Le fiabe di Hans Christian Andersen

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Le fiabe di Hans Christian Andersen
 Federazione Regionale Toscana
II edizione LibrAperto Le fiabe di Hans Christian Andersen “Proprio dalla realtà viene fuori la fiaba più meravigliosa” Fiabe d’identità 20 ottobre 2012 La fiaba come percorso alla consapevolezza dell'io ENRICO RIALTI Psicolinguista e Tutor dell'Apprendimento Esperto in Disturbi dell'Apprendimento Vi propongo una serie di riflessioni sull’uso della fiaba, osservandola e concependola come strumento per lavorare su un aspetto fondamentale sia dell’educazione che della persona: le emozioni. La fiaba come percorso alla consapevolezza dell’io. 1. FIABE, LESSICO EMOTIVO E SVILUPPO Cerchiamo di capire insieme come la fiaba può essere canale per affrontare queste tematiche così profonde, centrali non solo per una questione educativa o per stimolare i bambini a riflettere, ma perché la dimensione emotiva e quella razionale sono fondamentali per lo sviluppo della persona. Come mai le Fiabe? Nel percorso di crescita di qualsiasi bambino l'ambiente deve fornire una serie di stimoli fondamentali affinché si sviluppino, si arricchiscano e si stabilizzino le abilità linguistiche, cognitive, relazionali, sociali, caratteriali... Il bambino non si sviluppa da sé, ma in base al contesto in cui è inserito, che non è indifferente. Noi abbiamo l’idea che il bambino dev’essere stimolato: bisogna insegnargli, parlargli, bisogna arricchirlo cognitivamente. Non ci rendiamo conto che esistono stimoli diversi e che cosa sono questi stimoli: non è sufficiente stimolare il bambino facendogli fare qualcosa, o pensare che basti il suo esistere immerso in un contesto. Bisogna capire di che stimolo ha bisogno per crescere, in modo sano. Non sempre ci rendiamo conto di quali questi stimoli possano essere e neanche che si tratta di una stimolazione non solo quantitativa ma qualitativa. Gli stimoli devono essere di tipo sensoriale, percettivo, cognitivo – ovviamente -­‐ ma ci siamo resi conto nel tempo che conta moltissimo il tipo di stimolazione, altrimenti la capacità potenziale che abbiamo all’inizio della vita inaridisce: una certa capacità di ascolto, di apertura, di assorbimento cognitivo, se non è tenuta viva tende a scomparire. Esemplificando, la difficoltà estrema nell’imparare una lingua straniera da adulti ha origine nell’incapacità di produrre certi suoni: se nella mia lingua non sono presenti certi suoni, con il passare del tempo perdo la capacità di produrli. Tale fenomeno prende il nome di “restringimento della libertà di apprendimento”, e non è solo controproducente, ma anche fondamentale, perché se non mi specializzo non posso apprendere. Sicuramente gli stimoli devono essere di tipo Linguistico, Sensoriale, Cognitivo, motorio e propriocettivo Gli stimoli devono essere sensoriali e cognitivi. Capire questo ha segnato una grande differenza nell’approccio di Vygotsky. Lo studioso affermava che la mente del bambino non si sviluppa da sé, ma ha bisogno di qualcuno che lo porti oltre alla sua zona di sviluppo automatica, e questa è l’educazione: uno sviluppo motorio, nel senso anche della motorietà. Non dimentichiamoci che, biologicamente, ognuno di noi necessita anche di stimolazioni emotive Corriamo il rischio di dimenticarci che uno stimolo non è efficace se resta superficiale, senza toccare le radici di ciò che è la persona. Facciamo un brevissimo viaggio nella storia dell’educazione, tentando di capire come il fatto che l’uomo, biologicamente, ha bisogno di stimolazioni emotive è stato un’acquisizione tarda, anche se era radicato come concezione. È stato infatti dimostrato scientificamente solo a un certo punto. 1 Federazione Regionale Toscana
