passato sono stata da lei chiamata per
farle delle iniezioni. Andarla a trovare, offrirle la mia disponibilità per
eventuali prestazioni infermieristiche in caso di bisogno, mi sembrava un
obbligo.
Ma andarla a trovare dopo la preparazione avuta e le esperienze di gruppo
fatte nella associazione Maria Bianchi, significava cercare di dare, oltre che la
mia disponibilità per qualcosa di pratico, aiuto relazionale. Questo pensiero
mi agitava, mi rendeva insicura. Comunque sapevo che prima o poi mi sarei
trovata di fronte ad una persona impegnativa che doveva mettere alla prova
sia le mie conoscenze che le mie capacità relazionali. La prova si presentava
dura e quindi dovevo prepararmi.
Non mi risultava realizzabile far coincidere tanti atteggiamenti che mi
sembravano contrastanti: un minimo di professionalità, rimanere vigile per
non lasciarmi coinvolgere emotivamente, non lasciarmi sfuggire la situazione
dalle mani e nello stesso tempo dimostrare comprensione al suo problema e
partecipe alla sua sofferenza.
Quali parole usare? Avrei saputo mettere al centro la persona e il suo
problema? Sarei stata capace di trattenermi dal fuggire la situazione e
parlare d’altro? Magari, peggio ancora, avrei parlato di me o delle mie cose
(sono molto egocentrica). (…)
97
12 MARZO 1994: PRIMO INCONTRO
(…)
R. “Buongiorno Signora Emma! Sono venuta a trovarla.”
E. “ Hai fatto bene. Entra”.
R. “Non vorrei averla disturbata !”
E. “E da cosa?”.
R. “… non so, magari stava facendo qualche lavoretto”.
Emma sorride e avviandosi al divano mentre io la seguo… “Vuoi vedere il
lavoro che fa Emma? Mi corico qui, mi stendo questa coperta sopra, e poi
anche quest’altra e guardo la televisione quando ne ho voglia altrimenti
leggo il giornale quando gli occhi me lo consentono. Diversamente Emma fa
cuccina qui e cerca di stare buona…buona”.
I gesti accompagnano le parole e alla fine è raggomitolata sul divano, sotto
le coperte, con la testa appoggiata alle mani a guisa di cuscino sopra il
bracciolo del divano.
R. “ posso sedermi?”.
E. “Ma certo” e si siede anche lei. “Emma, piano piano sta arrivando alla
fine”.
R. “ Ha questo dubbio?”
E. “Non ho un dubbio: ne sono certa” Emma scandisce le parole, parla un po’
a bassa voce. Sembra abbia anche difficoltà respiratorie. Le parole che dice
sembrano mattoni e pensate da molto tempo.
E. “ Non sono stupida e so leggere quello che sta scritto. E’ Pietro che non si
convince e io devo fingere quando c’è lui e fare il viso sorridente. Ma io so
quello che ho e cerco di vivere alla giornata il più serenamente possibile.
Vuoi leggere anche tu che sei dell’ambiente ?”
R. “Si, se lei vuole”. (…)
98
Emma mi allunga la cartella clinica.
E. “Leggi anche tu, certe parole non le capirai neanche tu, ma non c’è
bisogno di capire molto. Basta sapere leggere le parole che contano.”
Mi aiuta a sfogliare e a cercare le parole che contano. Mi fa leggere
mentalmente le diagnosi delle biopsie effettuate al pancreas e al fegato. La
diagnosi parla di tumore al fegato.
R. “ Certo che la diagnosi è chiara”. (Non sono sicura di essermi espressa
così).
E. “Ne hanno fatte due, hai letto? E la seconda conferma la prima.
Hai visto? (dice quasi sorridendo) parlano di incisione a Stella di Mercedes!
Pensa: persino la Stella di Mercedes mi hanno fatta (dice con enfasi).
Vuoi vederla la Stella di Mercedes?”.
