Sentieri Urbani #04

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Sentieri Urbani #04
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indice
Sentieri Urbani
rivista semestrale della Sezione Trentino
dell’Istituto Nazionale di Urbanistica
nuova serie
anno II - numero 4
settembre 2010
registrazione presso il Tribunale di Trento
n. 1376 del 10.12.2008
Issn 2036-3109
direttore responsabile
Alessandro Franceschini
[email protected]
redazione
Fulvio Forrer, Paola Ischia,
Giovanna Ulrici, Bruno Zanon
[email protected]
hanno collaborato a questo numero:
Andrea Mubi Brighenti, Luigi Casanova, Vanni Ceola,
Mirco Elena, Giuseppe Gorfer, Elena Ianni, Cristina
Mattiucci, Luca Paolazzi
tipografia
Rotooffset Paganella s.a.s.
di Roberto Alessandrini &C
via Marchetti, 20
38122 Trento
abbonamenti
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contatti:
www.sentieri-urbani.eu
328.0198754
editore
Istituto Nazionale di Urbanistica
Sezione Trentino
Via Oss Mazzurana, 54
38122 Trento
direttivo 2010/2012
Giovanna Ulrici (presidente)
Fulvio Forrer (vicepresidente)
Elisa Coletti (segretario)
Alessandro Franceschini (tesoriere)
Davide Geneletti (consigliere)
Marco Giovanazzi (consigliere)
Paola Ischia (consigliere)
In copertina:
Footing a Londra, estate 2008 (foto archivio SU)
Editoriale
Urbanistica a «premi»
di G. Ulrici
Spazio&Società
Il mestiere di urbanista
di F. Forrer
La città alpina e i suoi sobborghi
di A.M. Brighenti
Una ricerca sui masi di montagna
di A. Franceschini
La percezione del paesaggio e le istanze di una comunità
di C. Mattiucci
Progetti, Pianificazione, Partecipazione. Possibile?
di E. Ianni
Mobilità
«Metroland» e «Val»: alcune considerazioni critiche
di V. Ceola
.
pag. 2
pag. 6
pag. 9
pag. 14
pag. 22
pag. 28
pag. 30
Territorio&Paesaggio
I muri a secco e il paesaggio di Castel Pradaglia
pag. 34
di G. Gorfer
Pinè/1: La relazione tecnico descrittiva della frana
pag. 38
a cura degli uffici della Provincia autonoma di Trento
Pinè/2: Quando la tecnica si piega alla politica
pag. 43
di F. Forrer
Potenzialità e criticità del sistema di autovalutazione
pag. 44
di L. Paolazzi
XII Biennale di architettura di Venezia
pag. 47
a cura della redazione
Uno sguardo sulla Cina
pag. 48
di M. Elena
Vita associativa
No a quattro domande di derivazione dell’acqua
pag. 52
a cura degli uffici della Provincia autonoma di Trento
Attività culturali dell’Inu/Trentino - estate 2010
pag. 54
di G. Ulrici
Recensione in forma di lettera
pag. 56
di L. Casanova
La differenza da… fare!
pag. 57
di P. Ischia
Biblioteca dell’urbanista
pag. 58
a cura della redazione
e d i t o r i a l e
URBANISTICA «A PREMI»
Note sul Piano Casa in Trentino
di Giovanna Ulrici
N
el marzo 2009 il Governo nazionale ha
lanciato un pacchetto di interventi volti al
rilancio dell’edilizia mediante norme che
autorizzavano un aumento delle cubature esistenti, anche su demolizioni e ricostruzioni, in
deroga alle normative in vigore. Il provvedimento
aveva carattere emergenziale e temporaneo
(suggeriva un orizzonte temporale di applicabilità
di 18 mesi) e demandava agli enti competenti in
materia (Regioni e Provincie autonome)
l’emanazione delle normative di recepimento.
INU nazionale ha aperto da subito un osservatorio sul Piano casa, ed ha accompagnato con iniziale forte preoccupazione l'introduzione di agevolazioni per il rilancio dell'edilizia aventi carattere estemporaneo su di un campo - quello dell'emergenza casa - permeato da storiche criticità
strutturali. Inoltre le misure prospettavano una
possibile significativa incidenza sull’aumento volumetrico senza nessuna apparente valutazione
delle ricadute sui carichi urbanistici e sulla qualità urbana.
La Provincia autonoma di Trento ha varato il
proprio piano casa in tempi non rapidi (marzo
2010) e restringendo il campo di applicazione
(vd. box) nell’art. 15 della L.P. 4/2010, che
prevede misure straordinarie di agevolazione per
la riqualificazione architettonica degli edifici esistenti a prevalente o totale destinazione residenziale nei soli casi di rifacimento totale
dell’edificio. La particolarità di questa legge è avere affiancato i “premi” del Piano casa ad altre
premialità volumetriche, quelle introdotte per dare maggior forza (e appetibilità) alla nuova normativa sul risparmio energetico e sul miglioramento ambientale concentrando gli sforzi per la
promozione del rinnovamento del patrimonio edilizio esistente, in larga parte scadente sotto il
profilo energetico. Inoltre le agevolazioni sono inserite all'interno dell’ampia riforma amministrativa e urbanistica, che è anche giunta a riordinare
le procedure autorizzative edilizie.
La riforma del corpus normativo urbanistico
(PUP, nuova legge urbanistica e leggi di settore)
e quella amministrativa (Comunità di Valle) rappresentano una epocale discontinuità nella forma di gestione del Trentino. Ne sono coinvolti il
governo del territorio, i nuovi processi e nuova
distribuzione delle competenze, prima che (o in-
sieme a) strumenti o modalità di pianificazione.
Una “macchina da guerra” che si candida a portare a sistema tutti i livelli della pianificazione
(PUP, Piani strutturali di Comunità e PRG, ecc)
e ad omogeneizzare le normative e le procedure
di gestione amministrativa.
Detto questo, si vorrebbe aggiungere qualche
annotazione relativamente alle implicazioni urbanistiche date dalla introduzione a livello locale
delle misure premianti,dilaganti nelle politiche di
governo su tutto il territorio nazionale, ben oltre
la già variegata articolazione data dai contenuti
regionali di recepimento del Piano casa.
L’art. 15 della l.p. è stato promosso enunciando
tre finalità della manovra (vd. Box):
- affrontare il problema della casa;
- affrontare il problema del rilancio dell'edilizia;
- affrontare il problema del miglioramento urbanistico.
Per quanto concerne il primo di questi obiettivi,
la risposta al fabbisogno abitativo è di fatto in
Provincia demandata ad altri provvedimenti non
a tempo, con politiche e finanziamenti già in corso e piuttosto articolati ma centrati su un programma finalizzato all’individuazione di volumi di
edilizia convenzionata ed agevolata. Strumento
vero e centrale per il tema casa è il Piano per
l’edilizia residenziale pubblica varato a gennaio
2010. Al contempo sono stati contemplati strumenti urbanistici virtuosi e di supporto alle politiche della casa nella nuova l.p. 1/2008: norme
che richiamano l’obbligo di individuazione di edilizia pubblica, norme che introducono lo strumento delle compensazioni urbanistiche per chi cede
alloggi, o norme di contenimento delle seconde
case (rif.l.p.16/2005).
L’obiettivo poi di contrastare con le premialità di
cui all’art. 15 il problema del rilancio dell’edilizia
pare decisamente sproporzionato: a livello provinciale non si può che osservare che su questo
aspetto hanno inciso, anche se non risolto, altre
iniziative aventi pure carattere di straordinarietà
ma molto impegnative in termini finanziari, quali
i massicci investimenti pubblici che sono stati
stanziati in misure anticrisi per opere pubbliche
e private negli anni 2009 e 2010.
Resta il tema del miglioramento urbanistico.
e d i t o r i a l e
L’introduzione di queste norme premianti è troppo recente e non sono a disposizione dati
sull’effettivo ricorso ai premi volumetrici e quindi
sull’effettivo carico urbanistico generato dalla
norma nelle zone urbanizzate. Va comunque evidenziato come il tema della premialità sia arma
a doppio taglio, in assenza di strumenti di misura della sostenibilità del carico generato dalle
volumetrie aggiuntive (aumento del traffico,del
fabbisogno di parcheggi e servizi pubblici, per esempio) per strutture urbane esistenti e limitate
nella possibilità di potenziamento ed ampliamento delle reti (strade e sottoservizi) e degli standard esistenti (verde, scuole). Senza avere cioè
valutato il limite locale sostenibile di densificazione nell’uso del suolo.
Il solo obbligo, previsto nella norma, di rispetto
delle distanze per regolare l’accesso ai premi
volumetrici può risultare un parziale strumento
di gestione dei conflitti all’interno della comunità
di vicinato, ma non può certo esaurire la verifica
della sostenibilità urbana dei nuovi carichi antropici.
Altrettanto deboli risultano alcune proposte a livello nazionale, volte ad assicurare che i fondi ricavati dagli oneri urbanistici generati dalle nuove
cubature vengano dedicati ad interventi infrastrutturali che compensino il maggior carico generato dai premi volumetrici su strade o parcheggi, per fare un esempio, o il maggior costo
per assicurare maggiori servizi pubblici corrispondenti ad una possibile maggiore domanda,
per esempio in trasporto pubblico.
Un uso puntuale e generalizzato della formula
della premialità volumetrica per promuovere il
rinnovamento edilizio in altre parole non sembra
esaurire il principio che – usando l’affermazione
di Ingersoll – “è con la città che si fa la differenza nei consumi energetici” e verrebbe da aggiungere anche nella qualità della vita.
La presenza in ampi comparti urbani, soprattutto dei maggiori centri urbani della provincia, di
grandi volumetrie condominiali, rende più evidenti queste preoccupazioni. Va pure osservato
che certamente è intervenendo su queste tipologie edilizie, spesso le più scadenti dal punto di
vista energetico e di qualità edilizia ed architettonica, che si può incidere significativamente sugli standard ambientali e di consumo energetico
COSA DICE LA LEGGE
L.P. 4/2010, Art. 15, Misure straordinarie di agevolazione per la riqualificazione architettonica e ambientale degli edifici esistenti.
Con questo articolo la legge autorizza un incremento della volumetria degli edifici esistenti, in misura del 15%, applicabile in
occasione di interventi di sostituzione edilizia e di demolizione e
ricostruzione. Un ulteriore premio volumetrico pari al 10% è
concesso se detto intervento prevede la realizzazione di alloggi
con affitto a canone moderato (rif. L.P. 15/2005) , con esonero totale dell’obbligo di corresponsione del contributo di concessione.
Queste agevolazioni sono temporanee (il termine previsto per le
domande è il 31.12.2011), salvo proroghe. La norma è entrata
in vigore nel marzo di quest’anno e prevede anche uno snellimento nei tempi per il rilascio della concessione.
I premi volumetrici sono sommabili ad altri premi volumetrici
previsti dall’art. 86 della L.P. 1/2008 in favore della diffusione
delle tecniche di edilizia sostenibile, che garantisce lo scomputo
dagli indici edilizi degli elementi costruttivi finalizzati al miglioramento delle prestazioni energetiche e che prevede – per gli edifici che presentano livelli di prestazioni energetiche superiori a
quelli obbligatori (individuati con Del.G.C. n. 1531/2010) – un
incremento volumetrico determinato in rapporto alla qualità del
livello di prestazione o in alternativa la possibilità di richiedere la
riduzione del contributo di concessione . L’incremento volumetrico per il miglioramento delle prestazioni energetiche, qualora
congiunto ai premi dell’art. 15 della L.P. 4/2010 si applica a
scaglioni sulla base delle volumetrie (fino a 500 mc, 1500 mc,
4000 mc e oltre) e delle Classi energetiche raggiunte, e va da
un minimo incremento del 5% ad un massimo incremento volumetrico del 25%.
Queste agevolazioni, che non hanno carattere temporaneo, sono
in vigore dal 7 luglio 2010, data di entrata in vigore della Del.
G.P. 1531 che ha introdotto il Regolamento applicativo dell’art.
86 della L.P. 1/2008.
Provando a fare un calcolo: un edificio residenziale ricostruito e
destinato ad edilizia agevolata, che si collochi in classe superiore
all’obbligatoria, per esempio A+ (ammesso che risulti economicamente vantaggiosa), potrà godere di un aumento volumetrico del
15+10+25= 50%, da sfruttare nel rispetto delle distanze.
e d i t o r i a l e
e d i t o r i a l e
dei tessuti residenziali esistenti. Ma non è ipotizzabile che i numerosi proprietari e residenti delle tipologie condominiali possano facilmente trovare modo di accedere ai premi volumetrici, che
nella norma presuppongono forme estreme di
intervento quali la sostituzione e la demolizione
con ricostruzione: basti avere esperienza della
complessità nei processi decisionali interni alle
assemblee di condominio, o basti pragmaticamente pensare alle oggettive difficoltà nel trovare un alloggio sostitutivo per i residenti nel periodo di cantierizzazione.
Quindi non è (solo) impostando sistemi coercitivi
e premianti nell'edilizia residenziale esistente
che si può incidere sul rinnovo edilizio e sul risparmio energetico, ma promuovendo modalità
organizzative e gestionali del territorio (che passano attraverso il disegno della città) che, densificando e minimizzando la dispersione insediativa, affrontino il tema del consumo energetico
senza trascurarne le fonti reali: il settore civile
incide per circa un terzo sui consumi totali, al
pari dei trasporti e dell’industria.
Per ottimizzare il “funzionamento energetico”
della città andrebbe quindi valutata la possibile
selezione del patrimonio edilizio da premiare non
per il suo rifacimento ma per il suo trasferimento, o tramite il suo trasferimento. La l.p.
1/2008 prevede anche strumenti, certamente
di maggiore complessità applicativa rispetto ai
premi ma probabilmente di maggiore efficacia in
ambiti urbani di particolare criticità: come esempio si possono ricordare le compensazioni
urbanistiche (art. 55) per delocalizzazioni. Ora,
con la messa a regime piena della legge 1 /
2008, i comparti di trasformazione si sbloccano: una nuova stagione di costruzione di rapporti pubblico-privato si potrebbe avviare nella costruzione di piani attuativi, cioè nel disegno della
città nuova o da riqualificare. Insisto sull'importanza di questi strumenti e di questa scala: la
scala della progettazione attuativa è quella ideale per fare la differenza nella qualità urbana e
dove si esalta l'introduzione delle tecnologie green (e qui gli esempi europei di ecoquartieri best
practices non sono pochi, dalla Svezia, alla Danimarca alla Germania).
“La luce della sola razionalità non è sempre bella” sostiene il paesaggista Caruncho: la qualità
urbanistica ed ambientale non passa solo attraverso indici, ma attraverso l'interpretazione –
sapiente – del luogo tramite il suo disegno. L'appiattimento sulle tecnologie appartiene ad un approccio ideologico che non implica da solo il rispetto di paesaggio, sostenibilità, ecologia.
La riforma delle Comunità di Valle oltre che por-
tare ad una razionalizzazione nella gestione amministrativa (al di là degli effetti sulla parcellizzazione comunale) è bisogno strutturale ed economico. Ma in ottica energetica è lo strumento
per introdurre una pianificazione sostenibile: il
sistema aggregativo nelle scelte di pianificazione
deve contrastare il rischio di dispersioni di opere e optare per la distribuzione degli utili derivanti da tali opere su tutto il bacino di influenza.
Il tema della premialità può in questo caso declinarsi al supporto di forme articolate di perequazione territoriale, le più creative e destrutturate
se occorre – esempi nella pratica urbanistica italiana recente ve ne sono, con i quali se necessario confrontarsi - ma che proteggano il consolidamento di una identità di valle oltre o non
conflittuale con l'identità di comunità comunale.
Il tema della premialità per la delocalizzazione o
per interventi di riqualificazione ambientale può
pure essere uno strumento da prendere in considerazione anche in contesti di criticità ambientale: uno strumento da affiancare alle politiche
di messa in sicurezza idrogeologica del territorio, per esempio, atto ad agevolare interventi
pubblici in situazioni di rischio, utile per sostituire formule al presente dibattute di redistribuzione del rischio (obbligatorietà per i privati di attivare polizze assicurative) ma di difficile introduzione.
Questa proposta - avanzata anche in altre Regioni nelle attuali fasi di rinnovo delle norme
“piano casa”- estenderebbe i benefici ambientali
dell'iniziativa anticrisi avvicinandoli a questioni
che stanno assumendo enorme rilevanza nella
pianificazione dei tessuti residenziali esistenti: rischio idrogeologico e sismico.
In conclusione, allontanando approcci pregiudiziali sulle nome riferibili al Piano Casa, si riconoscono al contrario spunti positivi nella possibilità
di ricorrere a incentivi volumetrici per attivare
politiche di rinnovo del patrimonio edilizio residenziale scadente e nell’affiancamento di questi
premi a politiche di risparmio e riqualificazione
energetica. Si sottolinea però l’urgenza di strumenti che permettano forme snelle e articolate
di monitoraggio dei pesi urbanistici per misurare e se necessario limitare questi incentivi laddove compromettano la sostenibilità nei carichi
urbani incrementali o strumenti di controllo di
possibili distorsioni nella creazione di mercati
privilegiati. Al lato opposto è possibile pensare
alla diffusione della premialità volumetrica per
incentivare processi di sostituzione e riqualificazione urbana, o per supportare politiche di delocalizzazione in ambiti a rischio o criticità ambientale.
Note
1. La Provincia autonoma
di Trento ha messo in
campo - gennaio 2010 – un
piano per l'edilizia residenziale pubblica, per 1.005
alloggi a canone sociale e
691 a canone moderato
che ITEA potrebbe
acquistare/realizzare entro
il 31.12.2011. (Piano
straordinario di ITEA spa) e
che individua i fabbisogni a
scala comunale. E’ previsto
l’acquisto sul mercato di
245 alloggi a canone sociale, in comuni ad alta tensione abitativa, onde evitare
l'individuazione da parte dei
Comuni di nuove aree edificabili. Altri 760 alloggi
vengono individuati su aree
o immobili già di ITEA.
Anche gli alloggi a canone
moderato saranno messi a
disposizione nei 12 comuni
ad alta tensione abitativa. Il
piano troverà realizzazione
anche in mancanza di
partecipazione delle amministrazioni comunali. Fra le
ulteriori misure previste:
l’introduzione di un fondo
immobiliare e contributi a
favore dei privati per la
messa a disposizione di
alloggi.
2. Conflitti o impatti sul
vicinato (e sul paesaggio)
sono stati affrontati in
alcuni contesti ricorrendo
alla conservazione delle
visuali libere
3. Vd. S.Verones e
B.Zanon, Pianificazione per
città a basse emissioni, in
Sentieri Urbani n.3, 2010
Fotografia
Plein Street, Down Town,
Gauteng, 2004
Photo Adam Broomberg
and Oliver Chanarin
6 /
Sentieri Urbani
Spazio&Società
Il mestiere di URBANISTA
di Fulvio Forrer
Mexico City Ecataepec,
Mexico 2006
Photo Scott Peterman
Il senso
Il concetto di urbanistica nasce attorno alla
città, ad un luogo di forte concentrazione antropica per il quale vi è un progetto, una visione
per il futuro: la città fortificata, la città mercato,
la città rappresentativa, la città industriale, la
città dell’espansione edilizia, la città capoluogo,
ecc. L’Urbanistica quindi è sempre stata un
terreno di visione proiettata al futuro in cui il
fattore preminente è lo sviluppo umano, di solito
la rappresentazione degli interessi più forti e più
grandi che, con una certa approssimazione,
possiamo definire “la gestione dell’insieme di
oggetti fisici e spaziali che formano l’aggregato
urbano” (città o paese che sia) e che possiamo
semplificare con la visione preventiva dell’edilizia.
Oggi l’urbanistica non si chiama più così in quanto interessa visioni e gestioni che vanno ben
oltre l’edilizia e la città e non riguardano solo il
costruire edifici, ma sono l’insieme delle attività
che vanno sotto il nome di “Governo delle trasformazioni territoriali”. E così ai piani urbanistici in senso stretto (Piani di Coordinamento Territoriale, Piani Regolatori Generali, ecc) si affiancano una miriade di pianificazioni di settore,
dalla escavazione di sostanze minerarie alla
gestione dei boschi, dalla mobilità ai trasporti,
dalle acque all’aria, dai bisogni sociali a quelli
economici, fin tanto a interessare strumenti
nuovi come la valutazione ambientale (VIA, VAS,
VINCA) o quella più economica (Bilanci costibenefici, Master plan, ecc). Pianificare vuol dire
conoscere, interpretare, trovare soluzioni, programmare, organizzare, prevedere e confermare strutture, prevederne di nuove, stimare risorse e bisogni, concordarle, concertarle, definire
metodologie, scegliere soluzioni, fissare obiettivi. Oggi invece, soprattutto nella pianificazione
urbanistica, l’azione prevalentemente è quella di
dispensare valore edificiale, una specie moderna di “mercato delle vacche”: è una visione vecchia che malamente sa costruire passaggi utili
alla crescita di comunità ed è limitata alla gestione degli interessi più espliciti.
Gli obiettivi
Per svolgere questa attività in maniera efficace
e bene servono quindi idee, adeguate risorse
umane (cultura e formazione) e finanziarie, organizzazione sociale e rispetto dei ruoli.
L’obiettivo della pianificazione è in fondo quello
della razionalità, dell’uso oculato delle risorse,
dell’equilibrio nelle opportunità e nelle occasioni,
dell’interesse pubblico preminente su quello
privato, della sostenibilità degli obiettivi e delle
previsioni rispetto alle condizioni e alle possibili-
Spazio&Società
tà. I soggetti che concorrono a questa pratica
sono tanti: la politica con la sua responsabilità di
sintesi finale, la tecnica nella ricerca delle soluzioni possibili e auspicabili, gli interessi di categoria nel prospettare necessità e opportunità
per raggiungere traguardi, i bisogni di area per
una identificazione dei soggetti afferenti ed i
fabbisogni sociali per dare stabilità alla comunità
e benessere generale. Nell’urbanistica, anche
espressa in maniera moderna, deve prevalere la
visione, l’obiettivo generale, le soluzioni praticabili in un delicato equilibrio tra componenti e pressioni di lobby, fin tanto ad orientare la politica ed
il consenso sociale (approvazione formale) verso
soluzioni migliori, strategiche, rivolte al futuro.
Con/correnza e presenze
La pianificazione ha quindi per definizione bisogno di una molteplicità di contributi e di partecipazioni. Fino ad oggi i piani sono stati fatti nel
chiuso di stanze politico-professionali “di competenza” aprendosi alla società solo nei momenti
di confronto e partecipazione tipici della politica
e della vita amministrativa. Il confine tra politica
e tecnica è spesso confuso, i portatori di interesse premono politicamente in quanto politicamente si va frequentemente oltre la sintesi e
l’azione si trasforma da legittima proposta ad
accordo più o meno sotterraneo. Gli interessi
d’area sono delegati, per organizzazione politicoamministrativa, agli eletti di quella zona e
l’evidenziazione dei bisogni sociali sembra essere
scomparsa con l’affievolirsi della stagione contrattual-sindacalista. Tradizionalmente i cittadini
vengono di fatto considerati solo per esprimere
bisogni personali. È il caso della raccolta preliminare delle segnalazioni di chi vorrebbe costruire,
è tipico nell’accettazione delle osservazioni presentate anche (quasi sempre) non nel pubblico
interesse. È il prevalere sfacciato delle logiche
individuali sulle esigenze di comunità.
All’amministrazione rimane in carico la previsione dell’insieme delle necessità sociali, quasi, in
una condizione di soggezione per non portare
via ai censiti brandelli di proprietà o di iniziativa,
spesso di fatto prive di valore economico, ma di
elevato valore nel caso di interessi sociali. Sembra assente la percezione che un aggregato ben
equilibrato, ben progettato con il suo intorno e
ben realizzato comporta poi valori immobiliari e
sociali maggiori. E di fronte a tale difficoltà ecco
il contributo dei differenti livelli della pianificazione (livelli istituzionali-coerenze e compatibilità)
che in un delicato meccanismo di coopianificazione dialettica (l’urbanistica contrattata, indispensabile se alla luce del sole) tutela gli interes-
Sentieri Urbani / 7
si generali e la visione raccordata d’insieme.
Peccato che nella realtà locale il Piano di Coordinamento Territoriale del Trentino sia oggi meno
strumento di comprensione generale degli assetti lasciando spazi forse troppo ampi e discrezionali alle visioni particolari, di settore, di comparto, anche se per fortuna la nuova organizzazione
e i nuovi strumenti informativi territoriali (SIAT)
suppliscono adeguatamente a tale carenza.
Questo sistema oggi è gestito politicamente dai
livelli istituzionali e da pochi tecnici, per lo più
protetti in uffici in cui la gente non capisce cosa
si fa, nonché da molti “urbanisti” improvvisati
che colgono nell’inserimento di Varianti urbanistiche più o meno consistenti e motivate opportunità di lavoro. Questo modo di fare è superato,
servono competenze nuove, specifiche, e metodologie innovative, non solo tecnologiche.
