CENTOMILA AI FUNERALI: «OGGI È NATO UN ANGELO» E sulla
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CENTOMILA AI FUNERALI: «OGGI È NATO UN ANGELO» E sulla
CENTOMILA AI FUNERALI: «OGGI È NATO UN ANGELO» E sulla bara, sorretta dagli alpini, rose rosse, garofani bianchi e una scritta: “I tuoi bambini” di Ferdinando Crespi Quando si spense, a soli 54 anni, la sera del 28 febbraio 1956, in una stanza della Clinica Columbus di Milano, dove era stato ricoverato per una grave forma di tumore, la commozione fu enorme. La sensazione condivisa fu che l’Italia, il mondo avesse perduto un’anima bella. L’Arcivescovo di Mi-lano, Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, diceva: «Il mondo di oggi ha bisogno non tanto di maestri, quanto di testimoni». Testimoni del messaggio evangelico, cui don Carlo dedicò la vita, vivendolo egli stesso: «L’educazione cristiana è diventata un’impresa dura, rischiosa, ma bel-lissima», ripeteva, sempre sorretto dall’ottimismo che si alimentava a una fede incrollabile. Egli a-veva vissuto in toto questa missione, per la quale si era consumato, donandosi. «Grazie di tutto», disse morendo. Come quando scriveva dal fronte russo di sentire «più che mai la mia indegnità di fronte a questa altissima vocazione» ma, insieme, aggiungeva «quanto sono infini-tamente riconoscente a Lui, per avermi scelto a strumento di tanta misericordia». Ancora un “grazie”. «Era sotto la tenda a ossigeno – ricorda don Giovanni Barbareschi, suo fedele amico -. Parlava solo ogni tanto e solo a me. La mattina alle sei chiese il piccolo crocifisso che la mamma gli aveva rega-lato per la Prima Messa e volle che fosse appeso sulla tenda per vederlo sempre. Lo appendemmo con del nastro adesivo. Don Carlo lo guardava e gli parlava con gli occhi. L’ultima parola che disse fu: “Grazie di tutto…”. Verso sera si aggravò. Improvvisamente si appoggiò con i pugni al materas-so; prese, strappando l’adesivo, il crocifisso, lo appoggio alle labbra, lo baciò e così morì». Fu l’ultimo sforzo, il recupero di un’energia improvvisa, un impeto spontaneo di un corpo paraliz-zato da ore, che si concentrò nelle sue mani, facendone pugni, dopo averne fatto per decenni, per una vita intera, strumento di bene, conforto e lievito per il fermento d’amore nel mondo. “Grazie”, scrivevano i giornali già a fine febbraio. Grazie per quanto aveva fatto e stava facendo, grazie per quell’ultimo desiderio espresso, di donare una parte di sé a chi ne aveva più bisogno. Il 28 febbraio si respirava già un’atmosfera pesante, triste. Dalla “Gazzetta del Mezzogiorno” all’“Osservatore Romano”, passando per il centro Italia sino a occupare le pagine dei giornali trie-stini, lombardi, piemontesi, e poi di nuovo verso sud, in Sicilia, i titoli erano gli stessi: “Don Gnoc-chi in condizioni disperate”, “in fin di vita”, “gravemente infermo”. «Monsignor Montini è andato a trovarlo - si leggeva sulla “Libertà” piacentina - mentre quattro suoi piccoli sono andati a Lourdes per implorare la grazia , portando con sé un messaggio di don Gnoc-chi». “Moribondo”, si leggeva sul “Giornale d’Italia”, colui che i mutilatini “chiamano padre con cuore di figli”. L’eco dell’epilogo della parabola di don Gnocchi travalicava i confini nazionali, vo-lando oltreoceano. Anche il “Boston Traveler” parlò di lui e dei suoi “warcrippled children”. Sofferente, consumato ma straordinariamente sereno I giornali di quei giorni ripercorrono la vita del pretino ambrosiano, in attesa