R. “Com’è la Stella di Mercedes?”.
Emma solleva l’abito e mi fa vedere il tipo di taglio a forma di stella di
Mercedes. Io tocco il taglio che si è rimarginato molto bene e seguo con il
dito i segni rimasti dell’incisione.
R. “Si è rimarginato molto bene.”
E. “ Sì, fuori è tutto bello, ma è dentro, è sotto…” e mi guarda fissamente.
E. “Tu pensi che con quello che hai letto Emma possa guarire?”.
Mi guarda con gli occhi dilatati e mi fissa senza batter ciglia. E’ uno sguardo
grande, grandissimo. Tutto mi sembra scomparire: ci sono solo i suoi occhi:
grandi e neri.
Non posso bleffare, fingere, menare il can per l’aia, non si può scantinare.
Lei è lì che aspetta. Mi hanno fatto una domanda ed io devo rispondere.
R. “ E’ difficile”.
99
E. “ Così mi piaci: è difficile. Oh, finalmente! Non so se durerà un anno, sei
mesi, due settimane, ma è difficile. Porto via tutto, perché se rientra Pietro e
vede queste carte in giro non è contento. Lui non vuole che ne parli e io
devo fare finta di niente”. Raccoglie tutto e porta via la borsina bianca piena
di carte.
Quella mia parola – difficile – mi ritorna ancora nelle orecchie: la mia
intenzione era forse quella di iniziare una frase del tipo:…difficile poter
essere certi del grado di malattia etc. etc… ma Emma la bloccata lì, dove
voleva lei. Si è adattata la mia risposta alle sue esigenze, forse quello che lei
voleva confermare. Forse non voleva solo confermare, ma voleva sincerità;
non voleva finzioni. Vuole affrontare questa sua realtà dura e vuole delle
persone vicino che sappiano con lei sopportare queste sue realtà. (…)
9 APRILE 1994, ORE 21
(…)
Sono arrivate le tre del mattino e sento Emma che mi dice: “Scappa!” e
dopo un po’: “Fuggi!”.
Mi avvicino a lei.
E. “Fuggi!” mi ripete guardandomi dritta negli occhi.
R. “Perché?”.
E. “Io cerco di fuggire: vorrei fuggire da me stessa e da questa pancia! Ma
tu scappa!”.
Restiamo in silenzio.
Emma è ad occhi chiusi e respira faticosamente. Ogni tanto cerca di
incamerare più aria che può facendo un verso che mi spaventa perché mi
coglie all’improvviso.
E. “Non volevo coinvolgere nessuno, ma pensi di riuscire a stare con me?”.
R. “Credo di sì”.
100
E. “Che ore sono?”.
R. “ Le tre”.
E. “Abbiamo due ore e poi alle cinque sarà tutto finito. Pensi di farcela a
rimanere qui: solo io te?”.
R. “Ce la faremo” rispondo decisa.
La mia mente era sconvolta. Ero terrorizzata perché non riuscivo a capire
bene cosa mi stesse succedendo, cosa Emma mi stava chiedendo. Avevo
paura che lei mi stesse chiedendo di stare con lei mentre moriva.
Ma, intanto, adesso stava male: vomitava (nonostante il sondino) in una
bacinella che io le sorreggevo. Con una mano tenevo la bacinella, e con
l’altro braccio l’aiutavo a rimanere sollevata per favorirle il vomito.
R. “Chiamo l’infermiera?”. Spero mi dica di sì.
Emma, riprendendosi un pochino mi risponde decisa: “No! Dobbiamo farcela
io e te: dobbiamo arrivare io e te sino alla fine. Non abbiamo bisogno
dell’infermiera ora: dobbiamo farcela da sole. Rimani qui vicino!”.
Ripongo la bacinella e mi curvo su di lei riappoggiandola al letto. Col suo
braccio mi accarezza la schiena e: “Fa presto, prenditi la sedia, spostala di
qua e siediti vicino: ce la dobbiamo fare da sole! Siediti comoda, altrimenti,
poi, la schiena ti duolerà !”.