2. UN BREVE VIAGGIO NELLA STORIA DELL'EDUCAZIONE Quali sono gli stimoli emotivi? E che ruolo hanno? “La propensione a stringere relazioni emotive intime, nell'infanzia come nell'età adulta, è una componente fondamentale della natura umana con importanti funzioni biologiche” Bowlby Ho scelto alcuni esempi che toccano l’educazione facendo risaltare alcuni aspetti importanti. 1797: Victor dell'Aveyron Victor è un ragazzo che è stato ritrovato allo stato selvaggio nelle foreste francesi. Era stato ritrovato ad undici anni, dopo essere stato abbandonato avendo, forse, qualche forma di disabilità. È possibile desumere la sua storia attraverso le memorie del suo educatore, Jean Marc Gaspard. Nei suoi scritti si legge il tentativo di portare Victor verso le funzioni di un ragazzino normale. Victor non aveva la sensibilità che ci saremmo aspettati da un undicenne: aveva una percezione del dolore pressochè assente, e, aspetto che ci interessa, non aveva empatia. Era completamente chiuso in un mondo di pura sopravvivenza. Nonostante gli sforzi dell’educatore, la situazione di Victor sostanzialmente non cambierà: ci saranno dei successi ma il ragazzo arriverà all’età adulta continuando a manifestare dei grandissimi ritardi da tutti i punti di vista, anche se imparò a camminare stando eretto, ad alimentarsi in modo adeguato, ad avere una propria autonomia per l’igiene e per la sopravvivenza, non svilupperà mai le capacità sociali, mostrando solo dei barlumi saltuari. Pur rivelando di avere un certo senso di giustizia, una certa capacità di comprendere cosa è giusto e cos’è sbagliato, non riuscirà mai a legarsi ad un’altra persona, perché questa mancanza di stimolazione così protratta è stato un fattore che ha inibito, in un periodo estremamente fertile com’è l’infanzia, la capacità di concepirsi come all’interno di una relazione con l’altro. Nella vicenda di Victor si nota una grandissima attenzione a stimolare nel bambino gli aspetti più intellettuali: l’educatore ingaggia una lotta col ragazzo, per insegnargli a scrivere, a leggere, ad elaborare concetti. Ciò che manca, e che mancava all’epoca, è la coscienza che questi aspetti, prettamente cognitivi, come categorizzare, imparare a leggere e a comunicare, non si sviluppano se non sono affiancati da un lavoro sull’aspetto relazionale. Se manca un anello dal punto di vista emotivo non imparo a leggere: il nostro sviluppo mentale è fortemente condizionato dalle relazioni che abbiamo con i nostri insegnanti. 1970: Genie Questa ragazzina è vissuta in una situazione di estrema incuria, rinchiusa in uno scantinato per tutta la parte iniziale della sua vita. Anche nel suo caso, quello che si presenta alle istituzioni quando la prendono in carico, è una bambina che non riesce a stimolare il linguaggio, o a stimolarlo ai fini comunicativi: arrivata in età adulta riusciva a comporre frasi corrette dal punto di vista sintattico, anche se molto semplici, ma le mancava l’aspetto della grammatica: il linguaggio va bene, ma cosa me ne faccio? A cosa mi serve? Io posso creare una frase sintatticamente perfetta, ma non essere in grado di usarla per comunicare. Il linguaggio è pensiero! L’ambito su cui si sono concentrati gli studi sulle deprivazioni gravi del periodo dell’infanzia non sono strumenti adeguati a prendersi cura del bambino. Questi sono esempi che ci riportano ad alcuni aspetti degli stimoli, quella cognitivo e sensoriale, ma mancava qualcosa: c’è stato un periodo di grande scoperte nell’ambito della psicologia cognitiva, della psicologia dell’infanzia, che è stato quello dell’immediato dopoguerra. Molti bambini erano rimasti orfani, molti necessitavano di essere affidati agli orfanotrofi. Nell’immediato Dopoguerra Abbiamo molti studiosi che si occupano di queste tematiche: Spitz, Bowlby, Winnicott, Rutter... I loro studi si focalizzano su quali fossero gli elementi di stimolo più consoni per capire come questi bambini, che erano stati privati di un ambiente favorevole per la loro crescita, potessero comunque crescere in modo adeguato. Sottolineo solo un aspetto: l’indicazione che fu data alle infermiere che lavoravano negli orfanotrofi e negli ospedali fu che non dovevano solo accudire il bambino, nutrirlo, lavarlo, vestirlo, ma veniva data loro l’indicazione di parlare con lui, raccontargli storie, farlo giocare. Questa fu un’indicazione perentoria, perché notarono che le speranze di vita dei bambini aumentavano se c’era un tipo di affezione così, anche nei casi che presentavano problemi di salute o di deperimento. 2 Federazione Regionale Toscana