Quale formazione
Evolve la vita ed il mondo e con essa dovrebbero
evolvere anche le professioni. Purtroppo in un
sistema sociale organizzato a corporazioni e
interessi forti tale evoluzione non riesce a compier il suo ciclo naturale: pianificare è in primis
conoscere e interpretare la realtà. Servono
quindi valide conoscenze e capacità cartografiche, sociali, economiche, degli aspetti fisici della
terra, degli equilibri naturalistici e dei fabbisogni
antropici. Serve in particolare approfondire gli
aspetti dell’ecologia umana, dell’organizzazione
sociale e istituzionale, nonché avere solide basi
di diritto e chiare motivazioni etiche. Una figura
poliedrica che sa di tante cose, ma che per
concretezza dobbiamo dire che “altri sanno specialisticamente di più”. Questo non deve essere
visto come un limite, ma l’apertura al considerare motivatamente e scientemente la pluralità
delle componenti in gioco: è il ruolo stesso della
pianificazione generale e di coordinamento. Ed il
gioco di squadra è il fattore strategico per raggiungere risultati più elevati sapendo raccogliere
indispensabili contributi specialistici: è la multidisciplinarietà nel gioco delle componenti e dei
ruoli, ovvero andare oltre la demagogica interdisciplinarietà di chi ritiene di sapere tutto (ogni
riferimento è puramente casuale). Voglio soprassedere sull’esistenza di tali figure nel panorama
formativo italiano per arrivare ad affermare che
servono in modo fondamentale due condizioni:
una adeguata considerazione da parte degli Enti
dell’importanza di tali figure e l’accettazione da
parte delle corporazioni di contribuire in modo
significativo con le proprie capacità, superando
limitate logiche di accaparramento di spazi professionali, in fondo interstiziali. Varie figure
8 /
Sentieri Urbani
Spazio&Società
professionali hanno nel loro bagaglio uno degli
aspetti importanti dell’urbanistica, ovvero la
ricomposizione in un progetto coerente di quadri complessi, ma proprio la specializzazione a
componenti fortemente tipizzanti impone che le
vicinanze formative sappiano fermarsi alla loro
competenza e, che nel caso di sconfinamenti,
ciò avvenga previo specifica e consistente riformazione professionale o, meglio, attraverso
la collaborazione interdisciplinare. Il mondo
delle professioni purtroppo non mi sembra
pronto ad assumersi tale responsabilità.
Competenze e incompetenze
A fronte del panorama lavorativo trentino, ovvero delle figure attualmente operanti nel settore
della gestione delle trasformazioni territoriali,
preme evidenziare che la situazione è complessa, così come è molto articolato il settore della
pianificazione settoriale. Un dato di sintesi che
a me appare evidente è la forte chiusura per
settori di competenza: i piani di settore della
pubblica amministrazione sono generalmente
fatti dagli uffici di competenza con eventuali
collaborazioni universitarie di natura specialistica, raramente aperti a contributi multipli o ad
approfondimenti che superano i confini strettamente disciplinari, anche quando ciò sarebbe
molto opportuno. Gli studi professionali privati a
carattere interdisciplinare sono pressoché
assenti, nella libera professione la tendenza è
quella della esclusività (ovvero, non spartire i
guadagni). Ed anche il settore della valutazione
ambientale, che per definizione comportava il
confronto multidisciplinare, oggi si è impoverito
a favore della semplificazione amministrativa e
della apertura alle componenti forti del mercato
del lavoro. Raramente la pianificazione comunale è fatta da professionisti specificatamente
specializzati e frequentemente è fatta da professionisti d’area geografica o politica. In particolare ci sono figure professionali che monopolizzano il mercato, quasi sempre operando in
modo esclusivo, testimoniando con ciò in modo
inequivocabile la loro necessità di affermazione
lavorativa. È il nodo della monocultura e della
concentrazione degli affari in poche mani, della
falsa concretezza lavorativa per superare i
fronzoli; ne fanno le spese la qualità dei lavori, i
costi che sono spesso ingiustificati (o non comprensibili) e la percezione comune di trovarsi in
una gestione degli interessi generali di bottega,
anziché del miglior lavoro possibile. La mediocrità impera e la tecnica, nonché l’etica, spariscono dalla percezione comune: è l’ora di voltare pagine.
In ogni caso una delle doti indispensabili
all’urbanista è la pazienza; l’urbanista dispensa
all’amministrazione, se in grado, innanzi tutto
cultura ed esperienza: cultura della parsimonia
(e non semplicistiche nozioni tecniche) ed esperienza nella valutazione degli effetti e delle conseguenze che ogni scelta comporta, ovvero
aiuta a valutare e a negoziare. Risponde ai cittadini, se il politico glielo consente, per spiegare le
ragioni generali delle scelte, agli interessati
argomenta in modo circostanziato quelle valutazione che ai privati possono sembrare discriminatorie o arbitrarie. Infine con gli strumenti
propri del piano descrive la struttura e le scelte
in modo comprensibile a tutti e democratico,
nel peno rispetto del proprio ruolo, senza mai
interferire con la dialettica politica, sale del
nostro sistema politico. Non è teoria, è capacità
ed equilibrio propria del professionista abile ed
esperto; un requisito indispensabile per fare
buoni piani.
Con un giudizio evidentemente più moderato la
stessa Provincia autonoma di Trento, conscia di
tali difficoltà e consapevole dei fallimenti precedenti, ha assunto in proprio questo nuovo onere
formativo: «La Provincia realizza programmi di
formazione e aggiornamento permanente in
materia di pianificazione territoriale e di paesaggio avvalendosi della società per la formazione
permanente del personale prevista dall'articolo
35 della legge provinciale n. 3 del 2006». Appare evidentemente superfluo commentare
l’entrata in campo diretto delle Provincia, ma il
gap tra quanto ottenuto in termini culturali dagli
anni settante ad oggi in Alto Adige-Südtirol e
quanto fatto invece in Trentino rende evidente la
necessità di un profondo cambiamento. Non è
detto che l’alta scuola di formazione Pat possa
essere esaustiva per tutti, ma certamente potrà rendere il panorama dei responsabili operativi delle Comunità di valle più omogeneamente
formati e preparati. Ma soprattutto preme caldeggiare un nuovo atteggiamento da parte di
tutti i professionisti, operatori dell’Ente pubblico
o nel privato: aprirsi al confronto, alla visione
multidisciplinare e saper fare sintesi non
dall’alto della propria prevalenza, ma alla luce
degli utili apporti che dalle altre figure professionali possono venire, arricchendo di soluzioni e di
dettagli. Ciò vale anche per i processi di partecipazione popolare che per essere produttivi necessitano di strutturazione ed operatività (quindi
specifica formazione), solo così l’urbanistica
potrà avvicinarsi ai cittadini senza venir travolta
dagli interessi insistenti di chi sa puntare i piedi
o di chi sa operare sottobanco. La democrazia
più partecipata può essere costruita.
Spazio&Società
Sentieri Urbani
/ 9
La città alpina e i suoi sobborghi
di Andrea Mubi Brighenti
Nuovi modelli urbani e città delle Alpi
Nella primavera del 2010, insieme al professor
Giolo Fele della Facoltà di Sociologia
dell’università di Trento, titolare del corso di Metodi qualitativi per la ricerca sociale, abbiamo
proposto a un gruppo di studenti di progettare e
realizzare una piccola ricerca sui sobborghi della
città di Trento. Abbiamo quindi elaborato una
mappatura e una schedatura sistematica di una
decina di sobborghi urbani che abbiamo scelto
per la loro diversità e rappresentatività rispetto
alle dimensioni di analisi che ci interessavano. In
ciascuno dei sobborghi scelti, abbiamo poi realizzato un corpus di interviste con gli abitanti.
Sebbene la ricerca non avesse alcuna pretesa
di rappresentatività o di esaustività rispetto alla
popolazione complessiva, ci è sembrato che essa potesse comunque avere un’utilità di tipo
“sintomatico”. Infatti, pur non avendo raccolto
dati sull’incidenza quantitativa dei fenomeni che
abbiamo rilevato, dalla ricerca è emersa una serie di aspetti interessanti riguardo alla percezione di un insieme di fattori cruciali rispetto alle
modalità dell’abitare: qualità di vita, spirito di comunità, attività e associazioni locali, mobilità,
trasformazioni urbanistiche, rapporto tra vecchi
e nuovi abitanti, e così via. Una discussione ampliata su tali questioni la si è potuta sviluppare,
sempre nella scorsa primavera, in una serie di
incontri volti a lanciare un piccolo “laboratorio di
etnografia urbana”. Abbiamo così cercato di esplorare quella dimensione territoriale che Renato Bocchi ha chiamato con felice espressione
la “città-arcipelago” (Bocchi 2006). In questa visione ampliata della città i sobborghi risultano
particolarmente importanti, sia per la quantità
percentualmente significativa di popolazione che
oggi essi ospitano, sia per le nuove modalità
dell’abitare suburbano – come ad esempio la
“appartenenza elettiva” (Savage, Bagnall e Longhurst 2005) – che incarnano. In questo breve
testo, vorrei sviluppare alcune considerazioni
personali emerse durante questa ricerca.
Negli ultimi anni gli urbanisti e i pianificatori territoriali hanno rilevato come il classico modello
urbano “centro-periferia” sia per molti versi superato (vedi ad es. Kloosterman e Musterd
2001; Parr 2004). Le nozioni di urban sprawl,
ville éclatée e suburbanizzazione, d’altra parte ,
non sembrano da sole in grado di fornire uno
strumento sufficientemente preciso per cogliere
il complesso intreccio di fattori e le diverse forme del mutamento materiale e sociale in corso.
Alcuni studiosi hanno perciò proposto di introdurre negli studi urbani e regionali nuove categorie di analisi, parlando ad esempio di “regione
urbana” (Magnaghi e Marson 2004), “area urbana funzionale” (Perlik, Messerli e Bätzing
2001), “regione urbana polinucleare” (Dieleman
e Faludi 1998), nonché di
Il centro storico del sobborgo di Cadine (Tn)
10 /
Sentieri Urbani
Nuovi insediamenti nel
sobborgo di Civezzano (Tn)
Spazio&Società
“megalopoli” (Gottmann 1961; Turri 2004),
“reti di città” (Camagni e Salone 1993) e di
“networked urbanism” (Blokland e Savage, a cura di, 2008).
Anche lo spazio alpino sembra rientrare in questo discorso. Oggi le città alpine condividono numerose caratteristiche cruciali con il resto delle
città europee e occidentali in genere, come ad
esempio forme di amministrazione burocratica
organizzata per scale territoriali, economia capitalista avanzata, turismo, infrastrutture dei trasporti e delle comunicazioni. Insieme a tali caratteristiche si riscontrano anche tutti i tipici
problemi urbani connessi alla difficoltà di pianificazione, al consumo di suolo e all’inquinamento.
Allo stesso tempo, le città alpine si caratterizzano per un insieme di tratti specifici, che derivano dalla storia e dalla geografia unica e distintiva dello spazio alpino. Proprio per tale situazione, le città alpine si trovano oggi in un punto di
convergenza e di tensione tra forze sociali diverse, la cui spazialità riflette la costituzione di un
campo sociale discorsivo (specialistico e non) in
cui vengono discussi e dibattuti diversi e divergenti modelli di pianificazione, sviluppo, governo
e mobilità.
Già negli anni Settanta, Giuseppe Dematteis
(1975) invitava a superare la visione arcaicizzante delle Alpi come territorio a vocazione unicamente agricolo-pastorale, e dunque essenzialmente anti-urbano, sottolineando al contrario
l’antichità e l’importanza delle città alpine. La
presenza di centri urbani nell’arco alpino quantomeno dall’epoca romana ha svolto un ruolo economico ed amministrativo essenziale. Le città
delle Alpi, notava Dematteis, sono da considerarsi propriamente delle città alpine, in quanto
esse si sono sviluppate all’interno di un inscindibile legame funzionale con il territorio che le cir-
conda (attività estrattive, controllo dei transiti e
così via). Più recentemente, Dematteis (2009)
ha applicato la nozione di regione urbana policentrica allo spazio alpino, suggerendo come il
rafforzamento delle reti urbane possa essere
per le Alpi un modo distintivo per riuscire ad essere simultaneamente globali (entrando ad esempio nei circuiti dell’economia cognitiva) e locali (basandosi sulle risorse territoriali specifiche che le caratterizzano). Da questa prospettiva, le Alpi si configurano dunque complessivamente come uno spazio propriamente urbano e
“il futuro delle Alpi dipende principalmente dallo
sviluppo delle [sue] città” (ibid., 32).
Tuttavia, proprio perché la categoria dell’urbano
viene a significare oggi così tante cose contemporaneamente, nel momento in cui viene a inglobare un insieme complesso di identità territoriali differenziate, di scelte e di strategie politiche sociali e culturali ampiamente eterogenee,
mi pare che essa non possa costituire, di per
sé, una panacea per le Alpi. In effetti, l’analisi
non può accontentarsi di stabilire la presenza o
meno dell’urbano, ma deve addentrarsi a chiarire le diverse modalità e le diverse tendenze
dell’urbanizzazione stessa.
Inoltre, per chi voglia comprendere la complessità delle formazioni territoriali, un’analisi morfologica e funzionale deve prolungarsi, non solo in
un’analisi delle economie e delle politiche (e, in
senso più ampio, della politica spaziale e della
spazialità politica) ma deve altresì estendersi a
uno studio della cultura dell’abitare (ben oltre il
semplice fatto della residenza), persino verso una fenomenologia e una poetica dell’abitare. Una fenomenologia dell’abitare include ad esempio uno studio del ruolo della percezione nella
fruizione dello spazio urbano (Lynch 1960; Franceschini 2004). Questo punto di vista ci ricorda
Spazio&Società
che la città non può essere ridotta a una dimensione o a un insieme di dimensioni quantitative.
Abitare la città è un fatto sociale totale, riscontrabile sì in una serie di indicatori ma non riducibile ad essi. La “persistente importanza della
territorialità per le relazioni sociali” (Savage, Bagnall e Longhurst 2005, 7) ci spinge ad analizzare le dimensioni materiali ed affettive
dell’abitare, punto fondamentale attraverso il
quale l’urbano si situa in un paesaggio, in un
milieu percettivo caratterizzato da una Stimmung che ne contrassegna l’unità al di là delle
frammentazioni esperienziali (Simmel 1912). Una fenomenologia dell’abitare deve inoltre complementarsi con una prospettiva ecologica, ovvero con una prospettiva relazionale che mostri
come gli elementi – inclusi gli attori – siano il risultato di relazioni, posizionamenti e distribuzioni
all’interno di un insieme interconnesso, dotato di
proprietà emergenti. L’ecologia urbana è dunque un’ecologia delle attenzioni, delle sincronizzazioni, degli affetti e dei desideri, dei flussi e dei
contagi. Le stesse dimensioni del pubblico e del
comune che caratterizzano la città in quanto polis (Arendt 2004[1958]) possono venire comprese in questa prospettiva.
Territorio urbanizzato / città territoriale
Esiste, a mio avviso, un persistente divario tra
urbanizzazione del territorio da un lato e territorializzazione della città dall’altro. Il territorio urbanizzato non coincide con la città territoriale; e
anche laddove il primo processo è oggi più o
meno compiuto, il bisogno di città territoriale resta ancora insoddisfatto. Non solo i due fenomeni non coincidono, ma è persino possibile
che l’urbanizzazione del territorio si ritorca contro la territorializzazione della città. La città territoriale rinvia infatti alla dimensione
Sentieri Urbani / 11
dell’urbanità, dalla Stadtluft o city-like atmosphere, della cultura urbana. Ma tale cultura, incentrata su una nozione ampia di spazio pubblico,
non coincide più con quella urbanità descritta
dai teorici classici, a partire a Georg Simmel
(1895) fino a Jane Jacobs (1961) e Richard
Sennett (1977).
Secondo Ash Amin (2008, 5), “in un’epoca di
sprawl urbano, di usi molteplici dello spazio pubblico e di proliferazione dei luoghi di espressione
politica e culturale non è il caso di aspettarsi
che gli spazi pubblici siano in grado di adempiere al loro ruolo tradizionali e di educazione civica
e partecipazione politica”. Tuttavia, come ho sostenuto altrove (Brighenti 2010c), tali considerazioni sulle trasformazioni dello spazio pubblico
urbano contemporaneo non dovrebbero indurci
a detrarne l’importanza. Lo spazio pubblico si ritrova infatti oggi ad essere al centro di una serie di nuovi snodi politici, culturali ed economici
cruciali. Più precisamente, lo spazio pubblico si
prolunga e si stratifica in un più ampio dominio
pubblico (Brighenti 2010a) che è un dominio di
informazione, comunicazione e nuove forme di
relazione, dunque un dominio essenziale per le
aspirazioni di una città territoriale.
Cosa implica tutto ciò nel caso del territorio delle Alpi? Piuttosto che guardare alla città alpina
tradizionale, rispetto alla quale esistono già studi ragguardevoli, mi è sembrato interessante focalizzarsi sui sobborghi urbani. Questi ultimi rappresentano per così dire delle “zone di frontiera”, non tanto tra l’urbano e il rurale quanto
piuttosto tra diverse modalità di comporre, vivere e intendere l’urbano. Zone inoltre caratterizzate da una peculiare invisibilità, o forse meglio
da tre diversi tipi di invisibilità (Brighenti
2010b). In primo luogo, mentre nella letteratura internazionale di ricerca sociale il tema della
Nuovi insediamenti nel
sobborgo di Civezzano (Tn)
12 /
Sentieri Urbani
A sinistra: nuovi insediamenti nel sobborgo di Cadine (Tn). A destra: edifici nel
centro storico di Oltrecastello (Tn).
Spazio&Società
suburbanizzazione è ampiamente frequentato –
anche attraverso innumerevoli dibattiti sulla sostenibilità o meno del modello suburbano – in
ambito italiano la sociologia si è focalizzata soprattutto sulle “periferie”, un interesse chiaramente dettato dall’incidenza di problemi sociali
in determinate aree urbane, ritenute riserva di
potenziali disordini e violenze urbane (per una
rassegna vedi Callà 2010; Brighenti 2010c).
In secondo luogo, e di nuovo sempre in contrapposizione alle periferie classicamente intese, i
sobborghi (che pure adottando il vecchio schema centro-periferico si collocano nella periferia
geografica della città) non attraggono
l’attenzione dei mass media, venendo piuttosto
interpretati attraverso lo stereotipo del luogo
“senza eventi” e “noioso”. Tuttavia questo carattere suburbano di “mancanza di eventi” non va
affatto confuso con una presunta lentezza dei
mutamenti sociali in corso in tali luoghi. La ricerca mostra infatti come questi luoghi siano
tutt’altro che slow-paced: essi hanno infatti subito importanti trasformazioni urbanistiche e sociali nel corso degli ultimi vent’anni, trasformazioni a volte difficili da osservare (questione della
visibilità) ma tutt’ora in corso e di cui è difficile
prevedere gli esiti.
In terzo luogo, i suburbi sono considerati da
molti studiosi, soprattutto in ambito angloamericano, come la negazione dello spazio pubblico, il trionfo del privatismo e di atteggiamenti
di disaffiliazione politica. Si tratta perciò di verificare l’esistenza di forme più o meno evidenti ed
emergenti di dimensione pubblica nei sobborghi,
o quantomeno di registrare quale altra categoria di interazione si riveli più adatta per comprendere tali spazi sociali.
La frangia suburbana
Proprio perché la categoria di suburb, o sobborgo, di per se stessa problematizza la dicotomia
urbano/rurale (Bruegmann 2006), andare ad
esplorare i sobborghi alpini significa confrontarsi
con la complessità spaziale, materiale e sociale
di una sorta di frangia o zona di frontiera urbana, la quale, più che nei margini o verso una
qualche esteriorità ormai difficile da incontrare,
sembra collocarsi in un “tra”, in una situazione
di sospensione e interstizialità. Il sobborgo contemporaneo è un interstizio, non tra l’urbano e il
rurale, quanto tra diverse modalità di comporre
l’urbano – ovvero tra, da un lato, un territorio infrastrutturato di dispositivi urbani (strade, gallerie, ponti, auto, cellulari, computer, sistemi informativi, strumenti satellitari e così via) e,
dall’altro, una città territoriale a venire, la quale
esprime in modo ancora confuso e contraddittorio un bisogno di città e un desiderio di città
(vedi anche Annunziata 2008) che va al di là
della cultura classica della urbanity.
Sorta di paradossale Zwischenstadt, il sobborgo
alpino è un territorio in trasformazione che in
tempi recenti ha visto associarsi a una forte espansione residenziale un persistente cleavage
tra vecchi e nuovi abitanti. Sarebbe troppo facile
contrapporre i suburbaniti agli abitanti della città sulla base della classica distinzione tra urbanofobi e urbanofili. Di fatto l’animus anti-urbano
della classe media che decide di andare a vivere
nei sobborghi e diventare commuter e city-user
non è diverso da quello che si ritrova tra alcune
popolazioni urbane, come ad esempio quella dei
super-rich, ma anche degli abitanti dei quartieri
difficili che sognano la fuga da una realtà territoriale stigmatizzata e soffocante.
E sarebbe altresì sbagliato credere che i sobborghi alpini ospitino, come spesso quelli nordamericani, una popolazione omogenea caratterizzata da un unico modo o stile di vita. Al contrario, sebbene l’attributo della “autoctonia” sia
chiaramente ideologico, nei sobborghi che abbiamo osservato nuovi e vecchi abitanti rimangono distinti, spesso separati, soprattutto sulla
base di una diversa modalità di immaginare la
comunità, il vicinato e le forme stesse
dell’abitare. La trasformazione degli spazi materiali si è accompagnata infatti, per i vecchi abitanti, a una trasformazione delle modalità di socializzazione, non solo rispetto ai nuovi abitanti
ma anche all’interno del proprio gruppo. Molti di
questi abitanti lamentano un “problema di identità” dei luoghi, faticando ad immaginare la nuova
configurazione che sta assumendo il proprio
“paese natìo” – al quale si sentono in molti casi
Spazio&Società
Sentieri Urbani / 13
affettivamente legati in modo profondo (tema
peraltro classico, quello della “piccola patria” alpina) – nel momento in cui l’espansione residenziale li porta a nuove convivenze e le nuove esigenze funzionali li trasformano in commuter essi
stessi. Il tradizionalismo è un lusso che pochi
possono permettersi.
Da parte loro, i nuovi abitanti, espressione di una classe media impiegatizia e professionale in
cerca di una casetta con giardino e vista sui
monti dove crescere i figli (spesso in un piccolo
condominio – approssimazione al sogno della villa tutta per sé) rappresentano la figura sociale
che si accompagna all’espansione territoriale
della città. Consapevoli o meno, tali nuovi abitanti sono veicoli dell’urbano – infatti spesso accusati dai vecchi abitanti di essere “anonimi”, di
sfrecciare in auto via al mattino e poi indietro alla sera, come se l’“amato paese” dei primi fosse
solo per i secondi un posto tra i tanti, per non
dire, horribile dictu, “un dormitorio” – ma di un
urbano che resta ancora più sul versante
dell’urbs che non su quello della civitas, un urbano tecnologicamente supportato e però ancora
incapace di una visione all’altezza dell’orizzonte
dell’attuale territorialità del dominio pubblico. Urbanìti mossi da un sogno antiurbano ma essenzialmente legati ai requisiti e ai presupposti fun-
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sobborghi rappresentano un altro aspetto della
complicata equazione territoriale suburbana.
In conclusione, per studiare i sobborghi alpini di
oggi abbiamo bisogno, mi pare, di tutti gli strumenti fondamentali che geografi, urbanisti, pianificatori e architetti possono metterci a disposizione. Abbiamo insomma bisogno di un’analisi
sofisticata della nuova morfologia dell’urbano al
di là dei modelli e dei postulati classici. Ma abbiamo altresì bisogno di uno studio dei territori
sociali in questione (una vera e propria
“territoriologia”; Brighenti 2010d), studio ancorato alla materialità delle pratiche e degli incontri. Ci serve una ritmanalisi delle mobilità
all’interno del territorio urbanizzato, in grado di
comprendere flussi e confini nella loro reciproca
definizione e nel loro farsi. Ci serve una fenomenologia dell’abitare, in grado di cogliere come la
percezione dei luoghi si inscriva in un immaginario che guida e dà forma alla vita quotidiana
(vedi ad es. Arnoldi 2010; Mattiucci 2010). E ci
serve una ecologia delle attenzioni e degli affetti,
per cogliere – e forse in seguito poter aiutare –
il bisogno e il desiderio emergente di città
(dunque non solo di urbanizzazione) che esiste
nel territorio.
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14 /
Sentieri Urbani
Spazio&Società
Roncegno Terme/1
Una ricerca sui masi di montagna
di Alessandro Franceschini
Un tipico insediamento
masale a Roncegno: Maso
Postai
Premessa
Questo articolo fornisce un quadro di riferimento urbanistico e architettonico relativo ai Masi di
Roncegno Terme ed è il frutto di uno studio predisposto a supporto delle operazioni di progettazione e riqualificazione contemplate nella Nuova
variante del Piano regolatore generale del Comune stesso. Questa revisione dello strumento
urbanistico comunale è stata avviata nel 2008
da un equipe del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università di Trento coordinata dal prof. Corrado Diamantini ed è stata adottata della primavera 2010. All’interno delle
azioni proposte da questa nuova variante (di seguito, per brevità “variante Diamantini”), sia dal
punto di vista politico che da quello scientifico, la
riqualificazione dei Masi rappresenta un tema di
prioritaria importanza. I Masi, infatti, sono un sistema insediativo originale nel Trentino, caratterizzato dalla prevalenza dell’insediamento sparso
su quello compatto. Un sistema in parte ancora
integro, ma allo stesso tempo fragile e a rischio
di scomparsa, di compromissione irreversibile.