Prendo la sedia e mi metto alla sua sinistra. Le prendo la mano che mi
stringerà forte per quasi tutto il resto della notte. Intreccerà le sue dita con
le mie, serrandole a volte come in una morsa. La sua mano è piccola e le sue
dita sono affusolate, le unghie ben curate. A volte allenterà la stretta e
infilerà la sua mano lungo il mio braccio, sotto la manica della felpa. Altre
volte mi accarezzerà i capelli e il viso. Continuerà così a toccarmi e a tenermi
vicino a lei cercando di lottate comunque e di non lasciarsi andare: fa
smorfie terribili di dolore, ma quello che mi spaventa di più sono quelle sue
101
prese fameliche d’aria che mi fanno sobbalzare per il loro rumore
improvviso.
E. “Fa un ultimo sforzo per me, te ne prego: dammi uno specchio, fa questo
sacrificio! Dopo che mi sarò guardata allo specchio, potrò anche dirmi addio
e andarmene!”. (…)
Ritorno subito: lei è terrorizzata, mi chiama e non vuole essere sola.
Supplica l’infermiera: “Mi lasci qui vicino a Roberta, non la mandi via” e
continua a chiamarmi. Si tranquillizza solo quando le riprendo la mano e mi
risiedo vicino a lei. Poi, sgrana gli occhi quasi supplichevoli e quasi
piangendo mi chiede: “Mi vuoi ancora bene?”.
La guardo, prima meravigliata di una simile domanda e poi mi sembra quasi
che una scossa elettrica mi attraversi il corpo: tutta la tensione, l’angoscia di
una notte sembra dissolversi con questa domanda. Questa richiesta di amore
mi apre la testa, gli occhi, l’anima. Non ci sono più barriere tra me e lei: c’è
qualcosa che mi unisce e che vivrà finché una di noi vivrà: sento di amarla,
di amare la sua sofferenza, di amare quel suo corpo gonfio e distrutto
dentro, quei suoi occhi alteri e supplichevoli; di amare questa donna a volte
così dura e anche così fragile. (…)
Queste sono solo alcune delle pagine che Roberta ha scritto.
Tuttavia questi pochi estratti vogliono essere sia un’occasione per avvicinarsi
al testo e orientarsi rispetto al tema, sia un invito per il lettore affinché, nel
momento che riterrà più opportuno, possa concedersi la straordinaria
esperienza di immergersi nella lettura integrale dell’autobiografia di Roberta
che potrà trovare in Appendice.
102
3.3
“URGENZE”
3.3.1 L’urgenza di comprendere: a colloquio con
Roberta.
Penso che l’autobiografia di Roberta non sia solo la testimonianza scritta di
un’esperienza vissuta di assistenza e di presa in cura di una donna malata, in
cui il lettore può cogliere i temi più ricorsivi e propri dell’essere vicino alla
morte. Questa narrazione ci regala molto di più. Ci porta alle soglie e dentro
lo spazio privato di Roberta che tenta non di rappresentare la realtà, ma di
farla scaturire dalla propria intimità, di dar voce alle immagini catturate ed
elaborate da uno sguardo interiore posto in comunicazione sensibile con il
mondo.
Essa ci permette di incontrare nella complessità di piani tra loro intersecati, (
degli eventi,
delle emozioni,
fragilità e la forza di
delle riflessioni,
delle ricerche di senso), la
Emma che dice “ ho paura” , che è pervasa da una
violenta e feroce paura di tutto, e le inquietudini, la felicità, l’esigenza di
fermarsi a capire e a comprendersi di Roberta, l’unica tra pochi, che ha saputo
ascoltare silente e accogliere il dolore e la sofferenza che Emma ha voluto
affidarle.
Tuttavia, pur avendo tra le mani questo scritto denso di vita e di significati,
che mi ha aperto gli orizzonti e mi ha motivato
ad intraprendere questo
viaggio tematico all’interno dell’autobiografia come possibile metodologia per
l’operatore di accompagnamento alla morte, ho avvertito l’esigenza di
103
incontrare Roberta per capire e comprendere, assieme a lei, quale relazione
di senso possa esistere tra l’esperienza di sostegno e accudimento dei
malati terminali e la sua necessità di scrivere.