dell’inevitabile epilo-go. La corrispondenza milanese del “Messaggero” lo descrive come sofferente, consumato, ma te-nace e “straordinariamente sereno”. È il “Corriere della Sera” a testimoniare come da ogni parte d’Italia giungano centinaia di lettere e telegrammi al suo indirizzo. Incoraggiamenti, preghiere, voti, richieste di benedizione, ringraziamenti. Giornali scomparsi da tempo, tra i vari il “Corriere lombardo”, il “Quotidiano della sera”, il “Popolo di Milano”, la “Notte”, seguono ora per ora ciò che avviene nella stanza 16 della clinica in cui è ri-coverato. Non c’è colore, non c’è politica, non c’è fede che discrimini su don Carlo: anche l’“Avanti!” dedica colonne commosse all’“apostolo dei mutilatini”. Le cui condizioni, nel tardo pomeriggio, si aggravano sempre più. «Da vecchio alpino mi sono messo in piedi due volte, oggi, ma temo che non ce la farò la terza». Chiede il cappello da “vecio” e la medaglia d’argento guada-gnata al fronte russo. Poi, a chi lo assiste, raccomanda in dialetto: “Amis, ve racumandi la mia ba-racca”. Alle 18.45 del 28 febbraio, esala l’ultimo respiro col crocefisso sul cuore. “Don Gnocchi si spegne”: è la prima pagina de “La Notte”, dedicata tutta al “prete della bontà”. Tutta la stampa nazionale dedica spazio alla parabola dell’“apostolo del dolore innocente”, alla morte di questo “padre dei mutilatini” che rimbalza nelle parrocchie, nelle piazze, nelle case, nelle redazioni, anche le più lontane. Dal Veneto alla Sicilia, la sua “fiamma della carità” risplende, il suo essere “eroe della carità” commuove tutti. L’“Italia” riassume tutto nel titolo: “Il cancro ha ucciso l’uomo più buono d’Italia”. Anche gli italiani all’estero seguono sulla stampa la vicenda: affettuoso, caldo, nostalgico l’editoriale del “Giornale degli italiani” di San Paolo del Brasile, dedicato all’“Angelo della luce”. Una luce che, entro poche ore, avrebbe illuminato con enorme clamore e speranza la vita di altre due persone. La scelta di donare le cornee è ormai nota, anche se la legge italiana non la contempla. Don Carlo però è uomo d’azione, pesa ogni passo, valuta ogni risposta: è lombardo, germogliato come un fra-gile fuscello, cresciuto nelle nebbie di una pianura fredda e talvolta inospitale, e per questo sa guar-dare lontano. Sa che il suo gesto estremo avrà conseguenze, perché le vuole. Calibra sempre l’andatura, si appoggia solido e apre lo sguardo a prospettive più ampie. La sua scelta fu, ancora una volta, come un terremoto che scosse il terreno della politica e dell’etica. L’“Unità” ne riporta una bella frase, in cui spera “che quegli occhi non vedano più l’orrore di una guerra”. “Santo”, dice la gente “Santo”, scrivono i giornali “Grazie di tutto”, sembra dire la folla che va a rendergli l’ultimo omaggio, a porgergli l’ultimo salu-to fermandosi davanti alla salma esposta in San Bernardino alle ossa. Il feretro di legno scuro è fo-derato di raso bianco, illuminato dalle candele, coperto da una lastra di cristallo che mostra il volto dai tratti affilati che tutti conoscono. Gli alpini, coi mutilatini, vegliano il loro “papà”. Le cronache descrivono un pellegrinaggio ininterrotto di gente comune, un cordone infinito di po-polo. “Il popolo milanese in lagrime sfila davanti alla salma di Don Gnocchi”, titola il “Corriere della Sera”, che mostra la foto di uno dei mutilatini che si sporge sulla bara e bacia la lastra di cri-stallo. L’immagine fa il giro del mondo, e chi non lo ha conosciuto, chi non ha seguito