Deprivazione da istituzionalizzazione C’è un momento nella vita dei bambini in cui la presenza di una relazione efficace, di un rapporto emotivo radicato, stabile, reale, consente loro di maturare una competenza emotiva o sociale di empatia, ma di essere persone cognitivamente, linguisticamente e socialmente in grado di rispondere alle richieste della società. Questo è verificabile anche oggi: nelle situazioni in cui mancano stimolazioni reali che rispondono alle esigenze più profonde del soggetto non si riescono a creare i presupposti per uno sviluppo concreto della personalità. Il ruolo della madre nel rapporto col bambino è schermare il bambino dagli stimoli che arrivano: deve aiutare il bambino a creare delle categorie per dare un senso alla realtà che lo circonda. Se questo manca il bambino continua ad essere stimolato visivamente, cognitivamente, dal punto di vista motorio, ma tutte queste informazioni è come se entrassero in un vaso bucato che continuamente si svuota: non acquisisce nulla. Questo si vede molto spesso in bambini che hanno esperienze di deprivazione precoce, o maltrattamenti nella prima infanzia. 3. COSA ABBIAMO CAPITO NEGLI ANNI? La deprivazione è una situazione in assenza di legami affettivi. Il termine è stato utilizzato nella letteratura psicopatologica per indicare un quadro complesso di ritardo evolutivo con disturbi fisici, cognitivi, affettivi e di condotta. C’è stato tutto un filone di studi per capire come questa mancanza di stimolazione emotiva potesse condurre gli studi di condotta e di comportamento. Spitz la definisce “deprivazione da carenze di cure materne”. Il termine “cura” è interessante, i quadri della deprivazione sono la situazione effettiva del fatto che se un bambino non è in un ambiente relazionale e comunicativo non può avere un percorso di sviluppo adeguato. Questo è quello che abbiamo capito nell’ambito della psicopatologia. Ma sono importantissimi anche i risvolti nello sviluppo tipico, non patologico: in un contesto non deprivato l’educatore deve comunque provvedere a fornire stimolazioni che non sono solo superficiali, ma devono andare a toccare la dinamica emotiva, emozionale, empatica. Lo sviluppo tipico è fortemente influenzato dalle stimolazioni emotive, relazionali e comunicative (eye contact, teoria della mente, motherese). Nel rapporto con la figura materna fondamentale è il contatto oculare: nel momento dell’allattamento, il fatto che la mamma guardi il bambino è un aiuto perché il figlio impari a dirigere l’attenzione. La teoria della mente: l’altro ha esperienze che io posso avere, quindi io posso leggere le mie emozioni ma anche quelle dell’altro. Pensate quanto è pervasiva l’incapacità di capire che ciò che penso io non è trasparente, che devo comunicarlo, che esperienze diverse possono essere comunicabili. Nell’esperienza del linguaggio fondamentale è il rapporto, perché facilita. Potrei dire: il problema dell’imparare a parlare è che senta qualcuno pronunciare parole. Allora, si potrebbe dire, faccio ascoltare tutto il giorno la radio a un neonato? Ma non è quello che fa sviluppare il linguaggio, ma il tipo di rapporto comunicativo che s’instaura, la capacità di apprendimento si situa nell’avvenire di un rapporto. Dunque, perché le fiabe? Noi abbiamo fatto un percorso nell’educazione fin qui. Tutti questi fattori che ci fanno capire quanto sia importante la stimolazione emotiva e relazionale, ci mostrano anche come il saper verbalizzare emozioni diventa importantissimo per saperle controllare e inserire in uno schema di senso, e soprattutto comunicarle. Quando ho sviluppato la mia competenza emotiva in un contesto consono, ho bisogno di dare un nome all’esperienza che vivo. Questo è il lessico emotivo. Saper verbalizzare le emozioni diventa un importantissimo mezzo per capirle, controllarle, inserirle in uno schema di senso e soprattutto comunicarle. 3 Federazione Regionale Toscana
