rivista bancaria - Minerva Bancaria

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RIVISTA BANCARIA
www.rivistabancaria.it
MINERVA BANCARIA
ISTITUTO DI CULTURA BANCARIA «FRANCESCO PARRILLO»
Marzo-Aprile 2015
Tariffa Regime Libero:-Poste Italiane S.p.a.-Spedizione in abbonamento Postale-70%-DCB Roma
2
RIVISTA BANCARIA
MINERVA BANCARIA
COMITATO SCIENTIFICO (Editorial board)
PRESIDENTE (Editor):
GIORGIO DI GIORGIO,
Università LUISS Guido Carli, Roma
MEMBRI DEL COMITATO (Associate Editors):
PIETRO ALESSANDRINI, Università Politecnica delle Marche
PAOLO ANGELINI. Banca d’Italia
PIERFRANCESCO ASSO, Università degli Studi di Palermo
EMILIA BONACCORSI DI PATTI, Banca d’Italia
CONCETTA BRESCIA MORRA, Università degli Studi del Sannio
FRANCESCO CANNATA, Banca d’Italia
ALESSANDRO CARRETTA, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
ENRICO MARIA CERVELLATI, Università di Bologna
NICOLA CETORELLI, New York Federal Reserve Bank
N.K. CHIDAMBARAN, Fordham University
MARIO COMANA, LUISS Guido Carli
GIANNI DE NICOLÒ, International Monetary Fund
RITA D’ECCLESIA, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
GIOVANNI DELL’ARICCIA, International Monetary Fund
STEFANO DELL’ATTI, Università degli Studi di Foggia
GIORGIO DI GIORGIO, LUISS Guido Carli
CARMINE DI NOIA, ASSONIME
LUCA ENRIQUES, University of Oxford
GIOVANNI FERRI, Università LUMSA
FRANCO FIORDELISI, Università degli Studi “Roma Tre”
LUCA FIORITO, Università degli Studi di Palermo
FABIO FORTUNA, Università Niccolò Cusano
EUGENIO GAIOTTI, Banca d’Italia
GUR HUBERMAN, Columbia University
AMIN N. KHALAF, Ernst & Young
RAFFAELE LENER, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
NADIA LINCIANO, CONSOB
PINA MURÉ, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
FABIO PANETTA, Banca d’Italia
ALBERTO FRANCO POZZOLO, Università degli Studi del Molise
ZENO ROTONDI, Unicredit Group
ANDREA SIRONI, Università Bocconi
MARIO STELLA RICHTER, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
MARTI SUBRAHMANYAM, New York University
ALBERTO ZAZZARO, Università Politecnica delle Marche
Comitato Accettazione Saggi e Contributi:
GIORGIO DI GIORGIO (editor in chief) - Alberto Pozzolo (co-editor)
Mario Stella Richter (co-editor) - Domenico Curcio (assistant editor)
ISTITUTO DI CULTURA BANCARIA
«FRANCESCO PARRILLO»
PRESIDENTE
CLAUDIO CHIACCHIERINI
VICE PRESIDENTI
MARIO CATALDO - GIOVANNI PARRILLO
CONSIGLIO
TANCREDI BIANCHI, GIAN GIACOMO FAVERIO, ANTONIO FAZIO,
GIUSEPPE GUARINO, PAOLA LEONE, ANTONIO MARZANO, FRANCESCO MINOTTI,
PINA MURÈ, FULVIO MILANO, ERCOLE P. PELLICANO’,
CARLO SALVATORI, MARIO SARCINELLI, FRANCO VARETTO
In copertina: “Un banchiere e sua moglie” (1514) di Quentin Metsys (Lovanio, 1466 - Anversa, 1530), Museo del Louvre - Parigi.
RIVISTA BANCARIA
MINERVA BANCARIA
ANNO LXXI (NUOVA SERIE)
MARZO-APRILE 2015 N. 2
SOMMARIO
Editoriale
G. DI GIORGIO
Oltre il QE: area euro e Italia alla prova della ripresa ........ 3
Saggi
F. CANNATA,
S. CASELLINA
M. LIBERTUCCI
(In)coerenza degli attivi ponderati per il rischio
delle banche: un’analisi empirica
sui grandi players europei ..................................................... 7
M. MUSCETTOLA
L’intensità della domanda e dell’offerta:
di credito bancario come fattore rilevante
di classificazione delle imprese ........................................... 41
Contributi
S. SEGNALINI
I primi centodieci anni degli art funds: problemi
e prospettive ........................................................................ 75
Rubriche
Primi passi della vigilanza unica bancaria
(G. Cinquegrana, M. Di Stefano) ............................................................................... 103
Asset quality review: la trasparenza si è tradotta in un investimento
(da capitalizzare) di circa 56 miliardi di euro per il sistema
(M. Macellari, G. Costantino, M. Salemi) .................................................................. 129
Bankpedia:
Meccanismo di vigilanza unico - MVU
(G. Aversa) ........................................................................ 137
Recensioni
G. Amari, Parla Federico Caffè. Dialogo immaginario
sulla “società in cui viviamo” (L. Paliotta) .................................................................. 143
Presidente del Comitato Scientifico: Giorgio Di Giorgio
Direttore Responsabile: Giovanni Parrillo
Comitato di Redazione: Eloisa Campioni, Mario Cataldo, Giovanni Nicola De Vito, Vincenzo Formisano, Stefano
Marzioni, Biancamaria Raganelli, Giovanni Scanagatta, Giuseppe Zito
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ISSN: 1594-7556
La Rivista è accreditata AIDEA e SIE
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I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS:
PROBLEMI E PROSPETTIVE1
SILVIA SEGNALINI*
Sintesi
Il saggio può essere diviso in tre parti: la prima dedicata essenzialmente alla
ricostruzione il più possibile completa e circostanziata della storia degli art
funds, dalla prima esperienza del 1904 (con un fondo ante litteram chiamato
La Peau de l’Ours) ai nostri giorni, in cui si cerca già di mettere l’accento sulle
principali problematicità dei medesimi.
Nella seconda parte, si delineano poi alcune ipotesi di inquadramento dei
fondi d’arte, come fondi di investimento alternativo, nel sistema – che si sta
progressivamente delineando nella sua forma definitiva, nel momento in cui
si scrive - della legislazione europea (soprattutto Direttiva UCITS IV) ed italiana sui fondi alternative (per la quale si considera soprattutto il Documento
di Consultazione Pubblica del Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro nel mese di maggio 2014, contenente lo schema di
Regolamento attuativo dell’art. 39 del novellato T.U.F.).
Il saggio si conclude con una sintesi delle prospettive che le novità legislative sembrerebbero aprire per gli art funds, e con un appendice in cui si
raccolgono le principali informazioni utili sul mercato dell’arte, tramite gli
indici più rilevanti ed accreditati per il medesimo.
1
Sia consentito a chi scrive un preliminare ringraziamento al prof. Raffaele Lener e all’avv. Roberta d’Apice, che
hanno avuto la generosità e la voglia di vigilare, con la loro competenza e professionalità, su queste pagine.
*
Università Sapienza di Roma - [email protected]
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SILVIA SEGNALINI
The first one hundred and ten years of art funds: problems and prospects
– Abstract
In the issue, we first focus on the history of art funds, from La Peau de l’Ours
(1904) until today, providing an illustration of the main peculiarities and issues
of this kind of alternative investment funds.
We then point out how relevant Italian and European legislation on alternative fund is constantly evolving with a process of reciprocal and progressive standardisation which however still preserves angles of national peculiarities.
In this framework, and on the assumption that art is considered as an alternative asset class both by economists and jurists, we suggest a possible classification
of art funds in the European and Italian scenary of alternative investment funds
which is shaping up.
To this end, we consider the UCITS IV (i.e. Undertakings for Collective
Investments in Transferable Securities) Directives: as regards it, art funds are
not UCITS funds as well as the rules contained in the consultation version of the
Consolidated Finance Act published by the Ministry of Economy and Finance
(MEF) – Treasury Department in May 2014, containing a general outline of ar.
39 of the Consolidated Finance Law.
Finally an appendix provides the most important information about the art
market using the most relevant and credited indexes.
JEL Classification: Z11, L82, G15, K39.
Keywords: history of art funds, alternative funds, art market, AIFMD, UCITS
Parole chiave: storia fondi di investimento in arte, fondi alternativi, mercato dell’arte, AIFMD, UCITS
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CONTRIBUTI
I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS: PROBLEMI E PROSPETTIVE
Introduzione
La parabola compiuta dagli art funds, anche se poco frequentati dagli investitori – oltre che dalla dottrina2 - , è tutt’altro che breve.
Era infatti il 1904 quando dodici appassionati d’arte, sotto la guida del
finanziere francese André Level, diedero vita alla prima forma, ante litteram,
di fondo di arte della storia, La Peau de l’Ours3, attraverso il quale furono acquistate solo opere d’arte contemporanea4.
È importante sottolineare da sùbito come, nonostante l’operazione
sembrasse di primo acchito altamente speculativa e rischiosa, in realtà fu
la prudenza, la lungimiranza e l’intelligenza dei suoi partecipanti a guidarla: l’impegno economico richiesto agli investitori fu infatti modesto
(250 franchi per ciascuno), e l’asset del fondo non a caso sapientemente
costruito intorno ad uno specifico segmento di mercato, all’interno del
quale furono scelte, per gli acquisti, solo opere di gran pregio. Non ultimo: tutti gli investitori si fidavano cecamente del fiuto artistico e per gli
affari del promotore.
Il successo fu straordinario: allo scadere del periodo di investimento, il 2
marzo 1914, l’intera collezione andò all’incanto all’Hotel Drouot di Parigi,
con prezzi spesso decuplicati rispetto a quelli originari5.
Sono passati quindi poco più di cento anni da quella leggendaria tornata
d’asta, e la storia, a ben guardare, registra solo un altro esempio di art fund il
cui successo, nonostante non sia nemmeno paragonabile a quello de La Peau de
l’Ours, si possa comunque considerare significativo: quello del British Rail Pension Fund, istituito dalle ferrovie inglesi a beneficio dei suoi impiegati nel 19746.
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A quanto ci consta, a parte gli studi, che potremmo definire “preliminari” e di introduzione alla materia, di
C. Zampetti, “Art funds”: Benefici e difficoltà, in AGE, 1/2007, 187 ss.; e G. Iannaccone, Fondi comuni di
investimento in opere d’arte: opportunità tra problematiche valutative e conflitti di interesse, ibidem, 199 ss., l’unico
saggio in dottrina in cui si è tentata una riflessione di più ampio respiro scientifico sugli art funds è quello di F.
Capriglione, I fondi chiusi di beni d’arte, in Contratto e Impresa, XXIII.3, 2007, 736 ss. (ma anche in Riv. Dir.
Civ., 2007; e Banca, borsa e titoli di credito, 2007).
Dal titolo – evocativo – di una novella di La Fontaine la cui morale suggerisce, non a caso, di non vendere la
pelle dell’orso prima di averlo ucciso: un invito alla prudenza che, come vedremo supra, nel prosieguo, nel testo,
fu una delle caratteristiche di questa prima, e ante litteram, esperienza di art fund.
Su questo tema cfr. per tutti, per una panoramica di carattere generale: C. Zampetti, “Art funds”, cit., 187 ss.
Sul punto cfr. R. Heller, The only bear marketever to make a profit, State of Art, Issue 5, Apr-May 2006,
da http://www.state-of-art.org/state-of-art/ISSUE%20FIVE/heller5.html. Sottolinea inoltre Zampetti, “Art
funds”, cit., 190, come il successo fu tale per cui gli investitori, avendo quadruplicato il loro investimento inziale, decisero di donare il 5% dei loro guadagni agli artisti del fondo: una sorta di esempio ante litteram del c.d.
diritto di seguito. Su quest’ultimo, cfr. per tutti, per un approfondimento, A. Candela, A. E. Scorcu (a cura
di), Il maestro e il suo diritto. Testi e problemi del Diritto di seguito, Torino, 2010, 6 ss.; mentre mi sia consentito
il rinvio a S. Segnalini, Dizionario giuridico dell’arte, Milano, 2009, 136-142 per una più rapida disamina
dell’istituto.
Per altri dettagli, più generali, sull’attività di questo fondo, cfr. per tutti J. Eckstein, The Experience of the British
Rail Pension Fund, Investing in Fine Art, London, 2003, 3 ss.
