Modello 5 Aprile 2002 - Num.2 - pag. 5
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Modello 5 Aprile 2002 - Num.2 - pag. 5
PAGINA APRILE 2002 Giù le mani dagli immobili delle casse previdenziali private segue da pag. 1 Con la privatizzazione si sono, invece, aperte nuove frontiere: a) si è anzitutto elevata la efficienza dei servizi e delle prestazioni accrescendo il tasso di autonomia e di responsabilità; b) si è altresì assicurata l’autoreferenzialità della gestione affidata ad opzioni e manovre finanziarie atte a garantire gli equilibri finanziari; c) in particolare, si è consentito di ottimizzare le risorse disponibili con investimenti produttivi e forti rendimenti; d) si è infine offerta la possibilità di prestare attenzione a prestazioni e benefici per gli iscritti di natura complementare ed integrativa. In sintesi, la privatizzazione ha aperto spazi dapprima negati all’autonomia normativa e gestionale che ha dotato le amministrazioni previdenziali di efficienza, produttività e professionalità. Essa, inoltre, costituisce un passo irreversibile, impedendo un eventuale (e interessato) ripensamento le garanzie costituzionali del riconoscimento delle formazioni sociali derivante dall’art. 2 Cost. e della libertà di assistenza privata di cui all’art. 38 Costituzione. Ciò che è sorto nell’ambito dell’autonomia privata può opporre resistenza a forzate qualificazioni pubblicistiche non più giustificabili nella dialettica del rapporto pubblico-privato e sottrarsi così definitivamente al regime di pubblicizzazione cui già si era dovuti soggiacere. L’abolizione dei vincoli pubblici nella gestione del patrimonio immobiliare L’art. 65 della legge n. 153 del 1969 oggi non più in vigore per le Casse privatizzate stabiliva che: “gli enti pubblici e le persone giuridiche private, comunque denominate, i quali gestiscono forme di previdenza e di assistenza sociale, fossero tenuti a compilare annualmente piani di impiego dei fondi disponibili. Per fondi disponibili si intendevano le somme eccedenti la normale liquidità di gestione. Ma la normativa speciale non limitava la propria portata ai predetti vincoli. E infatti la legislazione succedutasi negli anni ‘80 e ’90 ha, via via, previsto: a) la destinazione di una quota non superiore al 10% dei fondi stessi in aggiunta alla quota massima del 40% dei fondi destinabili ad investimenti immobiliari - all’acquisto ed alla costruzione di immobili ad uso ufficio da cedere in locazione al Ministero del Lavoro o all’INPS; b) l’obbligo, limitatamente al periodo 1986/1990, di destinare ad investimenti immobiliari di carattere residenziale, nelle zone ad alta densità abitativa colpite dal sisma del novembre 1980, di una somma non superiore al 20% dei fondi destinati agli investimenti immobiliari; c) l’obbligo agli Enti che gestivano forme di previdenza e assistenza sociale - per il periodo 1990/1995 - di utilizzare il 30% dei fondi disponibili per investimenti immobiliari per la costituzione e l’acquisto di immobili a destinazione residenziale, da destinare a dipendenti statali trasferiti per esigenze di servizio; d) l’obbligo di destinare una quota non inferiore al 20% dei fondi annualmente disponibili, in via prioritaria, alla realizzazione o all’acquisto di immobili destinati alle esigenze di edilizia universitaria, anche per uso residenziale, e degli istituti pubblici di ricerca, da concedere in uso, anche mediante locazione finanziaria, alle istituzioni interessate. Agli obblighi di acquisto non più vigenti hanno fatto riscontro - in massima parte - investimenti immobiliari non certamente convenienti. Fortunatamente la richiamata legislazione speciale non è più applicabile dal 1994 - agli Enti previdenziali privatizzati, i quali non sono più obbligati a predisporre piani di impiego dei fondi disponibili autorizzati dai Ministeri, ad acquistare immobili in una certa percentuale massima o minima e a comprare immobili con una determinata destinazione e per determinati conduttori qualificati o qualificabili. Insomma, cessati i vincoli pubblici (espropriativi e dissolutori), i beni immobili delle Casse previdenziali dei professionisti possono essere gestiti con efficienza e produttività in modo da costituire efficaci garanzie per i trattamenti pensionistici. La legge 431/1998, con la previsione di canoni liberi, ha altresì reso possibile il miglioramento del rendimento dei patrimoni immobiliari delle Casse professionali private in linea con le finalità previdenziali. ❉❉❉❉❉ Ma le sorprese espropriative e vincolative non sono finite. È stato, infatti, recentemente presentato in Parlamento e risulta già in discussione alla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, un disegno di legge, di iniziativa dell’On. Publio Fiori (n. 1181/C) che, se approvato, comporterebbe ulteriori effetti devastanti per la stabilità finanziaria degli Enti previdenziali privati dei professionisti, nonché, più in generale, per il mercato delle locazioni immobiliari in Italia. La proposta, in realtà, è articolata in due norme che tendono ad integrare la riforma della disciplina delle locazioni degli immobili adibiti ad uso abitativo, introdotta con legge 9/12/ 1998, n. 431. L’art. 1 prevede che ai contratti di locazione rinnovati o stipulati, senza soluzione di continuità nella detenzione dell’immobile con i precedenti conduttori, dalle compagnie di assicura- zione, dagli enti privatizzati, dai soggetti giuridici od individuali detentori di grandi proprietà immobiliari si applichino