Attualmente i Masi soffrono di un evidente stato
di marginalità: non hanno più la forza di essere
comunità a sé: costituiscono un insieme disomogeneo di cinquantaquattro piccoli e piccolissimi insediamenti. I documenti ne contemplano in
verità “solamente” quarantaquattro, ovvero, come riportano alcuni atti ufficili (statuto del Comune): Albio, Auseri, Aria, Beberi, Bernardi, Bocheri, Cadenzi, Cofleri, Craneri, Crozzeri, Fraineri, Gasperazzi, Gionzeri, Gretti, Groffi, Lagon,
Masetti, Molini, Montebello, Montibelleri, Muro,
Pacheri, Pinzeri, Postai, Rincheri, Robello, Ro-
neri, Roveri, Rozza, Salcheri, Sasso, Scali, Scalvin, Smideri, Stralleri, Striccheri, Tesobbo, Ulleri, Vezzena, Vestri, Zaccon, Zanorgi, Zonti, Zotteli; a questi la presente ricerca ha ritenuto necessario aggiungere i masi Boscheli, Caneva,
Colgioni, Colgioneri, Fodra, Mandla, Paglia, Passerotto, Tecca, Tinotto e Toneri. Quest’ultimi sono masi “storici”, già contemplati nel catasto asburgico, e dotati di una specifica identità.
Alcuni di questi masi sono ancora abitati ed in
buono stato di conservazione, altri abbandonati
o in grave stato di marginalità sociale ed architettonica. Si tratta di un vero e proprio
“sistema”, un tempo anche economico ed identitario, sul quale non esistono molte conoscenze
né politiche che ne tutelino le peculiarità sociali,
architettoniche ed urbanistiche.
Anche le ultime variante urbanistiche hanno sostanzialmente confermato una tendenza pianificatoria iniziata negli anni Ottanta: ovvero considerare il sistema masale come un’indifferenziata
parte del territorio municipale (e non come
un’eccezione da tutelare), concedendo possibilità edificatorie “a richiesta” degli abitanti senza
vincoli di natura tipologica, urbanisticoinsediativo o perequativa. Lo scopo di questo
studio è quello, anzitutto, di comprenderne
l’entità, le caratteristiche, lo stato di conservazione, il grado di compromissione sia architettonica che urbanistica e sociale del “Sistema Masi”. Si tratta, probabilmente, di un primo tassello mirato a comporre un quadro conoscitivo più
ampio dedicato agli insediamenti di montagna
della Valsugana, che per molti anni hanno rappresentato una “rimozione culturale” nella storiografia locale (a cui hanno messo rimedio alcuni studi recenti, indicati in bibliografia), e nella
coscienza collettiva degli abitanti del municipio
(presente anche oggi, come si è riscontrato nel
processo partecipativo alla redazione della nuova variante Diamantini, anche e soprattutto nei
giovani).
Un paesaggio antropico particolare
Percorrendo la Valsugana, lungo il corso del fiume Brenta, giunti all’ansa valliva che
dall’originaria direzione nord-est dell’alta Valsugana si tramuta nell’orientamento ad est che
porta il Brenta nella pianura Padana per intercessione della Gola di Brenta, il sistema collinare e premontuoso boscato a nord appare caratterizzato da ampie schiarite agricole e silvopastorali che “denunciano” una colonizzazione
Spazio&Società
Sentieri Urbani / 15
In alto: la carta del Catasto
Asburgico (1865) con
individuati gli insediamenti
masali;
In basso: i masi individuati
nella Ortofoto 2006.
Da notare l’aumento della
superficie boscata (indicata
in grigio nella carta storica), un chiaro indicatore del
progressivo abbandono
della montagna
della Montagna. Si tratta dei “Masi di Roncegno” che appaiono visivamente divisi in tre emergenze morfologiche: il Monte di Tesobbo a ovest, il Monte di Mezzo a Nord e il Monte di
Santa Brigida ad est. Sul culmine del primo dosso si trovano gli scarsi resti del castello di Tesobbo. Ad occidente è posto il maso Tesobbo
(m. 730) che culmina nel monte Sant’ Osvaldo.
Su questo monte si trovano la Valle del Diavolo
dove sgorgavano le sorgenti di acqua arsenicale
ferruginosa che alimentò per un lungo periodo il
centro termale di Roncegno, e la cosiddetta
“Busa del Tossego”, individuabile in una profonda gola, scavata dal torrente Larganza, oltre il
colle di San Biagio, e caratterizzata dalla presenza di un’antica miniera di arsenico abbandonata. Nell’alta Valle del Larganza, sulla sua riva
sinistra sotto il maso Bernardi, si trovano la Valle del Diavolo e i boschi di Sturmwolt (“Bosco de-
gli uragani”). Il monte di Sant’Osvaldo (m 1450)
si trova sopra san Biagio, passando dal maso
Gretti e Prà del Voto (m 1181). Qui sorge la
piccola chiesa dedicata a Sant’Osvaldo, chiesa a
carattere devozionale costruita tra il XIII e il XVI
secolo da una popolazione germanofona. Monte
di Mezzo è la parte della montagna che si trova
tra la Valle della Larganza e quella del torrente
Chiavona. È costituita da molti masi, ricca di
sorgenti ed è attraversata da molte mulattiere.
È coltivata fino a 1000 metri circa d’altitudine;
campi e vigneti si alternano a boschi di castagni.
Cenni storici sulla nascita dei Masi
I Masi di Roncegno, la Montagna, sono il frutto
di una forte pressione colonizzatrice medievale
di contadini-minatori tedeschi (chiamati roncadóri) che hanno sempre costituito una comuni-
16 /
Sentieri Urbani
A sinistra: maso Gretti, uno
dei più alti del sistema;
A destra: maso Groffi,
abbandonato da tempo sta
diventando una “rovina”
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tà “diversa”, caratterizzata da peculiarità rispetto al resto del municipio. Questa differenziazione
ha dato origine, nel corso dei secoli, a differenze culturali e paesaggistiche tra il nucleo della
Villa e quello dei Masi sparsi. Questa differenziazione fu anche in un certo senso
“istituzionalizzata” con due sistemi amministrativi
diversi. Questa diversità tra la “Villa” (o Paese) e
la Montagna di Roncegno andò accentuandosi
con la nascita e lo sviluppo del sistema Termale
di Roncegno. La Villa si evolse economicamente,
socialmente ed urbanisticamente, mentre la seconda mantenne inalterato il carattere agricolo
montano. Il sistema masale di Roncegno rappresenta una configurazione originale per il
Trentino, dove al contrario gli insediamenti sono
concentrati in alcuni luoghi e non “sparsi” sul
territorio. Il fenomeno dei Masi di Roncegno è
dovuto, come si è accennato in precedenza, da
flussi migratori avvenuti durante prima del XV
secolo. «Gli stanziamenti medievale tedeschi del
Trentino rientrano nell’ambito di una più ampia
ripresa di dissodamento e di rinnovamento economico che si svolse tra il XII e il XIV secolo a
opera di roncadori bavaro-tirolesi per la massima parte provenienti dal Vicentino e solo in epoca più tarda, e in misura minore, dal veronese» (Maestrelli in Grosselli, 2003). I territori venivano colonizzati attraverso il dissodamento di
ampi porzioni di montagna per la collocazione di
imprese agricoli famigliari. «In un certo senso
essa si strutturava in impianti aziendali autonomi ed indipendenti, operanti in condizioni di auto
sussistenza. Conseguentemente, non essendoci
ricerca di benefici relazionali di vicinato, ciascuna famiglia tendeva a collocarsi al centro delle
proprie terre e non venivano perciò poste le premesse per la formazione di nuclei abitati di una
certa dimensione» (Buzzetti in Grosselli, 2003).
A questo fenomeno “originario” di costruzione
del sistema masale va affiancato un altro fenomeno: quello dell’arrivo di popolazioni germaniche. Molti minatori arrivarono (e molti si fermarono senza ripartire) a causa delle miniere e-
strattive aperte sulla montagna di Roncegno.
Nel 1640 viene emessa la prima concessione
per l’estrazione del metallo (in prevalenza argento) nella miniera di Cinque Valli (Curzel, 1998),
e questa attività rimase attiva fino al 1943,
quando venne chiusa definitivamente. Per quanto riguardala “provenienza” dei minatori è stato
dimostra come fosse «possibile che un primo
travaso di popolazione germanofona dalla confinante Valle dei Mòcheni sia avvenuto in epoca
mineraria. Va chiarito che i territori di Roncegno e della Val dei Mòcheni comunicano attraverso i passi montani della Bassa e della Portèla. Verso il Cinquecento, comunque, il passaggio
di persone tra la montagna mòchena e quella di
Roncegno è comprovabile» (Grosselli, 2003).
«Esistono svariate tracce del progressivo insediarsi nella zona – ed in special modo nella sua
parte più elevata – di coloni di lingua tedesca,
provenienti anche da altre aree geografiche del
versante meridionale delle Alpi. Un esempio di
quell’intenso traffico da un’isola linguistica germanica all’altra che sembra aver caratterizzato
il periodo» (Curzel in Grosselli, 2003). Anche gli
scambi tra il municipio della Valsugana e la piccola Valle dei Mòcheni furono, molto intensi: «I
nostri testimoni – scrive ancora Grosselli in una
indagine svolta sulla socialità nell’abitato di Roncegno – hanno rivelato come, anche in tempi
più vicini a noi, sostanzialmente nel Novecento,
furono varie le ragioni che avvicinarono le sue
comunità. I mòcheni, specie di Fierozzo, Frassilongo e Roveda, transitavano anche da Roncegno per iniziare con le loro greggi di pecore la
transumanza in direzione della Pianura Padana.
E il mercato di Borgo Valsugana fu un loro punto di riferimento per acquisti e vendite. (…) Oggi, comunque, sia a Roncegno che a Marter
(…) la presenza di famiglie di origine mòchena è
notevole. E, non solo nella memoria orale sono
frequentissimi i riferimenti al rapporto tra le popolazioni di Roncegno e della Valle dei Mocheni,
ma tutt’oggi si registrano matrimoni
“misti”» (Grosselli, 2003).
Spazio&Società
Caratteri tipici del modello insediativo
La Montagna di Roncegno è colonizzata stabilmente “a maso” da una quota di circa 457 m
slm (Masso Vezzena) a quella di 1157 m slm
(Maso Mandla). Gran parte dei masi si attestano, comunque, tra gli 750 e gli 850 m slm. La
quota “media” dei masi è infatti 790 m slm. Il
25,9 % dei masi è collocato tra i 700 e gli 800
m, ed altrettanti della fascia altimetrica fra gli
800 e i 900 m. L’11% è collocato sopra i
1.000 m slm, mentre il 7% è collocato sotto i
600 m slm. Il modello insediativo si è sviluppato
secondo questo sistema originario: una famiglia
contadina si collocava al centro di uno spazio agricolo vitale alla propria sussistenza. Attorno al
maso originario si estendevano, e a volte ancora si estendono, i campi coltivati e dedicato al
prato a pascolo del bestiame.
Il settore orientale della montagna di Roncegno
prende il nome dalla chiesetta che sorge su una
collina sulla riva sinistra del torrente Chiavona,
sopra la località Rozzati, vale a dire Santa Brigida. In quest’area, sulla destra del rio San Nicolò, c’è il dosso (m 698) dove si trovano i resti
del campanile della chiesa di San Nicolò, risalente, secondo gli ultimi studi condotti dal settore
Beni Archeologici della Provincia autonoma di
Trento, almeno al XIV secolo. Questa chiesetta
sorge su una terrazza posta una decina di metri
sotto il culmine del dosso ed è attorniata da resti di mura di antiche costruzioni. Oltre la valle,
sotto il maso Montebello (m 716), su un colle,
si trovano pochissimi resti del Castello di Montebello. Si ritiene che i dossi di San Nicolò e di
Montebello costituissero in origine un unico
complesso sul quale si disponevano le costruzioni facenti parte del castello.
Il sistema insediativo è strutturati in tre grandi
gruppi:
- i Masi di Santa Brigida (Auseri, Boscheri, Gasperazzi, Striccheri, Sasso, Caneva, Roveri, Pacheri, Crozzeri, Craneri, Paglia, Lagon, Passerotto, Bebberi, Strellèri di sopra e di sotto, Pinzeri, Albio, Boscheli, Rincheri, Muro, Masetti, e
Sentieri Urbani / 17
Vezzena), collocati a est del torrente Chiavona;
- i Masi di Monte di Mezzo (Mandla, Zonti, Fodra, Gretti, Fraineri, Coglioneri, Rozza, Gionzeri,
Postai, Tecca, Vestri, Smidelri, Uelleri, Bernardi, Tòneri, Salcheri, Zonti, Zanorgi, Molini, Cofleri, Scalvin, Cadenzi) collocati tra il Torrente
Chiavona e il Torrente Larganza;
- i Masi di Tesobbo – in epoca più recenti compresi in quelli di Monte di Mezzo – (Gretti, Tesobbo, Tinotto e Aria) ma che per molto tempo
hanno costituito un’identità a sé stante e collocati ad ovest del Torrente Larganza.
Dal punto di vista della struttura urbanistica
possiamo osservare alcune differenze: la Frazione di Monte di Mezzo è costituita da
un numero minore di Masi ma mediamente più
“grandi” in termini di edifici e quindi, storicamente, di abitanti. La frazione di Santa Brigida, invece, ad eccezione del Maso Montibelleri, considerata la “Parigi” della Montagna di Roncegno,
sono tutti di piccole dimensioni, 4/5 unità, e
non è raro trovare masi costituiti da un solo edificio.
Il modello identitario
Il riconoscimento identitario, per una comunità
composta da piccoli nuclei indipendenti ed autonome, si è svolta nel corso dei secoli attraverso
due istituzioni principali:
- le Scuole elementari (obbligatorie fin dalla metà dell’Ottocento, ma delle cui prime tracce si
ritrovano nel 1699) aveva una sede in ciascuna
delle tre frazioni in cui è diviso il sistema Masi: a
Tesobbo (esistente dal 1839 e collocata a quota 736 m slm) dentro l’omonimo grande maso
sul monte Tesobbo; a Monte di Mezzo era costituita dall’edificio bianco collocato a monte di Maso Zonti, esistente dal 1824 a quota 740 m
slm, attualmente utilizzato come casa sociale e
per associazioni di cacciatori; a Santa Brigida,
esistente dal 1730 e allocata nell’edificio a monte di Maso Scali, a quota 786 m slm, e che risulta oggi essere un edificio per accoglienza di
anziani. La caratteristica degli edifici scolastici è
A sinistra: maso Rozza
attualmente abitato da una
persona;
A destra: Maso Roneri: da
notare il passaggio
dell’antica mulattiera sotto
il portico dell’edificio
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Sentieri Urbani
Il sistema viario tradizionale
delle mulattiere (a sinistra)
e l’attuale strada carrabile
(a destra)
Spazio&Società
certamente la loro collocazione “concentrica” alla loro area di influenza, sia in termini planimetrici che altimetrici (per una ricostruzione esaustiva del sistema scolastico a Roncegno si veda
Candotti, 2007). I bambini istruiti nelle singole
sedi scolastiche, crescevano così con una chiara collocazione territoriale ed identitaria.
- la Chiesa, che era (ed è) articolata in due sistemi parrocchiali: la Chiesa di Santa Brigida su cui
affluivano i fedeli dell’omonima frazione e la Chiesa parrocchiale di Roncegno, dedicata ai Santi
Pietro e Paolo, che faceva confluire i fedeli delle
frazioni di Monte di Mezzo e di Tesobbo. Per
quanto riguarda la prima chiesa, dedicata a S.
Bigida (storicamente denominata “Santa Brigitta”), sappiamo che fu fondata intorno al 1533.
Dapprima usata come chiesa per cerimonie saltuarie (dal 1585, custodita da un eremita, e in
cui si officiava una volta al mese), ebbe un parroco stabile a partire dal 1785 e divenne parrocchia indipendente, come lo è tutt’ora, a partire dal 1919. Più antica è invece la chiesa parrocchiale di Roncegno, dedicata ai SS. Pietro e
Paolo, che serviva anche i masi della montagna
di Mezzo. Le prime notizie risalgono al 1323 e
divenne parrocchia nel 1492, su permesso del
Papa Innocenzo III. La chiesa fu costruita insolitamente fuori dal centro storico di Roncegno
appunto per essere un luogo “neutro” fruibile sia
dagli abitanti della Villa che dagli abitanti dei masi.
L’evoluzione dell’ecosistema
Nel 1865 i tecnici dell’Impero Asburgico, con la
costruzione del sistema catastale, tracciano una
dettagliata descrizione cartografica
dell’ecosistema dei Masi di Roncegno. Quello
che emerge, anche ad una prima lettura, è la
forte pressione antropica a cui è sottoposta tutta la montagna. I boschi rappresentano una parte residuale dell’uso suolo, relegata – ad eccezione del più pendete monte Tesobbo, su cui insistono grandi estensioni boschive – alle zone u-
mide lungo i torrenti Larganza e Chiavona. Il resto della superficie era dedicata principalmente
a seminativo (soprattutto nella parte bassa delle
frazioni di Santa Brigida e di Monte di Mezzo), a
prato (soprattutto nella parte alta), pratofrutteto o pascolo. Da notare, inoltre, i seminativi sparsi fino a quota molto alta (fino ai Zotteli
e gli Auseri, sopra i 1000 metri) e la presenza
di una lunga fascia, intorno ai 500 metri, coltivata a vite.
Attualmente la situazione si è molto modificata.
L’abbandono della coltura di montagna e del
prato “a sfalcio”, iniziata a partire dagli anni Sessanta, ha modificato pesantemente la composizione ecosistemica della montagna di Roncegno. Oggi buona parte della superficie è occupata dal bosco. È scomparsa quasi completamente la coltura del seminativo, mentre tutta l’area
originariamente destinata a vitigno è attualmente occupata dai boschi.
La mobilità: la rete storica e la rete contemporanea
Per capire come si è evoluta la socialità dei masi appare utile confrontare le mappe della viabilità storica con quella attuale. Oggi l’asse principale di comunicazione è posto nel fondovalle,
lungo il corso del fiume Brenta e permette
un’agevole comunicazione tra la valle dell’Adige
e la pianura veneta. Si distinguono, a completamento della via principale, una rete di fondovalle
parallela che collega i vari centri abitati, una rete viaria più complessa costituita da strade secondarie a servizio degli insediamenti montani
ed una fitta rete di sentieri, ancora in parte utilizzati. Se l’asse viario principale è destinato a
porre in comunicazione con l’esterno, il sistema
delle strade secondarie, dei sentieri e delle mulattiere è funzionale alle esigenze della popolazione che risiede nella zona e, dunque, perfettamente aderente alla realtà geografica e insediativa del territorio. Si deve infatti osservare che
malgrado le pendenze, che creano non poche
Spazio&Società
difficoltà, soprattutto nella stagione invernale, i
masi di Roncegno Terme sono a tutt’oggi abitati
fino ad un’altitudine di quasi 1200 metri. Verso
monte la rete viaria si innesta nelle vie di comunicazione che immettono nelle valli limitrofe. Per
quanto riguarda specificatamente il sistema dei
Masi, la viabilità storica era costituita da una fitta rete di percorsi “verticali” che collegava le basi di ciascuna frazione ai territori più alti secondo una struttura ad albero. A questa rete si affiancava un secondo sistema di comunicazione
“orizzontale” che collegava in maniera intensa le
parti alla stessa quota delle singole frazioni e in
maniera più puntuale le tre frazioni. Negli anni
Ottanta, a seguito del Piano regolatore generale
firmato dal sociologo Antonio Scaglia
dell’Università di Trento, è iniziata la costruzione
di strade carrabili di collegamento fra la Montagna e il fondovalle. Si trattava di un lavoro urgente, fortemente voluto dalle popolazioni locali
e ancor oggi considerato “tardivo”, di connessione tra le parti più isolate del municipio, che aveva causato anche in anni recenti fenomeni di migrazione verso comuni limitrofi. La costruzione
della nuova arteria, tuttavia, non ha rispettato il
sistema infrastrutturale storico. Le due strade
principali collegano, diramandosi, il paese con le
parti più alte dando origine ad alcuni fenomeni:
La parte alta del Monte di Mezzo (Fodra, Mandla, Zotteli, Groffi, Fraineri, Rozza e Colgioni) è
stata “funzionalmente” annessa alla frazione di
Santa Brigida, Mentre la Frazione di Tesobbo è
stata “funzionalmente” annessa a quella di Monte di Mezzo.
La rete così costituita ha generato anche un altro fenomeno: la rete storica è stata progressi-
Sentieri Urbani / 19
vamente abbandonata tanto da essere oggi, a
distanza di soli vent’anni, praticamente inagibile
a causa dei dissesti idrogeologici e dell’invasione
da parte della fitta vegetazione. Una conseguenza diretta di questa modificazione è stata la perdita delle connessioni dirette fra i masi.
I modelli insediativi
Nella presente indagine sono stati individuati
quattro “modelli” attraverso i quali i masi si sono
naturalmente collocati lungo i pendii della Montagna di Roncegno. Purtroppo si tratta
“archetipi”, che molto spesso hanno subìto delle
alterazioni tipologiche negli ultimi decenni. Non è
rado, infatti, trovare delle costruzioni avulse dal
contesto, sia in termini architettonici (il modello
della casa economica anni Sessanta è il prevalente) che urbanistici (insediamenti recenti che
non tengono conto del “disegno urbano” del maso, e l’arrivo dell’automobile ha dotato i Masi di
tipi sconosciti di edifici come garage interrati,
box auto dalle fogge urbane…).
Tuttavia, ad una attenta lettura planimetrica, i
tipi insediativi sono ancora chiaramente leggibili
e sono andati a consolidarsi secondo due esigenze: la pendenza del terreno in cui il maso è
inserito (più è pendente il terreno, più il maso
tende a ordinarsi “in linea”); le dimensioni del
fondo su cui il maso insiste: più è grande il fondo, più il maso tende ad ingrandirsi e diventare
a “borgo”. Tutti i masi sono comunque dotati di
alcuni elementi “minimi” che li rendono tipi appartenenti ad uno stesso sistema: la presenza
di una fontana “pubblica”; la presenza di uno
slargo, una corte, una piazzetta ove si svolge la
vita collettiva del maso; il sistema delle strade,
Alcune “varianti” del maso
di Roncegno Terme
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Sentieri Urbani
Spazio&Società
Maso Salcheri: con la sua
struttura “in linea” è uno
dei più tipici masi di Roncegno Terme
quasi tutte di proprietà comunale, che si spingono fin all’ingresso degli alloggi di ogni singolo
maso. Vediamo di seguito le tipologie:
Il maso “a corte” È costituito
dall’aggregazione di tre o più edifici attorno ad
una corte-piazzola, spesso di forma irregolare,
che funge da centro del maso. Nella piazzola si
possono trovare alcune funzioni pubbliche come
ad esempio la collocazione della “fontana”, una
panchina di sosta. La piazzetta è di proprietà
comunale e solitamente è attraversata dalle
strade pubbliche. Sono esempi di masi così
strutturati Maso Albio, Maso Fraineri, Maso
Smidleri, Maso Sasso, Maso Rozza e Maso
Zonti.
Il maso “ad edificio unico” È costituito da un
edificio che si staglia solitario lungo una via di
comunicazione. Può essere che in tempi recenti
il maso sia stato “arricchito” con altri edifici e
superfetazioni. Può capitare che l’edificio presenti elementi aulici o particolarmente importanti. Inoltre i masi isolati, rispetto agli altri, hanno
dimensioni solitamente imponenti, sia come superficie che come altezza. Fanno parte di questa tipologia: Maso Bebberi, Maso Gretti, Maso
Montebello, Maso Muro, Maso Boscheli, Maso
Vezzena.
ll maso “in linea” È il classico maso di Roncegno. Si sviluppa attraverso l’affiancamento di
cellule abitative sui una linea parallela alle curve
di livello. Solitamente sono posti su declivi pendenti e hanno una parte o tutto il pian terreno
collocati da un alto verso valle e da un lato sotto
il livello del terreno. Gli esempi più eloquenti di
questa tipologia li possiamo trovare nel Maso
Postai, nel Maso Gionzeri, nel maso Salcheri,
nel Maso Vestri, nel Maso Stralleri di sotto e,
soprattutto, nel maso Tesobbo.
Il maso “a borgo” È costituito da un insieme
di edifici aggregati dalla regola della “vicinanza”
e tendono ad essere un gruppetto di case assimilabili ad un piccolo borgo. Sono il frutto di aggiunte storiche ma che già nel 1860 avevano
caratteristiche consolidate. Solitamente, nel maso a borgo, esistono (o esistevano) dei chiari
luoghi deputati alla vita pubblica, dotati di fontana e di panchine di sosta. Possiamo considerare come facente parte di questa categoria, tra
gli altri, Maso Cadenzi, Maso Molini, Maso Roveri, Maso Uelleri.