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Il meccanismo utilizzato fu però del tutto diverso: questo fondo infatti
comprò e rivendette opere d’arte sempre attraverso Sotheby’s, ma a ben guardare delle 24.000 opere vendute si stimò che circa 60, da sole – le migliori,
qualitativamente parlando - , generarono la maggior parte del profitto. Questo per dire che, a differenza de La Peau de l’Ours, gli acquisti furono interamente gestiti da una casa d’aste, esterna al fondo, le cui scelte si caratterizzarono per essere piuttosto dispersive: molte più opere, che rappresentavano vari
segmenti di mercato, e soprattutto una selezione delle medesime non sempre
dettata dalla ricerca dell’eccellenza.
In generale, come si diceva poc’anzi, si trattò di un esperimento di successo, ma pur rendendo più dell’inflazione, il fondo sottoperformò il mercato
azionario7.
Dopo quelle prime due esperienze, la situazione degli art funds conobbe
una fase poco felice: ozioso ripetere quanto già sintetizzato in opere che hanno
preceduto questo contributo8, che descrivono la parabola compiuta dai principali fondi nati a partire dalla fine degli anni Novanta/inizio del Duemila:
tutti ugualmente destinati a rimanere non operativi o ad avere uno scarso
successo9.
Le uniche eccezioni in questo quadro sono il Fine Art Fund, fondo londinese ideato da Lord Hanson, un uomo d’affari che è riuscito a coinvolgere
nella gestione personalità come Phillip Hoffman, ex vice- director di Christie’s,
e Lord Gowrie, Ministro britannico della Cultura del Governo Thatcher e Presidente di Sotheby’s per 10 anni. Si tratta di un fondo che ha ridimensionato
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Così ancora Zampetti, “Art funds”, cit., 191, con rimandi a M. Baram, Art funds starved for investors, in «Wall
Street Journal», 22 agosto 2005. Più ottimista A. Zorloni, L’economia dell’arte contemporanea. Mercati, strategie e star system, Milano, 2011, 188, che sottolinea il rendimento annuale positivo (circa +13,1%) del British
Railways Pension Fund, e viceversa il fallimento di tutti i fondi di arte lanciati a partire dal 2006 (ma omette di
confrontare tale risultato con quello de La Peau de l’Ours, per esempio; così come tralascia un’analisi dettagliata
delle cause del successo o dell’insuccesso dei singoli fondi, limitandosi a notare – anche se a ragione – come
quelli fondati dopo il 2006 impattarono nella crisi finanziaria globale. Sommessamente, chi scrive ritiene che vi
sia di più: cfr. pertanto, infra, nel prosieguo del discorso, in particolare alla fine di questo § e infra, nel § 4).
Soprattutto Zampetti, “Art funds”, cit., 191 ss.; e Zorloni, L’economia dell’arte contemporanea, cit., 187 ss.
Il riferimento è al fondo dei fondi di ABN-AMRO, annunciato e poi mai venuto alla luce (in quanto la maggior
parte dei fondi allora esistenti si è rifiutata di sottostare alla due-diligence del gruppo, che quindi non è riuscito
mai a partire proprio perché non trovò un sufficiente numero di prodotti operativi, sicuri, su cui investire);
all’American Art Fund, che non ha mai raggiunto il capitale minimo di investimento; al China Fund, dalla simile
sorte; all’Art and Antiques Fund (dall’idea molto interessante – a sostegno dei mercanti - , ma ciononostante
similmente destinato a non venire mai alla luce); all’Art Vest, del tutto particolare – non cercava capitale, ma voleva vendere azioni del suo asset investito in arte - di cui non si è saputo più nulla; del Fernwood Art Investments,
che, ancora una volta, non riuscì a trovare mai il capitale minimo per partire; al Mutual Art Incorporated, non
più operativo nonostante, ancora una volta, l’intento lodevole, questa volta a favore degli artisti, cui cercava di
assicurare una pensione; al Trading Art Fund, cui non bastò l’avere Charles Saatchi nel management per sfuggire
alla liquidazione. Del fondo Pinacotheca di Vegagest, l’unico autorizzato nel nostro Paese dalla Banca d’Italia, si
dirà più oltre: cfr. infra, nel prosieguo di questo §.
CONTRIBUTI
I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS: PROBLEMI E PROSPETTIVE
progressivamente nel tempo le sue ambizioni, rappresentando attualmente un
veicolo di investimento privato (non ha convinto infatti nessun investitore
istituzionale) di modeste dimensioni: il che non ha impedito però al gruppo
di lanciare nel tempo altri fondi. Non è particolarmente agevole sapere come
tali fondi investano il suo capitale, ma sembrerebbe che la strategia del gruppo
sia quella di diversificare molto i periodi e le opere da acquistare.
Poi c’è il caso del Lussemburgo, che è del tutto particolare, in quanto
una serie di condizioni (fiscali, normative, politiche, etc.) lo rendono la
seconda piazza di fondi di investimento al mondo dopo gli Stati Uniti10:
la riservatezza caratteristica di tale contesto non permette di avere troppe
informazioni, per cui con certezza, allo stato, sulla base delle ricerche condotte, si può solo dire che, dopo non poche difficoltà, è operativo da un
paio di anni il fondo di Anthea Art: non solo specializzato in un particolare
segmento di mercato, quello dell’arte post war e contemporanea, ma soprattutto finalizzato alla costruzione di una vera e propria collezione, coerente,
costituita di opere ben scelte (grazie al lavoro di due curatori internazionali,
che fanno parte del management del fondo, di provata indipendenza e riconosciuta competenza). Anche se non sappiamo, e non è possibile sapere allo
stato, se la scelta sarà poi, alla scadenza del periodo di investimento, quella
di vendere la collezione in blocco – opzione che sicuramente accenderebbe
l’interesse di aspiranti collezionisti di Paesi di recente ricchezza – o, come
più tradizionalmente avviene, le singole opere.
Parimenti, non è possibile conoscere la sorte di esperienze più recenti.
10 Al 31 dicembre 2013, quasi 2,6 trilioni di asset e più di 3.900 fondi risultavano domiciliati in Lussemburgo.
A partire dal 2007, e con la creazione, rivelatasi vincente, del regime SIF, il Lussemburgo ha registrato un
incremento significato del numero di veicoli legali utilizzati per gli investimenti alternativi. Nel Paese è inoltre
ormai un anno che è entrata in vigore la Direttiva AIFMD. In estrema sintesi, possiamo affermare come le
strutture alternative siano organizzate sotto forma di UCI (…..), SIF e SICAR, veicoli legali inseriti in un
quadro assai flessibile, in quanto tali strutture possono essere ulteriormente abbinate alla scelta di una forma
giuridica (SICAV, SICAF, FCP). Nonostante le strutture SIF e SICAR siano dedicate ai c.d. “investitori ben
informati”, la diversità degli schemi permessi fornisce ai gestori la possibilità di creare la struttura più adatta agli
investimenti alternativi. Gli UCI in particolare dal momento che non possono essere qualificati come UCITS
armonizzati, consentono un’esposizione verso assets alternativi. Sulla base della normativa AIFM, gli UCI vengono automaticamente qualificati come AIF; possono essere costituiti sotto forma societaria o contrattuale ed
essere creati come veicoli comuni chiusi: in Lussemburgo la commercializzazione di questo tipo di fondi è infatti
consentita alla clientela retail. Le SICAR (società d’investimento in capitale di rischio), progettate essenzialmente per gli ivestimenti in capitale di rischio (private equity e venture capital) si differenziano dai SIF in quanto
permettono la concentrazione degli investimenti in un unico progetto, senza obbligo di diversificazione. I SIF,
infine, creati nel 2007, sono un veicolo che consente, attraverso l’utilizzo di un quadro normativo adattabile,
investimenti in qualsiasi tipo di assets, compresi quelli “specializzati” (come ad es. oggetti d’arte, vini pregiati,
etc.): l’unico limite agli investimenti (e ai progetti di investimento, potenzialmente illimitati grazie a questo
strumento), deriva dal principio della diversificazione dei rischi, che è applicabile alle SIF (e non alle SICAR,
come già evidenziato). I SIF beneficiano inoltre di un regime fiscale agevolato, per cui gli investitori, qualora
non siano domiciliati né residenti in Lussemburgo, non sono soggetti alla tassazione delle plusvalenze, dei proventi o delle ritenute alla fonte sulla distribuzione dei dividendi.
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Tra le quali un posto merita senz’altro il Fine Art Fund III, dell’omonimo
gruppo: un fondo, nato nel settembre 2013 grazie ancora una volta a Phillip
Hoffman, con base stavolta, non a Londra, come gli altri fondi del gruppo,
ma non a caso in Lussemburgo; e specializzato nel sostegno del particolare
meccanismo delle garanzie11 nelle aste di Christie’s e Sotheby’s.
Vi è poi l’Art Trading Fund, lanciato nel 2012 da Chris Carlson, che si caratterizza per essere molto speculativo, concentrandosi quindi in investimenti
quasi esclusivamente in arte contemporanea, con un veloce turn over delle
opere possedute.
Così come non molto è possibile dire dei numerosi fondi di arte in Cina: si
stima infatti che di 83 art funds censiti nel mondo, circa 58 siano stati fondati
in Cina a partire dal 2009 (dati su cui in realtà molti operatori del settore dubitano)12. A questo risultato, non è stato estraneo di certo il Governo cinese,
che tende a stimolare il settore, al punto che è dello stesso anno la creazione
anche della Shenzhen Cultural Assets and Equity Exchange (SZCAEE), la borsa
dei beni culturali di Shenzhen13.
11 Sui contratti di garanzia delle case d’asta, mi sia ancora una volta consentito il rinvio, per le prime informazioni
generali (ma non ci consta che sia possibile, allo stato, andar oltre quest’ultime: forse non a caso, la materia è
avvolta dalla massima riservatezza), a Segnalini, Dizionario giuridico dell’arte, cit., 101 s.
12 I dati citati derivano dall’ultimo rapporto Art & Finance di Deloitte Luxembourg e ArTactic.
13 Così ancora Zorloni, L’economia dell’arte contemporanea, cit., 189. Informazioni di diverso genere, ma tutt’altro che di dettaglio, sui fondi d’arte cinesi, sono reperibili in F. Vasoli, I fondi di opere d’arte nei mercati emergenti: il caso della Cina, in «Art&Law», 9/2012, 5 ss. (Newsletter di Negri-Clementi Studio Legale Associato, a cura
di G. Negri-Clementi e S.Stabile), in cui viene sottolineato come, nonostante l’investimento in arte in Cina,
anche a causa della scarsa soddisfazione che forme di investimento più tradizionali sono in grado di assicurare
(non foss’altro per i vincoli imposti dal Governo), stia raggiungendo valori ragguardevoli, la cautela è d’obbligo,
in assenza di un quadro normativo specifico. Per di più il fenomeno è nuovo, molti fondi operano da pochi
anni, e gli analisti credono – ma questo è un rischio che tutti gli art funds corrono – che la maggior parte di essi
potrebbe essere sciolta dopo qualche anno dalla costituzione. Non è quindi un caso, in questo quadro di estrema
incertezza, che tali fondi investano soprattutto in opere d’arte figurativa tradizionale cinese (di epoca moderna
e di genere calligrafico), dai rendimenti più sicuri rispetto a quelli della – troppo volatile – arte contemporanea
cinese. È la strategia anche dei più rinomati trader di arte; così come del primo art fund della Minsheng Bank,
creato nel 2007 con un capitale iniziale di 60 milioni di yuan, che, due anni dopo, alla scadenza, risultava aver
avuto una crescita annuale del 12,75% (l’investimento minimo era però di un milione di yuan). Lo strumento
utilizzato in tale operazioni è generalmente quello delle società fiduciarie, che in Cina sono scarsamente regolamentate e costituiscono – dal nostro punto di vista – un ibrido tra le modalità operative del private equity, l’asset
management ed il banking puro: altrettanto scarse, di conseguenza, sono le informazioni sulle performance di tali
particolari fondi, così come sui prodotti finanziari creati dai medesimi, e sulle Borse, costituite in alcune città cinesi, dedicate esclusivamente all’art stock industry, quindi in pratica all’acquisto di quote di opere d’arte. Mentre
sembrerebbe esserci maggiore certezza sul “profilo” dell’investitore tipo in arte in Cina: una persona fisica che,
a fronte di notevoli disponibilità economiche, non ha lo spazio, l’interesse, il gusto o la cultura di acquistare,
per possederle, singole opere d’arte, di cui apprezza maggiormente il possibile rendimento finanziario. In altre
parole: l’investitore ideale per un art fund. Sarà per questo motivo che anche l’Occidente guarda con interesse
a questa propensione dei cinesi alla finanziarizzazione dell’arte: nel Fine Art Fund Group – di cui si è parlato
anche supra nel testo – non è pertanto un caso che vi sia anche un Chinese Fine Art Fund, con sede a Londra,
ma dedicato esclusivamente all’acquisto di opere d’arte cinesi (fondo di cui però, al pari degli altri del gruppo,
non è possibile sapere se i risultati sperati – del 12-15% annuo – siano stati raggiunti, nonostante sia ormai
concluso il suo periodo di investimento: venne infatti costituito nel 2007, con una durata di cinque anni, ed
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CONTRIBUTI
I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS: PROBLEMI E PROSPETTIVE
Infine, tra le esperienze più recenti e quindi più difficilmente valutabili allo
stato si segnalano il Fondo Scudo Arte Moderna, nato dalla Scudo Investimenti Sg, istituto di San Marino; ed il Sobraine.Photoeffect, il primo grande
fondo di investimento in arte russo, quotato alla Borsa di Mosca e specializzato solo in fotografia: un segmento di mercato che è stato scelto per la rapida
crescita segnata negli ultimi anni, nonché in quanto considerato accessibile da
una più larga fascia di investitori (non a caso l’investimento minimo richiesto
è di 16.700 dollari).