Riuscire a cogliere la natura e le caratteristiche di questo legame è infatti un
passaggio irrinunciabile per costruire un possibile ponte tra il tema dell’
autobiografia, come dispositivo educativo, e quello dell’ accompagnamento alla
morte.
3.3.2
L’urgenza di Roberta: scrivere.
Natura e caratteristiche del suo fare autobiografia.
Roberta già da ragazza scriveva e teneva un diario personale.
Tuttavia il rincorrersi incessante di eventi, ( il lavoro, il matrimonio, i figli…),
l’ hanno sommersa a tal punto da non lasciarle spazio e desiderio per
continuare questa pratica.
Solo quando nel 1994 si avvicina ad Emma nel momento più delicato
ma
importante della sua vita, per partecipare con lei alla sua sofferenza, Roberta
avverte la necessità di ricominciare a scrivere.
L’esperienza che stava vivendo era talmente ricca, forte, densa di emozioni
inconsuete da dover assolutamente trovare uno spazio fisico e mentale per
poterla elaborare.
Tuttavia Roberta dice: “ Questa necessità non partiva da me, era Emma che
chiedendomi in silenzio di essere presente, mi chiamava a scrivere.” L’altro, il
malato,
nel momento in cui ci pone
incessantemente delle domande, non
cerca risposte immediate, suggerite dalla razionalità del vivere comune e che
104
ci spingono inutilmente ad una loro affannosa ricerca, ma piuttosto ci invita
ad accogliere su di noi gli stessi interrogativi.
Lui non ha bisogno di risposte, noi invece dobbiamo avere il coraggio di andare
alla ricerca di noi stessi: dei nostri dubbi, delle nostre imperfezioni , dei nostri
fantasmi, delle nostre paure, nonché delle nostre più nascoste ed intense
emozioni, per poter essere totalmente ed autenticamente presenti nel qui ed
ora della relazione con il morente.
Roberta ha trovato nella scrittura autobiografica quest’occasione.
Tuttavia, coerentemente al percorso concettuale intrapreso in questa tesi, la
prima domanda che dobbiamo porci, anche se a posteriori, è capire in che
modo lo scritto di Roberta possa essere definito autobiografia.
Adottando il punto di vista di Lejeune, possiamo leggere l’elaborato di Roberta
in termini autobiografici fino a quando rivolgiamo l’attenzione esclusivamente
a due condizioni: il patto autobiografico, che garantisce al lettore che colui che
scrive corrisponde all’Io che parla, e il patto referenziale che si esprime in un’
implicita dichiarazione da parte dello scrittore di dire tutta la verità. Roberta
infatti, sembra aver inconsapevolmente rispettato entrambi i patti: l’ Io di cui
ci parla e “R” che propone nei dialoghi la rappresentano, così come l’urgenza
che ha di scrivere proviene proprio dal desiderio di andare alla ricerca della
propria autenticità.
Eppure,
accettare:
l’autrice
confessa anche qualcosa che Lejeune non potrebbe
lei, Roberta, nel momento in cui inizia a scrivere sente che
l’identità tra autore, narratore, personaggio, si dissolve: la voce interiore
narrante prende il sopravvento, trascinandola in un avventura verso una meta
105
sconosciuta e colma di importanti ma anche dolorose scoperte: il suo essere
molteplice.
“ Io inizio che sono una persona ma finisco per esserne un’altra, che non
conosco, in cui non mi riconosco ” ma che esiste, con o senza la sua
consapevolezza.
La scrittura è per Roberta il mezzo e lo strumento per promuovere un flusso di
coscienza incontrollato, lontano dalla ragione e “ vicinissimo al cuore ” che la
porta ogni volta ad esplorare “ un elemento nuovo di quella molteplicità” del
suo essere.