Il maso di Roncegno
I masi di Roncegno si caratterizzano per essere
edifici di semplici e povera costruzione. Nella
gran parte dei casi essi si configurano come
gruppi di edifici raccolti attorno ad un incrocio
stradale lungo un versante della montagna. Il
maso è generalmente costituito su tre piani: al
piano terra troviamo la parete dedicata al ricovero degli animali; al primo piano troviamo il luogo della residenza di una o più famiglie; al secondo piano, infine, troviamo le zone destinate
alla conservazione dei fieno. Il maso è caratterizzato dalla presenza di balconi, logge e ballatoi
di sottotetto. Numerosi sono anche i fori ampi
nel sottotetto necessari per accedere direttamente al deposito del fieno. La copertura è solitamente a due falde (più raramente a quattro)
e, se originariamente presentava delle coperture “a scandole”, oggi quel tipo di manto è andato scomparendo per fare spazio a lamiere o
marsigliesi. Linee di gronda e bordi del tetto sono sempre semplici e lineari, privi quasi sempre
della “mantovana”. Spesso i tetti sono dotati di
un abbaino che taglia la linea di gronda del lato
del maso a “monte” e tipologicamente rinvenibile
nel tipo denominato “a cuccia di cane” al quale
si poteva accedere direttamente dal terreno per
Spazio&Società
il deposito della fienagione. Gli aggetti sono catalogabili in tre componenti: la scala esterna,
sempre in legno (a parte le prime due alzate,
generalmente in pietra) e con il parapetto “alla
trentina”; i balconi, presenti in grande abbondanza sui lati “a valle” del maso, che spesso assolvono la funzione di “ballatoio” per servire alloggi di diverse famiglie; un ballatoio utilizzato
per l’essicazione del grano nel sottotetto.
La composizione della facciata è solitamente caratterizzata da un disegno molto sobrio e da un
rispetto degli allineamenti verticali dei fori. Non
di rado la facciata è divisa orizzontalmente
dall’alternarsi del materiale costruttivo: pietra
nel basamento e legno nella parte alta. Le aperture nella facciata (finestre e porte) sono caratterizzate da una grande povertà costruttiva, con
l’assenza di elementi in pietra, e con cornici e
serramenti costruiti in legno, generalmente in
assi ad orditura orizzontale.
Il futuro dei masi
Attualmente il maso ha perso la sua funzione
produttiva nella quasi totalità dei casi. Ma se il
cambiamento del sistema economico può rappresentare anche una grande opportunità, la
preoccupazione maggiore, per la salvaguardia di
questo importante patrimonio insediativo, è la
perdita dei tipi insediativi e della tipologia costruttiva. Pur trattandosi di strutture molto
semplici e stilisticamente povere, sono altresì
da considerarsi originali e la loro conservazione
- almeno in quei manufatti che hanno conservato delle strutture originarie - rappresenta un
passo fondamentale che le future politiche di recupero del “sistema masi” dovranno necessariamente contemplare.
Per una riqualificazione del “sistema masi” di
Roncegno Terme è necessaria la messa a punto di una strategia che affronti i vari aspetti di
cui è composto l’insieme e basata sostanzialmente su tre livelli di intervento:
- una riqualificazione urbanistica ed ambientale
di tutto il sistema masi, inteso come un organi-
Riferimenti bibliografici
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Novaledo, Roncegno, Ronchi Valsugana, Provincia
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- Ferrari E. (et al), (1981), I centri storici del Trentino,
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del Parco Naturale Adamello Brenta, Edizione Tipoarte, Bologna
Sentieri Urbani / 21
smo unico fatto di manufatti edilizi, sentieri e
strade di collegamento, spazi aperti e sistemi
colturali;
- l’individuazione di strategie di recupero concertate con i proprietari e legate chiaramente a
ciascun singolo maso. Ogni nucleo masale, infatti, è dotato di caratteristiche proprie che devono essere conosciute e valorizzate;
- l’individuazione di una modalità di intervento su
ogni singolo manufatto che contempli sia il restauro conservativo sia la sostituzione edilizia.
Tutti questi tre aspetti sono importanti per il
mantenimento del sistema masale. Una riqualificazione, pertanto, deve saper incidere e governare sia il sistema dell’abitare sia quello infrastrutturale e sia quello relativo al sistema economico.
Infine i Masi sono caratterizzati da una grande
varietà di tipologie e di qualità edilizie. Ad esempio: alcuni non possono essere più considerati
“masi” o perché assorbiti dal tessuto urbano di
Roncegno (come nel caso di caso Cadenzi e
Maso Scalvin) o perché hanno perso quelle caratteristiche che li rendevano tali (l’essere abitati stabilmente, la particolare conformazione architettonica…). Per queste ragioni è necessario
che ogni maso venga riqualificato a partire dalle
sue potenzialità e dalle intenzioni dei proprietari:
da quella residenziale a quella agricola, da quella turistica a quella artigianale fino a quella che
prevede un sereno ritorno alla “rovina”.
Analogo discorso può essere fatto per le caratteristiche di ogni singolo edificio. I masi di Roncegno hanno subìto, nella gran pare dei casi,
delle ristrutturazioni sostanziali che ne hanno
pregiudicato l’interesse architettonico. Occorre
quindi elaborare delle strategie che siano orientate ad una chiara analisi degli edifici prevedendo il restauro e la ristrutturazione edilizia solo
nei casi in cui il manufatto meriti, e preveda, invece, azioni fortemente improntate alla sostituzione edilizia quando i manufatti non abbiano
nessun interesse architettonico.
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Peio e Rabbi, Edizione Tipoarte, Bologna
22 /
Sentieri Urbani
Spazio&Società
Roncegno Terme/2
La percezione del paesaggio e le istanze
di una comunità
di Cristina Mattiucci
Note
1. Gli esiti più ampi di
questo lavoro di ricerca
condotto durante il
corso di Dottorato in
Environmental Engineering (specialization in
Environmental Planning,
Landscape Architecture
and Sustainable
Building) in C. Mattiucci
(2010) “A kaleidoscope
on ordinary landscapes.
The perception of the
landscape between
complexity of meaning
and operating reduction”
European PhD Thesis.
Roncegno Terme visto da
est (foto archivio SU)
L
a riflessione sulla percezione del paesaggio (1) ha accompagnato i lavori per la
stesura della Nuova Variante al Piano Regolatore Generale di Roncegno Terme (2), come una modalità per decodificare - attraverso i
giudizi ed i desiderata che venivano espressi dai
Roncegnesi nel percepire il paesaggio – alcuni
dei contenuti su cui indirizzare la trasformazione urbana e territoriale che si stava definendo.
Uno dei refrain che hanno animato i numerosi
incontri con la comunità locale, sia durante le
riunioni con la Commissione del Consiglio Comunale che durante gli incontri allargati alla cittadinanza, era infatti domandarsi cosa quella
comunità “volesse diventare da grande” ovvero
quali erano i tratti del futuro che gli abitanti stavano immaginando per il proprio paese e quali
fossero le istanze che quella immagine di futuro
conteneva, nel momento in cui si facevano
committenti di una Variante al piano urbanistico che – aldilà dei contenuti e della tempistica
tecnico-politica che la rendevano opportuna –
era espressione tutto sommato dell’esigenza di
dare al territorio una nuova dimensione fisica,
più adeguata ai cambiamenti della società locale.
La riflessione sul paesaggio, dunque, ovvero
l’orecchio teso verso il desiderio di paesaggio
che quelle immagini di futuro stavano esprimendo, è diventata una costante trasversale alle elaborazioni dei documenti di piano, quale riflessione permanente sui contenuti e sul senso delle trasformazioni che si stavano indirizzando.
Prima di strutturare questa riflessione attraverso
l’indagine sperimentale del paesaggio percepito,
secondo una metodologia che nel frattempo si
andava definendo, la tensione all’ascolto si è modulata su tutto quanto – molto spesso implicitamente e senza mai nominarlo – facesse parlare
gli abitanti di paesaggio. Un ascolto attivo verso il
paesaggio inteso aldilà delle sue caratteristiche
meramente fisico-ambientali, che pure erano riconosciute dagli abitanti di Roncegno come una
qualità peculiare ed una risorsa territoriale essenziale (3).
Il paesaggio, così come concepito in questo lavoro, è stato esplorato nella sua accezione ampia,
quale “soggetto alle dinamiche di trasformazione
che si stanno compiendo nella società e, di conseguenza, nell’organizzazione dello spazio” (De
Carlo 1961: 23-26) che si manifesta attraverso
un materiale ordinario - come poteva essere
quello del townscape di Cullen (1971) per esempio- fatto di tutti quegli elementi che concorrono alla sua definizione (edifici, elementi naturali,
traffico, annunci pubblicitari…).
È paesaggio diffuso (Durbiano e Robiglio 2003:
95-108) che nella sua dimensione ordinaria può
inoltre essere considerato l’opera in continuo movimento di un’intera comunità, uno spazio postmoderno (Jameson 1989, Harvey 1990) dove
più che altrove si esprime quella condizione en
mouvance (Berque 2006) che lega la contingenza delle società locali ad un territorio, per un
dato tempo ed in determinate condizioni.
Nello studio della sua percezione, la ricerca ha
assunto come riferimento teorico principale quel
sistema di studi interdisciplinari che intendono il
paesaggio come prodotto delle attività umane
(Cosgrove 1984; Debarbieux 2007) e manifestazione delle società locali, nei termini in cui esso
registra “l’uso che una società ha fatto del suo
territorio” (Turri 1979) e concorre a esprimerne
peculiarità e legami di appartenenza.
Lavorare con la percezione sociale del paesaggio
significa allora porre all’attenzione del planner –
ed alla responsabilità delle sue scelte - un materiale vasto, di difficile diretta codificazione, che fa
da contenitore di valori formali (De Carlo 1962)
per una popolazione, e che per questo determina
una risorsa collettiva. Una risorsa che peraltro
travalica la compagine contingente e/o tradizionale delle società locali, ma che diventa il medium comune alle popolazioni che, seppur con
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Sentieri Urbani
origini eterogenee, popolano e vivono un dato
territorio. Le società contemporanee, caratterizzate da una complessità di riferimenti culturali
ed etnici, possono dunque ritrovare nel paesaggio la possibilità di riconoscere e declinare in
modo costruttivo la propria identità, nei termini
in cui essa può rappresentare la convergenza di
valori e significati attribuiti dai vari abitanti – i
vecchi, i nuovi, gli insiders, gli outsiders (4) a partire dalla comune esperienza dello stesso
paesaggio, percepito nell’ottica di culture diverse.
Nel caso di Roncegno questo è parso subito evidente. Anche dalla prima campagna di indagine
che ha accompagnato la stesura del documento
preliminare (5) è emerso come la comunità tutta potesse assumere – se opportunamente indirizzata verso questa assunzione – il paesaggio
come risorsa collettiva, comune sia a chi è già
radicato sul territorio (6), che riconosce nel paesaggio gli elementi che determinano un senso
di appartenenza ai luoghi, sia ai nuovi abitanti,
per i quali il paesaggio determina la qualità
dell’abitare e quindi motiva le scelte insediative.
Esso può diventare allora a giusta ragione una
misura critico-progettuale con cui intervenire
nella realtà in trasformazione (Vittoria in Durbiano e Robiglio 2003: 35).
Il lavoro sviluppato a Roncegno, va peraltro nella
stessa direzione indicata dalla Convenzione Europea del Paesaggio che introducendo la definizione del paesaggio come una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” (7) sollecita alla sperimentazione della percezione come strumento dapprima interpretativo,
quindi potenzialmente operativo, per comprendere il paesaggio ordinario contemporaneo.
La riflessione operativa sul paesaggio percepito
muove dunque da alcune questioni che interessano il dibattito in corso sulle politiche per il paesaggio (alcuni esempi in Clementi et al. 2002;
Maciocco et al. 2008), misurandosi con
l’attualità della revisione di alcuni paradigmi interpretativi (Waldheim et al. 2006) e con i rischi delle interpretazioni del paesaggio come
traduzione tout court delle volizioni degli abitanti (Lanzani 2008) in elementi e temi, senza
inserirle in una logica più ampia di comprensione, da un lato della complessità delle relazioni
Foto 1: il desktop di un
intervistato: Roncegno
Terme vista dalla Montagna
tra popolazione e luoghi, e dall’altro di quelle
spinte meno locali (8) che pure contribuiscono a
conformare i paesaggi.
La centralità del paesaggio nei lavori per la Nuova Variante di Roncegno Terme ha inoltre un significato legato alle direttive del PUP di Trento,
che riafferma il ruolo del paesaggio come fattore di sviluppo locale, sollecitandone la valorizzazione, così come quella del patrimonio culturale,
tutto in relazione ai “disegni territoriali” delle comunità che lo abitano e continuamente lo rielaborano.
La ricerca è stata concepita come un momento
progettuale e parallelo all’elaborazione del piano
urbanistico, che si relaziona, interpreta e da’ un
senso alle direttive che rispetto al paesaggio erano state inserite nel PUP di recente approvazione.
Nel PUP infatti, aldilà delle direttive legate ad una dimensione scalare complessa a livello provinciale, in seno alla quale è necessario misurare la realtà di Roncegno con le problematiche
più ampie che riguardano la trasformazione del
territorio, si suggerisce esplicitamente la sperimentazione di metodologie di comprensione del
paesaggio.
Facendo riferimento in particolare alla Carta del
Paesaggio, a Roncegno si è lavorato ad una
scala più minuta, realizzando – attraverso la metodologia proposta - una specificazione di contenuti degli orientamenti definiti a scala provinciale
e testando uno strumento di riferimento, che
possa essere utile anche per le altre realtà territoriali che si doteranno di strumenti urbanistici
sussidiari.
La ricerca va infatti inclusa in un dibattito disci-
/ 23
2. La redazione delle Linee
di indirizzo e la formulazione
di un quadro progettuale in
funzione della Nuova Variante al PRG del Comune di
Roncegno Terme sono
state redatte da un Gruppo
di lavoro del Dipartimento di
Ingegneria Civile e Ambientale dell'Università degli
studi di Trento, coordinato
dal prof. arch. Corrado
Diamantini.
3. Come si evince delle
“Linee di Indirizzo” (giugno
2008) ciò che attrae oggi
di Roncegno - e quest ovale
per chi ci abita da una vita
o anche solo da qualche
anno - è la dotazione ambientale e paesistica che
compensa l’assenza dei
vantaggi della vita urbana
24 /
Sentieri Urbani
4. Queste categorie, che
fanno riferimento anche a
più note letture sociali del
paesaggio (Cosgrove
1984), si ritrovano sempre
più spesso – date le condizioni di mobilità, spostamento ed abitare contemporanei - a rappresentare
contemporaneamente lo
stesso abitante, insider per
i luoghi d’origine, che guarda da outsider i luoghi
lontani che pur quotidianamente frequenta e può
maturare in tempi brevi lo
status di vecchio/nuovo
abitante per i posti ove si
trasferisce.
5. Si vedano in particolare
le indagini sociali nelle Linee
di Indirizzo (Diamantini
2010)
6. Come si evince
dall’analisti sociale contenuta nel documento “Linee di
Indirizzo” per la Nuova
Variante al PRG di Roncegno Terme, aldilà della
specificità dei flussi migratori in termini di origine e
ritorni, stando ai dati forniti
al 2007, i nuovi abitanti
costituiscono il 49,2% della
popolazione (1344 su
2732).
Foto 2: i materiali raccolti
durante il lavoro sul campo
Foto 3: una scheda del
caleidoscopio dei paesaggi
percepiti a Roncegno Terme
Spazio&Società
plinare ed operativo, che aspira – tra gli altri
propositi - a collaudare nuovi strumenti conoscitivi e di interpretazione del territorio, integrando
quelli che a scala provinciale rimandano a generiche “unità di paesaggio percettivo”, con particolare riferimento al paesaggio contemporaneo
che “proprio nel suo continuo cambiamento impone nuovi strumenti di lettura e di gestione” (9)
per essere indagato anche attraverso gli sguardi
delle società locali.
Per la comprensione del paesaggio percepito, a
Roncegno è stata applicata una procedura
d’inchiesta secondo una modalità analitico/
esplorativo di tipo qualitativo.
Coinvolgendo 40 partecipanti, selezionati in modo random secondo le percentuali di distribuzione territoriale nelle aree in cui si concentra la
popolazione di Roncegno (Centro, Masi e Marter) e mantenendo nella selezione anche una adeguata proporzione tra vecchi e nuovi abitanti,
sono state eseguite con ciascuno interviste e
photowalks (10) per discutere dapprima, e
quindi andare fisicamente a vedere i luoghi di cui
si era discusso, fotografandoli.
La traccia per realizzare le interviste, sia nella
prima fase in cui si configurano come interviste
semi-strutturate, che nella fase “in situ” dove sono piuttosto interviste open-end che accompagnano le photowalks, si basa su alcuni assunti
teorici e sulla definizione di tre paradigmi interpretativi per esplorare il paesaggio percepito.
Sono state assunte a riferimento quelle teorie
che affermano come la percezione dei luoghi abbia una dimensione complessa che contiene
quella fisico/naturale, simbolico/culturale,
psicologico/personale e intersoggettiva/
collettiva (Backhaus et al. 2008) e sia data da
tre elementi costitutivi: le componenti fisiche, le
attribuzioni di senso individuali e le attività che vi
si praticano (Canter 1977). I luoghi, i paesaggi,
sono percepiti attraverso azioni che appartengono allo “stare nei luoghi”. È qui infatti che si realizza quella interazione società-territorio che diventa condizione preliminare alla percezione del
paesaggio.
Essa non esiste senza l’esperienza (11). Si è
trattato allora di riconoscere quali sono le esperienze a cui ricondurre le possibilità di percepire paesaggi. L’esperienza infatti, seppur
nella sua genericità, si presta a molte specificazioni ed include almeno quella personale (che
appartiene alle esperienze quotidiane), quella
collettiva (mediata anche dalla costrizione a
guardarsi che l’indagine sollecita) e infine quella
elaborata e riflettuta (esperienza per certi versi
a-temporale che contiene la summa
dell’esperienze di paesaggio vissute, tra memoria e sublimazione) (12).
A ciascuna di esse può corrispondere un tipo di
paesaggio, che viene percepito proprio per i temi che connotano ciascun tipo di esperienza:
pratica quotidiana, adozione dello stereotipo e
memoria/desiderio.
Ciascun tema permette la definizione di una
sorta di paesaggio archetipico, che si può definire come paradigma interpretativo per scindere il paesaggio percepito in tre componenti, di
cui si possono riconoscere – secondo la procedura di indagine proposta nella ricerca – gli elementi peculiari, che risultano comprensibili proprio per mezzo dell’esplorazione parallela che
essi consentono.
Il paesaggio ordinario viene così percepito in
funzione dell’esperienza che si realizza in questi
tre layers: il paesaggio quotidiano, il paesaggio rappresentativo e l’innerscape.
Per ciascuno, è stata preparata una specifica
traccia dell’intervista.
I meccanismi stabiliti per comprendere il passaggio quotidiano attivano la descrizione dei
Spazio&Società
luoghi comuni, dove la gente vive. Per il paesaggio rappresentativo si esplorano le immagini
più stereotipate (quelle che compongono una
sorta di "cartolina") al fine di indagarne il significati, attraverso le esperienze collettive o individuali che le hanno prodotte. L’innerscape viene letto per mezzo dell’evocazione di luoghi che
hanno suscitato particolari sensazioni, attraverso una memoria o piuttosto un’immagine, al fine
di verificare se esistono poi nel paesaggio ordinario e reale analogie o mancanze che andranno interpretate in una prospettiva progettuale.
Il riferimento continuo ai supporti digitali su cui
sono registrati i paesaggi, come fotografie, telefonini, desktop del computer, sia come supporto
della memoria del paesaggio, che come occasione di conoscenza di altri paesaggi, che addirittura come elaborazione del punto di vista per comprendere il paesaggio (“la visione più rappresentativa di Roncegno è da Google Earth” (13)), fa emergere la necessità di aggiornare alcuni paradigmi di espressione e di comprensione della relazione tra società e territorio,
laddove la relazione fisica o la prossimità non sono più un requisito necessario all’appartenenza.
Il lavoro ha prodotto un materiale vasto, ordinato per successive semplificazioni e mediante un
software (14) per identificare le mappe dei luoghi che compongono il paesaggio percepito.
Il materiale raccolto è costituito da circa 2300
minuti di audio registrato, una 30ina di schizzi e
circa 500 fotografie. Prima delle elaborazioni
Sentieri Urbani
sintetiche è stato necessario esercitare una
problematica e tematica riduzione, mediante
approcci qualitativi - come la discourse analisys - che avessero come obiettivo la connessione dei dati raccolti sul campo, riconoscendo
“famiglie” di paesaggi percepiti, attraverso “le
cose in comune” e registrando anche le possibili differenze e ridondanze.
La percezione può rischiare infatti di divenire uno strumento di restituzione banale del paesaggio (15), laddove ci si spingesse ad omologare
forzatamente le molteplicità che rivela in una
mimesi impossibile. Partendo allora dalla ricchezza di materiali che invece concorre a collezionare, a partire dagli sguardi situati che li rivelano, accomunati dall’esperienza del paesaggio, è stato proposto un dispositivo che consenta letture trasversali e tematiche: il caleidoscopio.
Il caleidoscopio è un dispositivo che può tradurre il paesaggio percepito in varie forme, ma assume una specificità procedurale, reiterabile,
per il meccanismo di restituzione che attiva.
A partire dalla combinazione dagli elementi che
connotano i tre layers (il paesaggio quotidiano, il paesaggio rappresentativo e
l’innerscape) si è proceduto così ad una
“combinazione di visioni” che sintetizzi per tipologie di sguardi i paesaggi percepiti.
La letture dei tre paesaggi sono state intrecciate per restituire una narrazione in forma di entrelacement che non disperdesse attraverso
/ 25
8. Politiche che non riguardano il paesaggio in se’ per
esempio, ma anche scelte
economiche con ricadute
ambientali e sociali, formazioni di reti che mettono in
crisi scontate reciprocità
tra persone e luoghi, azioni
che superano le loro frontiere territoriali di influenza
(Zanini 2000: 24-27 in
particolare).
9. Estratto dalla relazione
del PUP
10. Per una completa
descrizione della metodologia si rimanda a Mattiucci
(2010) A kaleidoscope
on ordinary landscapes.
The perception of the
landscape between
complexity of meaning
and operating reduction. Trento DICA - Università degli Studi di Trento.
11. Si assume qui the
experiential landscape
perception paradigm
identificato da Zube et al
(1982).
Foto 4: Roncegno nelle
Ortofoto 2001
Foto 5: mappa del paesaggio rappresentativo
(elaborata con MME)
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Sentieri Urbani
Spazio&Società
Foto 6: mappa
dell’Innerscape (elaborata
con MME)
12. Secondo Muir (1999)
il senso dei luoghi si produce attraverso due principali
situazioni: o in quei paesaggi che sono molto
caratterizzati, visibilmente
riconoscibili e dotati di una
immagine forte, oppure in
quei luoghi riconosciuti per
un attaccamento emozionale maturate dagli individui e dalle comunità. A
queste due condizioni
private e pubbliche si
aggiunge qui quella interiore, che contempla esperienze in una loro più complessa dinamica di appartenere a tutti i luoghi vissuti e/o visti e/o esplorati in
altre situazioni, che influenzano la percezione di quelli
che viviamo in un dato
momento.
13. Citazioni testuali di un
intervistato.
classificazioni forzate la molteplicità di immagini
emerse dalla ricerca.
Attraverso il caleidoscopio si intende proporre
una visualizzazione in grado di esplicitare dinamiche ricorrenti, per verificare – se esistono nella
molteplicità delle percezioni - significati comuni,
aldilà degli elementi fisici.
Questa restituzione deriva da un’interpretazione
dei dati raccolti sul campo, condotta secondo una logica rizomatica, attraverso la ricerca delle
connessioni culturali, multiple e non gerarchiche, che il paesaggio percepito può attivare. Come se il dato materiale percepito fosse esso
stesso l’esternalità di connessioni più profonde,
che sostanziano di per se’ l’analogia con la nota
figura resa metafora da Deleuze e Guattari
(1980).
Attraverso il caleidoscopio si possono provare a
comporre gli sguardi - medium dei paesaggi
percepiti - nella loro pluralità, come manifestazioni di una modalità quotidiana di vivere il territorio, che si rivela con tutte le sue discontinuità
e le sue rotture, e che quindi diventa materiale
fertile nelle mani di chi opera nel paesaggio, per
sollecitare una responsabilità intergenerazionale,
inter-territoriale (Lanzani 2008: 115) e anche
interdisciplinare nell’operare nel/sul/con il paesaggio.
Il tema della pluralità degli sguardi situati che il
caleidoscopio si propone di restituire va allora
compreso come un modo per provare a comprenderli – non fosse altro che nell’esplicitarli esplorando le prospettive di azioni che ne derivano.
A Roncegno, il caleidoscopio dei paesaggi percepiti è composto da 14 schede in cui le tipologie
di sguardi contengono sia la descrizione dei pae-
saggi che presentano, che i temi progettuali
che suggeriscono. Essi infatti non solo interpretano il paesaggio, ma sono strumentali alla costruzione del consenso intorno alle sue trasformazioni, realizzando quella relazione ciclica che
esiste tra il modo in cui il paesaggio è percepito e rappresentato ed i comportamenti e le decisioni che determinano e supportano le trasformazioni territoriali (Rimbert 1973).
L’uso quotidiano del paesaggio di Roncegno ha
rivelato un sistema di spazi prevalentemente di
servizio che sono interconnessi dalle relazioni
d’uso che danno loro senso e li rendono appunto paesaggi, come gli spazi riconosciuti e potenzialmente riconoscibili non solo per la loro
conformazione, ma soprattutto per la possibilità di essere condivisi con il resto della comunità la cui presenza è spesso essa stessa fattore
di riconoscimento.
In questo senso, ciò che costituisce paesaggi
sono i parchi e i giardini, i negozi, le strade, la
montagna come spazio dell’abitare e spazio del
lavoro.
Il paesaggio rappresentativo emerso dalle percezioni degli abitanti è un sistema di spazi, talvolta coincidenti con quelli quotidiani di cui ciascuno è consapevole in modo abbastanza singolare, per le visioni più o meno stereotipate
che rivela, in modo spesso inversamente proporzionale al fatto di essere radicato nel paese.