Quel che si può da sùbito far notare, di queste due ultime esperienze, è
non solo l’estrema specializzazione del fondo russo, ma anche come, in entrambi i casi, sia il modello di business ad essere nettamente diverso da quello
delle esperienze precedenti di art funds: il fondo sanmarinese investe in fine art
quasi l’80% del suo valore, lasciando liquidi la restante percentuale dei suoi
assets; mentre il fondo russo non ha all’inizio raccolto soldi dagli investitori
per l’acquisto delle opere d’arte da rimettere in seguito sul mercato, ma ha raccolto direttamente un enorme corpus di opere da collezioni russe di fotografia:
opere che si impegna a rivendere all’asta, annualmente, in percentuali variabili, contestualmente cercando di valorizzarle attraverso una serie di esposizioni
in Musei – ben scelti - di tutto il mondo, per poi pagare i dividendi finali agli
investitori (motivo per cui qualcuno potrebbe addirittura pensare, e legittimamente, che non si tratti di un fondo vero e proprio).
Nonostante il quadro sembrerebbe non offrire troppi elementi di valutazione, si permetta sommessamente una prima deduzione, molto parziale,
favorita da una particolare esperienza italiana, cui volutamente non si era ancora accennato: il riferimento è al fondo Pinacotheca, l’unico autorizzato dalla
Banca d’Italia nel maggio del 2007, nonostante, a ben guardare, perlomeno
agli occhi degli addetti ai lavori del mondo dell’arte, fosse un fallimento annunciato (come poi si è puntualmente rivelato).
Vediamo più nel dettaglio perché.
Il fondo, destinato, almeno in una fase iniziale, esclusivamente ad investitori istituzionali con quote minime di 250 mila euro, ha iniziato la sua attività
con un patrimonio non indifferente (soprattutto per l’Italia): circa 25 milioni
di euro, di cui si era approvato l’utilizzo per l’acquisto di opere d’arte di epoca
compresa tra il 1200 ed il 1800.
La Banca d’Italia aveva previsto limiti all’investimento in ogni dipinto: il
che, se da un punto esclusivamente finanziario, potrebbe apparire, in generale, come una manovra prudenziale più che opportuna, dal punto di vista
un investimento minimo di 100.000 dollari).
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 2 / 2015
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SILVIA SEGNALINI
dell’efficienza del funzionamento di un fondo di tal genere può viceversa rivelarsi dannoso: abbiamo visto poc’anzi, infatti, come nelle esperienze di maggiore successo dei fondi di arte, al momento del disinvestimento, furono ben
poche opere, quelle di qualità – che nella maggior parte dei casi richiedono
anche uno sforzo economico maggiore — , a determinare la maggior parte
dei ricavi. Potrebbe quindi non essere troppo opportuno, stabilire, a priori, un
limite all’investimento in ciascun dipinto.
E questo potrebbe essere stato senz’altro il primo elemento di debolezza
del fondo Pinacotheca, che si è necessariamente ritrovato, alla fine, con un
insieme di opere piuttosto modeste.
Ma vi è di più.
Il fondo (di tipo chiuso14, nel senso dell’art. 12 dell’allora vigente Decreto
24 maggio 1999, n. 228), in questione, infatti, si concentrava sull’acquisto di
opere di alta epoca di artisti italiani scarsamente noti, ma dietro l’indubbio, ed
in parte lodevole, intento di valorizzazione dei medesimi, non si può non notare come dal punto di vista del ritorno economico lo schema fosse piuttosto
debole: non appena infatti artisti di tal genere vengono immessi sul mercato,
è molto probabile, per come è concepita la normativa italiana sul patrimonio
culturale15, che le loro opere vengano dichiarate di interesse culturale (con la
c.d. notifica): un passaggio la cui unica conseguenza certa, dal punto di vista
del mercato dell’arte, è il deprezzamento del loro valore, dovuto essenzialmente alle restrizioni alla circolazione delle opere c.d. notificate all’interno dei
confini del nostro Paese. Circostanza che le priva automaticamente di qualsiasi appetibilità per il mercato internazionale16; così come – soprattutto – ha
privato il fondo di qualsiasi appetibilità per gli investitori.
14 Il problema delle tipologie di fondi, ed in particolare l’analisi di quelle più idonee, nel nostro attuale ordinamento, per un asset molto particolare qual è quello delle opere d’arte, viene affrontato funditus nel prosieguo del
testo: cfr. infra, soprattutto §§ 2 e 3.
15 Cfr. Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (e successive modificazioni), recante il “Codice dei beni culturali
e del paesaggio”, in part. artt. 10-16; 20-21; 54-56; 59-62; 65-74; 163-164-173-174.
16 Sulla dichiarazione di interesse culturale, e le problematiche conseguenti, la bibliografia è sterminata: cfr., tra
gli altri, G. De Giorgi Cezzi, Verifica dell’interesse culturale e meccanismo del silenzio assenso, in Aedon (Rivista
di arti e diritto on line), 3/2003; G. Sciullo, La verifica dell’interesse culturale (art. 12), in Aedon (Rivista di
arti e diritto on line), 1/2004; Id., Sub Art. 12, in M. Cammelli (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del
paesaggio, Bologna, 2004, 118 ss.; G. Famiglietti-D. Carletti, Sub Art. 12, Verifica dell’interesse culturale, in
R. Tamiozzo (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del Paesaggio, Milano, 2005, 49 ss.; J. Bercelli, Notifica
e trascrizione del provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale tra esigenze di tutela dei beni culturali e
principio di certezza dei rapporti sociali, in Aedon (Rivista di arti e diritto on line), 3/2006; C. Volpe, Sub artt.
12-19; A. Maffettone, Sub artt. 20-21 e – soprattutto per la circolazione internazionale delle opere d’arte - M.
Fiorilli, Sub artt. 65-74, in G. Leone-A.Tarasco, Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio,
Padova, 2006, 152 ss.; 221 ss.; M. Frigo, La circolazione internazionale dei beni culturali. Diritto internazionale,
diritto comunitario e diritto interno2, Milano, 2007, 1 ss.; Segnalini, Dizionario giuridico dell’arte, cit., 202 ss.;
245 ss.
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CONTRIBUTI
I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS: PROBLEMI E PROSPETTIVE
Per il resto il Regolamento17 di tale fondo contemplava alcune specificità, che
in estrema sintesi sono le seguenti: la presenza di un Comitato tecnico consultivo
di esperti indipendenti nominati dal C.d.A.; la previsione di una Mostra Mercato
permanente a Ferrara e di altre mostre temporanee in altre città, per cercare di valorizzare le opere e metterle in vendita; un catalogo consultabile anche online con
schede sintetiche, messe a punto dagli esperti, con le caratteristiche dei dipinti e le
stime dei medesimi, da aggiornarsi ogni sei mesi18.
A questi elementi, si aggiunga poi un ulteriore dato di fatto: le uniche esperienze di fondi di arte di successo risalgono ad un periodo (rispettivamente
1904-1914 per La Peau de l’Ours, e gli anni Settanta per il British Rail Pension
Fund) in cui – se non lo si fosse già notato - non esisteva una normativa specifica per i fondi di investimento19.
Il dato è molto singolare, e messo a sistema con quanto osservato fino
ad ora fa venire spontanea una prima deduzione, del tutto parziale, ma non
per questo meno suggestiva: il successo degli art funds sembrerebbe infatti
dipendere non tanto dalla disciplina del settore, quanto da come vengono
strutturati, ideati, financo dalla scelta delle persone coinvolte, dal loro grado
di indipendenza effettiva nelle scelte di acquisto20: in altre parole dal modello
di business – inteso in senso ampio - prescelto.
17 Sulle peculiarità dei Regolamenti dei fondi di arte si tornerà in un prossimo lavoro, in corso di stesura.
18 Così come prescritto dalla norma allora vigente: l’art. 4, lett. d., del d.m. n. 228 del 1999, ora trasposta nell’art.
4, lett. f del Regolamento attuativo dell’art. 39 del T.U.F (su cui si tornerà anche infra, nel § 3: articolo che
chiarisce come i beni in cui può essere investito il patrimonio di un Oicr possano anche essere “altri beni per i
quali esiste un mercato e che abbiano un valore determinabile con certezza con una periodicità almeno semestrale”). In questo scritto, si farà infatti essenzialmente riferimento al Documento di consultazione pubblicato
dal Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro nel mese di maggio 2014, contenente
lo schema di regolamento attuativo dell’art. 39 del D.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 (T.U.F.), concernente la determinazione dei criteri generali cui devono uniformarsi gli Organismi di investimento collettivo del risparmio
italiani: di volta in volta, si preciserà in nota questa circostanza, per evitare confusione nel lettore e soprattutto
perché il medesimo sia avvertito che, nonostante si sia ormai arrivati molto avanti con il processo di recepimento
della Direttiva AIFMD nel nostro ordinamento – siamo infatti alla fase dei regolamenti, quindi alla normazione
secondaria – e che stia per scadere il termine da ultimo fissato (che era al 22 luglio 2014, con una proroga già
di un anno rispetto al termine iniziale, ma che ora è stato ulteriormente spostato in là nel tempo) per il recepimento in questione, non si tratta comunque dei testi definitivi e ulteriori proroghe, come l’esperienza insegna,
sono sempre possibili. È interessante notare come proprio nel 2007, anno di approvazione da parte della Banca
d’Italia del fondo Picacotheca di Vegagest Sgr, sia comparso lo scritto, già citato, di Capriglione, I fondi chiusi
di beni d’arte, cit., 751 ss., che esplicitamente accredita proprio lo schema seguito per tale fondo: la concentrazione degli acquisti verso le opere d’arte minori (che secondo l’indice Mei e Moses dovrebbero assicurare il
tasso di incremento maggiore: cfr. op. cit., 748); la necessità di prevedere un Comitato tecnico consultivo, una
Mostra mercato, un Catalogo da aggiornarsi ogni sei mesi, esperti esterni ed indipendenti a supporto di tali
ultimi operazioni.
19 In Italia, i fondi di investimento sono stati istituiti con la legge 77 del 1983, ed i primi fondi di diritto italiano
sono stati lanciati nel 1984; così come negli altri Paesi europei la loro introduzione è avvenuta più o meno nello
stesso torno di anni.
20 Da sempre gli investitori considerano la mancanza di indipendenza ed i conflitti di interesse del management dei
fondi di arte, come uno dei principali punti deboli dei medesimi: cfr. in questo senso per tutti, ancora Zampetti, “Art funds”, cit., 196 s.
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 2 / 2015
83
SILVIA SEGNALINI
Ed è forse per questo che le esperienze più recenti sembrerebbero tendere
a diversificarlo il più possibile. Solo il tempo ovviamente ci potrà dire quale
sarà il modello, od i modelli, vincenti: sempre che ve ne siano. La sensazione
è infatti quella per cui non si tratti di modelli standardizzabili, né tantomeno
immutabili nel tempo: molto potrebbe dipendere infatti dalle condizioni e
dall’evoluzione del mercato dell’arte, sempre molto volatile.