le sue gesta e i suoi risultati è colto da profondo rimorso. Il pudore di Orio Vergani, dalle colonne del quotidiano di via Solferino, è sincero, pulito. Lui ha conosciuto quell’uomo, “semplicissimo”, lo ha visto all’opera come un “santo dietro la scrivania”, tanto sobrio e misurato da non essere riuscito a scriverne quando era in vita. Il suo tributo, ora che è scomparso da qualche ora, è una densissima colata d’inchiostro su foglio bianco, un inno alla sem-plicità, all’amore che tutto muove, e risolve. Come si fa a “essere degni della sua semplicità”, si chiede. Come si fa a ringraziare, a rendere onore, si chiede dalle colonne l’“Italia”, a un uomo “sempre pre-sente dov’erano lacrime da raccogliere, dolori da confortare, bisogni da soddisfare”. Si può, si deve. È il “santo della fanciullezza mutilata”, titola il “Popolo di Milano”. Già, santo, dice la gente, santo scrivono i giornali. Tra la folla, enorme, che seguì il funerale facendo da ala, precedendo o seguen-do il feretro, corse un pensiero, che divenne voce, “Era un santo, è morto un santo”. Corteo di chilometri in una Milano paralizzata “Grazie di tutto”, pensava folla che lo accompagnò al funerale nel Duomo di Milano. Grazie per la carità, il tempo, le parole regalate. Grazie per esserci stato e per aver scelto di essere presente nei momenti peggiori, tra le pieghe di uno spaventoso conflitto che aveva percorso e percosso il mondo in lungo e in largo come un ciclone impazzito: per essere stato lì, al fronte greco-albanese, cappel-lano volontario nel battaglione Val Tagliamento degli alpini e poi nelle sacche del Don, coi suoi al-pini della Tridentina. La sua Messa più bella? Glielo avevano chiesto: quella del 1942, sul fronte russo, al gelo, in mezzo alle esplosioni, accerchiati. «Porto sempre con me il sorriso degli alpini», diceva. E ricordava: «Rivedo sul candore fisso e sterminato della steppa invernale la scia tortuosa di quel doloroso calvario, segnato dalla macchia scura del sangue e dei corpi abbattuti nella stanchezza brutale…». Gli alpini per lui erano come i bambini, da seguire, accudire, persone di cui prendersi cura. E così, dopo la guerra, aveva illuminato il futuro di tantissimi giovani mutilati, era andato a cercarli e li a-veva trovati. A migliaia. Non bastava: il “Corriere lombardo” ricordava come nacque un altro fronte di battaglia di don Carlo, che è anche una delle risposte più belle che si potrebbero dare a chi chie-desse: “Chi era don Gnocchi?”. «Pio XII ricevette una lettera di un ragazzo trentino di 10 anni: “Sono poliomielitico da 9 anni e nessuno si prende cura di me. Mia madre si è rivolta a destra e a manca, ma le hanno risposto sempre di no. Nella mia valle c’è un bambino che ha trovato una bom-ba. La bomba è scoppiata e il bambino è rimasto senza braccia. Lui, però, è stato subito accolto da Don Gnocchi. Io, invece, continuo a trascinarmi nella mia povera casa. Perché Dio non ha fatto tro-vare una bomba anche a me?”