4. LESSICO EMOTIVO È qualcosa che dobbiamo preservare, perché nella società di oggi si sta impoverendo. Adesso c’è la preoccupazione: che effetto hanno i videogiochi sui bambini? Che danni provocano? La prima cosa che si è pensata è che l’uso della televisione e dei videogiochi provocasse un deficit nella capacità di attenzione. Il tipo di stimolo dato dalla televisione, in realtà, non influisce sull’attenzione, ma è un tipo diverso di attenzione. I bambini di oggi non hanno un’attenzione sostenuta, sono abituati a un’attenzione che si sposta di continuo. Sono in grossa difficoltà, quindi, se li mettiamo seduti un’ora per stare attenti, ma se devono fare 10 livelli sono bravissimi, molto meglio di me. È uno spostamento verso un tipo diverso di attenzione. Ciò che è reale è che tutti questi mezzi sono poveri dal punto di vista emotivo. Ci sono tantissime stimolazioni visive, uditive, sensoriali, ma manca una stimolazione emotiva, manca il senso di ciò che stanno facendo. “Date parole al dolore: il dolore che non parla sussurra al cuore greve e gli comanda di spezzarsi” W. Shakespeare, Macbeth Saper verbalizzare il dolore è fondamentale, per saper vivere o verbalizzare un’emozione ma anche per non soccombervi. Le emozioni sanno essere estremamente potenti, distruttive. È importante dare un nome, dare un’etichetta a ciò che sento. I disturbi del comportamento, come l’iperattività, hanno difficoltà di autoregolazione anche dal punto di vista emotivo. I bambini che hanno un lessico povero, che non sanno verbalizzare le emozioni perché sono stati poco stimolati, spesso non conoscono termini astratti. I bambini con disturbi della regolazione emotiva, con un bagaglio lessicale povero dal punto di vista delle emozioni o alessitimici tendono a vivere le emozioni come stati corporei (sensazioni fisiche), dunque li esprimono con il comportamento, non li verbalizzano, non riflettono su “come si sentono e perché” ma cercando di potenziare o evitare l'emozione. Alcuni non sanno dire: “questo che sto provando è la rabbia”, la vivono come se avessero mal di pancia, come se fosse nervosismo. Ancora di più, quando sono malinconici. La malinconia è un’altra emozione che tutti proviamo, ed è stata creduta una malattia per moltissimo tempo: si credeva fosse uno stato legato a un malessere fisico. La malinconia si prova per un’assenza, per una mancanza, e il bambino che non sa dire “sono malinconico” la vive come un malessere, non la verbalizza, non riflette su come si sente e perché, e tenta di mettere a tacere quello che prova. I bambini che non riescono a focalizzare certe emozioni tentano di soffocarle passando ad altro: non hanno mai tregua, hanno bisogno di fare tantissime cose perché non riescono ad ascoltarsi, oppure devono potenziarle e viverle come se fossero stati corporei. Sono stimolazioni che lavorano anche a livello linguistico. Esiste il grosso rischio che le stimolazioni esterne che arrivano al bambino siano quantitativamente moltissime ma siano qualitativamente più povere di contenuti emotigeni (vedi Late Talkers). Esiste un grosso rischio che le stimolazioni esterne che arrivano al bambino siano quantitativamente moltissime, ma qualitativamente poverissime di contenuto. Discutendo con una logopedista notavamo che ci sono molti più bambini late talkers, cioè “parlatori tardivi”, che iniziano a parlare più tardi. Fosse accaduto dieci anni fa la reazione sarebbe stata diversa da oggi, anche perché c’era un bombardamento linguistico differente: il tipo di messaggio che noi mandiamo influisce sull’apprendimento di una persona. Esistono dei vissuti che sono “universali” e devono far parte del corredo conoscitivo e linguistico del bambino, per poterli interpretare correttamente. Quindi le emozioni “universali” devono appartenere alla mia esperienza, come il fatto di poterle etichettare perché servono a me per vivere certi fenomeni e per comunicarli ad un altro. L’empatia, per esempio, il poter capire cosa prova l’altro è fondamentale per legarsi, altrimenti nella vita sociale saremmo sempre automi. Per potersi legare bisogna avere qualcosa in comune, dal punto di vista dell’esperienza. Ecco perché la fiaba: pretende di far nascere una serie di domande che toccano punti fondamentali dell’animo. Le fiabe sono ricchissime da un punto di vista di lessico emotivo: vanno ad affrontare in modo molto semplice le esperienze più vere, si dà per assodato che tutti i bambini le capiscano e le provino. 4 Federazione Regionale Toscana