Quel che è certo è come la più recente normativa di settore sembrerebbe,
dal canto suo, favorire gli investimenti in assets alternativi (come l’arte, per
l’appunto) e che molti operatori del settore finanziario si aspettano comunque
molto da queste novità.
Nonostante finora si potrebbe parlare piuttosto di sostanziale irrilevanza
della normativa nel determinare il successo o l’insuccesso di un fondo di
arte.
Ancora una volta, però, è presto per tirare delle conclusioni definitive:
piuttosto cerchiamo di analizzare le novità, e forse anche le sfide, che il legislatore, italiano e comunitario, ci sta ponendo proprio di questi tempi.
1. Gli art funds nell’attuale quadro normativo
Potendo considerare ormai risolti definitivamente, ed in senso positivo,
i problemi di opportunità, per così dire, della sussunzione dei beni d’arte
nel contesto della gestione collettiva del risparmio21, va detto come proprio
nel momento in cui si scrive, il quadro normativo che più può interessare, si
stia definitivamente componendo: entro luglio 2014 dovevano essere emanati
tutti i decreti attuativi, ponendo così fine alla fase transitoria, ma il termine è
stato ulteriormente spostato in là nel tempo.
Nel diritto dei mercati finanziari, infatti, la normativa comunitaria — nel
nostro caso, in particolare la direttiva 2011/61/UE, c.d. AIFMD, acronimo
che sta per “alternative investment fund managers directive”22 — , entra piena21 Cfr. in tal senso per tutti, il saggio di Capriglione, I fondi chiusi di beni d’arte, cit., 743 ss., che evidenzia come
il c.d. mercato dell’arte, aderisca, con modalità proprie e precisi caratteri distintivi, alla logica dell’interscambio,
necessaria affinché si possa parlare propriamente di mercato: come insegna la miglior dottrina, sia giuridica
(per la quale cfr. per tutti C. Motti, Il mercato come organizzazione, in Banca, impresa, società, 1991, 468 ss.;
e N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Bari, 1998), sia economica (per la quale cfr. per tutti HAL R. Varian,
Microeconomia6 [trad. it.], Venezia, 2007; G. Palmerio, Elementi di politica economica13, Bari, 2006).
22 Provvedimento che, nel proseguio, verrà citato come Direttiva AIFMD o come Direttiva Alternative – secondo
l’uso invalso fra gli operatori del settore - , e che è stato attuato in Italia (con qualche ritardo rispetto alla scadenza prevista del 22 luglio 2013), con il Decreto legislativo 4 marzo 2014 n. 44, di attuazione delle direttiva
2011/61/UE sui gestori di fondi alternativi, che modifica le direttive 2003/41/CE e 2009/65/CE e i regola-
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CONTRIBUTI
I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS: PROBLEMI E PROSPETTIVE
mente in vigore solo dopo che sono stati completati due passaggi: il recepimento della direttiva in normazione primaria – nel nostro caso nel T.U.F.23 – ,
e l’emanazione di tutti i regolamenti attuativi della medesima24.
La cornice generale della materia è comunque stata definita con l’attuazione, ormai portata completamente a termine, in tempi relativamente recenti,
della direttiva 2009/65/CE, c.d. direttiva UCITS IV25, che ha progressivamente ridisegnato il sistema: dividendo le tipologie di fondi innanzitutto tra
quelli UCITS e quelli non UCITS.
Non sarà inutile cominciare proprio dall’analisi di quest’ultima distinzione, per tentare di collocare innanzitutto in questo scenario gli art funds.
Le Direttive UCITS, nel corso del tempo, hanno progressivamente individuato gli organismi di investimento collettivo del risparmio, fondi comuni e
SICAV, che investono principalmente in valori mobiliari e che sono conformi
a quanto previsto dalla legislazione europea.
La UCITS I permetteva agli OICVM (organismi d’investimento collettivo
in valori mobiliari, per l’appunto) autorizzati da uno Stato membro di essere
liberamente distribuiti in altri Stati dell’Unione europea (c.d. passaporto europeo), andando nettamente verso una maggiore armonizzazione dei mercati.
menti (CE) n. 1060/2009 e (UE) n. 1095/2010: Decreto pubblicato sulla G.U. Serie Generale n. 70 del 25-32014, ed entrato in vigore lo scorso 9 aprile 2014. Sulla Direttiva AIFMD, cfr. per tutti da ultimo R. Lener, La
gestione collettiva del risparmio a quindici anni dal TUF, in Riv. Dir. Comm. (in corso di pubblicazione); e Id.,
The Italian Approach to Alternative Fund Management, in JIBLR, Issue 4, 2014, 197 ss.
23 Decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58: va detto che il recepimento della nuova normativa europea in tema
di gestione del risparmio è stata l’occasione per una riorganizzazione del Titolo III del TUF e per una riformulazione delle definizioni in questo presenti, al fine di renderle conformi con quelle comunemente utilizzate in
ambito UE. In particolare, per quel che ci riguarda, a seguito di questo intervento, la disciplina sulla struttura
dei fondi comuni di investimento, di cui al previgente art. 37, è stata trasposta, con opportune modifiche, nel
nuovo art. 39, rubricato “Struttura degli Oicr italiani”. Va detto che a sua volta l’entrata in vigore del T.U.F.
aveva comportato una riformulazione dei modelli organizzativi esistenti: sul sistema della gestione collettiva del
risparmio prima del T.U.F., cfr. per tutti M. Miola, Commento all’art. 33 del TUF, in G.F. Campobasso (diretto
da), Commentario al Testo Unico della Finanza, Torino, 2002, I, 287 ss.
24 Allo stato, si sta completando anche quest’ultimo passaggio, grazie al lavoro congiunto delle Autorità di Vigilanza (Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro, Consob e Banca d’Italia), che doveva
concludersi entro il termine del 22 luglio 2014, ora ulteriormente prorogato: motivo per cui in questo scritto
si fa riferimento essenzialmente, come già più volte ricordato, al Documento di consultazione, pubblicato nel
mese di maggio 2014 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro, contenente uno
schema di “Regolamento attuativo dell’articolo 39 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernente
la determinazione dei criteri generali cui devono uniformarsi gli Oicr italiani”. Il Decreto in cui sarà convertito
tale regolamento attuativo, sostituirà completamente il Decreto 24 maggio 1999 n. 228 (a sua volta contenente,
per l’appunto, il regolamento attuativo dell’allora art. 37 del T.U.F, in cui, come si diceva poc’anzi – cfr. supra,
nt. 19 – erano inquadrati i criteri generali cui dovevano essere uniformati i fondi comuni di investimento).
25 Direttiva che rappresenta l’ultimo dei provvedimenti che, nel corso degli anni, hanno implementato le precedenti Direttive del Parlamento europeo, note agli addetti ai lavori come UCITS III e pubblicate il 21 gennaio
2002 (2001/107/CE, c.d. Direttiva gestore, e 2001/108/CR, c.d. Direttiva prodotto), che a loro volta avevano
aggiornato la Direttiva 85/611/CEE, c.d. direttiva UCITS I (dove UCITS sta per “Undertakings for Collective
Investments in Transferable Securities”). La UCITS IV è stata recepita in Italia con il D. lgs. 16 aprile 2012, n. 47.
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 2 / 2015
85
SILVIA SEGNALINI
Nel tempo, con l’approvazione delle successive UCITS III, la concessione
del passaporto europeo e la gamma dei prodotti armonizzati vennero notevolmente estesi; consentendo, contestualmente, la commercializzazione delle
quote o delle azioni dei fondi conformi alla UCITS III anche in Paesi nonUE, quali Svizzera, Asia, Sud America e Sud Africa. Segnando così un passo
ancora più deciso verso l’armonizzazione.
Infine, la Direttiva UCITS IV ha posto definitivamente le premesse per
una significativa trasformazione del mercato europeo della gestione collettiva
del risparmio: la disciplina in tema di passaporto del gestore, di libertà di
stabilimento e di libera prestazione dei servizi viene infatti ulteriormente innovata, nel senso di una maggiore liberalizzazione, senza per questo abdicare
alla tutela degli interessi degli investitori, ma piuttosto rafforzandola26.
Tra le principali caratteristiche dei fondi UCITS vi è però, tra le altre27, la
26 Tale rafforzamento verrà ulteriormente accentuato nel momento in cui verrà pubblicata anche la MiFID II, che
introdurrà – rispetto alla Direttiva 2004/39/CE in materia di mercati degli strumenti finanziari, comunemente
nota con l’acronimo MiFID (“Market in Financial Instruments Directive”) – nuove regole per un miglior funzionamento del mercato dei capitali, intervenendo principalmente su: ambito di applicazione della Direttiva
stessa; tutela degli investitori (per l’appunto); disciplina dei mercati; disciplina delle materie prime; rapporti
con i Paesi terzi. L’attenzione alla protezione degli investitori è stata ulteriormente rafforzata nelle due bozze
in consultazione pubblicate dall’ESMA il 22 maggio 2014, contenenti gli atti per l’implementazione della
Direttiva MiFId e del Regolamento MiFIR. Vi è infatti un rafforzamento dei presidi a tutela degli investitori: i
fondi devono essere concepiti da sùbito per soddisfare le esigenze di un mercato target, a pena dell’esercizio del
potere — e questa è una grande novità per il settore — di c.d. product intervention, ovvero del potere delle Autorità competenti di sospendere la commercializzazione o la vendita di strumenti finanziari qualora l’impresa di
investimento non abbia sviluppato o applicato un processo di approvazione del prodotto specifico. Le due principali aree di intervento della nuova regolamentazione atterranno infatti a (i) la struttura dei mercati finanziari,
la loro trasparenza e le loro regole (con nuovi requisiti di trasparenza e di negoziazione delle obbligazioni; una
nuova regolamentazione dei commodity derivatives; l’introduzione di nuovi requisiti organizzativi per le trading
venues); (ii) la protezione degli investitori (con particolare attenzione a inducements, consulenza indipendente,
requisiti per la predisposizione di nuovi prodotti, divieti di distribuzione di taluni strumenti, incremento delle
informazioni su costi e commissioni). In tal senso, cfr. R. D’Apice, Fondi alternativi e finanziamenti alle imprese,
in Focus Risparmio, n. 4, giugno 2014, 13.
27 In sintesi, le principali novità introdotte dalla Direttiva UCITS IV, e indirizzate a pervenire ad un mercato unico
per l’istituzione, la gestione e la distribuzione di OICVM nell’Unione Europea, consentendo a ciascuna società
di gestione di sviluppare la propria operatività anche in via transfrontaliera, sono le seguenti: (a) passaporto del
gestore: la Direttiva introduce una regolamentazione del passaporto del gestore che consente ai fondi comuni
autorizzati in uno Stato Membro di essere gestiti da una società di gestione insediata in un altro Stato Membro
e da questo autorizzata, purché siano soddisfatti alcuni requisiti (il che potrebbe portare ad una riduzione dei
costi, pur preservando il livello di tutela degli investitori); (b) vigilanza del Paese di origine: si prevede che una
società di gestione sia soggetta alla vigilanza prudenziale dello Stato Membro di origine, a prescindere dal fatto
che questa costituisca una succursale o operi in regime di libera prestazione di servizi in un altro Stato Membro
(dovendo quindi rispettare le norme in materia di organizzazione poste dallo Stato Membro di origine; mentre
deve osservare le norme dello Stato ospitante gli OICVM gestiti, in materia di costituzione e funzionamento dei
medesimi); (c) armonizzazione delle procedure di fusione: tramite anche una riduzione degli oneri amministrativi che gravano sui gestori che intendono dar vita ad una fusione di fondi transfrontaliera; (d) disciplina delle
strutture master-feeder: che consente ad un OICVM feeder di investire tutto o in parte il proprio patrimonio in
un OICVM master, così da favorire lo sviluppo di nuove opportunità di business; (e) tutela degli interessi degli
investitori: tramite un significativo cambiamento del contenuto e della modalità di presentazione delle informazioni fornite agli investitori, tramite l’introduzione del key investor informations document (Kiid), che sostituisce
86
CONTRIBUTI
I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS: PROBLEMI E PROSPETTIVE
liquidità, che deve essere fornita almeno ogni 15 giorni. Addirittura la maggior parte dei fondi UCITS alternativi28 offre liquidità giornaliere o settimanali.