La rappresentatività, per esempio, deriva dal
modo in cui il paesaggio di Roncegno permette
di leggere le relazioni insediative sui Masi e sul
conoide di Marter e le rende distintive nel panorama della Valsugana. Aldilà della conformazione, questo è un dato che risulta molto significativo ai fini della ricerca, perché è proprio in
Spazio&Società
Sentieri Urbani
quelle pratiche insediative che si può leggere una traccia dell’identità in costruzione, da parte di
una società che si esprime - nel paesaggio - anche aggiornando e mutando quelle scelte insediative stesse.
Quelli che sono indicati come simboli e landmarks locali, peculiari per Roncegno, come le
terme o il Monte Fravort o le ville, si inseriscono
negli attraversamenti quotidiani determinando
un patrimonio diffuso piuttosto che eccellenze o
oggetti monumentali. Il Monte Fravort si riconosce per il fatto che esiste il paese “ai suoi piedi”,
così come le ville che si vedono proprio perché
inserite nei percorsi usuali.
L’innerscape mostra come l’esperienza del paesaggio, e dunque I meccanismi per sviluppare
un immaginario che ne influenza la percezione, è
più ampia dei confini del paesaggio fisicamente
vissuto. Tranne che per alcuni luoghi evocati per
il loro valore contemplativo, esso è composto di
paesaggi ove si è transitato o vissuto, rendendo
per analogia materializzabili quelle sensazioni positive che gli abitanti aspirano a trovare nel paesaggio ordinario. Anche se consideriamo
l’eccezionalità di quelle esperienze (viaggi, soggiorni brevi e passati) essi sono sempre descritti
paragonandoli ai luoghi del quotidiano, confermando peraltro l’ipotesi che il paradigma aiuta a
riflettere su come trasformare questi luoghi
stessi.
Gli sguardi nel caleidoscopio, che muovono dalla
combinazione riflettuta dall’esperto dei tre layers, esprimono la complessa relazione tra popolazioni e territorio.
In alcuni casi, poi, essi hanno determinato in
modo diretto i temi progettuali, che possono risultare effettivamente sostenibili perché condivisi da una parte significativa di abitanti.
Quelli che vedono il paesaggio come “un dato di
fatto”, “casa mia” o “inesistente se non altrove”
condividono una visione indifferente al paesaggio
nelle sue dimensioni fisiche e ordinarie. Questi
sguardi non sono indifferenti alla questione in
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sé, ma ad una sua interpretazione collettiva, e
rendono necessarie azioni di sensibilizzazione e
coinvolgimento, al fine di generare attraverso le
proposte di trasformazione del paesaggio, un
riconoscimento e quindi un contributo alla sua
salvaguardia.
È stato poi possibile identificare un’altra tipologia di sguardi, di coloro che riconoscono i valori
del paesaggio che passano per una valutazione
visuale ed estetica. Coloro che vedono il paesaggio come “bellezza”, “rifugio nella memoria”,
“contemplazione” e “natura nei suoi landmarks” reclamano l’attenzione del piano per
un sistema di luoghi e valori che qualificano di
conseguenza anche il contesto più ampio ove si
collocano.
Esistono infine sguardi “intermedi”, normali. Essi percepiscono il paesaggio come “le persone”,
“gli spazi aperti”, “l’attraversare”, “la sovrapposizione”, “le montagne”, “l’incontro”. Questi
sguardi possono rivelarsi davvero preziosi perché sono quelli che rivelano la realtà
dell’ordinario anche in base alle pratiche d’uso,
che reclamano una attenzione strutturale e costante per rendere gli spazi pubblici vissuti e
più in generale trasformare lo sfondo della vita
quotidiana attraverso una sistema di progetti
diffusi.
Così come concepita ed elaborata a Roncegno,
l’indagine sulla percezione dei paesaggi ordinari
può dunque effettivamente sostanziare lo step
successivo alla formulazione del quadro di interventi progettuali che la Nuova Variante ha prefigurato.
Essa infatti suggerisce i temi progettuali per la
trasformazione del paesaggio e li rende sostenibili, perché individua le vocazioni del territorio
– aldilà delle analisi e delle letture di settore attraverso lo sguardo degli abitanti, in una dimensione partecipativa che però necessita
sempre di un ruolo costante e attivo - ed interattivo (Healey 1997) del progettista/
pianificatore/esperto.
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/ 27
14. Una parte della ricerca, nella fase di elaborazione dei dati è stata
svolta presso la Corvinus
University di Budapest,
nel gruppo coordinato dal
prof. L. Leteney che si
occupa di mental mapping e utilizzando il software MentalMapEditor
(MME)
15. Il rischio è al centro
del dibattito più recente
sul paesaggio, in cui le
modalità partecipative – e
quindi anche quelle che
riguardano l’interazione
esperto-locale come
proposte in questa procedura – assumono una
centralità che mette in
secondo piano le responsabilità di chi opera nel
paesaggio, senza compiere scelte, ma giustificandole negli indirizzi degli
abitanti. Si vedano su
questi temi, per esempio,
l’intervento di A. Lanzani
al convegno “Cultural
landscape” (Milano
2008) , le riflessioni sulla
partecipazione di P. Savoldi (2006) o le questioni
poste da M. Jones
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28 /
Sentieri Urbani
Spazio&Società
Progetti, Pianificazione, Partecipazione.
Possibile? Un racconto dal sito El Tajín, Messico
di Elena Ianni
E
l Tajín è un sito archeologico
bellissimo.
Una città pre-ispanica circondata da foresta, quel che resta di una
esuberante selva tropicale. Nel 1910 i
pascoli occupavano nella zona il 3.3%
della superficie agricola disponibile, alla
fine del secolo scorso ne occupavano il
72.7% (Chenaut, 1995). Il sito El Tajín
è un’area protetta, dichiarato
dall’UNESCO patrimonio mondiale
dell’umanità. L’area protetta ricopre
1221 ettari e al suo interno vive una
popolazione di circa 3000 persone.
Ogni anno El Tajín riceve un gran numero di turisti, quasi settecentomila.
Quanto a visite turistiche, a livello nazionale El Tajín è secondo solamente al
sito archeologico di Città del Messico,
l’imponente Teotihuacan. La popolazione che vive all’interno dell’area protetta
è di origini indigene totonaca.
Le strade del governo e delle comunità
si incrociano nel 1939 quando il sito
de El Tajín viene definito area archeologica protetta e l’INAH, Istituto nazionale di antropologia e storia, assume la
gestione del sito. Il governo acquisisce
le terre prossime al nucleo del sito
archeologico, dove vivono molte persone, con le loro case e i loro appezzamenti. Compra loro la terra (ad un
prezzo “simbolico”) e gli abitanti si
aggregano in comunità allontanandosi
dalla parte centrale del sito. In quegli
anni la copertura forestale è già di
molto diminuita; l’attività predominante
nella zona è diventata l’allevamento,
tradizionalmente non praticato dalle
comunità totonaca e il paesaggio nel
quale il sito è immerso è formato prevalentemente da pascoli. El Tajín non è
fatto oggetto di particolari attenzioni
fino al 1999 quando il sito archeologico si impone all’interesse dell’allora
presidente Miguel Aleman che propone un “visionario” progetto di sviluppo:
hotel cinque stelle, un’autostrada, e un
campo da golf in mezzo alle piramidi.
Nel frattempo, dato che l’allevamento
non è più redditizio, i pascoli sono stati
abbandonati e sono diventati foreste
secondarie che stanno ricolonizzando
l’area. Nasce così contemporaneamente nel governo l’idea di una compensazione: creare un’area naturale
protetta intorno al sito. Il progetto “di
sviluppo integrale” per l’area, pronto
per l’approvazione, viene bloccato da
una sollevazione delle comunità indigene residenti, e dal buon senso. Il rapporto tra INAH e le comunità vicine al
sito non è mai stato morbido. Terreno
di scontro in particolare sono le lungaggini dei procedimenti di verifica
archeologica obbligatoria per gli interventi strutturali agli edifici nelle comunità all’interno dell’area protetta.
Il consiglio di archeologia messicano
ha di recente approvato il piano di
gestione e un progetto di
“reordenamiento territorial”, letteral-
mente - riordino del territorio,
dell’intera area, la cosiddetta
“poligonal” per la forma del perimetro
dell’area. Le basi teoriche di questo
progetto, un classico mix di buoni propositi, si rifanno a quelle seducenti
parole che sono partecipazione, progetto integrato, multidisciplinare, paesaggio culturale, e altre. Le solite buone cose, non mi dilungo.
L’INAH quindi decide di fare delle riunioni nelle comunità che rientrano nel
perimetro dell’area protetta per presentare loro il progetto di reordenamiento territorial.
Nelle riunioni, il messaggio che i ricercatori credono di comunicare alle comunità è: “Non ha senso proteggere
l’area archeologica senza salvaguardare le vostre comunità e la vostra cultura che sono la parte viva di questo
sito. Il progetto di pianificazione vuole
migliorare la gestione del sito cercando di riconciliare gli interessi divergenti
affinché tutti possano aumentare il
proprio benessere. Per questo vi chiediamo il permesso di entrare nelle
vostre comunità a fare rilievi e ricerche”.
La prima riunione con i ricercatori,
nella comunità di san Lorenzo, termina
con un: “grazie, siamo contenti che
siate venuti qui nella nostra comunità.
Speriamo veniate presto a fare le vostre ricerche”. La seconda, a Nuevo
Ojital, si conclude con: “siamo contenti
che abbiate cambiato attitudine, non ci
avete dato il permesso di costruire la
scuola, ma siamo contenti che adesso
siete cosi disponibili”. La terza, San
Antonio Ojital, si conclude con un: “fate
quello che volete, ma basta chiedere
permessi per costruire”.
La quarta riunione è decisamente interessante. Ha luogo nella Congregación
Tajín: arrivano quasi 200 persone, un
numero, per essere una riunione di
comunità, da grandi occasioni. La
gente arrivando alla riunione, si saluta
con: “anche tu qui?” “Sì, son venuta a
vedere che lotto ci tocca”.
Il messaggio che si è diffuso nella Congregacion Tajín dalle riunioni tenutesi
nelle altre tre comunità è stato infatti:
“l’INAH ha deciso che tutti noi dobbiamo essere risistemati fuori dai confini
della poligonal; non vogliono che nessuno viva più qui, quindi assegneranno a
tutti un nuovo terreno”. Come prevedibile, la riunione finisce nella confusione
Spazio&Società
e nelle urla; i ricercatori se ne vanno
abbastanza soddisfatti ritenendo che
comunque è un bene che si sia aperto
un dialogo. I ricercatori classificano
come “pettegolezzi” la paura infondata
della gente e come “problema di mancata comunicazione della corretta
informazione” il telefono senza fili intercorso tra le comunità. I giorni successivi alla riunione nella Congregación
Tajín, le voci dell’imminente esproprio
si fanno più insistenti e le comunità
cominciano a organizzare la resistenza. La domenica successiva, due topografi si presentano a San Lorenzo per
fare i rilievi. Non riescono nemmeno a
entrare alla comunità poiché si trovano
davanti i proprietari terrieri che dicono: “a costo della vita, difenderò la mia
terra”. I topografi e il loro inutilizzato
teodolite si ritirano. Ad oggi, lavorano
dal loro ufficio delimitando i lotti attraverso le immagini di Google Earth.
La storia è ovviamente infinitamente
più complessa di come la sto raccontando, ma per semplicità si può assumere sia cosi. La risposta alla domanda: perché sta succedendo questo?
non è ovviamente univoca né tantomeno semplice. La vulnerabilità delle comunità indigene, i rapporti con le agenzie di governo, la particolare storia
locale sono tutti fattori che devono
essere descritti nel loro complesso per
capire i processi in atto. In questo
breve articolo mi soffermo solo su due
punti che mi sembra interessante
sottolineare come contributo alle pratiche di pianificazione e partecipazione.
La prima osservazione riguarda il linguaggio. Il termine re-ordenamiento
territorial è formato dalle parole ordine
e territorio. Ordine (sensu occidentale)
non è un concetto “interno” a una
comunità povera indigena. Territorio, a
orecchi digiuni di urbanistica, suona
come proprietà privata. Il “riordino del
territorio” viene quindi interpretato
come il risultato della somma degli
addendi, ovvero: “un estraneo vuole
cercare di mettere ordine nella mia
proprietà privata e quindi vuole che io
me ne vada”. Il linguaggio è uno degli
aspetti della comunicazione che Borrini
-Feyerabend et al. (2004) affrontano
nella revisione di molte esperienze di
co-gestione e di partecipazione
(declinata in varie sfumature) condotte
da IUCN. Gli autori ribadiscono come
nelle iniziative di sviluppo e di conserva-
Sentieri Urbani
zione, la strategia di comunicazione
raramente riceve l’attenzione che meriterebbe. Le istituzioni esterne (agenzie
governative, enti di ricerca...) coltivano
l’illusione che meccanismi locali assicurino una perfetta comunicazione sociale. Fa invece parte della responsabilità
delle istituzioni non confinare
l’informazione agli individui che ricoprono ruoli di potere e godono di privilegi
locali. L’abitudine a relazionarsi solamente con un elite può far si che una
“agenzia di sviluppo” (senso lato) sia
cieca rispetto a ciò che sta realmente
accadendo.
La seconda osservazione riguarda il
contenuto della conversazione. Il messaggio partito dalla testa dei ricercatori è arrivato in maniera del tutto distorta alle comunità ed è riuscito a penetrare nel tessuto sociale rapidamente
e profondamente. Questa successione
di eventi deriva indubbiamente da radici profonde: le comunità sanno che,
prima o dopo, un progetto di “sviluppo”
simile a quello del 1999 da parte del
governo verrà messo sul tavolo. Quindi, in mancanza di un messaggio alternativo chiaro, le riunioni “partecipative”
vengono interpretate come una strategia subdola per fiaccare la combattività delle comunità e lasciarle impreparate e arrendevoli al “vero” progetto
che verrà proposto.
/ 29
I ricercatori sono poco avvezzi alla
profonda auto-critica. In questo caso
però, sembra essere necessaria. E’
innegabile che la distorsione del messaggio sia causata anche dalla distonia
del messaggio all’interno dell’équipe di
ricercatori. I “ricercatori multidisciplinari” non sono riusciti a formulare un
discorso univoco, chiaro e comprensibile. La multi/interdisciplina è un esercizio faticoso, che richiede una continua rifinitura a livello di gruppo per
ottenere la reale integrazione delle
competenze. Se le dinamiche
all’interno del gruppo non sono chiare,
all’esterno le conseguenze saranno
facilmente visibili. Sembra che la parte
più difficile dell’arte della multidisciplina
sia adeguarsi a ciò che questa implica:
la perdita di potere individuale e della
propria disciplina, a favore del gruppo
e del fine ultimo del lavoro. Anche se
in superficie può sembrare una inutile
perdita di tempo, il lavoro preliminare
di costruzione e formazione del gruppo
di lavoro può rappresentare una chiave di volta. I ricercatori per primi devono condividere la propria visione del
sistema (Delgado et al., 2009) per
arrivare alla costruzione della sintesi.
Solo allora, sarà il momento di presentarsi alla comunità.
Hasta la proxima.
Riferimenti bibliografici
Borrini-Feyerabend, G., M. Pimbert, M. T. Farvar, A. Kothari and Y. Renard (2004) Sharing
Power. Learning by doing in co-management of natural resources throughout the world, IIED and
IUCN/ CEESP/ CMWG, Cenesta, Tehran.
Chenaut V. 1995. Aquellos que vuelan. Los totonacos en el siglo XIX. Historia de los pueblos
indígenas de México. INI
Delgado LE, Marín VH, Bachmann PL, Torres-Gomez M (2009) Conceptual models for ecosystem management through the participation of local social actors: the Río Cruces wetland
conflict. Ecology and Society 14(1): 50. [online]: http://www.ecologyandsociety.org/vol14/
iss1/art50/
30 /
Sentieri Urbani
Mobilità
«Metroland» e «Val»:
alcune considerazioni critiche
di Vanni Ceola
Vanni Ceola, avvocato, è
stato Presidente di Atesina S.p.A dal maggio
2000 al novembre 2002
e di Trentino Trasporti
fino al maggio 2010.
Questo testo contiene la
relazione tenuta da Ceola
al seminario promosso
dai Verdi di Rovereto,
Riva ed Arco il 26 giugno
2010
Dalle visioni di Oss Mazzurana al Piano urbanistico provinciale di Giuseppe Samonà a Metroland
Non possiamo nasconderci che il progetto Metroland, ovvero l’idea di dotare il territorio provinciale di una rete metropolitana che colleghi
centro e periferie, e il progetto di costruire nel
capoluogo un sistema Val (l’acronimo sta per
Veicolo automatico leggero) siano di per sé dei
progetti affascinanti. Il Presidente della Provincia afferma in sostanza: abbiamo speso miliardi
di euro per dotare la Provincia di Trento di una
rete di strade efficienti; ora dobbiamo pensare
ad una rete ferroviaria altrettanto efficace, che
consenta di collegare tra loro tutte le località del
Trentino. Di primo acchito si tratta di un progetto ecologicamente compatibile, di una svolta
nella politica della mobilità, di un progetto democratico perché consente a tutti gli abitanti della
provincia di essere quasi sullo stesso piano, di
muoversi a costi contenuti. Nello stesso tempo
consente una conversione da una mobilità privata ad una mobilità collettiva.
Fatta questa premessa vorrei andare a ricercare nella storia le origini di questo progetto.
Era un’epoca di profonda crisi economica quella
di fine ‘800 quando amministratori lungimiranti
pensarono e progettarono un’infrastrutturazione
ferroviaria del Trentino. Una rete di tranvie che
raggiungeva tutte le valli, che riduceva di 5 volte
i tempi di percorrenza. Sembrava una follia,
prevedeva costi apparentemente insostenibili,
ma in qualche decennio la ferrovia della Valsugana, la Trento-Malè, la Dermulo-Mendola, la Mori
-Arco-Riva, la Ora-Predazzo vennero realizzate e
divennero ben presto un volano di iniziative e
fonte di ricchezza per i territori che raggiungevano. Il progetto, approvato dal Consiglio comunale di Trento era più vasto e organico, interessava le Giudicarie verso Brescia, prevedeva il
collegamento della Rendena con le Valli del
Noce, andava ad interagire con le ferrovie del
Sudtirolo e del Bellunese.
Poi ci fu l’avvento dell’automobile, della mobilità
individuale, delle strade e delle autostrade, del
modello economico italiano tutto proteso alla
motorizzazione privata. Della «macchina» come
status symbol. I risultati li vediamo oggi: abbiamo un sistema ferroviario inefficiente (era
fino agli anni ’60 il più sviluppato e moderno in
Europa), lento, sporco, dove i passeggeri viaggiano in condizioni intollerabili (salvo i pochi privilegiati delle frecce rosse e d’argento) e nello
stesso tempo abbiamo un sistema di trasporto
individuale vicino alla paralisi. Le grandi città
nelle ore di punta non sono raggiungibili. I tempi
di percorrenza delle nostre strade sono diventati intollerabili. Ogni mattina serpentoni di macchine ferme cercano, lentamente, di entrare
nelle nostre città.
In parte anche da noi, in Trentino, è stato così:
le ferrovie locali sono state una a una smantellate. Nel 1963, per ultima, è stata chiusa la OraPredazzo. In controtendenza, una scelta coraggiosa, ha rilanciato la Trento- Malè, che oggi
trasporta oltre 2,5 milioni di passeggeri
all’anno, che viene visitata da esperti di tutta
Europa, che è stata ed è un modello per molte
esperienze ferroviarie, non ultima quella della
rinnovata ferrovia della Val Venosta, che dalla
Trento-Malè ha importato tecnologia ed esperienze.
La Provincia ha investito molto sulla ferrovia
della Valsugana, ma finché questa non potrà
diventare provinciale, finché non si faranno investimenti sulle rettifiche del percorso e sulla sua
elettrificazione, rimarrà una ferrovia incompiuta.
Dobbiamo riflettere sul Pup del 1968 di Samonà, che ha dettato le prospettive del futuro
urbanistico, ma soprattutto sociale del Trentino.
Le scelte erano chiare e su queste si sono mosse le comunità: si sarebbe potuto decidere di
creare il paradiso terrestre, boschi, prati, laghi
e fiori a servizio dei turisti. Ma poco a poco non
avremmo trovato più nessuno che avrebbe avuto voglia di curare il giardino; sarebbero tutti
scesi in città a cercare lavoro e fortuna nelle
fabbriche, come comunque in qualche modo è
avvenuto. Avremmo avuto la seconda grande
ondata di emigrazione, dopo quella epocale
iniziata nella seconda metà del 1800. Si scelse
invece e giustamente di creare le condizioni, per
gli abitanti delle valli, di poter rimanere nei loro
paesi, di trovare lì i servizi necessari per poter
vivere, di conservare il loro territorio, lavorandolo e così salvaguardandolo. Si sono sviluppati gli
ospedali periferici, le scuole in ogni valle, le zone
artigianali. E questo ha permesso alle comunità
di svilupparsi e di crescere; di avere pari dignità
rispetto alle città; di avere pari occasioni. O
quasi. Questa politica ha in parte contribuito ad
interrompere il fenomeno dello spopolamento
delle valli.
I costi
Un ragionamento va fatto sui costi. Chissà perché, ogniqualvolta si parla di ferrovie, di traspor-
Mobilità
to pubblico, gli “economisti” cominciano ad affermare che le ferrovie non si possono fare, perché costano troppo, sia sotto il profilo della
realizzazione, che della gestione. E cominciano a
parlare di ammortamenti dell’investimento, di
numero di persone impiegate nel servizio.
Avete mai visto un economista che parli di ammortamenti di una strada, di costi di manutenzione di una strada? (quasi che il servizio strade
della Pat, per citare uno degli elementi di costo,
fosse gratuito). La Provincia in questi anni, dopo
aver ricevuto le competenze che erano dell’Anas
ha costruito una rete invidiabile di strade e la
gestisce in modo efficiente.
Costruire una ferrovia costa meno di costruire
una strada. E quando parliamo di costi dobbiamo considerare tutti i costi: gli economisti tengono conto di quanto costa l’inquinamento delle
vetture sulle strade? Dei costi per i cittadini per
acquistare le automobili, dei costi per i combustibili, per le riparazioni,…e poi, qualcuno considera i costi per le migliaia di incidenti, per curare i feriti, per assistere gli invalidi, per consolare
i parenti delle vittime, i costi che la società e le
famiglie si sono accollati per l’istruzione e la
professionalità delle persone che hanno subito
un incidente? Questi non sono costi?
E allora il progetto Metroland, il progetto Val o
un altro progetto alternativo a questi è comunque interessante ed affascinante. La Provincia
di Trento, prima in Italia assieme a quella di
Bolzano decide di investire meno sulle strade e
di investire di più sulla mobilità collettiva. Era
ora. Si tratta però di capire come.
Metroland
Stiamo parlando di un qualcosa che non è neppure un progetto di massima, solo quattro righe
tracciate su una cartina senza alcun ragionamento di fondo: e in particolare del come si
leghi alla filosofia del Pup originario e a quello
del 1988, quello pensato da Walter Micheli del
“dopo Stava” (La catastrofe della Val di Stava che si verificò il 19 luglio 1985 quando i
bacini di decantazione della miniera di Prestavel
ruppero gli argini scaricando 160.000 mc di
fango sull'abitato di Stava, piccola frazione del
comune di Tesero, provocando la morte di 268
persone) per intenderci, sul quale i Verdi hanno
avuto un ruolo importante, e all’ultimo recente
del 2008. Qual è l’idea della mobilità del Trentino sottesa a questo progetto; e non solo della
mobilità, ma anche e soprattutto del futuro
Sentieri Urbani
economico e sociale di coloro che vivono nelle
valli del Trentino.
Perché, quando ascolti le necessità che ti prospettano amministratori e abitanti delle valli, le
comunità che vivono ogni giorno nelle valli, quello che chiedono è sempre e solo di realizzare un
sistema di mobilità interno alla valle per consentire di muoversi meglio, di sfruttare le opportunità che lì vengono offerte. Andare e tornare a
Trento è sempre stato visto come un problema
secondario. Del resto i dati dello studio Ciurnelli
(lo studio di Perugia che ha collaborato al Piano
della mobilità della Provincia) individuano correttamente quali siano le origini-destinazioni dei
residenti nelle valli. In gran parte interni alle
stesse. Questo, ovviamente, non vuol dire che
non si debba pensare a collegamenti ferroviari
con il centro, anzi.
Poi, dobbiamo considerare che abbiamo un
territorio unico. E non lo facciamo vedere? Le
ferrovie di tutto il mondo realizzano carrozze
panoramiche per consentire ai passeggeri di
vedere il panorama, di pensare, di leggere, di
lavorare al computer, di conversare in un ambiente piacevole e amichevole. Ha senso un
percorso quasi tutto in galleria?
Abbiamo pensato dove metteremo i milioni di
metri cubi. di materiale necessario per realizzare le gallerie? Abbiamo pensato e valutato le
conseguenze sotto il profilo idrogeologico della
realizzazione delle gallerie? E allora, sempre per
fare un esempio, visto che si vuole perforare i
Lagorai per collegare Pergine con Cavalese, ci
rendiamo conto che i laghi del Lagorai sono tutti
collegati fra loro con un sistema di vasi comunicanti?
