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Filosofi in viaggio: Diderot a Langres
MARCO MONETA
Proprio non si può dire che Denis Diderot, l’esuberante artefice dell’Encyclopédie, l’esploratore della
mente e della finzione romanzesca, l’autore del
Supplément al celebre Voyage autour du monde del
barone Louis-Antoine de Bougainville, sia stato un
gran viaggiatore, né che abbia mai particolarmente
amato partenze, transiti, spostamenti e arrivi. Del
resto, fu lui stesso il primo a riconoscerlo quando,
recensendo appunto il Voyage dell’illustre barone,
riferì solennemente che quello era il solo libro di
viaggi la cui lettura gli avesse ispirato il gusto di un
paese diverso dal proprio. Oppure quando, in una
lettera a Sophie Volland, sostenne che avesse senso
allontanarsi dal proprio paese solo tra i diciotto e i
ventidue anni (cioè per motivi di formazione). Presso i contemporanei Diderot ebbe fama di gran pantouflard. Se si eccettuano alcune visite a Langres,
nella Champagne, sua città natale e il famoso viaggio a Pietroburgo per omaggiare la sua benefattrice
Caterina II di Russia (viaggio cui non potè in alcun
modo sottrarsi e che contemplò anche un lungo,
duplice e intellettualmente proficuo soggiorno
all’Aja, in Olanda), la sua vita si svolse sostanzialmente a Parigi (allora topograficamente circoscritta
agli attuali sei primi arrondissements), dove era
giunto all’età di sedici anni e dove risiedette fino
alla morte. Al più, il grande philosophe osò spingersi, per brevi periodi, fino al castello di Grandval,
distante due ore e mezzo dalla capitale e di proprietà del suo amico il barone d’Holbach; oppure al
castello della Chevrette di M.me d’Epinay, anch’esso luogo di incontri intellettuali e distante poche
leghe da Parigi (nel cui parco, tra l’altro, si trovava
l’Ermitage dove per qualche tempo fu ospitato l’amato-odiato J.-J. Rousseau). A parte qualche saltuaria, breve escursione nelle vicinanze della capitale,
non vi furono nella vita di questo parigino impenitente altri episodi significativi di mobilità.
Eppure, a dispetto di tanto esibita sedentarietà,
nonostante l’esiguità dell’esperienza di viaggiatore
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e malgrado la fama legata a tutt’altro genere letterario che quello odeporico (dal greco hodoiporía
‘viaggio’), nel fondamentale dibattito della modernità fra i sostenitori di una visione stabile del
mondo e i sostenitori di una visione aperta e nomade, non c’è alcun dubbio su quale versante vada a
collocarsi il nostro philosophe. Al noto asserto
pascaliano che tutta l’infelicità degli uomini proviene dal fatto che non sanno starsene tranquilli in
una stanza egli certamente antepose il montaignano
riconoscimento che gli uomini amano l’agitazione
e il cambiamento e si compiacciono più delle cose
altrui che delle loro e il cartesiano consiglio che
l’uomo di cultura debba attingere al gran libro del
mondo e frequentare gente di diverse indole e condizione.
Nel corso della vita Diderot tornò cinque volte nel
luogo dov’era nato e dove abitava la sua famiglia.
Vi tornò, in ogni caso, sotto la spinta più di motivazioni pratiche - la richiesta del consenso paterno al
matrimonio con Toinette Champion, la sistemazione dell’eredità paterna, il tentativo di metter pace
fra la “sorellina” Denise, da lui molto amata, e quel
“prete ringhioso” del fratello Didier - che nostalgico-affettive. La vita della provincia e la quiete della
campagna non gli si addicevano. E, come si è visto,
nemmeno gli spostamenti. A differenza del randagio amico-nemico Rousseau, egli si sentiva a suo
agio solo nella grande città, nella capitale agitata,
brulicante e rumorosa (sì rumorosa!), in particolare
sulla rive gauche - la casa principale, dove abitò
trent’anni, sarebbe oggi in faccia al café de Flore,
in boulevard Saint-Germain - giusto accanto al
Quartier latin della squattrinata giovinezza.