“Tante volte affiorano da quelle pagine aspetti di me inediti, dolorosi, scomodi
che mi stordiscono e mi è difficile accettare proprio perché ho sempre cercato,
più o meno inconsapevolmente, di tenerli lontano. Talvolta, solo quando sto
per riporre la penna, addirittura mi accorgo di essere innamorata della persona
a cui mi sto dedicando e allora, a questo punto, inizia un nuovo compito:
affrontare queste scoperte e lavorarci sopra affinché possano diventare una
risorsa.”
“ Non solo – dice Roberta – bisogna avere il coraggio di lasciarsi andare per
poter scrivere tutto quello che pretende di uscire, ma anche per accettare di
averlo scritto ! Solo in questo modo trovo che la narrazione di sé possa essere
uno spazio di auto-formazione.
Il diario che da giovane tenevo era sostanzialmente diverso da i tanti quaderni
che oggi gelosamente custodisco nel mio comodino: in quell’occasione non ero
libera di scrivere tutto, sia per paura che potesse essere letto, sia perché non
permettevo a me stessa di conoscere cose che non avrei mai voluto sapere.”
106
Ma accanto alla capacità di mettersi responsabilmente a confronto con se
stessi, occorre anche una forza e un’ energia particolare per intraprendere,
dopo la scrittura, un difficile processo di elaborazione, ciò che lei chiama “ un
lavoro
di
pulizia
infinito”
che
la
porta
a
ricomporsi
proprio
nella
consapevolezza della sua molteplicità.
Duccio
Demetrio
“imperfezione
dice
dello
infatti
specchio”
che
dobbiamo
per
poterci
andare
in
alla
esso
ricerca
dell’
riconoscere
e
responsabilmente accettare come “arcipelago di Io”.
Ritrovarsi tanti non costituisce infatti un pericolo per l’individuo: egli non
rischia di perdersi od annullarsi nei tanti Io che gli appartengono, al contrario
proprio questa nuova consapevolezza lo stimola a riscoprirsi e reinventarsi in
una nuova unità di senso capace di far coesistere, e non di scindere così come
la società propone, luce ed ombra, emozione e ragione, corpo e anima, vita e
morte.
Roberta ha capito che solo permettendo ai suoi molteplici Io di emergere,
potrà raggiungere quella coerenza interiore in grado di tradursi in significativa
presenza verso se stessa e verso Emma.
Tuttavia quando dalla scrittura emergono immagini e situazioni troppo
complesse, troppo dolorose, troppo difficile da poter elaborare nella solitudine
della propria intimità, Roberta si rivolge all’ Associazione per condividere con
essa il faticoso percorso di ricomposizione.
Ma se Roberta avverte nella scrittura di sé questa asimettria di ruoli, dove la
voce narrante domina e si slega non solo dalla ragione ma anche dall’ autorità
dell’ autore, che solo alla fine scopre di essere stato spodestato, allora non
107
potremmo – come Lejeune sostiene – permetterci di interpretare tale forma
dello scrivere come autobiografia.
Eppure, se cogliamo l’invito di Anglani, che ci propone di non mettere regole a
priori ma di dedurle dal testo, accettando di confrontarci con la sua lettura,
potremmo piacevolmente scoprire che proprio in questo scarto inevitabile tra il
soggetto dell’enunciato e l’oggetto dell’enunciazione, il pensiero autobiografico
prende forma e può diventare strumento per l’adulto di autoformazione, così
come lo è stato per Roberta.
Avvicinarsi e inoltrarsi nell’autobiografia di Roberta consente inoltre di
percepire una caratteristica importante, ma non così ovvia, della scrittura di
sé: il suo essere estremamente intrisa di elementi che richiamano non solo la
soggettività
dell’individuo
e
della
sua
storia
di
vita,
ma
che
contemporaneamente ci parlano dell’intero mondo, quel mondo percepito,
interiorizzato, e con cui l’individuo si pone costantemente in relazione.