Non si tratta di confondere Metroland con una
ferrovia di montagna come può essere definita,
in parte, la Ferrovia Trento-Malè. Ma si tratta
comunque di dare servizi ai territori e la ferrovia
può essere lo strumento migliore per divenire
cerniera ed elemento di collegamento delle
realtà intervallive e fra loro e il centro. Potrà
anche essere un mezzo di trasporto per i turisti, che lasciata in valle la loro macchina (con o
senza i regali di Michil Costa e degli albergatori
dell’Alta Badia nella loro recente e fantasiosa
iniziativa) possono utilizzare per i loro spostamenti il treno, anche per una piacevole gita a
Trento in un giorno di pioggia. O percorrere le
valli alla scoperta di nuovi paesaggi e di nuove
suggestioni ambientali. In questo gli svizzeri
sono stati maestri: la rete dei loro treni percor-
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32 /
Sentieri Urbani
La cartolina che ricorda il
primo viaggio della ferrovia
Trento-Malé (coll. Ferruccio
Mascotti)
Mobilità
re, lenta, le loro valli e trasporta passeggeri
entusiasti provenienti da ogni parte del mondo.
Si è detto dei tempi di percorrenza. Al di là di
evidenti errori materiali (non è pensabile percorrere 34 Km in 14 minuti, a una media di 146
Km/h), rispetto ad una ferrovia tradizionale i
tempi origine-destinazione sono significativamente inferiori solo per le località che hanno una
stazione. Per tutte le altre i tempi si dilatano e
un treno che le tocca, le attraversa e carica
passeggeri nelle stazioni dei diversi paesi consentirebbe invece tempi sicuramente concorrenziali a quelli del trasporto privato.
E come non pensare ad un territorio che può
essere offerto al turismo come raggiungibile in
ogni sua valle da un treno panoramico, che ne
esalti da subito le bellezze. Le stesse bellezze
possono essere apprezzate, e sono apprezzate,
anche dai passeggeri locali.
Non mi scandalizzo invece per i costi. Ritengo
che siano assolutamente compatibili con il bilancio provinciale e che anzi rappresentino un investimento sicuramente da fare.
Neppure ritengo sovrastimato il sistema sulla
base dei passeggeri che si prevede possano
essere trasportati. Se vogliamo creare un sistema ecologicamente sostenibile, se vogliamo
dare del nostro territorio un significato di questo
genere, non c’è spazio per discussioni sulla
compatibilità economica di un sistema ferroviario in Trentino.
Metroland deve essere pensata anche per il
servizio merci. Non hanno senso le file di ca-
mion che percorrono la val di Non e quella di
Sole per portare i cementi di Tassullo, le mele di
Melinda o l’acqua di Peio. Sull’acqua poi andrebbe fatto un altro ragionamento, ma non è questa la sede. Nei primi anni ’90 avevamo spinto
molto per la rinascita della Mori-Arco-Riva, non
solo come mezzo di trasporto di passeggeri, ma
anche per eliminare gli autotreni della Cartiera,
oltre che tutti i mezzi che riforniscono di merci
la Busa. Forse oggi i tempi possono tornare ad
essere maturi. Del progetto Metroland, certamente il collegamento Rovereto-Riva appare il
più urgente. Ma cerchiamo di ottenere che sia il
meno possibile in galleria. Facciamo vedere il
passo San Giovanni e poi facciamo affacciarsi i
passeggeri sul balcone di Nago, a guardare il
lago di Garda e la rocca di Arco. Si pagano 25
euro per salire in funivia da Malcesine verso il
Baldo e noi pensiamo di mettere nel buio delle
gallerie i nostri passeggeri. Magari gli proiettiamo un film di quello che c’è fuori e non possono
vedere dal treno?
La VAL di Trento
Un sistema efficiente di ferrovie sul territorio
non può non coniugarsi con un sistema di mobilità collettiva nelle città più importanti.
Dieci anni fa proposi al Sindaco di Trento la
realizzazione di un tram che viaggiasse il più
possibile in sede propria e che attraversasse da
sud a nord Trento, un sorta di spina dorsale
sulla quale innestare un sistema di bus, di tapisroullant, di ascensori, di funivie, di piste ciclabili.
Mobilità
Le merci avrebbero dovuto essere distribuite
collettivamente come si fa in tante città del
mondo. La città avrebbe dovuto essere liberata
dalle macchine. Il nuovo progetto di Piano urbanistico della mobilità, anche se molto timidamente, disegna una città di Trento che cerca di
avvicinarsi ad un modello come quello a suo
tempo proposto.
Trenta anni fa i cittadini di Zurigo decisero che
nella loro città non c’era spazio per un sistema
di metropolitana. Non solo sono sopravissuti
senza, ma hanno una delle città meglio servite
in Europa dal servizio pubblico.
Ecco allora le mie perplessità sulla Val, che non
si basano sul fatto che la stessa Siemens la
propone per città di almeno 300.000 abitanti.
La Val è un sistema complesso e delicato, viaggia senza manovratore, ma richiede un numero
altissimo di addetti (a Torino sono più di 120
per 10 Km di linea). È veloce, ma a Torino viaggia ad una media di 40 Km/h, con fermate
distanti l’una dall’altra 700 metri. A Trento,
senza corsie preferenziali, i bus viaggiano a 22
Km/h, con fermate ogni 300 metri. Un tram o
i bus, con linea riservata, possono avvicinare i
40 Km/h.
Non discuto di costi, né di passeggeri. L’ho
detto prima per Metroland e lo ribadisco per la
Val. Partiamo poi da un servizio di bus che porta
ogni anno 22 milioni di passeggeri in una città di
115.000 abitanti. Certo, da un po’ fastidio
quell’indicare sempre a esempio Modena
(190.000 abitanti e 8 milioni di passeggeri
Sentieri Urbani
all’anno, un rapporto di quasi 1 a 5 a nostro
favore). Ma, purtroppo, questi sono i nostri
amministratori comunali.
Ho poi dei dubbi per l’utilizzo progettato della
VAL in Valsugana fino a Pergine. Si tratta di un
sistema segregato, che raggiunge una velocità
massima di 70 Km/h. Credo serva un mezzo
più veloce e più semplice. Un treno leggero.
E poi il problema che ritengo più importante: da
ovest a est abbiamo oggi almeno sei barriere
principali (autostrada, tangenziale, l’Adige, la
ferrovia, la Trento-Malè, via Brennero). Ne
creiamo un’altra? La Trento–Malè verrà a breve
interrata. Non si potrebbe spostare su via Brennero? Non potrebbe diventare una sorta di
servizio metropolitano? Nel senso, utilizziamo
quello che c’è, potenziamolo. Colleghiamolo alla
Valsugana da un lato e portiamola verso Rovereto dall’altro e poi giù verso Arco e Riva, in una
sorta di treno-tram, come avviene in molte città
tedesche. Abbiamo decine e decine di esempi
virtuosi da copiare. Non ci si deve vergognare di
copiare quando i modelli sono convincenti.
Togliamo le macchine dalle strade, o da parte
delle strade, e creiamo un tram che viaggi su
sede propria. Mettiamolo in collegamento con
un sistema ferroviario di Valle efficiente, con
fermate in ogni Paese. Non sono i cinque minuti
in più o in meno che danno maggiore o minore
appeal ad un treno, sono altre cose, sono
l’efficienza, il cadenzamento, la pulizia. Credo
che, se ci riusciremo, avremmo fatto un grande
servizio al nostro territorio.
/ 33
Ferrovie retiche tra Svizzera ed Italia
34 /
Sentieri Urbani
Territorio&Paesaggio
I muri a secco e il paesaggio
di Castel Pradaglia a Isera
di Giuseppe Gorfer
I ruderi di Castel Pradaglia,
nel Comune di Isera (Tn)
L
a collina su cui nereggiano le rovine di Castel Pradaglia (o Predaglia), s'incunea nella
Valle dell'Adige, a mezzogiorno di Borgo
Sacco protendendosi verso il dosso di Lizzana,
quasi a voler costringere il fiume in un vasto
corridoio livellato perfettamente dalle alluvioni.
La boscaglia e i terrazzamenti avvolgono la collina nascondendo le rocce calcaree che danno
luogo a brevi aspri burroni e che sulla sommità
appaiono levigate dallo scorrere millenario del
ghiacciaio. A settentrione e a mattina il colle,
una specie di Verruca, s’innalza improvviso; a
mezzogiorno invece, dove c'era l'ingresso del castello, sotto la bassa rupe si allarga una piatta
pianura sul fondo di una dolce conca. Era qui
che si svolgevano le adunanze dei vassalli del
vescovo di Trento ed i tornei, il più memorabile
dei quali fu combattuto durante la guerra veneziana. Accadde il 30 maggio 1487.
Perduto il Castello di Rovereto, i Veneziani mandarono al campo trincerato di Serravalle il generale Roberto Sanseverino con un corpo d'armata di truppe fresche in sostituzione del comandante Giulio Cesare Varano. Il compito affidato
al Sanseverino non ammetteva indugi: bisognava
bloccare le milizie del duca Sigismondo e respingerle, se ciò fosse possibile, al di la del Murazzo.
Costruito un ponte sull'Adige, la colonna veneziana giunse a Isèra dove si unì ai soldati del Signore di Gresta e a quelli dei Lodron. Dal canto loro
le truppe tedesche varcarono il fiume a Sacco
entrando in contatto con gli avversari proprio
nella zona controllata da Castel Pradaglia. I
combattimenti che ne seguirono furono lunghi,
sanguinosi e senza alcun risultato né strategico,
né tattico. Fu allora che al comandante tedesco
venne l'idea di un duello per decidere le sorti
dell'inutile battaglia. Il campione tirolese fu lo
stesso comandante, il giovane e valoroso Hans
conte di Sonnenburg, il campione veneziano fu il
figlio del valoroso capitano Roberto Sanseverino,
Antonio Maria.
Così i soldati delle due parti si ritrovarono il 30
maggio nel vasto prato antistante il castello, a
far tifo attorno allo steccato dove i due campioni
vestiti di ferro e armati di lancia e spada, si battevano. Vinse il signore di Sonnenburg ed il San-
Territorio&Paesaggio
severino si diede al suo cortese avversario con
cavallo, armatura e denaro, secondo i patti.
Il colle, dove ora si elevano poche rovine, era un
castelliere prima, un luogo fortificato poi. Su di
esso furono rinvenute reliquie romane e preromane. Sorgeva a guardia di un incrocio di strade e forse luogo di sosta notturno delle legioni
sulla via della Rezia e del Norico. Nel Medioevo
vi sorse una fortezza tenuta da un signorotto
che esigeva pedaggi e controllava la navigazione
sul sottostante fiume su cui, a Sacco, c'era un
ben noto porto. Nel 1027, con la donazione di
Corrado il Salico, anche il signore di Pradaglia
divenne gastaldione del vescovo di Trento e più
tardi nel castello furono inviate truppe per bloccare la colonna ghibellina guidata da Adalpreto.
I ghibellini scesero contro i guelfi lagarini qualche tempo dopo sconfiggendoli a Marco e distruggendo le rocche di Pradaglia e di Castelnuovo.
Sei anni dopo (1183) Maria, figlia di Ottolino,
che lo aveva sommariamente restaurato, vendette il castello per 1400 lire veronesi al vescovo Salomone che vi tenne un ministro con il titolo di Capitano della Val Lagarina sino al 1198,
anno in cui Corrado II di Beseno ne investì Briano di Castelbarco.
Nel 1234 il vescovo Aldrighetto di Campo, temendo un colpo di mano dei Veronesi, fece fortificare la rocca assieme a quella di Beseno. Dopo aspre guerre a cui diedero luogo i feudatari
guelfi e durante le quali Pradaglia venne danneggiato, nel 1258 Egnone nominò Jacopino di Lizzana, figlio di Jacopo, capitano della Vallagarina
ordinandogli di eleggere quale sede il castello di
Pradaglia.
Morto Jacopino, la rocca, che per breve tempo
era stata concessa a Sodegerio da Tito, e tutti i
domini di Lizzana, essendo la nipote Fanzina maritata a Leonardo di Castelbarco, ritornarono a
questa potente famiglia. Nel 1416 a seguito
della pace firmata con l'arciduca Federico, Pradaglia venne in possesso dei Veneziani. Nel secolo successivo, e precisamente nel 1508, le
soldataglie di Massimiliano I lo spianarono per
sempre al suolo.
Difficile è immaginare come era il castello e il
dosso di Pradaglia al tempo del Sanseverino. La
storia infatti ci racconta di un paesaggio ben diverso dall’attuale, dove nel corso dei secoli, il
lavoro dell’uomo ha definito una specifica caratterizzazione. Non sempre positiva. Così vediamo
che vicino alla collina vitata, si aprono gli squarci
Sentieri Urbani
della cava di basalto, la squadrata presenza di
capannoni industriali, la schematica crescita urbanistica del piccolo aggregato di Cornalé. Tuttavia l’ambiente agreste prende ancora il sopravvento, contrassegnato dai scenografici e
romantici resti di quello che un tempo dovrebbe
essere stato un vasto castello a controllo del
fiume e del suo attraversamento con il porto di
Borgo Sacco, oggi contrassegnato dal vasto
complesso della manifattura Tabacchi.
Come si può evincere il paesaggio è estremamente diversificato ma all’occhio del visitatore la
prima e principale sensazione è l’ordine dei vigneti, il gioco dei terrazzamenti, un paesaggio
agricolo di vigneto che sovrasta la storia antica
e moderna. Un paesaggio che distingue questi
luoghi; il paesaggio della vite, dove i resti del castello danno quel tocco di romanticismo che lo
rendono unico e estremamente suggestivo.
Nel ‘700 il paesaggio lagarino e quello più particolare di Isera e del Dosso di Pradaglia si inserivano nell’ondulata pianura atesina, ammantati di
vigneti, sparsi di fattorie, di ville signorili, di frutteti. Le filande roveretane producevano sete famose quanto quelle lombarde, la piccola città di
Rovereto era centro di industrie, arti e commerci. In quell’epoca Clementino Vannetti decantava
non solo il paesaggio di Isera ma il suo prodotto
più illustre: il marzemino. Vino dal carattere
secco, vivo, genuino che proprio con le uve di
Foianighe, le colline basaltiche verso il castello
di Pradaglia, acquistava un particolare temperamento.
Ecco dunque perché parlare di Isera, e del rilievo di Pradaglia non è possibile non parlare dei
vigneti di Marzemino. Qui come non mai l’uva e
il vino riflettono l’immagine di un paesaggio e ne
sono la conseguenza. Il paesaggio quindi segnato dai vigneti, in maniera diversificata se cresciuti in fondovalle o in pendio. Regolari appezzamenti di terreno con altrettanti regolari quadrature di vigneto con diversi orientamenti, segnano il fondovalle. Un reticolo di muretti a secco a
sostegno dei campi tratteggiano i pendii ricordando la faticosa e secolare cura del territorio e
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Il tipico muretto a secco nei
dintorni di Castel Pradaglia,
con la caratteristica presenza di rocce calcaree
alternate da quelle nere di
basalto
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Sentieri Urbani
Territorio&Paesaggio
Una fase della ricostruzione
del muro a secco
adattamento dello stesso all’attività economica
dell’uomo.
Lo scoglio roccioso di Predaglia appare fortemente terrazzato, principalmente sui versanti
nord e ovest. Più dolci su quello meridionale,
mentre in avanzato abbandono o quasi assenti
sulle ripide balze rocciose orientali. La presenza
di terrazzamenti è antica come dimostrato dalla
sezione archeologica effettuata sul versante ovest del rilievo. La sezione, realizzata per verificare la presenza di tracce antiche prima del
proseguo dei lavori, ha evidenziato la presenza
di tre fasi di terrazzamento costruite su un piano basale costituito dal pendio formato da materiale franoso dai contrafforti rocciosi. Successivi
crolli hanno comportato la ricostruzione dei terrazzi in un arco temporale di difficile ricostruzione ma di epoca coeva o anteriore alla presenza
del castello.
Le murature attuali sono databili tra il XIX e gli
inizi del XX secolo, quindi posteriori
all’abbandono, demolizione e smantellamento del
castello avvenuta nel 1508 ad opera delle truppe di Massimiliano I. Infatti la loro costruzione
vede l’utilizzo delle pietre del castello costituite
da rocce calcaree alternate da quelle nere di basalto. Un effetto pepe sale che conferisce una
caratteristica unica. Contrariamente ad altri casi sono quasi completamente assenti nella trama muraria dei muri di terrazzamento, le pietre
lavorate. Segno evidente di come i ruderi del castello, successivamente alla sua demolizione,
siano diventati cava per il recupero di elementi
lapidei utilizzati nella ricostruzione degli edifici civili dei vicini centri abitati.
L’osservazione di muri a secco che tratteggiano
i versanti del Dosso di Predaglia, evidenziano anche l’accortezza degli aspetti funzionali per una
corretta coltivazione dei vigneti. I vari terrazza-
menti sono collegati da scalinate, ricavate nello
spessore murario che permettono il raggiungimento veloce dei vari livelli terrazzati. Ecco dunque come il contesto dei campi terrazzati di Predaglia, che si estende per circa 600 metri di
muratura su diversi livelli, rappresenti un ambiente particolare e un paesaggio fortemente
specializzato che trova la sua unicità nella conformazione morfologica, nella metodologia di costruzione e soprattutto nella specificità dei materiali lapidei utilizzati.
Purtroppo l’abbandono dei vigneti su questi pendii hanno comportato il loro degrado, provocando crolli e rigonfiamenti dovuti spesso alla crescita selvaggia dell’Acacia, specie non autoctona
e infestante, di veloce diffusione. Sui versanti
nord, ovest e est, l’Acacia ha preso il sopravvento nascondendo i terrazzamenti e danneggiando
le murature. Il versante sud è stato invece oggetto negli anni ’50 del XX secolo di un rimboschimento di Cedri, di Pino nero e di altre essenze resinose creando un bosco artificiale che
poco ha di coerente con il circostante ambiente
coltivato. Non è neppure coerente con il paesaggio boscato che ammanta i versanti non terrazzati dove è presente la crescita spontanea
del bosco termofilo composto dal Caripo nero,
Roverella, Orniello, con la presenza costante del
bagolaro (Celtis australis).
Lo stato di degrado che interessava l’intera collina, quindi non solo i ruderi monumentali, rappresentava da solo una motivazione per il suo
ripristino e l’utilizzo del sito a scopi pubblici. La
sua posizione, tra la città di Rovereto e i sobborghi e paesi limitrofi, pone il sito in una particolare localizzazione con una facile raggiungibilità. In
particolare le condizioni precarie delle murature
hanno richiesto un intervento urgente affinché le
Territorio&Paesaggio
stesse non crollino creando un serio pericolo
per i frequentatori attuali e la sottostante viabilità oltre che a perdere un prezioso segno della
storia passata.
L’acquisizione dell’intera collina dall’Ente Pubblico
rappresenta infine una grande opportunità per
un intervento generale che restituisca alla funzione pubblica questo bene attivando un progetto di recupero dell’intera collina con la trasformazione in un parco dove il rudere rappresenti
l’elemento carismatico e paesaggisticamente di
richiamo.
L’intervento di ripristino, oltre il restauro delle
murature del castello superstiti, ha previsto la
messa a parco delle pendici che circondano il
rilievo con la sistemazione e pulizia del suolo e
della vegetazione presente e la realizzazione di
percorsi che ne permettano l’utilizzo attraverso
la realizzazione di un parcheggio, il restauro del
roccolo trasformandolo in edificio servizi, di un
percorso pedonale panoramico e sbarrierato, il
Parco della leggenda di Sanseverino ed infine il
ripristino dei vigneti e la conseguenza sistemazione e ricostruzione delle murature a secco.
Il castello si trova nel cuore del Marzemino, centro pulsante sia in senso geografico che in senso qualitativo. La collocazione di Castel Pradaglia rispetto al Marzemino evidenzia la centralità
del territorio di Isera. La culla adottiva del vitigno è Isera, con le sue caratteristiche podologiche e ambientali. Il sito di Castel Pradaglia è
l’attualizzazione dell’antica culla del vitigno e simbolo moderno dell’elezione del territorio per questo vitigno. Quale luogo storico si può proporre
a museo del Marzemino, meglio di Castel Pradaglia?
Il connubio vitigno-territorio è esemplificativo a
Castel Pradaglia. Qui, l’affiorare del basalto, rappresenta l’emblema della vocazionalità pedologico-ambientale di Isera verso il Marzemino. Castel Pradaglia rappresenta, in sintesi, il più autentico esempio attuale e moderno dell’antico
rapporto Marzemino-Vallagarina.
Per questo si è ritenuto opportuno dare valore a
tale connubio con la realizzazione di un vigneto
che sia il museo vivente della varietà. Una banca
genetica del Marzemino a cielo aperto, nella
quale trova spazio la coltivazione della variabilità
genetica del Marzemino. Si tratta di recuperare
tale variabilità genetica producendo un numero
di esemplari per ogni biotipo o per ogni clone o
per ogni autofencondato o per ogni incrocio, in
cui vi sia espressione piena o parziale del genoma del Marzemino.
In tal modo, oltre ad operare una fondamentale
azione di conservazione della variabilità genetica
varietale, si produce una fondamentale azione di
verifica su un numero più significativo delle potenzialità viti-enologiche dei singoli individui ospitati, così da poter provvedere con azioni di me-
Sentieri Urbani
dio lungo periodo alla valorizzazione in pieno
campo di individui qualitativamente ritenuti miglioratori dello standard attuale.
Non ultimo, si produce in tal modo una significativa azione di educazione rispetto al valenza di
una varietà storica quale il Marzemino che potrà essere osservato con occhio tecnico dai
suoi viticoltori, che ne apprezzeranno le diverse
caratteristiche colturali.
Tale “campo museo, banca genetica” della varietà, sarà un fondamentale strumento educativo
verso i giovani studenti del territorio che potranno vedere, toccare con mano ed educarsi alla
valenza del patrimonio genetico in relazione alla
storia e alla cultura di un territorio.
Il progetto prevede la messa a dimora del vitigno in forma di filare, che ospiterà il gruppo di
ceppi in sequenza, rappresentativi di ogni espressione genetica. Il vigneto sarà allevato a
Guyot, con filari che andranno ad occupare,
massimizzandone l’uso, lo spazio recuperabile
dall’intervento di riqualificazione dell’intera area.
I lavori per il recupero dei terrazzamenti sono
iniziati nella primavera del 2009 e eseguiti dal
Servizio Conservazione della natura e valorizzazione ambientale della Provincia autonoma di
Trento. La tipologia dei lavoratori presenti e delle opere da realizzare hanno rappresentato un
ottimo connubio scandendo tempi di lavorazione
idonei alle tipologie delle opere da realizzare. Alla pulizia dei terrazzi dalla presenza infestante
dell’Acacia, sono seguiti la pulizia delle murature
a secco, la demolizione e ricostruzione dei tratti
lesionati, la ricostruzione di brani murari crollati
eseguiti con la vecchia tecnica del muro a secco. Attraverso l’esperienza di un muratore specializzato, Giancarlo Manfrini, il lavoro ha visto la
partecipazione di maestranze con specifica formazione, accanto a operai specializzati generici
e operai dei Lavori socialmente utili, diventando
una sorta di scuola per il restauro e costruzione
di murature a secco.
In totale hanno lavorato la Coop. Arcopegaso
con 3 operai specializzati e 4 operai dei lavori
socialmente utili e la Coop. C.L.B. con 2 operai
specializzati e 5 operai dei Lavori socialmente
utili.
All’estate del 2010 si può quantificare che sono
è stata demolita e ricostruita circa 160 mc di
muratura con l’impiego di materiale nuovo di cava alternato con quello esistente il loco, mentre
l’intervento di ripristino e consolidamento ha interessato circa 100 mc di strutture.
L’aspetto attuale il Dosso di Castel Pradaglia,
anche se i lavori non sono ultimati, ha ridato al
paesaggio il tassello mancante costituito dal rilievo composto da terrazzi, vigneto, castello in
un insieme che ha contrassegnato per secoli il
paesaggio lagarino a cavallo del Fiume Adige.
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Sentieri Urbani
Territorio&Paesaggio
La frana di Pinè/1
La relazione tecnico-descrittiva della
frana di Campolongo
a cura degli uffici della Provincia autonoma di Trento
Premessa ed inquadramento generale
Il fenomeno franoso della Val Molinara,
che ha interessato il conoide sul quale
sorge la frazione di Campolongo nel
Comune di Baselga di Pinè, si inserisce
in un più ampio contesto di dissesti verificatesi sul territorio che coincidono
sostanzialmente con le aree a maggiore
precipitazione. In particolare da nord
verso sud si sono verificati una serie di
eventi che hanno interessato il Comune
di Grauno (chiusura della SS al km 29),
il Comune di Segonzano (numerose segnalazioni che interessano il Rio Regnana e le località Gresta, Vallon e Piramidi), il Comune di Bedollo (8 eventi fra cui
quelli sui Rivi Fabbrica e Val del Lago), il
Comune di Baselga di Pinè (Rio Val Molinara, Rio delle Giare e danni minori su
altri collettori dello stesso versante), il
Comune di Sant’Orsola (13 eventi fra cui
quelli sul Rio delle Vergini, sul Rio Val
Pegara e sul Fondovalle del Fersina), il
Comune di Palù del Fersina (5 eventi), il
Comune di Frassilongo (7 eventi), il Comune di Fierozzo (7 eventi) e il Comune
di Tenna (smottamento sulla SS Valsugana in località Terrazze). Ulteriori segnalazioni sono giunte da altre località della
provincia ma riguardano fenomeni di
dimensioni più modeste; tra questi particolare attenzione rivestono le piene del
Fiume Sarca (evacuati o parzialmente
rimossi a scopo precauzionale alcuni
campeggi in quanto le dinamiche
dell’onda di piena davano la possibilità di
prevedere una locale esondabilità del
fiume) e del Fiume Brenta e colate ed
erosioni in Val di Genova.