Il che pone automaticamente i fondi d’arte — per i quali è impensabile
ipotizzare una liquidità di tal fatta — , rispetto allo scenario delineato nella
Direttiva UCITS IV, tra i fondi alternativi non UCITS.
2.
(segue) ipotesi di classificazione degli art funds secondo l’attuale
quadro normativo italiano
Ciò posto, vediamo quale potrebbe essere la classificazione degli art funds
nel quadro normativo italiano: o meglio quale sarebbe la loro collocazione
ideale nel sistema, posto che quest’ultimo si sta ancora definendo, grazie alla
progressiva introduzione delle Direttive europee poc’anzi citate.
La suddivisione dei fondi per tipologie secondo il novellato T.U.F. è infatti
la seguente: da un lato, abbiamo gli OICVM italiani (rientranti nell’àmbito
di applicazione della Direttiva UCITS IV, quindi in sostanza i fondi armonizzati); e dall’altro, gli OICR italiani, in altre parole i FIA italiani (rientranti
nell’àmbito di applicazione della Direttiva AIFMD)29.
il prospetto semplificato, e che contiene le informazioni chiave necessarie all’investitore finale, sia retail che
istituzionale, prima della sottoscrizione di un OICVM. Tale documento, che si caratterizza per la sua brevità,
è disponibile per ogni classe attiva di prodotto amministrato dalla società di gestione, ha una struttura “tipo”,
indicata dalla normativa europea, e ha quindi lo scopo di uniformare le informazioni contenute nel documento
d’offerta promuovendo una maggiore trasparenza ed una migliore comprensione, facilitando anche il confronto
(soprattutto su costi e profili di rischio) tra prodotti gestiti in diversi Paesi europei.
28 Un fondo UCITS alternativo (o fondo UCITS absolute return) è un organismo di investimento collettivo del
risparmio che, pur potendosi considerare di tipo “armonizzato” (nel senso, in questo caso, di conforme alla
Direttiva UCITS IV), adotta strategie di investimento e tipologie di prodotto dapprima riservate a quelli che si
usava chiamare, fino all’introduzione di quest’ultima normativa, hedge funds. Le quote o azioni dei fondi UCITS
alternativi possono essere commercializzate all’interno dell’Unione europea, sia alla clientela retail che a quella
istituzionale, ma è richiesto, “a monte”, la registrazione di tali fondi presso le Autorità di Vigilanza di uno Stato
Membro.
29 Come anticipato supra, nt. 20, per queste considerazioni, il riferimento normativo è soprattutto al Documento
di consultazione, pubblicato nel mese di maggio 2014 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro, contenente lo schema di “Regolamento attuativo dell’articolo 39 del decreto legislativo 24
febbraio 1998, n. 58, concernente la determinazione dei criteri generali cui devono uniformarsi gli Oicr italiani”. In questa sede, non è inutile notare come cambino anche le definizioni di Oicr aperto e chiuso: l’Oicr aperto
— di cui all’art. 1, comma 1, letter k-bis) del T.U.F. — diventa pertanto “l’Oicr i cui partecipanti hanno il diritto
di chiedere il rimborso delle quote o azioni a valere sul patrimonio dello stesso, secondo le modalità e con la frequenza
previste dal regolamento, dallo statuto e dalla documentazione d’offerta dell’Oicr”. Mentre l’Oicr chiuso diventa una
categoria residuale, definita come “l’Oicr diverso da quello aperto”. Là dove nello stesso contesto — art. 1, comma
1, lettera k) del T.U.F. — l’Oicr è l’“Organismo di investimento collettivo del risparmio” (Oicr): l’organismo istituito
per la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio, il cui patrimonio è raccolto tra una pluralità di investitori mediante l’emissione e l’offerta di quote o azioni, gestito in monte nell’interesse degli investitori e in autonomia
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 2 / 2015
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SILVIA SEGNALINI
I FIA possono essere a loro volta distinti in FIA italiani (al dettaglio) e FIA
italiani riservati30.
In questo contesto, allo stato, gli art funds sembrerebbero poter potenzialmente rientrare innanzitutto nella tipologia degli Oicr italiani chiusi, ed in
particolare dei FIA italiani chiusi31: questo avverrebbe soprattutto nel caso in
cui il loro patrimonio, nel rispetto dei limiti e dei criteri stabiliti dalla Banca
d’Italia — della cui autorizzazione tale tipologia di fondi pertanto necessita
— , sia investito in “altri beni per i quali esiste un mercato e che abbiano un
valore determinabile con certezza con una periodicità almeno semestrale”32.
Ancora più congeniale al particolare mercato dell’arte, sembra però essere
l’altra categoria in cui potrebbero essere inquadrati gli art funds: quella degli Oicr italiani riservati, ed in particolare dei FIA italiani riservati, pensati,
principalmente, per investitori professionali, nella forma sia di fondo chiuso
che aperto; ma a cui possono partecipare, a certe condizioni, anche investitori
non professionali (anche se questo resta ancora, secondo alcuni interpreti, il
grande nodo irrisolto di tale normativa)33. Poiché però è previsto che il FIA
che investa in beni o attività con un minor grado di liquidità o in strumenti
finanziari non quotati, diversi da quote o azioni di Oicr aperti, in misura superiore al 20%, debba necessariamente assumere la forma chiusa34, è quindi
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33
34
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dai medesimi nonché investito in strumenti finanziari, crediti, partecipazioni o altri beni mobili o immobili, in base
a una politica di investimento predeterminata”; mentre il “fondo comune di investimento” è “l’Oicr costituito in
forma di patrimonio autonomo, suddiviso in quote, istituito e gestito da un gestore” (così ancora l’art. 1, comma 1,
lettera j), del novellato T.U.F.
Sempre secondo il novellato T.U.F., si intende per FIA italiano, l’Oicr di cui all’art. 1, comma 1, lettera m-ter):
“Oicr alternativo italiano” (FIA italiano): il fondo comune di investimento, la Sicav e la Sicaf rientranti nell’ambito
di applicazione della direttiva 2011/61/UE [n.d.r.: la Direttiva AIFMD]”. Mentre il FIA italiano riservato, è
l’Oicr di cui all’art. 1, comma 1, lettera m-quater) dell’ultima versione del T.U.F.: “FIA italiano riservato”: il
FIA italiano la cui partecipazione è riservata a investitori professionali e alle categorie di investitori individuate dal
regolamento di cui all’articolo 39”.
Da questo punto di vista, deve considerarsi ormai definitivamente superato l’inquadramento degli art funds
nella categoria dei fondi chiusi secondo il D.M. n. 228 del 1999, operato da Capriglione, I fondi chiusi di beni
d’arte, cit., 749 ss.; così come ogni riferimento al Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio, emanato
da Banca d’Italia il 14 aprile 2005.
Così l’art. 4, comma 1, lettera f ) dello schema di Regolamento attuativo dell’art. 39 del T.U.F. (già citato — cfr.
supra, nt. 17 — e contenuto nel più volte ricordato Documento di consultazione pubblicato nel maggio 2014),
da leggersi con l’art. 10 del medesimo schema di Regolamento. Si è già ricordato come l’esistenza di un “mercato
dell’arte” compatibile con il contesto della gestione collettiva del risparmio, sia un problema già preliminarmente risolto, in positivo, in dottrina: in tal senso, cfr. per tutti Capriglione, I fondi chiusi di beni d’arte, cit., 743
ss. Diverso il problema, che non è possibile qui di affrontare, se davvero all’atto pratico sia possibile, attraverso
ad esempio i risultati delle case d’aste, determinare il valore dei beni d’arte di un fondo con cadenza almeno
semestrale (va detto come l’A. citato sembrerebbe non nutrire dubbi in proposito – cfr. op. cit., 761 ss. - , a
differenza di chi scrive: si affronterà pertanto funditus il problema in un prossimo saggio, in corso di stesura, cui
si è già accennato supra, nt. 16).
Nonostante la normativa abbia previsto tutta una serie di correttivi, su cui si tornerà infra, nel prosieguo del
discorso.
Cfr. in tal senso, l’art. 10, comma 1, sempre dello schema di Regolamento attuativo dell’art. 39 del novellato
T.U.F.
CONTRIBUTI
I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS: PROBLEMI E PROSPETTIVE
quest’ultima l’opzione che probabilmente si dovrà scegliere all’atto della costituzione di un FIA riservato che investa in opere d’arte.
Quel che è certo è che con la Direttiva AIFMD, il gestore di fondi di investimento alternativi potrà commercializzarli anche in uno Stato membro
dell’Unione diverso dal proprio stato di origine grazie al passaporto; oppure
gestire un FIA stabilito in un altro Paese dell’Unione (mentre, al momento in
cui si licenziano queste pagine, sembrerebbe che i FIA extra UE, che svolgano
attività di gestione o commercializzazione in seno all’Unione europea, potranno ottenere il passaporto solo dal 2015).
Lo schema di Regolamento attuativo dell’art. 39 del T.U.F., rubricato
“Struttura degli Oicr italiani”, se confermato, verrebbe poi ad innovare in
diversi aspetti la disciplina della struttura dei fondi comuni di investimento,
rispetto alla normativa precedente (per intenderci, il Decreto 24 maggio 1999
n. 228, che conteneva il regolamento attuativo dell’art. 37 del T.U.F., ove era
contenuta la materia, ora trasposta, per l’appunto, nell’art. 39 a seguito del
nuovo assetto del Titolo III del Testo Unico).
In particolare, per i FIA vengono rimodulati gli obblighi informativi,
tenendo conto degli obblighi di trasparenza previsti per questa tipologia di
fondi già dalle Direttive 2011/61/UE (c.d. AIFMD) e 2004/109/CE (c.d.
Transparency): degna di nota è la circostanza per cui per ciascun FIA gestito o
commercializzato nell’Unione da una SGR, una SICAV o una SICAF, queste
ultime, oltre alle scritture prescritte per le imprese commerciali dal Codice
civile, devono (solo) redigere la relazione annuale e quella semestrale (da fornirsi gratuitamente agli investitori che ne fanno richiesta). Il che è in linea
con l’AIFMD che alleggerisce i GEFIA, ovvero i gestori di fondi alternativi,
per l’appunto, da alcuni obblighi, che permangono invece, anche nel T.U.F.,
per gli OICVM (per i quali ultimi è previsto infatti anche il libro giornale,
nel quale devono essere annotate giornalmente tutte le operazioni relative alla
gestione, comprese quelle di emissione e di rimborso delle quote o delle azioni)35.
Per i FIA chiusi è prevista la possibilità di utilizzare il patrimonio per concedere finanziamenti; mentre per i FIA italiani aperti, sono previste modalità
di investimento del patrimonio che garantiscono la liquidità del portafoglio
e la conseguente possibilità di rimborsare le quote o le azioni prima della
scadenza dell’organismo, con la frequenza stabilita dal regolamento o dallo
35 Cfr. in tal senso gli artt. 2 (Obblighi informativi per gli OICVM) e 3 (Obblighi informativi per i FIA) dello schema
di Regolamento attuativo dell’art. 39 del T.U.F. (visto nel già più volte ricordato Documento di consultazione
del maggio 2014). Diversa poi è la disciplina, sul punto, per i FIA italiani immobiliari, che qui non interessano,
su cui cfr. il poc’anzi citato citato art. 3, commi 4 e 5.
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 2 / 2015
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SILVIA SEGNALINI
statuto. Da questo punto di vista, la principale differenza tra i FIA aperti e gli
OICVM è la possibilità di investire una percentuale più alta del portafoglio
(fino al 20%, invece che fino al 10%) in strumenti finanziari non quotati36
(mentre salendo al di sopra del 20%, come già ricordato37, si deve necessariamente scegliere la forma chiusa).
Si è già accennato alla circostanza per cui ai FIA riservati possono accedere
anche investitori non professionali, purché: (i) l’ammontare minimo di sottoscrizione delle quote o azioni sia di importo non inferiore a cinquecentomila
euro38; (ii) l’investitore non professionale dichiari per iscritto, in un documento separato dal contratto da stipulare per la sottoscrizione delle quote o
delle azioni, di essere consapevole dei rischi connessi all’investimento previsto
(fra cui, a tacer d’altro, la circostanza che il regolamento del fondo non è
soggetto all’approvazione della Banca d’Italia, e la possibilità per il FIA di
derogare ai divieti e alle norme prudenziali di contenimento e frazionamento
del rischio stabilite dalla Banca d’Italia per i FIA non riservati); (iii) l’efficacia
del contratto sia sospesa per la durata di sette giorni decorrenti dalla data di
sottoscrizione, entro i quali l’investitore non professionale può comunicare
al gestore il proprio recesso ed ottenere il rimborso di quanto versato senza
incorrere in penalità39.