obbligatoriamente le disposizioni di cui all’articolo 2, comma 3 della predetta legge 431/1998. L’art. 2 prevede che per le compagnie di assicurazione, gli enti privatizzati, i soggetti giuridici o individuali detentori di grandi proprietà immobiliari, i canoni di locazione siano definiti, all’interno dei valori minimi e massimi stabiliti per le fasce di oscillazione, per aree omogenee indicate dalle contrattazioni territoriali, sulla base degli accordi integrativi locali. Per la conclusione dei citati contratti le parti dovrebbero obbligatoriamente essere assistite dai rappresentanti delle organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori che abbiano sottoscritto gli accordi in sede locale. Sul piano generale la proposta legislativa va contestata in quanto appare evidente la sua illegittimità derivante dalla finalità malcelata di reinserire, nella dinamica contrattuale delle locazioni, elementi di dirigismo di tipo pubblicistico ripristinando, addirittura, l’obbligatoria assistenza delle Associazioni di categoria, già dichiarata incostituzionale, nella previgente normativa (c.d. patti in deroga), da una decisione della Corte Costituzionale (sentenza n. 309 del 1996). I rilievi critici di maggiore portata riguardano, però, la estensione della disciplina vincolante in tema di contratti agli Enti previdenziali privati dei professionisti che, ormai soggetti privati da diversi anni, non possono certamente essere obbligati a stipulare rinnovi contrattuali a canoni concordati ai sensi del 3° comma dell’art. 2 della legge 431/1998. In caso di approvazione della proposta di legge, oltre ad essere introdotte turbative e disparità tali da vanificare gli scopi della riforma del 1998, verrebbero ad essere fortemente penalizzati i rendimenti finanziari di natura immobiliare e, in prospettiva, le stesse garanzie previdenziali dei professionisti italiani. Il problema, come si è detto, nasce da lontano. Le origini pubbliche delle Casse previdenziali dei professionisti hanno provocato un accumulo fisiologico di patrimonio immobiliare, imposto da norme pubblicistiche che vincolavano, a tal fine, gran parte delle risorse disponibili e stornavano il patrimonio dalle finalità previdenziali. Nel corso degli anni, poi, sia prima che dopo la privatizzazione, le Casse professionali hanno fortemente investito nella manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili, spesso collocati in zone centrali o residenziali delle più grandi città italiane. Nonostante ciò le normative restrittive e vincolanti esistenti nel mercato delle 5 locazioni hanno causato enormi pregiudizi economici alle Casse con redditività degli immobili intorno all’1%. Ma vi è di più. La scarsa redditività del patrimonio immobiliare è stata stigmatizzata a più riprese sia dalla Corte dei Conti sia dalla Commissione Bicamerale di Controllo sull’attività degli Enti. Ciò soprattutto con riferimento alle finalità conservative e di garanzia svolte da tale patrimonio nei confronti degli iscritti. Obbligare le Casse previdenziali professionali, autofinanziate, ad investire in immobili e a garantirne la manutenzione senza consentire loro di ricavarne un reddito adeguato, mina alla radice la funzione solidaristica endocategoriale cui l’intero patrimonio degli Enti privati è destinato. È del tutto evidente come una così grave penalizzazione nei confronti delle Casse che perseguono fini previdenziali, in attuazione dell’art. 38 della Costituzione, senza ricevere alcun contributo da parte dello Stato, sia francamente inconcepibile, prima ancora che inaccettabile. Per quanto concerne, poi, l’affermazione contenuta nella relazione del disegno di legge circa la pretesa degli Enti di imporre canoni superiori ai prezzi di mercato “approfittando della debole posizione contrattuale dei conduttori”, essa appare del tutto destituita di fondamento, se non addirittura offensiva nei confronti dei vertici delle Casse che non perseguono, come già detto, fini di lucro, ma semplicemente una adeguata redditività dei propri cespiti immobiliari. C’è piuttosto da domandarsi chi potrà mai risarcire le nostre Casse professionali per decenni di canoni bloccati, di vincoli negli investimenti, di proroghe automatiche delle scadenze contrattuali, di blocchi degli sfratti, ecc. È evidente, poi, che alcuni privilegi, caratteristici di un certo malcostume italico, come la detenzione, a fitto bloccato, di immobili di pregio in zone centrali o semi centrali di proprietà degli Enti, confidando in disfunzioni e disattenzioni nell’amministrazione del patrimonio, non possano più essere tollerati o difesi dopo l’intervenuta privatizzazione. Non esiste, pertanto, alcun valido motivo per cui i contratti di locazione delle Casse professionali debbano essere sottratti alle regole generali del mercato così come definite nella legge 431/1998. L’assemblea dell’AdEPP, che ha recentemente affrontato l’argomento, ha sollecitato un’audizione da parte della Commissione Ambiente per sottoporre le inconfutabili ragioni delle Casse in rappresentanza degli interessi di oltre un milione di professionisti iscritti. Confidiamo sul fatto che la proposta, da ritenersi frutto di una iniziativa isolata, possa essere accantonata, anche perché in aperto contrasto con il programma elettorale dell’attuale maggioranza Governativa. In caso contrario la protesta dei professionisti italiani e delle loro Casse di Previdenza, che ne rappresentano i legittimi interessi previdenziali, non potrà che essere durissima. Maurizio de Tilla