5. LA FIABA DEL BRUTTO ANATROCCOLO Ho fatto leggere il brutto anatroccolo, e ho domandato ai bambini: Come si sarà sentito il brutto anatroccolo? I termini che hanno usato per rispondere sono: arrabbiato, triste, preso in giro, tradito, isolato, solo, male, deluso, incompreso. Ci sono alcuni bambini molto competenti dal punto di vista di lessico emotivo. La definizione “si è sentito male” è stata pensata da uno dei bambini di cui parlavamo prima, con un’esperienza di deprivazione precoce, che non ha maturato una competenza emotiva adeguata. “Male”, come se avesse avuto il raffreddore, invece di saper dire “abbandonato, deluso”. Pensate che impoverimento vive un bambino che, provando un’emozione come quella del brutto anatroccolo, non sa comunicarla. Vi ho fatto una selezione dei termini presenti ne “Il brutto anatroccolo”, perché uno dei compiti dell’educatore è trascinare il bambino verso un’espressione più completa del lessico emotivo. Nella fiaba sono presenti espressioni come: “essere stufo”, “essere tristissimo”, “essere deriso”, “essere spaventato” , “essere disperato”, “provare nostalgia” -­‐ che è un’emozione forte con un’origine misteriosa -­‐ “essere felici” “essere fuori di sé”… Guardiamo anche alcuni esempi di verbi: “amare”, “odiare”, “desiderare”, “si sentì invadere da una strana tristezza…”; o di aggettivi: “timidissimo”, “superbo”, “schernito”, “perseguitato”… Tale gamma di caratteri descrive maggiormente gli stati d’animo. L’educatore trascina e allarga il cerchio di esperienza del bambino. Teniamo anche conto che esiste uno stretto legame tra lessico emotivo, cioè l’espressione lessicale delle parole e teoria della mente, ovvero la capacità di riconoscere nell'altro stati mentali o emozioni proprie anche della mia esperienza. La domanda posta era, infatti: come s’è sentito il brutto anatroccolo? Il punto è la capacità di riconoscere in altri alcune emozioni, riconoscere nell’altro stati mentali che sono propri anche della mia esperienza. Questo è alla base dell'empatia e dei comportamenti sociali. E' dunque importante fare in modo che l'etichettatura delle emozioni sia anche il portare a galla di domande, vissuti ed esperienze. Tali esperienze quasi sempre si riveleranno essere condivisibili, universali. Io ho usato la fiaba de Il Brutto Anatroccolo per parlare di disabilità. “Ma chi dirà cosa un bimbo racchiuda dentro di sé?” R. M. Rilke Il brutto anatroccolo si “trasforma” in cigno? Ciò che emerge è che lui è sempre stato un cigno, ma nessuno se ne accorge perché guardano ad altro, non a ciò che è realmente il brutto anatroccolo. Come mai tutti lo allontanano? Perché guardano a qualcos’altro, a una capacità: l’attenzione si sposta su qualcosa che uno ha, non su qualcosa che uno è. Ti sei mai sentito così? Sai chiamare per nome ciò che senti? Dov'è il cigno in noi? Qual è la consapevolezza dell’io? Lo scopo è che il cigno c’è sempre stato, nessuno lo vedeva perché tutto guardavano all’aspetto della produttività, di ciò che sapeva o non sapeva fare, e non a qualcos’altro. Più che il tipo di risposta, o se il bambino è arrivato o no a questa conclusione, mi interessa sottolineare che il problema non è veicolare un’idea di fiaba, ma far capire all’educatore che gli stimoli da dare al ragazzo non sono solo sensoriali, ma emotivi, e per fare questo non è indifferente il mezzo. Uno dei mezzi è andare a cogliere i messaggi del testo che, oltre a livello di significato, sono veicolo dal punto di vista emotivo, permettendo di dare voce a esperienze che necessitano di una verbalizzazione per essere comprese, altrimenti si rischia una ricaduta di disagio fisica. Consentire di comunicare le esperienze diventa un meccanismo di benessere per il bambino. L’educazione è utile affinchè un disagio , un vissuto che brucia nella personalità del bambino possa trovare un canale per essere espresso ed acquisire, quindi, un senso, per poterlo decifrare e vivere senza soccombervi. Questo lavoro è uno stimolo a guardare quali strumenti possono essere utili, partendo dalla fiaba, per lavorare a questo livello. Bisogna quindi proporre il testo, e alcuni possibili modi di utilizzarlo dal punto di vista emotivo, ma anche mentale e cognitivo. 5