In ogni caso, il regolamento o la statuto del FIA italiano riservato deve dare
specifica evidenza del fatto che l’Oicr ha la possibilità di derogare ai divieti
e alla norme prudenziali poc’anzi ricordate, così come della circostanza per
cui il regolamento stesso prescinde dall’approvazione della Banca d’Italia. Il
regolamento o lo statuto del FIA riservato deve inoltre indicare chiaramente
quali sono: l’obiettivo, il profilo di rischio, lo stile di gestione, le tecniche di
investimento, il livello massimo di leva finanziaria e i limiti prudenziali adottati dal FIA. Della conoscenza di queste informazioni fondamentali per la
valutazione della rischiosità del prodotto deve dare contezza l’investitore non
professionale nella dichiarazione scritta.
A fronte poi del mantenimento di alcuni divieti per i fondi chiusi — il cui
patrimonio “non può essere investito in beni direttamente o indirettamente ceduti
o conferiti da un socio, amministratore, direttore generale o sindaco del gestore,
o da una società del gruppo, né tali beni possono essere direttamente o indiretta36 Cfr. in tal senso l’art. 8 (FIA italiani aperti) dello schema di Regolamento attuativo dell’art. 39 del novellato
T.U.F.
37 Cfr. supra, nel testo.
38 Va però detto come non manchino richieste, soprattutto da parte di organismi come Assogestioni, di portare
tale soglia minima di accesso ai FIA riservati a duecentocinquantamila euro (mentre per i FIA italiani al dettaglio non si vorrebbe alcuna quota minima).
39 Così l’art. 14, commi 1, 2 e 5, dello schema di Regolamento attuativo dell’art. 39 del T.U.F.
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CONTRIBUTI
I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS: PROBLEMI E PROSPETTIVE
mente ceduti ai medesimi soggetti”; così come “non può essere altresì investito
in strumenti finanziari rappresentativi di operazioni di cartolarizzazione aventi
ad oggetto crediti ceduti da soci del gestore, o da soggetti appartenenti al loro
gruppo”40 — , sembrerebbero essere stati introdotti anche maggiori elementi
di flessibilità, prevedendo pertanto che “il regolamento o la statuto del FIA italiano chiuso può prevedere i casi ed in modi in cui, nell’’interesse dei partecipanti,
il patrimonio può essere investito in beni direttamente o indirettamente ceduti o
conferiti da un socio del gestore o una società del gruppo e i casi in cui tali beni
possono essere direttamente o indirettamente ceduti ai medesimi soggetti”, purché
vengano rispettate tutta una serie di norme in materia (quella della AIFMD
innanzitutto; poi del regolamento delegato UE n. 231/2013 della Commissione, in particolare art. 30 ss. — in cui si individuano le tipologie di conflitti
di interesse e si disciplinano le procedure e le misure per la prevenzione o la
gestione di tali conflitti — ; infine, del regolamento congiunto della Banca
d’Italia e della Consob)41.
Nel regime transitorio, è stata poi dettata specificamente una norma42 per
tentare di risolvere il problema dei c.d. fondi di side pocket, fondi chiusi istituiti nel 2008 — a seguito della crisi dei mercati finanziari — , costituiti esclusivamente da attività illiquide, che all’oggi non sono ancora state smobilizzate:
per i quali l’unica soluzione possibile per rimborsare le quote, senza pregiudicare l’interesse dei partecipanti, è apparsa quella di permettere di cedere,
in deroga al regime ordinario, le attività del fondo ad un socio del gestore o
un’altra società del gruppo per il completamento della fase di liquidazione.
Sempre da un punto di vista generale, che concerne cioè qualsiasi tipo
di fondi alternativi, e non solo gli art funds, vi è poi da capire meglio se, in
Italia, permarrà il sistema del c.d. gestore unico e, di conseguenza, dell’unica
autorizzazione per poter svolgere attività di gestione collettiva del risparmio,
o meno: dalla lettura dei primi commenti alla materia43, si evince che già
una parte della dottrina si sia schierata a favore dell’opzione secondo cui anche dopo l’introduzione a pieno regime della AIFMD, né la definizione di
“società di gestione del risparmio” né il conseguente regime del c.d. gestore
40 Così ancora il comma 4, dell’art. 10, dello schema di Regolamento attuativo.
41 Cfr. in tal senso il comma 5, dell’art. 10 che si sta sottoponendo ad esame.
42 Si tratta del comma 3, dell’art. 18 sempre dello schema di Regolamento attuativo dell’art. 39 del novellato
T.U.F.
43 Cfr. per tutti da ultimo Lener, La gestione collettiva del risparmio a quindici anni dal TUF, cit., 5 ss.; e Id., The
Italian Approach to Alternative Fund Management, cit., 197 ss.
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 2 / 2015
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SILVIA SEGNALINI
unico (sia esso una SGR o una SICAV) 44, né, di conseguenza, il sistema
dell’autorizzazione unica, subiranno reali modifiche.
Non sarà inutile osservare più nel dettaglio questa che è, è stata – e secondi
alcuni ancora sarà in futuro – una caratteristica tutta italiana del sistema della
gestione collettiva del risparmio: quella che potrà sembrare qui una – lunga
– divagazione, si giustifica pertanto in quanto le incertezze che ruotano intorno al problema dell’autorizzazione unica (o meno), hanno indubbi risvolti
pratici, anche e soprattutto per una categoria per certi versi “nuova” in Italia,
quella dei gestori di fondi di arte, che, per i margini di crescita che tale tipo di
fondi porta con sé, andrebbero incoraggiati e messi in condizione di operare
con efficienza. Il che passa inevitabilmente per la chiarezza (anche) sul piano
normativo.
Cerchiamo quindi di osservare più da vicino questo aspetto della normativa, cominciando, in un certo senso, “dall’inizio”.
Ai sensi, e dai tempi, del T.U.F. venne infatti posta una inscindibile relazione tra soggetto e attività, la quale ha fatto sì che nel nostro mercato soltanto
le SGR o le SICAV potessero esercitare la gestione collettiva del risparmio: le
SICAV come forma societaria del fondo comune, le SGR come forma contrattuale, che ha finora rappresentato il modello assolutamente prevalente in
44 La definizione di “società di gestione del risparmio” è racchiusa nell’art. 1, comma 1, lett. o del T.U.F, secondo
cui si intende per “società di gestione del risparmio” (Sgr): la società per azioni con sede legale e direzione generale in
Italia autorizzata a prestare il servizio di gestione collettiva del risparmio” (in base al dettato dall’art. 2 del d.lgs.
n. 274 dell’1 agosto 2003). Le s.g.r. hanno sostituito le società di gestione dei fondi comuni di investimento
di cui alla l. n. 77/1983, rappresentando per l’appunto un c.d. modello di gestore unico: sono infatti abilitate
allo svolgimento della consulenza in materia di investimenti ed a gestire patrimoni sia su base collettiva, sia
su base individuale; possono altresì istituire e gestire fondi pensione, svolgere attività connesse o strumentali
stabilite, con Regolamento, dalla Banca d’Italia di concerto con la Consob; prestare servizi accessori di custodia
e amministrazione di strumenti finanziari e relativi servizi connessi. Anche la materia, dopo l’avvento del Testo
Unico, è stata riordinata (come sempre accade con l’emanazione, per l’appunto, di un Testo Unico) e delegificata (lasciando più spazio alla normativa secondaria nella definizione delle modalità operative degli organismi
di investimento collettivo e dei profili relativi alla vigilanza prudenziale): per cui sono confluite in unico corpo
normativo sia le disposizioni sui fondi comuni aperti (legge 23 marzo 1983, n. 77), sia quelle sui fondi comuni
chiusi (legge 14 agosto 1993, n. 344), sia infine quelle sui fondi comuni chiusi di tipo immobiliare (legge 25
gennaio 1994, n. 86) e sulle Sicav (Decreto legislativo 25 gennaio 1992, n. 84). Sul c.d. gestore unico, cfr. R. Lener-A.Galante, D.lgs. 58/1988. Prime riflessioni sulle società di gestione del risparmio, in Le Soc., V, 1998, 533;
R. Lener, Gestore unico e deleghe nella gestione, in Assogestioni, La disciplina delle gestioni patrimoniali, Roma,
2000, 146; F. Annunziata, Gestione collettiva del risparmio e nuove tipologie di fondi comuni di investimento, in
Riv. Soc., 2000, 350; E. Ntuk, Fondi comuni di investimento, in Dig. Comm. agg., 2000, 335; V. Renzulli-A.
Tucci, I fondi comuni di investimento, in R. Lener (a cura di), Diritto del mercato finanziario. Saggi, Torino,
2011, 323. Per una sintetica ricostruzione delle tappe che hanno progressivamente disegnato la disciplina della
gestione collettiva del risparmio in Italia, cfr. invece per tutti R. Lener, Le società di investimento a capitale variabile, in G. E. Colombo- G. B. Portale (diretto da), Trattato delle società per azioni, Torino, 1993, X, 139 ss.;
M. Greco, Attività ed autorizzazione all’esercizio delle società di gestione del risparmio, in M. Rispoli Farina-G.
Rotondo, Il mercato finanziario, intermediari finanziari, società quotate, assicurazioni, previdenza complementare, Milano, 2005, 143.
92
CONTRIBUTI
I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS: PROBLEMI E PROSPETTIVE
Italia45.
Tra le novità introdotte dal recepimento dell’AIFMD – se ciò che è possibile leggere nei Documenti in consultazione ora disponibili verrà confermato
– , occorre evidenziare come sia esplicitamente sottolineata la natura di attività riservata del servizio di gestione collettiva: là dove la riserva viene utilizzata
per specificare che tale attività deve essere svolta in via professionale, che è
come dire stabile, abituale e sistematica, escludendo così quindi – sempre nel
quadro del rafforzamento delle garanzie per gli investitori - l’esercizio occasionale o sporadico della medesima.
Per quanto concerne l’autorizzazione richiesta, da sempre, nel T.U.F., proprio perché, a prescindere da esplicite affermazioni in tal senso, si tratta,
e sempre si è trattato, di attività riservata - , è opinione dei primi commentatori dei nuovi provvedimenti46, che il sistema rimarrebbe, in Italia, lo stesso:
un’autorizzazione unica, là dove la direttiva prevede viceversa che le società
autorizzate a gestire OICVM armonizzati, debbano chiedere un’ulteriore
autorizzazione ai sensi della AIFMD, per poter gestire o continuare a gestire anche fondi di investimento alternativi. Il che sarebbe una conseguenza
dell’approccio (da sempre) unitario esistente nel nostro ordinamento, che non
è sicuramente riscontrabile in ambito comunitario; e soprattutto della circostanza che l’AIFMD regolando i soggetti che esercitano l’attività di gestione
di fondi alternativi, e non direttamente i fondi (anche per l’impossibilità di
reductio ad unum di una gamma piuttosto articolata di prodotti), sarebbe impossibilitata ad incidere sulle regole di funzionamento dei medesimi, quindi
anche sul modello di regime autorizzatorio adottato in Italia.
Il ragionamento non è però, a ben vedere, insuperabile, per molteplici
ragioni.
Le prime di tenore prettamente letterale: molte disposizioni dell’AIFMD47
sembrerebbero non porre eccezioni alcune al regime della doppia autorizza45 Come fa notare Lener, La gestione collettiva del risparmio a quindici anni dal TUF, cit., 3 s., nt. 11, le SICAV
rappresentano una tipologia di OICR che, a differenza degli altri Paesi europei, è praticamente inesistente in
Italia, come risulta dall’apposito Albo delle Sicav tenuto dalla Banca d’Italia. Non esistono quindi nemmeno casi
di c.d. eterogestione, meccanismo che permette di prevedere che l’intero patrimonio di una SICAV sia gestito
da una SGR o da una Società di gestione UE (quest’ultima è l’attuale denominazione della società armonizzata
di cui all’art. 43-bis della versione del T.U.F precedente alla riorganizzazione del medesimo conseguente al recepimento della AIFMD, la quale comporterà anche la possibilità per una SICAF, oltre che per una SICAV, di
designare un gestore esterno).