Roberta, infatti, a partire dal suo essere in relazione con Emma, malata
terminale di cancro, sente l’esigenza di andare alla ricerca di uno sguardo
consapevole su di sé attraverso la scrittura. La parola scritta diventa allora il
mezzo di questa impresa e l’esperienza d’accompagnamento che sta vivendo il
contenuto della narrazione. Attraverso il pensiero narrativo Roberta interpreta
e mette in comunicazione ciò che ha visto, udito, sentito, pensato, provato
nello stare accanto ad Emma, dando forma ad una trama di senso inedita che
apre le porte ad una stanza interiore di auto-scoperta ma che, allo stesso
tempo, si affaccia costantemente sul mondo.
108
L’autobiografia di Roberta allora suggerisce e conferma l’intersoggettività delle
storie di vita e il loro essere non solo pratiche private, ma sociali, linguistiche e
trans-formative perché in grado di coordinare, come sostiene Pineau, tre
mondi: sé, gli altri e le cose.
Esiste infatti un’innegabile circolarità tra esperienza vissuta e costruzioni di
senso.
Se l’esperienza autobiografica proposta sta in un rapporto di particolare
vicinanza con gli orientamenti teorico-epistemologici proposti nei capitoli
precedenti, ed in particolare ci porta a riscoprire
molti temi propri della
micropedagogia di Duccio Demetrio, tuttavia in questa prima autobiografia che
Roberta ha prodotto, non ritrovo un elemento che ritenevo e ritengo possa
moltiplicare le scoperte per colui che scrive: la temporalità “incoativa” (Pineau)
che non è sensibile all’ordine cronologico degli eventi ma ridispone quest’ultimi
rispettando i ritmi interiori prodotti dal ricordo, dall’emozione di ricordare e del
suo contenuto. I salti temporali, l’intersezione di più piani temporali e spaziali,
le associazioni di pensieri e di immagini possono infatti essere un terreno
molto fertile su cui poterci interrogare.
La narrazione di Roberta è invece molto legata all’ordine cronologico e da
questo non si distacca quasi mai, quasi come se si fosse affidata un compito:
offrire un riferimento temporale, offrire la cronologia di una storia a chi per
colpa della malattia, non è più in grado di mantenere un contatto con essa.
Un altro aspetto che per Roberta non diventa necessario nel suo fare
autobiografia è la ricerca delle parole che traducano con esattezza ciò che
sente. Nel momento in cui infatti si lascia andare e comincia a scrivere, le
109
parole prendono forma spontaneamente e si susseguono come in vero e
proprio flusso di coscienza. Alla fine, quando questo processo giunge al
termine, non avverte il bisogno di rielaborare il testo prodotto perché trova in
esso coerenza con ciò che prova. Probabilmente proprio la costanza e
l’urgenza con la quale Roberta utilizza lo strumento autobiografico non offre un
senso a questa ulteriore, e in sé importante, ricerca lessicale.
Secondo Roberta, la richiesta di Emma di porsi prima di tutto in rapporto
autentico con se stessa è stata un’occasione non solo per costruire una
significativa relazione con lei, ma per ristabilire una comunicazione nuova con
il proprio essere.
“ Adesso – dice-
nella relazione con l’altro, e in particolare con il malato
terminale, io ci sono tutta ! ”
E se l’autobiografia fino ad oggi è stata strumento di ricerca della sua
molteplicità, nonché
occasione per conoscersi, accettarsi, trasformarsi, in
questo momento dichiara che non le serve più.
Non ha più bisogno di spazi in cui poter ristabilire la comunicazione con se
stessa, perché ha costruito un ponte permanente con ciò che sente e con le
proprie anche irrazionali emozioni che lascia libere di fluire per poter
incontrare quelle dell’altro.
Testimonianza di questo cambiamento è infatti l’adozione da parte di Roberta
di una nuova forma dello scrivere, nonché uno strumento per comunicare a
distanza: la lettera.
L’epistola, avendo per sua natura un destinatario altro da noi, ha la virtù di
stabilire una comunicazione tra due esseri. Roberta, accettando i propri moti
110
interiori, non ha più timore di donare e restituire all’altro la ricchezza di ciò che
sente attraverso la relazione con lui.