Nondimeno, l’ultimo dei viaggi a Langres, avvenuto nell’estate 1770, fu in qualche modo diverso
rispetto ai precedenti. Pur essendo originato
anch’esso da motivi pratici - il tentativo di riconciliazione col fratello e, soprattutto, la definizione del
matrimonio della figlia Angélique con il langrois
Abel-François Caroillon - si trasformò in itinere in
qualcosa di diverso dall’amorevole attenzione di un
padre nei confronti della figlia. È vero che alla
dichiarata intenzione di occuparsi del futuro della
figlia se ne affiancava una seconda, celata sia alla
moglie (Toinette) sia alla maîtresse ufficiale
(Sophie Volland), cioè quella di incontrare Mme de
Maux, sua recente fiamma, che si trovava con la
figlia a Bourbonne-les-Bains, piccola località termale a pochi passi da Langres. Tuttavia, quasi senza
ch’egli lo volesse o se n’accorgesse, le circostanze
fecero sì che al viaggio ufficiale e anche a quello
clandestino se ne affiancasse un terzo, intimo, sfaccettato e di forte intensità emotiva: un vero e proprio “viaggio nel viaggio”.
Diderot, dunque, lascia la capitale in compagnia
dell’amico Frédéric Melchior Grimm, (compagno
di Mme d’Epinay) il mattino del 2 agosto 1770. Ha
57 anni, e, per quanto sospetto al potere e inviso ai
dévots del tempo, è uno scrittore di successo, celebre in tutta Europa, ricco e influente. Per coprire in
carrozza la distanza Parigi-Langres occorrevano,
allora, trentasei ore (più o meno come andare oggi
dall’Europa in Nuova Zelanda). Giunto a Langres,
il philosophe si sistema per qualche giorno in casa
della sorella Denise, poi si precipita a Bourbonne
per incontrare Mme de Maux. Che però, impegnata
nell’assistere la figlia, dovette in parte deludere le
sue aspettative, s’egli confida a Grimm d’aver passato il tempo a “informarsi di tutto ciò che poteva
meritare la sua curiosità […] mentre una tenera
madre si occupava della salute della propria figliola”. Ne viene fuori uno scrittarello di cinquanta
pagine, il Voyage à Bourbonne-les-Bains en Champagne, che racconta di Bourbonne, delle sue acque,
dei suoi dintorni, delle sue antichità, e che, come
scrive a Grimm, “grazie a un pizzico di filosofia che
vi è sparso qua e là” costituisce “una lettura di un
quarto d’ora utile e divertente”. Forse il “pizzico di
filosofia” in questione è l’idea che il viaggiare per
recarsi in una stazione termale sia più curativo delle
acque stesse: “le acque che si trovano più lontano
sono quelle più curative e il dottore migliore è quello che si segue senza riuscire a raggiungerlo”. Chissà. In ogni caso, Diderot nel Voyage ricorda che suo
padre, a Bourbonne, vi era stato due volte. La
prima, con successo, per una grave e singolare perdita di memoria, guarita senza lasciare traccia dopo
una quindicina di giorni di cure. La seconda, con
esito invece rovinoso, per un’idropisia al petto che
lo portò alla morte il giorno stesso del rientro a
casa. “Ero allora a Parigi - soggiunge in un improvviso moto di rimpianto - Non ho visto morire né
mio padre né mia madre. Ero loro caro, e sono sicuro che gli occhi di mia madre m’abbiano cercato
nell’ultimo istante. È mezzanotte. Sono solo, mi
ricordo di queste brave persone, di questi buoni
genitori; e mi si stringe il cuore quando penso a
tutte le inquietudini che hanno dovuto provare per
la sorte di un ragazzo appassionato e violento,
abbandonato senza guida ai rischi incresciosi di una
capitale immensa […] Vorrei piangere … Oh genitori miei, quanto mi tocca il tenero ricordo di voi!
Oh tu, che scaldavi i miei piedi gelidi nelle tue
mani! Oh madre mia … Quanto sono triste! …
Quanto sono felice!”.