46 Cfr. ancora Lener, La gestione collettiva del risparmio a quindici anni dal TUF, cit., 5.
47 Nel testo comparso nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, L. 174, dell’1 luglio 2011, recante per l’appunto la Direttiva 2011/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, sui gestori di fondi di investimento
alternativi, che modifica le direttive 2003/41/CE e 2009/65/CE e i regolamenti (CE) n. 1060/2009 e (UE) n.
1095/2010.
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 2 / 2015
93
SILVIA SEGNALINI
zione48.
A ben guardare anche nel Documento di consultazione pubblicato dal
Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro, contenente le probabili modifiche al T.U.F. conseguenti all’entrata in vigore della
AIFMD49, i testi, in verità molto essenziali, degli artt. 34, 35 e 35-ter (per le
SICAV) della Sezione I, dedicati, rispettivamente, all’“Autorizzazione della
società di gestione del risparmio”, all’“Albo” e agli “Albi” (delle SICAV), non
offrono alcun elemento per sostenere che il regime della autorizzazione unica
48 A partire dai considerando del citato testo della Direttiva 2011/61/UE: significativi in tal senso, soprattutto il
numero (2) in cui si legge che la medesima “mira a stabilire disposizioni comuni in materia di autorizzazione e
vigilanza dei GEFIA” (i.e. i gestori di fondi di investimento alternativo, ndr) “per fornire un approccio uniforme
ai rischi connessi e al loro impatto sugli investitori e sui mercati nell’Unione”; il numero (3): “è opportuno che i
GEFIA non possano gestire OICVM ai sensi della direttiva 2009/65/CE” (i.e. la c.d. UCITS IV, ndr) “sulla base
di un’autorizzazione accordata ai sensi della presente direttiva”; al numero (4): “l’obiettivo perseguito è di sopprimere
i regimi nazionali alla data di entrata in vigore di un ulteriore atto delegato della Commissione”; il numero (10): “la
presente direttiva non disciplina i FIA, i quali dovrebbero pertanto poter continuare ad essere disciplinati e sottoposti
a vigilanza a livello nazionale. Sarebbe eccessivo disciplinare la struttura o la composizione dei portafogli dei FIA
gestiti da GEFIA a livello di Unione e sarebbe difficile conseguire un’armonizzazione così vasta a causa della grande
varietà di tipi di FIA gestiti dai GEFIA. La presente direttiva non osta pertanto a che gli Stati membri adottino o
continuino ad applicare disposizioni nazionali in relazione ai FIA stabiliti nel loro territorio. Infatti, il fatto che uno
Stato membro possa imporre ai FIA stabiliti nel suo territorio obblighi supplementari rispetto a quelli applicabili in
altri Stati membri non dovrebbe impedire ai GEFIA autorizzati conformemente alla presente direttiva in altri Stati
membri l’esercizio del diritto di commercializzare, presso gli investitori professionali nell’Unione, taluni FIA stabiliti
al di fuori dello Stato membro che impone gli obblighi supplementari e che pertanto non soggetti a tali obblighi né
all’osservanza degli stessi”: particolarmente significativo in quanto sottolinea in pratica che gli Stati dell’UE
possono senz’altro continuare a seguire disposizioni nazionali, ma là dove queste si traducano nell’imposizione
di obblighi aggiuntivi rispetto a quelli posti della Direttiva (che è concettualmente l’opposto rispetto al mantenimento di un’autorizzazione unica); i numeri (15) e (19), in cui si legge: “l’autorizzazione dei GEFIA UE, ai
sensi della presente direttiva, copre la gestione di FIA UE stabiliti nello Stato membro d’origine del gestore”, così come
altre situazioni (GEFIA UE che commercializzano FIA non UE esclusivamente sul loro territorio, GEFIA non
UE che gestiscono FIA UE, etc.), “nella misura in cui siano soddisfatte almeno le condizioni minime previste dalla
presente direttiva”. A questo punto non si può non segnalare come l’oggetto di quest’ultima – e siamo così all’art.
1 della Direttiva – siano proprio “le norme in materia di autorizzazione, funzionamento e trasparenza dei gestori
di fondi di investimento alternativi (GEFIA) che gestiscono e/o commercializzano fondi di investimento alternativi
(FIA) nell’Unione”; e che dall’art. 3, che racchiude le “Deroghe” al regime della Direttiva, si evince come solo
rimanendo al di sotto di certe soglie minime (specificate nel paragrafo 2 dell’art. 3 in questione), sia sufficiente
solo una registrazione presso le autorità competenti del loro Stato membro d’origine e poche altre formalità, ma
specificando come “gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che, qualora le condizioni di cui al
paragrafo 2 non siano più soddisfatte, il GEFIA di cui trattasi richieda l’autorizzazione entro trenta giorni solari, in
base all’apposita procedura stabilita dalla presente direttiva”. Alla quale sono dedicati gli artt. 6 e 7. I quali ultimi,
del resto, sono citati anche da Lener, La gestione collettiva del risparmio a quindici anni dal TUF, cit., 5, nt. 14,
insieme all’art. 61, paragrafo 1 (“i GEFIA che svolgono attività ai sensi della direttiva prima del 22 luglio 2013
adottano tutte le misure necessarie per rispettare la legislazione nazionale derivante dalla presente direttiva e presentano domanda di autorizzazione entro un anno da tale data”; e che appaiono inequivocabili nel senso di un’ulteriore
autorizzazione ai sensi dell’AIFMD (in particolare, cfr. anche il paragrafo 4 dell’art. 7, in cui si legge: “quando
una società di gestione è autorizzata ai sensi della direttiva 2009/65/CE [«società di gestione di OICVM»] e presenta
domanda di autorizzazione come GEFIA ai sensi della presente direttiva, le autorità competenti non le impongono di
fornire informazioni o documenti che la società in questione ha già fornito al momento della domanda di autorizzazione ai sensi della direttiva 2009/65/CE, a condizione che tali informazioni o documenti siano aggiornati”.
49 Documento di consultazione pubblicato nel luglio 2013, e posto da Lener, La gestione collettiva del risparmio a
quindici anni dal TUF, cit., 1 nt. 1, alla base delle sue considerazioni.
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CONTRIBUTI
I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS: PROBLEMI E PROSPETTIVE
resti valido anche dopo il recepimento della Direttiva alternative. Né altrove
si rinvengono, testualmente, deroghe alla medesima per quanto concerne, per
l’appunto, l’autorizzazione.
Piuttosto l’art. 34 citato, in cui si afferma semplicemente che “la Banca
d’Italia, sentita la Consob, autorizza le Sgr all’esercizio del servizio di gestione
collettiva del risparmio con riferimento sia agli OICVM sia ai FIA (rell.)”, andrebbe forse meglio coordinato con una delle disposizioni transitorie poste in
consultazione dal MEF, secondo cui le SGR che alla data di entrata in vigore
del Decreto di recepimento della AIFMD gestiscono FIA italiani “si intendono autorizzate ai sensi della direttiva 2011/61/UE”. La circostanza che non
sia prevista un’ulteriore autorizzazione ai sensi della AIFMD, non è sufficiente per affermare con certezza che l’autorizzazione rimanga unica50: piuttosto
sembrerebbe una conferma che l’autorizzazione è e resta quella della AIFMD,
che viene così ad aggiungersi a quella prevista nella legislazione nazionale, ma
che si fa un’eccezione, in regime transitorio, (solo) per le SGR già autorizzate
a gestire FIA. Se il sistema della doppia autorizzazione non fosse viceversa la
regola quando il sistema entrerà a pieno regime, non si vedrebbe la necessità
di una tale specificazione, nel regime transitorio, per le SGR già esistenti.
Poco aggiunge a questa considerazione, la circostanza che gli artt. 35 e 35ter citati, specifichino, rispettivamente, che “le Sgr sono iscritte in un apposito
albo tenuto dalla Banca d’Italia distinto in due sezioni per la gestione di OICVM
e di FIA (rell.)”; e che “le Sicav e le Sicaf autorizzate in Italia sono iscritte in
appositi albi tenuti dalla Banca d’Italia. L’albo delle Sicav è articolato in due
sezioni distinte a seconda che le Sicav siano OICVM o FIA”: anche queste sono
disposizioni “neutre” dal nostro punto di vista, nel senso che non lasciano
intendere in alcun modo che il sistema sia quello dell’autorizzazione unica
anche per i FIA. Anzi: piuttosto nasce il sospetto che un’apposita sezione
dell’albo delle SGR e delle SICAV che gestiscono FIA italiani, sia stata pensata proprio perché le medesime sono sottoposte ad un regime diverso, in
cui le tutele per gli investitori sono ulteriormente rafforzate, anche grazie alla
doppia autorizzazione.
Anche nel sistema in vigore prima dell’avvento dell’AIFMD, infatti, le
SGR dovevano comunque fornire degli elementi ulteriori nel caso in cui volessero gestire FIA, ma non si era ancora arrivati a prevedere la loro iscrizione
in una sezione separata dell’albo. Un passaggio, forse, necessario proprio perché l’autorizzazione non è più unitaria.
Ma vi è di più.
50 Come vorrebbe ancora soprattutto Lener, La gestione collettiva del risparmio a quindici anni dal TUF, cit., 7.
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 2 / 2015
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SILVIA SEGNALINI
Il secondo ordine di ragioni che portano a preferire un’opzione interpretativa più favorevole alla doppia autorizzazione, è invece di carattere logico-deduttivo51: è indubbio infatti che limitandosi a considerare l’AIFMD52,
l’autorizzazione sembrerebbe unica anche ai sensi di quest’ultima. Ma allora
delle due l’una: o l’AIFMD detta una disciplina incentrata sull’autorizzazione
unica, o viceversa detta una disciplina che, sul punto, si viene necessariamente
a sommare all’autorizzazione già prevista nel singolo Stato membro.
Infine, vi sono ragioni di carattere più generale che andrebbero prese in
considerazione: costituirebbe infatti un’eccezione forse troppo vistosa quella
per cui sarebbe sufficiente, nel nostro mercato domestico, un’unica autorizzazione, anche dopo il recepimento dell’AIFMD, nella misura in cui quest’ultima segna un passo ulteriore non solo verso l’armonizzazione del sistema,
ma soprattutto verso un ulteriore rafforzamento delle tutele per gli investitori.
Inoltre, non si riesce a vedere come il fatto che la Direttiva sia rivolta direttamente ai soggetti e non ai fondi, possa significare di per sé che il regime autorizzatorio nazionale non venga modificato: quando in ultima analisi è proprio
il soggetto che esercita l’attività di gestione collettiva del risparmio, e non il
fondo, ad essere preso in considerazione ai fini dell’autorizzazione.
Come del resto si evince agevolmente dai testi delle disposizioni, sia dell’AIFMD, che del T.U.F. novellato ai sensi di quest’ultima: in cui si possono leggere espressioni come “la presente direttiva mira a stabilire disposizioni comuni in
materia di autorizzazione e vigilanza dei GEFIA”53 (per l’appunto, i gestori); “la
presente direttiva fissa le norme in materia di autorizzazione (…) dei gestori di fondi di investimento alternativi (GEFIA) che gestiscono e/o commercializzano fondi di
investimento alternativi (FIA) nell’Unione”; e ancora “gli Stati membri dispongono
54
che i GEFIA presentino domanda di autorizzazione (rell.)” . Disposizioni che nel
T.U.F. vengono tradotte (o dovrebbero esser tradotte55) con “la Banca d’Italia,
sentita la Consob, autorizza le Sgr (rell.)”, oppure “le Sicav e le Sicaf autorizzate in
Italia (rell.)56: in altre parole, sempre legando le norme relative all’autorizzazione,
direttamente al gestore (per l’appunto), e non al fondo. Motivo per cui sembrerebbe difficile che la normativa in questione non incida anche su questo aspetto,
introducendo pertanto in Italia una doppia autorizzazione per la gestione di FIA.
51
52
53
54
Ragioni che sono state già introdotte ed in parte anticipate, supra, nella parte finale della nt. 47.
Come lo stesso Lener, La gestione collettiva del risparmio a quindici anni dal TUF, cit., 7, nt. 21, ammette.
Così il già citato, cfr. supra, nt. 47, considerando numero (2) della Direttiva 2011/61/UE.
Così ancora gli artt. 1 (Oggetto) e 7 (Domanda di autorizzazione) della Direttiva 2011/61/UE, già citati nello
stesso luogo.
55 Se il testo del già citato Documento di consultazione del luglio 2013 del MEF, contenente le probabili modifiche al T.U.F. dopo il pieno recepimento dell’AIFMD, verrà pienamente confermato.