Si sente oggi libera di poter esprimere
e descrivere con le parole scritte il
proprio amore e di imbucare la lettera che le contiene senza paura di essere
fraintesa: questo desiderio d’amore infatti lo percepisce negli occhi del malato
terminale.
Tuttavia non voglio spingermi oltre nell’affrontare il tema dell’epistola perché
non è l’oggetto di questa tesi, anche se potrebbe essere il punto di partenza
per una nuova ricerca.
Note
63. V.Melchiore, La costituzione della coscienza di morte, cap.II in AA.VV., La
morte oggi, Feltrinelli, Milano,1985, pp. 55-63.
64. Epicuro, Lettera sulla felicità ( a Meneceo), paragrafo n.125, Stampa
Alternativa, 1993
65. C.Sini, Irrazionalità e morte, cap.III in AA.VV., La morte oggi, Feltrinelli,
Milano,1985, pp. 55-63.
66. S.Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Parte IIa, Il nostro
modo di considerare la morte; Opere complete VIII, Torino, Boringhieri, 1976,
p.137
67. L.Ancona, L’assistenza psicologica e spirituale: la verità di fronte alla morte,
tratto dal sito www.psychomedia.it , Telematic Review Sezione: CICLO VITALE,
area: Exitus e lutto.
68. Ibidem
69. Ibidem
70. Ibidem, Citazione di Leonardo Ancona
71. Ibidem
72. J.M.R.Tillard, La morte, enigma o mistero? Bose, Edizioni Qiqajon,1998,p.19
73. L.V.Thomas, Gestione di vita, gestione di morte, cap.IV di La morte oggi, opera
citata, pag.115-130.
74. L.Ancona, opera citata.
75. Ibidem
76. L.V.Thomas, opera citata.
77. P.Pira, L.Venturini, Le immagini e il vissuto della morte nell’uomo, cap.IV de la
Morte Oggi, opera citata, p.142
78. N.Ferrari, Compiti del volontario domiciliare, in Accanto a chi soffre. Dolore
emozioni, aiuto psicologico, Atti di un percorso formativo tenutosi a Mirandola,
Aprile-Giugno 1999, promosso dall’Associazione
Volontari
Domiciliari
111
Relazionale Malati Gravi “ Maria Bianchi” in collaborazione con il Comune di
Mirandola -Progetto Famiglie. P.11
79. Associazione Maria Bianchi
80. N.Ferrari, L’ammalato in fase avanzata di malattia, in Accanto a chi soffre,
opera citata, p.9
81. A.Castello, L’elaborazione del lutto: percorso d’avvicinamento. In Accanto a chi
soffre, opera citata, pp.28-29
82. Ibidem
83. E.Kubler-Ross, La morte e il morire, Assisi, Cittadella Editrice 1992
84. Ibidem
85. N.Ferrari, Compiti del volontario domiciliare, in Accanto a chi soffre, opera
citata, p.12
86. Ibidem, p.14
87. N.Ferrari, La morte e il morire. Elizabeth Kubler-Ross e le fasi del morire, in
“Accanto a chi soffre”, opera citata, p.3
88. Ibidem, p.4
89. Ibidem, p.6
90. L.Ancona, opera citata
91. B.Genevay e R.Katz, Le emozioni dell’operatore nella relazione di aiuto, cap.2,
pp.24-32
92. Tratto da “Se questo è un uomo…Il Valore dell’ascolto”, atti del convegno,
Monza, Ottobre 1998, p.51
93. Citazione di Maria Ilaria Grosso, in Se questo è un uomo, opera citata, p.54
94. M.G.Soldati, Dentro la morte, in Vivereoggi, n.10, Dic./Gen ’95, p.50-55
95. C.Pregno, Autobiografie: la relazione di aiuto, in Rassegna di Servizio Sociale,
n.2, aprile/giugno, 1998, p.9
96. V.Melchiore, opera citata
97. riportato da F.Fornari, La morte e il lutto, cap. V, in La morte oggi, opera
citata pp.69-79
98. V.Melchiore, opera citata
99. F.Campione, Passaggio all’ignoto, in Adultità n.5, 1997, pp.50-58
100.B.Genevay e R.Katz, opera citata.