. La lettera venne spedita a don Gnocchi. In fondo, di suo pugno, il Papa aveva scritto: “Per don Gnocchi”». Ecco chi era. Ecco di chi era il corpo che un corteo di chilometri di persone accompagnò al Duomo di Milano la mattina del 1° marzo. Una folla di oltre centomila persone, in lacrime, in silenzio, in ginocchio, dal-le finestre, paralizzò la città più industriosa d’Italia. Una città ferma, costernata, con le saracinesche abbassate, le chiese listate a lutto, le mani giunte, “inghiottita dal silenzio” scrivono i giornali. Il passaggio della bara sorretta da quattro alpini, coperta di rose rosse e garofani bianchi, con la scritta “i tuoi bambini” è annunciata dal rullo di tamburi. Una raffica violenta che strapazza i cuori Il giorno dopo, il 2 marzo, sul “Corriere della Sera” si leggeva che il passaggio era stato “una raffica violenta, qualcosa che strapazzava dentro a quelli che assistevano”. “Immensa folla a Milano ai funerali del piccolo santo”, titolavano le cronache. Una folla che fece da ala ai 700 mutilatini che pre-cedevano il feretro: 700 in rappresentanza di tutti gli altri. Su stampelle, carrozzelle, presi in spalla dagli alpini, senza lacrime, ma con tanto dolore. Il corteo ci mise un’ora a compiere il percorso. «Non si è spento un uomo - scriveva Beppe del Colle sul “Resegone” - è nato un angelo», un angelo alla cui salma terrena furono tributati gli onori solitamente riservati a un arcivescovo. Non era mai accaduto prima. Fu Montini a presiedere il rito funebre, in un’atmosfera sospesa, carica di emozione e dolore, ma anche di dignità, gratitudine, affetto. Alla destra dell’altare maggiore i mutilatini, disciplinati, silen-ziosi, attenti, col cuore gonfio di commozione. Montini aveva chiesto di far parlare un bambino, uno dei suoi mutilatini. Prima che la celebrazione avesse fine, dal gruppo si staccò in punta di piedi un ragazzino di undici anni, cieco da un occhio. Arrivato al microfono sotto il presbiterio, rivolse l’ultimo saluto al “papà”: «Caro Don Gnocchi, mio papà e papà di tutti i mutilatini e dei poliomieli-tici…». Salì un’ovazione, e il futuro Papa disse: «Molto meglio che abbia parlato un bambino». Co-sì si concluse l’“omaggio a un gran cuore”: con l’“apoteosi della bontà”, scrivevano i giornali. Il clamore del trapianto su molti giornali europei Le cronache dell’epoca seguirono poi con grande attenzione e apprensione l’esito del trapianto delle cornee. Anche la stampa internazionale lo fece: giornali e periodici svizzeri, tedeschi, portoghesi, anglosassoni, dell’Europa dell’Est e della Scandinavia e, forse più di tutti, i giornali francesi diedero enorme risalto alla vicenda, spiegandola come l’“ultimo sacrificio”, l’“ultimo miracolo” del padre dei mutilatini. Ma l’onda lunga dell’opera di don Carlo non si sarebbe fermata lì. A corredo delle notizie sul funerale, i giornali italiani iniziarono a citare la “generosità lombarda”, le innumerevoli “raccolte di fondi” attivate in tutto il Paese, le tantissime e “generose donazioni” a favore della Fondazione. Anche una volta, don Gnocchi era riuscito a “fare”, come piaceva a lui, a fare ancora del bene. “Grazie di tutto”, avrebbe detto. Il 24 maggio 1997, a chiusura delle celebrazioni del quarantesimo anniversario della sua morte, Giovanni Paolo II così parlò nell’udienza particolare concessa alla Fondazione Don Gnocchi: «Per il cristiano l’atto del morire rappresenta il compimento della vita, della propria vocazione e missio-ne. Egli, alla sequela di Gesù, ha imparato a morire a se stesso e a realizzarsi nel dono di sé, a ritro-varsi compiutamente ed in verità “perdendosi”, come il chicco di grano. Per chi ha conosciuto e crede all’amore di Dio, l’unica cosa essenziale è amare, sia vivendo che morendo. E il senso auten-tico e pieno del vivere diventa dare la vita. Per un sacerdote, in particolare, questo significa seguire l’esempio di Cristo Buon Pastore, che offre la vita per le proprie pecore. Così è stato, in modo mi-rabile, per il vostro fondatore».