Ma il presente della famiglia incombe. Così, deposta la “tenerezza infinita” dei ricordi, eccolo di
nuovo a Langres. Se la riconciliazione con il
“rognoso” fratello fallisce (Didier rifiuta addirittura
di incontrarlo), va invece felicemente in porto la
trattativa con la famiglia Caroillon, al punto che il
futuro genero Abel viene invitato a recarsi a Parigi
per conoscere Angélique. Chiuse le faccende familiari, Diderot lascia nuovamente Langres e si precipita a Bourbonne, ansioso di rivedere la sua maîtresse. Ma il sospetto che il copione della visita precedente debba essersi ripetuto è forte se alcuni giorni dopo, da Langres, egli informa Grimm di aver
dedicato buona parte delle serate nella città termale
alla stesura (in compagnia, in verità, di Mme de
Maux e della figlia) di un secondo racconto, Les
deux amis de Bourbonne, nel quale, sotto forma di
“mistificazione epistolare”, vengono messi in ridicolo il “primitivismo” di moda in quegli anni (in
particolare quello di Saint-Lambert, fresco autore di
Les deux amis, conte iroquois) e, nello stesso
tempo, l’ingenuità del pubblico di fronte alle storie
fintamente “autentiche”. La tesi del racconto, un
anello essenziale, anche se poco noto, della produzione diderottiana, è che la vera amicizia, cioè rapporti umani giusti e trasparenti, non si trovano né
presso “selvaggi” da salotto (gli irochesi di SaintLambert), né presso falsi contadini (i personaggi del
racconto) miticamente assimilati a Pilade e Oreste,
ma bensì - ecco il guizzo illuminista - in una
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“società” di philosophes dalle menti sgombre da
credenze che assoggettano l’uomo a leggi artificiali,
difese come naturali dai fanatici del trono e dell’altare. Come stessero realmente le cose con Mme de
Maux apparirà chiaro dagli sviluppi successivi.
Si profila, a questo punto, il ritorno a Parigi. La partenza, con il futuro genero, è fissata per il 12 settembre. Così avviene. Ma lungo la strada si verificano alcune deviazioni. Una prima, annunciata, in
qualche misura ufficiale, a Isle-sur-Marne, dove la
famiglia Volland ha una proprietà e dove, in quel
momento, si trova Sophie che, del tutto ignara del
tradimento (che data da un anno almeno), trattiene
l’amante per un’intera settimana. Una seconda,
improvvisata e un po’ maldestra, a Châlons-surMarne, dai Duclos, che attendevano la visita (quando si dice il caso!) di Mme de Maux e della figlia,
le quali, in effetti, giungono appena un’ora dopo il
philosophe (ospite inatteso e col genero al seguito).
Si può facilmente immaginare, allora, il suo sgomento quando vede che le due donne sono accompagnate da un giovane e aitante trentenne, conosciuto a Bourbonne, tale Foissy, nei confronti del
quale gli occhi di Mme de Maux sembravano parlare da soli! Fu questa la fine della loro relazione.
Una vera batosta per il philosophe, da cui fu
profondamente segnato e da cui ci vollero mesi per
riprendersi. Nell’immediato, tuttavia, bisognava far
buon viso a cattiva sorte. Fortunatamente, durante il
breve soggiorno in casa Duclos, un episodio concorre a lenire un poco l’orgoglio ferito dell’illustre
filosofo. Ed è quando la domenica sera, alla comédie, davanti alla combriccola riunita, un attore lo
riconosce e lo fa oggetto di un pubblico elogio
(“non del tutto malfatto” a suo avviso). La mattina
seguente, attaccati i cavalli “mentre ancora tutto
dormiva”, partiva per Parigi.
Si è affermato, più sopra, che il viaggio di Diderot a
Langres è stato un “viaggio nel viaggio”, non semplicemente un “viaggio”. Tradotto in termini generali, ciò significa prospettare l’esistenza di un legame tra lo spostamento fisico, geografico, spaziale, e
il sommovimento interiore, emotivo, psico-geografico. Ma questo legame, che è di reciprocità e che si
riproduce anche su scala storica (basti pensare alle
migrazioni, antiche e moderne), costituisce in fondo
la sostanza stessa della “mobilità”, che è forza centrale non periferica delle identità e delle trasforma-
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zioni storiche e individuali, giacché, come sapevano
i nostri antenati e come spesso dimentichiamo, ogni
movimento produce un’emozione e, nello stesso
tempo, ogni emozione - secondo quanto suggerisce
la radice latina del verbo emovēre (composto da
movēre e dal prefisso e, con valore di “fuori”) - contiene in sé un movimento, ed è a sua volta produttrice di movimento. Non aveva persino Pascal, severo
assertore della vanità dei viaggi, riconosciuto che la
nostra natura è nel movimento e che la quiete assoluta è la morte?