56 Così rispettivamente l’art. 34 e 35-ter, del T.U.F., nelle versione contenuta sempre nel Documento di consultazione del MEF del luglio 2013.
96
CONTRIBUTI
I PRIMI CENTODIECI ANNI DEGLI ART FUNDS: PROBLEMI E PROSPETTIVE
Il nodo però, al di là delle opinioni degli interpreti, è ovvio che non potrà
che essere sciolto a livello applicativo, quando il recepimento nel nostro ordinamento della AIFMD sarà arrivato a pieno compimento.
Quel che è certo è che scomparirà, con l’AIFMD a pieno regime, la distinzione tra promotori e gestori (e quindi, nel nostro sistema, tra SGR promotrice e SGR gestore), e che di conseguenza verranno ridisegnate le attività
costitutive del servizio di gestione collettiva: operazione rispetto alla quale
il legislatore italiano sembrerebbe già essersi preso dei margini specifici. Per
intenderci, là dove l’AIFMD intende come funzioni essenziali – o meglio
“minime di gestione degli investimenti di un GEFIA svolge nella gestione di un
FIA”, per stare alla lettera della Direttiva57 – la gestione del portafoglio e la
gestione del rischio; e funzioni “supplementari” quelle di amministrazione e
commercializzazione58; il T.U.F. dice invece che (essenzialmente) “le Sgr gestiscono il patrimonio e i rischi degli Oicr nonché amministrano e commercializzano gli Oicr gestiti”; mentre “possono altresi” (ma non necessariamente, come
funzioni per l’appunto supplementari): “a) prestare il servizio di gestione di
portafogli; b) istituire e gestire fondi pensione; c) svolgere le attività connesse o
strumentali; d) prestare i servizi accessori (…), limitatamente alle quote di Oicr
gestiti; e) prestare il servizio di consulenza in materia di investimenti; e-bis) commercializzare quote o azioni di Oicr gestiti da terzi, in conformità alle regole di
condotta stabilite dalla Consob, sentita la Banca d’Italia; e-ter) prestare il servizio
di ricezione e trasmissione di ordini, qualora autorizzate a prestare il servizio di
gestione di FIA”59.
A parte la specificazione della lettera e-ter), che si rivolge esplicitamente ai
FIA, l’esatta definizione del contenuto delle attività supplementari, a fortiori
– è plausibile ritenere - quando si tratta di gestire, per l’appunto, dei FIA, è
rimessa alla Banca d’Italia, sentita la Consob60: con ciò in parte correggendo
la poca chiarezza, per quanto concerne la distinzione di funzioni essenziali e
supplementari, dell’AIFMD61.
Sul punto, non sarà inutile sottolineare come sia senz’altro da annoverare
tra le novità conseguenti al recepimento dell’AIFMD, il fatto che una SGR
autorizzata a prestare il servizio di gestione di fondi di investimento alternativi, possa da ora esercitare anche il servizio di ricezione e trasmissione di ordini.
57 Cfr. Allegato I, punto 1, Direttiva 2011/61/UE.
58 Cosi ancora Allegato I, punto 2, della Direttiva 2011/61/UE.
59 Così l’art. 33, paragrafi 1 e 2, del T.U.F. nella versione contenuta nel più volte citato Documento di consultazione del MEF, del luglio 2013.
60 Cfr. in tal senso, l’art. 33, comma 4-bis, del novellato T.U.F.
61 Cfr. in tal senso, l’analisi condotta sul punto da Lener, La gestione collettiva del risparmio a quindici anni dal
TUF, cit., 10 ss.
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SILVIA SEGNALINI
3.
Tirando le somme: problematiche e prospettive degli art funds
A questo punto del discorso, non resta che cercare di comporre il sistema,
in chiave ovviamente problematica — l’unica realisticamente consentita, sia
per lo stato di avanzamento delle ricerche di chi scrive, sia per il particolare
momento in cui si approccia la materia, che vede molti provvedimenti ancora
non definitivi — , partendo da un sicuro dato di fatto: come rilevato, tanto
per citare uno dei più recenti articoli dedicati alla questione, da ArtEconomy
del Sole24Ore di sabato 15 marzo 2014, tra le categorie di collezionisti di
arte, se ne rileva una, di recente formazione, quella degli investitori, che rappresenta già il 24% del mercato.
Il che coniugato con la circostanza che in Europa meno del 10% dei cittadini ha investito in fondi (contro il 90% dei cittadini americani: dati diffusi
durante il Salone del Risparmio di Milano del 2014), fa pensare come non
solo vi sia un grande potenziale di crescita per il risparmio gestito, ma — tirando le somme di quanto fin qui sottolineato — sia ipotizzabile, già solo a
livello normativo, un futuro più roseo per gli art funds: non foss’altro perché
la normativa europea sembrerebbe aver prodotto — come il caso dell’Italia
dimostrerebbe — una moltiplicazione degli schemi organizzativi utili per costruire e far funzionare al meglio fondi di tal genere; per favorire anche per i
clienti professionali (come fondi pensione e compagnie assicurative), l’investimento in assets class alternativi (come l’arte per l’appunto), nel contempo
incentivando anche gli investitori non professionali, seppur con tutte le cautele del caso.
Dall’altra parte, però, come abbiamo notato nelle battute iniziali del discorso, fin qui il successo o l’insuccesso dei fondi di arte sembrerebbe essere
stato, perlomeno fino ai nostri giorni, poco o nulla condizionato dalla normativa di settore, e molto dipendente da una serie di fattori che, in senso lato,
potrebbero essere riportati al modello di business62.
Sicuramente però, nonostante tutti i nodi ed i problemi, in parte annosi,
che il settore presenta e che andranno progressivamente meglio gestiti in futuro — solo per esemplificare: i conflitti di interesse del management del fondo,
particolarmente complessi nel caso di fondi di arte; la necessaria consulenza di
istituzioni artistiche esterne, non sempre indipendenti, per la valutazione dei
beni d’arte con cadenza almeno semestrale; e molto altro ancora63 — , le sfide,
62 Una prima analisi del mercato di riferimento è contenuta nell’Appendice al lavoro, che in parte anticipa i risultati di un lavoro monografico in corso di stesura da parte di chi scrive.
63 Problemi, questi evidenziati nel testo, ben stigmatizzati già negli studi “preliminari” della materia: i già citati
saggi di Zampetti, “Art funds”, cit. 187 ss.; e Iannaccone, Fondi comuni di investimento in opere d’arte, cit., 199
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e le opportunità, che il legislatore sta ponendo al mondo del risparmio gestito
di questi tempi, non possono non essere raccolte: prima fra tutte, per quanto
ci riguarda, quella di trasformare l’investimento in arte da “passion investment”64, come finora di fatto è stato, a investimento più razionale e strutturato,
lavorando affinché le asimmetrie informative e l’assenza di regolamentazione,
da sempre terreno fertile per l’insider trading, diventino l’eccezione e non la
regola di questo interessante, e a ben guardare vantaggioso — soprattutto in
tempi in cui si cercano di implementare gli investimenti sul lungo periodo —
, settore di investimenti.
Appendice al lavoro: breve analisi del mercato di riferimento
Di primo acchito, si potrebbe pensare come né un contesto normativo più
favorevole né i fondamentali di mercato siano i driver degli investimenti in
arte: ma se si può parzialmente assentire al primo assunto – solo dopo aver
costruito un business plan, chi decide di lanciare un fondo guarda anche al
contesto normativo più favorevole - , non si può più pensare che siano soprattutto il gusto e le mode a guidare iniziative di questo tipo, o che si tratti di
un mercato completamente irrazionale e irriducibile a degli schemi, esistendo
ormai degli indicatori o comunque dei dati di mercato che permettono di
trattare l’arte come un vero e proprio asset class.
Interessante a questo proposito sono gli studi condotti da due ricercatori,
Jianping Mei e Michael Moses, docenti di finanza alla New York University,
che hanno sì evidenziato la grande variabilità dei rendimenti delle opere d’arte, suggerendo come anche l’investimento in opere di artisti molto noti non
necessariamente dia luogo ad un maggior valore, ma hanno nello stesso tempo tracciato delle linee di tendenza ben precise, da cui è possibile estrapolare
dati, fare previsioni, studiare l’andamento del mercato di riferimento.
Jianping Mei e Michael Moses hanno infatti creato tre indici di valutazione
del mercato (denominati complessivamente Mei e Moses Art-Index): capolavori, mercato medio ed arte a basso costo di acquisto. Dal 1952 “l’indice di arte
a basso costo di acquisto”, che comprende le opere d’arte vendute per somme
che rientrano nel 33% dei più bassi prezzi di acquisto d’asta, ha decisamente
superato il “mercato medio” e “l’indice dei capolavori”. Se si confrontano
questi indici con la performance a lungo termine dello S&P 500, si evince
ss.
64 Così si esprime, opportunamente, Zorloni, L’economia dell’arte contemporanea, cit., 189.
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che i “capolavori” rendono meno del mercato azionario, mentre i dipinti “a
basso prezzo” tendono a fruttare di più. Ad esempio, nel 1989 il dipinto di
Marc Chagall “Le violiniste” è stato venduto all’asta per 4,2 milioni di dollari;
mentre nel maggio 2001 la stessa opera è stata battuta per 2,1 milioni, cioè
alla metà del suo prezzo di acquisto di 11 anni prima. Diversamente, un altro
dipinto sempre di Chagall, ma meno costoso,“Orphée”, è stato venduto per
120.000 dollari nel 1982 e, a maggio del 2001, rivenduto per ben 500.000
dollari.
Del resto il dato non è nuovo: William Baumol, illustre economista americano, in uno scritto del 1986, sull’«American Economic Review», dal titolo
“Unnatural Value: or Art Investment as Floating Crap Game”, aveva già indagato le variazioni di rendimento fra quadri più o meno famosi. I capolavori sono
ritenuti tali perché colpiscono l’osservatore nel profondo, riescono a stimolare
la sua sensibilità ed emozionarlo. Ed il collezionista valuterà tale piacere estetico almeno quanto la differenza tra i rendimenti delle opere d’arte e quelli
dei capitali finanziari. I tassi di rendimento dell’investimento in dipinti minori risulteranno, quindi, maggiori rispetto a quelli dell’investimento in opere
d’arte più famose, proprio per sanare questo gap che si viene a delineare da un
punto di vista emotivo.
Quel che è certo è come dopo gli studi di Mei e Moses si sono raggiunte
le seguenti conclusioni: il rendimento degli investimenti in arte è di poco inferiore a quello delle azioni, e superiore a quello dei titoli di stato; la volatilità
degli investimenti in arte è relativamente più elevata ma in diminuzione nel
tempo; esiste una correlazione molto bassa con i rendimenti delle azioni e
delle obbligazioni.
Anche se a stare alle parole di Philip Hoffman (Ceo di The Fine Art Fund),
intervistato per ArtEconomy del Sole 24 Ore nel settembre 2014: “si dice che
ci sia bassa correlazione tra l’arte e gli atri asset. Bene, in quel periodo “ – quello della crisi del 2008-2009 – “tutto era correlato: i miei clienti milionari non
spendevano niente”. E ancora: “non conosco nessun gestore che possa garantire un rendimento. Nessuno mi crederebbe se lo facessi perché nessun gestore
serio può garantire il rendimento”. Dove per gestore si intende in generale il
gestore di un fondo, a prescindere dall’asset class del medesimo.
Se a questo si aggiunge che da un’analisi svolta dall’Art Market Research
negli anni passati, risulti come il portafoglio finanziario ottimale dovrebbe
essere costituto per il 35% da equity, per il 45% da obbligazioni e per il 20%
da arte – in quanto capace di generare una performance superiore ai titoli di
stato a dieci anni (rispettivamente l’11% contro il 9,9%), con un livello di
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rischio pari al 7,7%, il più basso livello fra tutte le assets class del modello – si
dovrebbero definitivamente abbandonare tutti i pregiudizi rispetto al mercato
dell’arte. Il che non può che far salutare con favore la tendenza alla creazione
di un contesto anche normativo più favorevole e più ampio che in passato:
anche se allo stato resta sempre impossibile – per la scarsità di dati ufficiali
e soprattutto per la mancanza di precedenti di art funds italiani che siano
sopravvissuti anche per un tempo minimo - procedere ad una vera e propria
analisi comparata dell’esperienza italiana con quella di altri Paesi.
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