Tra tutti i fenomeni verificatesi particolare importanza, per i danni e le dimensioni, riveste il dissesto relativo alla Val
Molinara che ha coinvolto la frazione di
Territorio&Paesaggio
Sentieri Urbani
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Nella pagina a fianco:
una veduta aerea
della frana di Campolongo; La veduta foto
aerea e le perturbazioni straordinarie di
quei giorni.
Qui a fianco: stratigrafia geologica
dell’area di Pinè
Campolongo nel Comune di Baselga di
Pinè.
Previsioni meteorologiche
Già da martedì 10 agosto i modelli meteorologici indicavano la possibilità di
precipitazioni abbondanti, anche a carattere temporalesco tra sabato 14 e domenica 15. Nei giorni successivi la previsione era confermata tanto che venerdì
13 alle ore 11 il Servizio Prevenzione
Rischi emetteva un Messaggio Mirato
per precipitazioni abbondanti e forti
temporali con valori previsti mediamente
di 30-50 mm e valori locali estremi di
70-90 mm. Le previsioni di sabato mattina confermavano lo scenario previsto
ed il bollettino probabilistico delle ore 11
confermava ancora un’alta probabilità di
rovesci o temporali intensi.
L’eccezionalità dell’evento che ha colpito
la zona del pinetano è illustrata nelle
immagine del radar meteorologico della
Pat dalle quali di vede che i nuclei temporaleschi si sono concentrati lungo un
asse nord sud rimanendovi stabili per
alcune ore. Tale comportamento è sicuramente anomalo rispetto alle normali
dinamiche in cui le celle temporalesche
tendono a spostarsi andando ad interessare territori più ampi.
Analisi idrologica
Per poter comprendere la dimensione
dell’evento in prima analisi è stata fatto
un confronto dei dati di precipitazione
della stazione pluviometrica più vicina
(Sant’Orsola), con l’analisi delle curve di
possibilità pluviometrica media del bacino del Rio Val Molinara. Dall’analisi emerge come le intensità di precipitazione registrate a Sant’Orsola si collochino
per la durata di pioggia di 6, 12 e 24
ore al di sopra della curva di possibilità
pluviometrica relativa ad un Tempo di
Ritorno di 200 anni. Dalle prime modellazioni Idrologiche fatte attraverso un
modello di trasformazione afflussideflussi, ponendo come dati di input le
precipitazioni dedotte dalle curve di possibilità pluviometrica con Tr 200 anni
(come indicato dal Piano Generale di
Utilizzazione delle acque Pubbliche –
PGUAP 2006), per il Rio Val Molinara
l’analisi con il modello “Piene-TN” definisce una portata al colmo di circa 3,35
m3/s.
La verifica attraverso lo stesso modello
idrologico della probabile portata liquida
dell’evento alluvionale in esame, basata
sui dati reali di pioggia misurati dalla
stazione pluviometrica di Sant’Orsola, ha
portato ad una prima provvisoria definizione di una portata al colmo paria a
circa 5.44 m3/s superiore del 62%
rispetto a quella stimata con un tempo
di ritorno di 200 anni. Ciò confermando
l’eccezionalità dell’evento.
Descrizione degli eventi
Il Rio di Val Molinara nel Comune di
Baselga di Pinè è un corso d’acqua iscritto al n. 260 dell’elenco delle acque
pubbliche. Drena un bacino di 1,20 kmq
ed ha edificato il conoide sul quale sono
presenti 20 edifici della frazione di Campolongo. Nella notte di ferragosto il susseguirsi di violenti temporali ha imbibito
tutti i terreni provocando abbondanti e
anomale venute d’acqua anche in zone
dove l’analisi idrogeologica vorrebbe che
non ci fossero. Dai rilievi effettuati nella
mattinata del 15 agosto si è constatato
che già a 1900 m di quota, poco sotto il
culmine della montagna, erano presenti
abbondanti e concentrate venute
d’acqua che innescavano una serie di
fenomeni di erosione che già da quota
1800 m circa evolvevano in colate detritiche. Il fenomeno, procedendo dall’alto
verso il basso, andava progressivamente
aggravandosi trovando nuova alimentazione da locali piccoli dissesti laterali e
soprattutto dalla confluenza dei tre rami
principali del rio (vedi frecce di colore
arancione nella figura in alto a pag. 42)
a quota 1350 – 1400 m. Il tratto centrale del rio (da quota 1350 m a quota
1070 m) si è comportato come un
grande canale di trasporto (vedi tratto
rosso nella stessa figura) lungo il quale
si è avuta una intensa erosione di fondo
che ha messo a nudo in modo molto
diffuso il substrato roccioso asportando
il materasso alluvionale presente per
spessori dell’ordine di 4-5 m.
Il fenomeno franoso è pertanto caratterizzato da una intensa fase erosiva sviluppatasi nella parte alta e mediana del
corso d’acqua e una fase di deposito
nella parte bassa del torrente corrispondente al conoide ed al fondovalle. Il materiale detritico è stato valutato in
40.000 mc complessivi e si è deposto
sul conoide in impulsi successivi.
All’apice del conoide il materiale si è
suddiviso in 3 flussi principali: quello di
destra orografica, meno potente, si è
mosso in direzione del lago delle Piazze,
arrestandosi poco a monte dell’Albergo
“alla Spiaggia”; quello centrale, di maggiori dimensioni sia in termini volumetrici
che per caratteristiche del materiale
movimentato, si è mosso secondo la
direzione di massima pendenza, andando ad interessare le abitazioni di Campo-
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Sentieri Urbani
Territorio&Paesaggio
In questa pagina:
estratto del Foglio
n. 60 (“Trento”)
della Carta Geologica d’Italia alal scala
1:50.000
A desta: l’estratto
della Carta di Sintesi Geologica del
Piano urbanistico
provinciale (in alto)
e la carta del Catasto asburgico del
1865 (in basso)
longo; il terzo flusso, infine, ha seguito
per un tratto l’asta del rio, per poi esondare sui prati prospicienti il maneggio. I
piani inferiori delle abitazioni di Campolongo e il maneggio sono stati interessati da allagamenti e deposito di ghiaia e
fango, rendendo necessaria
l’evacuazione degli edifici. I materiali
hanno inoltre fortemente danneggiato la
viabilità comunale determinando oltremodo l’intasamento delle reti delle acque
bianche e il danneggiamento di altri
sottoservizi.
Il Contesto gologico
Il versante interessato dal dissesto è
caratterizzato dalla presenza delle formazioni rocciose appartenenti al Gruppo
Vulcanico Atesino (Piattaforma Porfirica
Atesina). In particolare dalla base del
versante fino a quota 1.600 m circa
affiorano localmente i litotipi appartenenti alla Formazione della Val di Cembra
costituita da lave andesitiche a bassa
permeabilità.
Da quota 1.600 m alla sommità del
versante affiorano le rocce appartenenti
alle Formazione di Gargazzone costituite
da porfidi (Ignimbriti e tufi) di colore
rosso fortemente fratturati e fessurati
che rappresentano il serbatoio idrico
principale sotterraneo.
La giacitura del contatto delle due unità
è prevalentemente suborizzontale o
leggermente a franapoggio verso Cam-
polongo e costituisce un orizzonte lungo
il quale emergono una serie di sorgenti
temporanee (frecce blu figura soprastante).
Le coperture quaternarie sul versante
sono generalmente di limitato spessore
e sono costituite da depositi glaciali e
detritici permeabili per porosità primaria. Questi depositi costituiscono un
acquifero effimero che in occasioni di
forti precipitazioni possono dar luogo
anche a venute d’acqua concentrate ma
generalmente di limitata permanenza nel
tempo. I depositi sul fondovalle hanno
spessori molto più consistenti e sono
costituiti da alluvioni grossolane e poco
selezionate (depositi di conoide costituiti
da ghiaie e sabbie con ciottoli e grossi
massi e limo) e da materiali a granulometria fine che occupano porzioni del
fondovalle (torbe e sabbie collegabili ad
antichi specchi lacustri). Sono inoltre
presenti terrazzi di contatto glaciale. La
quota della falda freatica è determinata
dalle quote dei due laghi ed è fortemente
influenzata dalla quota di invaso del Lago
delle Piazze.
Evento del Rio Val del lago
Il Rio Val del Lago è ubicato in prossimità del Rio Val Molinara ed ha le stesse
caratteristiche idrogeologiche ed idrauliche; lo stesso è stato negli anni scorsi
oggetto di un importante intervento di
difesa e pertanto è interessante descri-
verne il suo comportamento in occasione dell’evento meteorico del 15 agosto.
Il torrente è iscritto al n. 262 dell’elenco
delle acque pubbliche della Provincia e
sottende un bacino di circa 0,660 km2.
Posto che era nota la propensione a
generare fenomeni di trasporto solido da
parte del torrente, in relazione alle caratteristiche del suo bacino, e che oltremodo sul conoide di tale corpo idrico
sono presenti due campeggi e un albergo, si è provveduto nel 2004-2005, alla
costruzione di una briglia filtrante con
retrostante piazza di deposito, al fine di
contenere possibili colate detritiche. Lo
scorso autunno si è provveduto a completare i lavori con la nuova inalveazione
del rio nel tratto tra la briglia ed il Lago
delle Piazze.
L’evento meteorico descritto in precedenza ha innescato anche sul Rio Val del
Lago un fenomeno di colata detritica,
che non è andata ad interessare le infrastrutture presenti sul conoide, proprio
perché contenuta dalla briglia selettiva
da poco ultimata. Al riguardo preme
sottolineare l’ottimale dimensionamento
della struttura e la sua efficacia nella
laminazione dell’onda di piena e nella
riduzione del rischio su un conoide interessato da infrastrutture ad alta vulnerabilità.
Valutazione della pericolosità da colata
detritica nell’area del lago delle piazze
La prima analisi riguardante la pericolosità idrogeologica dell’area del Lago delle
Piazze risale ai lavori eseguiti negli anni
’90 nell’ambito del Piano Urbanistico
Comprensoriale in adeguamento al Piano Urbanistico Provinciale del 1987. Tali
studi avevano individuato come i torrenti
che scendono dal Dosso di Costalta
verso il lago fossero interessati da diffusi
Territorio&Paesaggio
Sentieri Urbani
/ 41
più urgente la realizzazione di opere di
difesa passiva sull’alveo del Rio Val del
Lago in quanto le strutture esistenti sul
conoide per l’evento atteso risultavano
più vulnerabili ed inoltre, come sopra
richiamato, le informazioni disponibili
davano questo torrente a maggiore
propensione al dissesto. I fatti verificatesi confermano la validità di questa impostazione e si può affermare con certezza
che se non vi fosse stata l’opera di difesa alla testata del conoide del Val del
Lago le conseguenze sarebbero state
sicuramente più pesanti.
Attualmente, nell’ambito della realizzazione della Carta di Sintesi della Pericolosità del Piano Urbanistico Provinciale
2008, sono in corso le nuove analisi per
definire la pericolosità idrogeologica del
Rio Val Molinara.
fenomeni di erosione e di trasporto torrentizio e che gli stessi fossero stati
classificati come area ad elevata pericolosità idrogeologica. Tale rappresentazione delle conoscenze non ha subito nel
tempo alcuna variazione significativa e le
previsioni sono rimaste pressoché immutate anche nella Carta di Sintesi Geologica attualmente in vigore, come riportato qui sopra.
Questa zonizzazione evidenzia come
l’elevata pericolosità del Rio Val del Lago
interessi in maniera più significativa le
infrastrutture presenti sul conoide a
differenza di quanto invece si può osservare per il conoide di Campolongo, dove
l’area urbanizzata è considerata quasi
interamente priva di pericolosità.
Per il Rio Val Molinara la zonizzazione
della pericolosità contenuta nella Carta
di Sintesi Geologica era suffragata anche
dall’analisi storica dell’assetto territoriale
e dagli eventi alluvionali. Infatti l’attuale
sedime del corso d’acqua coincide sostanzialmente con l’andamento della
particella catastale demaniale del torrente così come individuata nella mappa
catastale storica sottostante.
Tale fatto evidenzia che nemmeno gli
eventi alluvionali di fine ottocento e quelli
del XX secolo hanno comportato modificazioni nell’assetto dell’alveo del conoide
e che probabilmente bisogna risalire
all’evento alluvionale del 1842
(precedente la realizzazione della mappa
catastale storica) che aveva interessato
il territorio del Comune di Baselga di
Pinè nella medesima area.
Nell’ambito di una corretta pianificazione
delle risorse disponibili è stata valutata
Valutazione della pericolosità da colata
detritica nell’area del lago delle piazze
Interventi della fase di emergenza
I primi interventi di somma urgenza sono
stati effettuati dai VVF volontari, supportati successivamente dal corpo dei VVF
permanenti, dal personale comunale e
dagli abitanti che hanno lavorato per
gran parte della nottata. Nella giornata
di ferragosto si è provveduto a dare
inizio al lavoro di rimozione dei detriti,
operazione che, stante i volumi in gioco,
si è protratto per più giorni. Il Servizio
Bacini montani, presente
nell’immediatezza dell’evento con il proprio personale di reperibilità, si è attivato
con proprie maestranze e mezzi meccanici necessari per ripristinare il deflusso
delle acque sul Rio di Val Molinara e
garantire, attraverso la movimentazione
del materiale detritico presente lungo
l’asta del corso d’acqua fino all’apice del
42 /
Sentieri Urbani
conoide, un sufficiente franco in grado di
contenere eventuale ulteriore trasporto
solido, stante la sorgente di detrito ancora attiva.
Si è reso necessario attivare immediatamente un’azione di svuotamento della
piazza di deposito a tergo dell’opera
trasversale, in modo da ripristinarne nel
breve periodo la funzionalità, stante la
presenza a monte di ulteriore materiale
movimentabile in caso di ulteriori eventi
meteorici eccezionali.
In particolare si è reso necessario proseguire l’intervento di somma urgenza
con:
- formazione di un rilevato in sponda
destra, protetto da scogliera, in prossimità della curva che il corso d’acqua
forma all’apice del conoide, per scongiurare eventuali nuove fuoriuscite di materiale;
- predisposizione di una viabilità di accesso al tratto di corso d’acqua a monte del
rilevato di cui sopra, nella prospettiva
della costruzione di una briglia per il
controllo del trasporto solido. La viabilità
in questione sarà sostitutiva della strada comunale che correva lungo la sponda destra del corso d’acque e cancellata
dall’evento in parola;
- ripristino delle sezioni di deflusso con
svasi dell’alveo;
- predisposizione delle spalle del nuovo
ponte sulla strada comunale che verrà
poi realizzato a cura del Comune (nel
frattempo si predisporrà un guado con
tubi per ripristinare provvisoriamente il
transito sulla strada);
- consolidamento con massi e calcestruzzo della sponda destra immediatamente a monte del ponte.
La realizzazione in tempi brevi degli interventi sopra descritti è stata altresì necessaria in funzione dell’agibilità degli
edifici in area di pericolo.
Territorio&Paesaggio
Dall’alto:
Visione d’insieme
del versante su cui
si sviluppa il Rio Val
Molinara. Il corso
d’acqua è stato
suddiviso in una
parte alta (linee
arancioni) caratterizzata da diffusi
fenomeni di erosione, una parte centrale (linea rossa)
caratterizzata da
trasporto ed erosione di fondo e la
parte bassa (linee
colore verde) in
corrispondenza del
conoide del torrente
caratterizzata da
deposizione del
materiale detritico.
Immagine Lidar del
conoide della Val
del Lago. Si notino il
camping e la briglia
filtrante con la
piazza di deposito a
monte che è stata
colmata dalla colata
detritica.
Rilievo delle aree di
deposito delle colate che hanno interessato il conoide di
Campolongo. Come
descritto nel testo
sono bene visibili i
tre flussi principali
di come si è suddivisa la colata principale all’apice del
conoide.
Immagine della
colata detritica che
ha investito il nucleo
abitato
Territorio&Paesaggio
Sentieri Urbani
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La frana di Piné/2
Quando le conoscenze tecniche
si piegano alle VOLONTÀ POLITICHE
di Fulvio Forrer
M
erita una nota di commento la vicenda del recente disastro di Campolongo di Pinè. Vorrei sottolineare
sin da subito che non è un processo a nessuno, ma la semplice osservazione di come la gestione del
territorio è oggi troppo piegata al
consenso civico, ed i cittadini sono
di fatto ignari, o colpevolmente non
consapevoli, che l’interesse personale non può prevalere sulla visione
d’insieme delle dinamiche e degli equilibri territoriali. Ed in realtà tale
responsabilità riguarda pesantemente sugli amministratori locali
troppo spesso travolti dal bisogno
di consenso conquistato a “suon di
sì” frequentemente incauti e negativi, condizione che poi diventa governo politico, quindi il massimo livello
della decisione. Il nostro territorio,
lo abbiamo insistentemente segnalato in tanti precedenti numeri di
Sentieri Urbani, è un territorio ad
alta dinamica naturale: Gaia è viva,
i continenti slittano, le montagne si
innalzano e gli eventi naturali ne
modellano la superficie. Gli eventi
eccezionali, non quelli più banali.
L’entità del disastro di quanto accaduto a Baselga di Pinè nell’agosto
2010 è evidente e ben descritto
dalla stampa, anche nella sua eccezionalità, e ciò non può che farci
ricordare come le forze naturali
siamo in molti casi imprevedibili o
prevedibili, ma con approssimazione, soprattutto nella loro entità. La
sequenza degli eventi significativi,
sicuramente meno gravi di quanto
avvenuto nel pinetano, avvenuti nei
primi 8 mesi del 2010 annoverà
ben 5 episodi: Baselga di Pinè (15
agosto), Daone (12 Agosto), Canal
Sanbovo (23 maggio), Mezzolombardo (23 maggio) e Daone (6 gennaio). Non sono eventi sporadici e
a caso, ma situazioni che si ripetono nel tempo ed interessano varie
parti del territorio. Lo strumento
che ci aiuta ad affrontare con la
maggiore consapevolezza possibile
il tema delle previsioni urbanistiche
e della programmazione degli interventi sul territorio è la Carta di Sintesi geologica; ebbene la vallecola
che ha generato l’evento alluvionale
era di quelle a massimo pericolo,
ma non era considerata adeguatamente pericolosa per la Carta della
Pericolosità collegata al Piano Generale di Utilizzazione delle Acque
Pubbliche; evidentemente con avvicinarsi del corso d’acqua alle edificazioni esistenti, ma soprattutto alle nuove aree potenzialmente edificabili, il rischio è diventato un pericolo moderato (R1). La carta della
pericolosità relaziona i caratteri idrogeologici del territorio con gli usi del suolo, e in questo caso, ma
anche in molti altri presenti sul territorio, anziché evidenziare il pericolo per gli abitati (ovvero inedificabilità o importanti interventi di difesa degli abitati) questo si piegato a
piccoli aggiustamenti per rendere
lo studio tecnico specialistico
(freddo e incapace di guardare in
faccia i soggetti interessati) di minor disturbo, richieste che quasi
sempre vengono da istanze locali
che tendono a minimizzare le visioni più negative in subordine agli interessi più immediati. Non riporto
cose specifiche e dirette, quanto
dichiaro è una consuetudine che, a
fronte di evidenze tecniche, diciamo tatticamente incaute, vede queste rese innocue spostando le sfumature delle previsioni a più miti
consigli. E così ecco che un conoide di deiezione (ovvero un cono di
terra portato a valle da precedenti
eventi meteorici) diventa luogo di vita, di abitazione stabile, di investimento personale per la vita. Ci
scandalizziamo nel vedere che paesi disastrati come quelli interessati
dalle alluvioni in Sicilia siano lasciati
a se stessi, ma a me preoccupa
quando rapidamente si nascondono
i danni per poi non affrontarne i
problemi che vi sono alla base. Si
rimuovono le macerie e tutto avanti
come prima. L’urbanizzazione in
trentino riguarda ormai brani di
territorio con non ne posseggono
le caratteristiche fondamentali: una
casa che non prende mai il sole costerà ai proprietari almeno un 50%
in più di combustibili per riscaldare
e la cosa non è un fatto personale
in quanto la bolletta energetica è
un vincolo in carico a tutti noi. Un
area produttiva o un campo agricolo che altera i caratteri fisici di una
valle (ad esempio con la scomparsa di un ambito di espansione fluviale per i casi eccezionale) scarica
a valle e alla collettività oneri e difficoltà spesso non differentemente
assorbibili. E questi problemi, ne
sono convinto, si affrontano in primis rimuovendo o proteggendo in
modo molto puntuale gli elementi di
maggiore esposizione al danno, e
solo dopo, a fronte della assenza di
alternative, imbrigliando, per quanto possibile, ovvero poco, i luoghi
delle dinamiche naturali.
Non è sfiducia, è un monito a riflettere sulla leggerezza di molte scelte e sulla scarsa memoria che ci
accompagna.
44 /
Sentieri Urbani
Territorio&Paesaggio
Potenzialità e criticità del sistema di
autovalutazione del Piano
di Luca Paolazzi*
O
*Luca Paolazzi, laureato
magistrale in Scienza
della politica e dei processi decisionali, è collaboratore presso il Servizio
Urbanistica e tutela del
Paesaggio della Provincia
autonoma di Trento. Si è
laureato con una tesi dal
titolo “Gli strumenti di
governo della pianificazione urbanistica e territoriale nella Provincia autonoma di Trento”. Contatto e-mail:
[email protected]
ggetto di questo scritto è l’analisi delle potenzialità e delle criticità dei processi di
autovalutazione degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale della Provincia
autonoma di Trento e delle Comunità di Valle, alla luce del quadro normativo delineato dalla legge urbanistica provinciale 1/2008.
La procedura di autovalutazione si sostituisce
nell’ordinamento trentino alla VAS. L’ autovalutazione dei piani si inserisce nella categoria dei
processi di valutazione ex-ante, cioè attuati prima dell’approvazione del piano stesso, per quanto essi si configurino nella prassi come strumento di supporto e valutazione in-itinere, seguendo
il decisore lungo tutto il percorso di adozione
dell’atto. La valutazione ex-ante è una forma di
supporto al policy making, il cui scopo è quello
di richiamare i decisori all’analisi delle potenzialità di un intervento e alla stima degli effetti che
esso potrebbe generare. Essa produce cioè valutazioni qualitative e quantitative su decisioni ancora da assumere ed i cui risultati possono essere reintrodotti nel processo decisionale prima
che le decisioni vengano approvate.
Attraverso l'anticipazione degli effetti delle varie
opzioni decisionali, la valutazione ex-ante assume
una funzione di auditing che agevola
l’attivazione di un processo di ampliamento della
razionalità decisionale individuale ed istituzionale,
permettendo al policy maker di valutare con
maggiore oggettività le alternative percorribili e
limitando l'influsso sulla situazione decisionale dei
limiti cognitivi ed esperienziali tipici della razionalità umana. Per lo stesso motivo viene limitato anche l'influsso sulla decisione esercitato dai vari
interessi particolari, offrendo dei parametri oggettivi sui quali ponderare l'opportunità delle varie alternative e contribuendo all’attivazione di un
percorso di responsabilizzazione dei decisori.
L’introduzione dei processi di VAS, a livello comunitario prima e nazionale e regionale poi, trae origine dalle difficoltà emerse negli ultimi due decenni nell’attività pianificatoria; difficoltà in particolare legate a tempistiche redazionali ed attuative molto lunghe, ad un sistematico ricorso
all’utilizzo di varianti al piano, all’incoerenza tra i
piani elaborati a livelli di governo diversi, alla
scarsa considerazione delle variabili socioeconomiche ed ambientali, allo scarso utilizzo di
strumenti di valutazione delle politiche pubbliche
ed all’inefficacia dei piani. L’istituzionalizzazione
dei principi di matrice comunitaria di sostenibilità, prevenzione, coordinamento tra livelli di governo, sussidiarietà ed adeguatezza ha veicolato
la necessità di un orientamento strategico volto
all’integrazione nel processo di pianificazione territoriale degli obiettivi di sostenibilità economica,
sociale ed ambientale, alla creazione di una
struttura di pianificazione e governo del territorio
basata su rapporti di governance tesi alla fles-
Territorio&Paesaggio
sibilità e alla condivisione delle responsabilità amministrative e alla previsione nei processi di governo del territorio di una maggiore partecipazione dei portatori di interessi generali e della collettività.
Tali indicazioni normative hanno condotto ad un
nuovo paradigma di Piano basato
sull’individuazione di strategie ed obiettivi strutturali di lungo periodo, sull’introduzione di strumenti di valutazione strategica e sulla predisposizione
di sistemi di monitoraggio e valutazione ex-post
delle azioni e degli obiettivi di piano mediante
l’uso di indicatori statistici e territoriali. La VAS
ha cioè introdotto una logica precauzionale nelle
politiche di pianificazione al fine di garantire
l’integrazione delle considerazioni ambientali e la
promozione di un modello di sviluppo sostenibile
nel processo di adozione degli strumenti di pianificazione. È dunque agevole comprendere come
la VAS non si connoti come un atto autorizzatorio, bensì come un processo di supporto al decisore nella verifica della coerenza delle proprie
decisioni rispetto agli obiettivi di governo e della
coerenza esterna al piano, nella valutazione delle
alternative e degli impatti cumulativi e nella consultazione dei diversi attori interessati. La VAS
riconosce inoltre un ruolo strategico alla creazione di una capitale conoscitivo comune e alla misurazione dei fenomeni territoriali ed ambientali
nei processi di pianificazione e di coordinamento
delle scelte dei vari livelli di governo. Il tutto al fine di addivenire ad una pianificazione specifica
per ambiti di area vasta ma coordinata a livello
provinciale/regionale.