101.Ibidem
102.Citazione tratta da Se questo è un uomo:
Il valore dell’ascolto, atti del convegno di Monza, ottobre 1998, p.59
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Considerazioni finali
Esistono tanti modi di accostarsi alla morte e al morire.
Roberta ha deciso di stare accanto a chi soffre.
Postasi in posizione di rispettoso ascolto nei confronti del malato terminale ha
potuto cogliere la richiesta più importante che questo le rivolgeva: essere
presente al suo dolore, nonché accogliere e dare riparo alla sua paure.
Il morente non ci chiede di far proprie queste emozioni, ma al contrario chiede
a noi di confrontarci in prima persona con le nostre sofferenze, debolezze, i
contrasti e le incertezze della nostra vita: la nostra impotenza di fronte alla
morte.
Nel momento in cui con la nostra vicinanza cerchiamo di ridare alla persona
malata il diritto di vivere dignitosamente l’ultima fase della propria vita, egli ci
propone, attraverso il suo quotidiano accoglimento della vita, una significativa
esperienza: riappropriarci delle nostre emozioni e ricostruire un rapporto
intimo con noi stessi.
L’
accompagnamento
alla
morte
stimola
l’educatore
professionale
in
particolare, e ogni persona che decida di assumersi questo compito, a coltivare
dei giardini “segreti” in cui le vicende, profondamente umane, che incontra
durante questo viaggio , possano essere rivissute, interiorizzate, riscritte.
Proprio in questo contesto, allora l’autobiografia può diventare per l’operatore
sociale, non solo occasione di formazione permanente, ma specifico strumento
di accompagnamento alla morte.
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Attraverso la presa di parola, il piacere del ricordo e la distanza che la scrittura
pone tra il soggetto e l’oggetto della narrazione, l’adulto ha infatti la possibilità
di incontrare i propri Io più nascosti e di porli in rapporto dinamico con la
propria consapevolezza in una prospettiva di trasformazione e cambiamento.
Solo l’educatore o il caregiver che riesce a tessere un autentico dialogo con se
stesso può realmente porsi in comunicazione con chi ha più bisogno di questa
autenticità: il malato terminale.
Con questo non voglio affermare che l’autobiografia sia l’unico mezzo che
l’operatore abbia a disposizione per costruire una significativa relazione di
accompagnamento. Tuttavia la scrittura di sé per l’educatore può essere una
preziosa risorsa che, se associata ad un costante confronto con il gruppo, può
avere notevoli valenze e risonanze sulla relazione stessa.
L’esperienza di Roberta né è una semplice testimonianza.
L’indagine e la ricerca che ho svolto attorno alla scrittura di sé come
dispositivo educativo ne vuole invece mostrare la valenza da un punto di vista
teorico-epistemologico e psico-pedagogico.
Questa tesi non è stata un’ occasione per dimostrare la validità scientifica di
una teoria e nemmeno per elaborare un nuovo paradigma, quanto piuttosto,
essa è diventata
spazio fisico e mentale che ha permesso al mio essere
educatore di interrogarsi rispetto alla significatività di uno strumento che
potrebbe, indirettamente, contribuire a riscattare una morte rubata.
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In particolare allora rivolgo queste mie riflessioni proprio all’educatore
professionale assieme a due auguri: per primo, quello di poter essere sempre
più presente in un contesto di accompagnamento del malato terminale e di
sostegno rivolto ai famigliari per l’elaborazione del lutto; per secondo invece,
l’auspicio che nell’urgenza e nella complessità del lavoro che è chiamato a
svolgere, non perda la sana abitudine di interrogarsi anche attraverso la
propria autobiografia: strumento personale che gli è stato offerto durante la
sua formazione scolastica e a partire dal quale si è
sperimentato e posto
costantemente in discussione nel gruppo.
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