La Provincia autonoma di Trento, in virtù della
sua competenza legislativa primaria in materia,
ha provveduto al recepimento della direttiva VAS
2001/42/CE tramite il d.P.P. n.15-68/Leg del
2006. La nuova legge urbanistica provinciale
1/2008 riprende le disposizioni procedurali stabilite dal succitato decreto introducendo nell'ordinamento provinciale l'obbligo di sottoporre gli
strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale ad un processo di autovalutazione. L'articolo 6 della legge prevede infatti che il PUP, i piani
territoriali delle Comunità di Valle ed i piani di
settore richiamati dalla legislazione urbanistica
debbano essere sottoposti a un processo di autovalutazione contestualmente al relativo procedimento di formazione del Piano. In quest’ottica,
la legge urbanistica configura l’autovalutazione
quale metodologia di analisi e di valutazione con
cui il pianificatore integra le considerazioni ambientali e socio-economiche all’atto
Sentieri Urbani
dell’elaborazione e adozione del piano, anche ai
fini del monitoraggio degli effetti della sua attuazione.
Il soggetto o l’ente competente
dell’autovalutazione è lo stesso competente
dell’adozione del piano, andando a configurare
tali processi decisionali come due processi paralleli. Oltre ad una funzione di supporto dei processi pianificatori, il sistema di autovalutazione, e la
verifica di coerenza interna ed esterna al piano
in esso sottesa, è anche finalizzato alla sistematizzazione delle connessioni tra i diversi livelli di
pianificazione, al fine di promuovere la responsabilizzazione dei diversi livelli di governo territoriale
rispetto ad una pianificazione specifica per sistema territoriale, coerente con i progetti di sviluppo locale ma al contempo coerente con la pianificazione provinciale e degli altri enti territoriali. In
questo senso l’autovalutazione potrà supportare
il decision maker nella ricostruzione dei rapporti tra i vari livelli di governo coinvolti nella governance del territorio provinciale, rispondendo
ad una funzione di accountability (ricostruzione
della matrice delle responsabilità) sia all’interno
del processo decisionale sia, esternamente, nei
rapporti tra esecutivo e Consiglio e tra eletti ed
elettori. Nella prima accezione l’autovalutazione
si caratterizza come un processo finalizzato
all'apprendimento del decisore relativamente alle
conseguenze delle proprie scelte, supportandolo
nell’individuazione di percorsi coerenti con le problematiche del contesto, nella verifica di coerenza rispetto agli obiettivi di piano e di sostenibilità,
nel confronto delle alternative decisionali, nella
verifica di coerenza esterna (in particolare con il
Programma di sviluppo provinciale), nella valutazione di efficienza/efficacia/rilevanza e nella progettazione del sistema di monitoraggio del piano.
In un quadro di governance territoriale come
quello delineato dalla riforma dell’ordinamento istituzionale trentino e dalla nuova normativa urbanistica (reintroduzione della pianificazione generale intermedia in capo alle Comunità di Valle),
assume una rilevanza strategica per l'attività di
pianificazione, oltre ai processi qualitativi sulle
strategie, la periodica misurazione degli effetti
raggiunti dai piani, date le criticità ed i vantaggi
dei singoli sistemi territoriali così come individuati alle diverse scale di pianificazione. La misurazione del fenomeno territoriale risulta sempre
più strategica nei processi di pianificazione urbanistica ed è alla base del modello conoscitivo sul
quale originano le scelte di piano. Il calcolo di indicatori di contesto e prestazionali è quindi oggi
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Sentieri Urbani
Territorio&Paesaggio
uno strumento fondamentale per i processi di
pianificazione e valutazione strategica, sia in
quanto base conoscitiva che come sistema di
supporto decisionale. L’utilizzo degli indicatori,
pur non rappresentando completamente la complessità dei sistemi territoriali, permette di integrare in un’unica metodologia analitica un gran
numero di variabili e componenti ambientali, urbanistiche, territoriali e paesaggistiche. In tal
modo, grazie al monitoraggio condotto attraverso l’utilizzo sistemico degli indicatori, le decisioni
pianificatorie si rendono più aggiornabili, simulabili, confrontabili e modulabili sulla base dei cambiamenti delle variabili e delle dinamiche territoriali, oltre che sulla base dei risultati delle politiche pubbliche precedenti.
Il decentramento di funzioni in materia urbanistica e territoriale dalla PAT alle Comunità ha veicolato l’individuazione e l’implementazione di strumenti di coordinamento e supporto al decision
making. Tali strumenti risultano necessari, in
campo urbanistico e territoriale, per garantire
l’attivazione dei percorsi di autovalutazione/VAS
delle scelte pianificatorie, il monitoraggio delle
stesse e l’uniformità delle premesse decisionali
sull’intero territorio provinciale. In tale contesto
risulta strategica la definizione di un set di indicatori di carattere ambientale, territoriale, sociale
ed economico, capaci di garantire al decision
maker una visuale complessiva e sintetica sullo
stato dell’ambiente e del territorio antropizzato e
libero.
Un set di indicatori è già stato individuato nel
Rapporto di valutazione strategica del PUP e nelle linee guida per l’autovalutazione.
Dell’integrazione di altri indicatori standard è incaricato il Servizio Urbanistica e Tutela del Paesaggio della PAT nell'ambito del progetto di sviluppo del sistema software di supporto alla decisione pianificatoria denominato Interfaccia Economica Territoriale (IET). IET è un sistema informativo con interfaccia utente WebGIS di supporto alle decisioni territoriali, contenente dati statistici e geografici. Esso nasce per aggregare dati
territoriali a dati di natura socio-economica su
base georiferita, con lo scopo di integrare la pianificazione urbanistica con la programmazione economica e sociale. IET ha lo scopo primario di
automatizzare la disponibilità ed interrogabilità di
dati ed indicatori e di garantirne la rappresentazione geografica. Attraverso l’interpolazione di
dati territoriali e statistici, e grazie
all’automatizzazione del calcolo di indicatori statici e dinamici di varia natura, IET dovrà poter supportare i processi di analisi del contesto, di autovalutazione, di monitoraggio delle dinamiche territoriali di stato e pressione oltre al monitoraggio
dell’implementazione delle azioni di piano e del
raggiungimento degli obiettivi strategici definiti
dal PUP e modulati dai singoli PTC. La funzionalità del sistema sarà raggiunta tramite la progettazione, ad oggi in corso, di un interfaccia che
permetterà di accedere interattivamente
all’insieme dei dati caricati e al calcolo automati-
co degli indicatori via web. In tale quadro risulterà fondamentale anche il ruolo del SIAT, chiamato a garantire la continua validazione e trasmissione dei dati a supporto informativo dei processi decisionali e valutativi nonché la creazione di
un quadro conoscitivo unitario sul quale impostare il coordinamento dei vari strumenti di pianificazione.
L’autovalutazione dovrà produrre informazioni relative all'evoluzione del contesto, all'evoluzione
dello stesso rispetto all’ipotesi zero, all’efficacia
delle azioni implementate e alla misurazione del
gap tra situazione reale e obiettivi di piano. Le
informazioni prodotte dall’attività di monitoraggio
e dalla valutazione ex-post, sistemi questi a loro
volta architettati in sede di autovalutazione, dovranno essere trasformate, a chiusura del ciclo,
in conoscenze reinseribili in un nuovo processo
di pianificazione e di aggiornamento dei Piani, a
suggello del principio di flessibilità posto alla base del nuovo ordinamento urbanistico provinciale.
La legislazione urbanistica crea dunque, parallelamente alla governance della pianificazione, una governance dell’auto-valutazione dei Piani.
Tale previsione risulta avere un carattere fortemente strategico sia in funzione di apprendimento ed accountability che di trasparenza. Con riferimento al primo aspetto i processi di autovalutazione potranno garantire un recupero di capacità cognitiva dei decisori sul policy making
nonché l’ampliamento della conoscenza delle istituzioni e della collettività relativamente ai processi di pianificazione territoriale. La logica autovalutativa pone però al contempo numerose criticità.
Innanzitutto l’efficacia del nuovo strumento, nel
più complesso sistema di governo del territorio,
richiede una ristrutturazione culturale e cognitiva
sia delle istituzioni che dei pianificatori. In secondo luogo mancano molto spesso i dati territoriali
e statistici di livello comunale indispensabili alle
analisi quantitative territoriali ed ambientali. Risulta indispensabile procedere velocemente
all’integrazione dei processi di valutazione strategica con una fase di valutazione quantitativa, al
fine di oggettivarne i procedimenti ed evitare che
l’autovalutazione si trasformi in strumento di
convalida di scelte indipendentemente assunte,
facendone invece uno strumento in grado di stimolare la propensione dei policy makers alla
valutazione dell’intervento pubblico ed in grado di
svilupparne la capacità cognitiva sulle relazioni
causali tra le scelte effettuate e le variabili contestuali. Vista infine la funzione di accountability,
sarebbe utile integrare il sistema con una valutazione esterna al policy making, cioè effettuata
da una posizione cognitiva non vincolata
all’esperienza di produzione del piano e finalizzata
alla conoscenza ed alla rendicontazione. Lo straniamento del valutatore garantirebbe in questo
senso maggiore oggettività nell’analisi dell’arena,
del processo decisionale e di quello attuativo,
nonché la produzione incondizionata di un capitale conoscitivo ad essi inerente.
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XII BIENNALE DI ARCHITETTURA
«People meet in architecture»
a cura della Redazione
Fotografia di Lina Bo
Bardi, Museu de Arte
de São Paulo MASP, 1957-1968
Concert at the Belvedere, 1992
S
i è aperta domenica 29 agosto (fino a domenica 21 novembre
2010), ai Giardini della Biennale e
all’Arsenale, la 12. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo People meet in architecture, diretta da Kazuyo
Sejimae organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta. La
mostra nasce e si sviluppa secondo le
linee di ricerca che la Biennale di Venezia porta avanti nel campo
dell’architettura e che l’hanno resa nel
corso degli anni un appuntamento immancabile della cultura internazionale.
Dopo una serie di Biennali affidate a eminenti critici o storici, il settore
quest’anno è stato nuovamente affidato
a un architetto, Kazuyo Sejima. Prima
donna a dirigere la Biennale Architettura, Sejima è stata insignita il 17 maggio
del prestigioso Pritzker Architecture Prize 2010, insieme a Ryue Nishizawa.
La Mostra People meet in architecture è allestita al Palazzo delle Esposizioni della Biennale (Giardini) e
all’Arsenale e forma un unico percorso
espositivo, con 46 partecipanti tra studi,
architetti, ingegneri e artisti da tutto il
mondo. Il titolo suggerisce che
l’architettura ha il compito di creare degli spazi reali che agevolano la comunicazione tra gli individui, in un’epoca in cui le
tecnologie più avanzate sostituiscono il
dialogo diretto tra le persone. Per supe-
rare la condizione di isolamento e restituire un nuovo senso alle comunità,
l’architetto piuttosto che concentrarsi su
grandi utopie, dovrà cercare di realizzare visioni funzionali al presente. Sejima
concepisce luoghi fluidi e privi di gerarchie che permettono una relazione continua tra esterno e interno, incoraggiando
la capacità dei partecipanti di interpretare lo spazio.
«È più che mai auspicio della Mostra –
dichiara Paolo Baratta - che si sviluppi
una più articolata ed efficace committenza sia privata che pubblica, dalla quale
possa no emergere domande e richieste
all’architettura che oggi appaiono sopite
o ignorate. Una mostra di Architettura
può aiutare utilizzando il proprio linguaggio, che non è solo quello della documentazione ma quello dell’emozione visiva, che porta a intuire e pensare possibilità nuove e diverse rispetto al quotidiano e al consueto. People meet in architecture vuol anche dire che we become peo ple in architecture; è appunto nella res publica che l’uomo corona il proprio sforzo di costruire la civiltà dell’uomo».
«Questa edizione della Mostra consente
alle persone di prendere coscienza delle
varie idee emanate da contesti diversi –
svela Sejima - e rispecchia il presente
che incapsula in sé potenzialità per il futuro. È mia speranza che questa esposi-
zione sia un’esperienza di possibilità architettoni che, che riguardi
un’architettura creata da diversi approcci, capace di esprimere nuovi modi di
vita. Un’esposizione d’architettura è un
concetto provocatorio, dato che è impossibile portare in mostra gli edifici veri
e propri, i quali devono essere dunque
sostituiti da modelli, disegni e altri oggetti. In quanto architetto, ritengo che sia
compito della nostra professione utilizzare lo “spazio” come un mezzo con cui
formulare il nostro pensiero».
La Mostra è affiancata, negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia, da 53 Partecipazioni nazionali. I paesi presenti per la prima volta sono Albania, Regno del Bahrain, Iran, Malesia, Repubblica del
Ruanda e Tailandia. Ailati. Riflessi dal
futuro è il tema del Padiglione Italia all’Arsenale, organizzato dal Ministero
per i Beni e le Attività Culturali con il PaBAAC - Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte
contemporanee, e curato da Luca Molinari. Il Padiglione Venezia ai Giardini ospita un doppio omaggio a uno scultore,
Toni Benetton, e a un architetto, Toni
Follina, in una mostra a cura di Carlo Sala e Nico Stringa. Gli Eventi collaterali quest’anno sono 20, promossi da enti
e istituzioni internazionali e organizzati in
diverse sedi a Venezia e fuori Venezia.
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Uno sguardo SULLA CINA
di Mirco Elena
D
i questi tempi parlare di Cina è di gran
moda ed è facile capire perché. Un paese che fino a pochi decenni fa era caratterizzato da grande miseria, si propone ora
come il principale candidato a subentrare nel
medio periodo alla superpotenza americana, in
evidente declino, come leader mondiale. Se le
sue capacità militari sono ancora modeste, la
sua economia ha compiuto passi da gigante e la
sua industria inonda di prodotti competitivi i
mercati mondiali. Tremano i posti di lavoro nel
ricco occidente, incapaci a competere col basso
costo della manodopera della Nazione di Mezzo
(questo è il nome che i cinesi danno al loro stato), ma nel contempo rilevanti strati poveri della
popolazione europea e americana mantengono
una certa capacità di acquisto proprio grazie alle
merci cinesi a buon mercato.
Sul fronte politico non c'è nazione, grande o
piccola, che non assuma un atteggiamento di
cauto rispetto verso il gigante risvegliatosi da un
lungo sonno. Passati sono i tempi della Guerra
dell'Oppio e delle Legazioni, quando una Cina
sconfitta e umiliata subiva il volere avido degli
occidentali, efficacemente supportato dalle cannoniere.
Che il cambiamento sia davvero epocale lo capiamo se pensiamo che alla fine degli anni '50 ci
furono in Cina oltre venti milioni (sì, venti milioni,
un terzo degli attuali italiani) di morti a seguito
della carestia provocata dalle folli scelte di politica economica decise da Mao, culminate con il
“Grande balzo in avanti”. A distanza di mezzo
secolo, i negozi cinesi però traboccano di mercanzie di ogni genere, comprese quelle di importazione e pure di quei beni di lusso che risultano
irraggiungibili anche per la maggior parte dei
cittadini occidentali.
Il veloce progresso economico va peraltro di
pari passo con l'abbandono di positivi valori
tradizionali, quali una certa morigeratezza, la
solidarietà tra vicini, il rispetto degli anziani.
Tutto viene travolto dall'imperativo di arricchirsi.
Fare soldi diviene l'unica fondamentale virtù; mai
l'invito di un leader politico (in questo caso Deng
Xiao Ping) fu così entusiasticamente fatto proprio dalle masse popolari.
Risulta davvero chiaro come i cinesi delle più
giovani generazioni stiano copiando tutto quel
che odora di occidente, tra cui i modi di vita e i
comportamenti. Ed “occidente”, per i cinesi, vuol
dire “americano”. I cinesi copiano infatti, inevita-
Territorio&Paesaggio
bilmente, dal primo della classe, gli Usa, e non
dagli europei, visti sostanzialmente come comprimari (ed evidentemente colpevoli, nella lunga
memoria orientale, di tutta una serie di soprusi
al tempo dell'espansionismo coloniale).
I risultati positivi non mancano, giudicando in
particolare dall'impressionante miglioramento
nelle comunicazioni via strada, ferrovia e aereo.
Queste hanno ricevuto un'accelerazione impressionante, grazie alla realizzazione rapidissima di
autostrade, viadotti, ponti, collegamenti su rotaie
veloci, aeroporti. Ormai si può viaggiare in treni
puntuali e confortevolissimi tra città distanti oltre
mille chilometri in un pugno di ore. Nuovi tratti
ferroviari raggiungono ormai Lhasa in Tibet e
Kashgar ai confini con il Pakistan, aprendo la
strada allo sviluppo economico, ma anche permettendo l'afflusso di persone di etnia cinese
“han” in aree sinora dominate da minoranze
restie ad accettare il dominio del governo centrale, con le inevitabili tensioni che ciò comporta. Gli
aeroporti competono tra loro in modernità ed
efficienza, con quello di Pechino, che impressiona non solo per le sue dimensioni e piacevolezza
estetica, ma anche perché nelle ore diurne è
illuminato ottimamente con luce naturale, con un
effetto assai apprezzabile.
Assieme ai valori sociali sopra ricordati, i cinesi
perdono anche parte della loro storia, della loro
architettura, del loro paesaggio. Lanciati a perdifiato nella veloce corsa verso la modernità, che
ha già consentito loro di lasciarsi dietro le spalle
i tempi -letteralmente bui- delle stanze fiocamente illuminate, delle strade sconnesse, dei ponti
mancanti, dei trasporti lenti ed inaffidabili, dei
negozietti minuscoli, i cinesi abbattono senza
esitazione interi quartieri residenziali, a Pechino
e in altre città, per realizzare al loro posto palazzi e grattacieli dall'aspetto modernissimo. Se ne
vanno pertanto le basse case di uno o massimo
due piani, modeste ma umane, aperte su cortili
interni tranquilli e riparati, per fare spazio al
vetrocemento delle costruzioni di dieci o venti
piani, luccicanti e orgogliose, che però nel giro di
pochi anni subiranno l'inclemenza del tempo e cronicamente mancando una manutenzione
adeguata - perderanno rapidamente il loro lustro. (Ma un appartamento moderno ha i suoi
indubbi vantaggi, in primis il gabinetto privato, un
lusso che si apprezza davvero solo dopo essersi
serviti di taluni puzzolentissimi bagni pubblici!). Se
ne vanno così begli esempi di architettura tradizionale, con i tetti dalle eleganti estremità ricurve, le tegole decorate, gli accessi a forma di
omega, gli architravi di legno scolpito, i dragoni
antifulmine sul colmo del tetto. Preziosità che
scompaiono di fronte all'ondata modernista, che
nulla salva nel suo cieco anelito allo “sviluppo”. Ed
è un peccato, forse inevitabile, ma certo un
peccato. Peraltro anche noi italiani, negli anni
ormai lontani del boom economico, abbiamo
distrutto il profilo di città e borghi, realizzando
brutti palazzoni anonimi ed inquinando a più non
Sentieri Urbani
posso (ricordiamoci le immagini del fiume Lambro pieno di schiuma negli anni '60). Come criticare allora i cinesi, che il ricordo della miseria
più nera e spietata lo hanno ancora dentro di sé,
essendo questo assai più recente? Gli errori (e
gli orrori) si ripetono nel corso della storia umana.
È tuttavia vero che in talune costruzioni moderne
si mantengono alcuni caratteri orientali, che
ingentiliscono il risultato e ci fan capire di non
essere a New York o a Tokyo, ma sono relativamente rare. Specialmente i tetti all'occidentale,
squadrati e totalmente anonimi, fanno rimpiangere la tradizione locale. Anche i brillanti colori di
molti monumenti cinesi non trovano uguale nel
grigio che domina l'architettura europea classica. I colori vivaci sono ormai quelli delle luci al
neon e dei giganteschi tabelloni luminosi che
trasformano le strade principali delle metropoli.
Come se la dilagante modernità architettonica
non bastasse, è di moda, nelle grandi città così
come nei piccoli borghi, far sfoggio di abbellimenti e decorazioni luminose, a colori, lampeggianti,
cangianti; più spesso che no di un'indiscutibile
pacchianeria. Non solo. Pure le palme finte di
plastica colorata sono apparse a deliziare (si fa
per dire...) gli occhi dei passanti, lungo i viali e
nei giardini.
Ma questi sono dettagli trascurabili, a fronte
della questione energetica che la drastica crescita dei consumi e la corsa verso la modernità ha
comportato. Nemmeno la costruzione di giganteschi impianti idroelettrici, come la diga delle Tre
Gole (che da sola può arrivare a produrre quanto
una ventina di centrali nucleari) riesce a far fronte ad una domanda in rapidissima crescita, che
viene soddisfatta costruendo annualmente
tante centrali elettriche quanto quelle esistenti in
un medio-grande paese europeo! La Cina ha
iniziato ad importare sempre maggiori quantità
di petrolio e gas naturale, oltre ad estrarre in
misura crescente carbone, l'unica risorsa di cui
è ricca. Ha ormai sorpassato gli Stati Uniti come
principale emettitore di gas serra in atmosfera
(sebbene a livello pro capite si situi ancora assai
indietro, rispetto a tutti i paesi sviluppati dell'occidente). È vero che si sono intrapresi anche grandiosi progetti per favorire un rapido sviluppo delle
energia rinnovabili; viaggiando in zone come lo
Xinjiang, nell'estremo ovest cinese, territorio in
gran parte desertico, si incontrano campi eolici
sterminati. Pure il fotovoltaico sta facendo rilevanti passi avanti. Ma il problema di fondo è che
i progettisti di edifici copiano ancora dall'occidente più arretrato, mirando a realizzare palazzi
esteticamente impattanti, ponendo però poca o
nulla attenzione alle misure di limitazione delle
necessità energetiche, che possono produrre
risultati meravigliosi, come dimostrano le esperienze europee (e Casa Clima in Alto Adige). E
questo è un grave handicap che influirà sul futuro del paese, dato che una volta che si è realizzato male un edificio, questo continuerà a spre-
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Sentieri Urbani
Olivo Barbieri, Site specific_SHANGAI 04
© Olivo Barbieri
Territorio&Paesaggio
care per molti decenni. E le conseguenze non
solo solo di natura economica o ecologica, per
una nazione che mira a divenire la principale
potenza mondiale. La dipendenza energetica
dalle importazioni potrebbe infatti rivelarsi il
tallone di Achille che la pone alla mercé di chi
controlla le rotte del petrolio e del gas, in particolare degli Stati Uniti e dei loro alleati.
*
*
*
A mio parere i cinesi sono per vari aspetti gli
“italiani d'oriente”; di conseguenza non è sorprendente scoprire che sono assai attenti a far
bella figura; gli status symbol sono un elemento
fondamentale del loro vivere. Un esempio lo
troviamo nelle automobili che acquistano ormai
in gran numero. Non si è assistito ad un progressivo aumento delle dimensioni delle vetture,
da una prima fase con le piccole utilitarie, man
mano procedendo alle berline e così via. I cinesi
hanno bruciato le tappe. In un paese in cui lo
spazio disponibile nelle città è assai scarso e vi è
sempre stato grande affollamento, l'acquirente di
Pechino o di Shanghai compera esclusivamente
mezzi di grossa cilindrata e di dimensioni rilevanti,
sui quattro metri di lunghezza. Non è strano che
comincino ad esserci notevoli problemi di traffico
e di parcheggio. Ormai nella metropoli di Pechino,
dal lunedì al venerdì, si circola regolarmente a
targhe alterne! Penso non ci vorrà molto prima
che venga introdotto l'obbligo, per chi acquista un
veicolo, di dotarsi innanzitutto di un garage privato dove parcheggiarlo. Proprio come in Giappone.
Visitando regolarmente la Cina si rimane assai
colpiti ed anche ammirati dalla velocità con cui
avvengono i cambiamenti. L'elite tecnocratica
Territorio&Paesaggio
attualmente al governo ha dimostrato di saper
guidare con mano ferma il paese fuori dalle
sacche del sottosviluppo (che permane peraltro
ancora assai diffuso nelle campagne), e di
saper navigare nelle perigliose acque dell'economia mondiale, passando praticamente indenni attraverso le gravi crisi del sud-est asiatico
prima e di quella recentissima che ancora fa
sentire i suoi effetti su tutto l'occidente. D'altro
canto lo sviluppo accelerato, unito ad una mancanza di attenzione nei confronti dell'ambiente,
ha danneggiato gravemente l'aria e l'acqua e
questo costa molto - non solo in termini di
denaro - ad un paese in cui molte aree sono
aride. Si assiste in questi ultimi anni ad una
maggiore consapevolezza dell'importanza di
proteggere l'ambiente e ci son le prime forti
indicazioni che si sta cominciando a rimediare,
Sentieri Urbani / 51
introducendo norme severe che però bisognerà
capire come e quanto verranno applicate in
pratica. Già adesso si può vedere che la rete
delle metropolitane nelle grandi città è cresciuta
ad una velocità impressionante, ma la corsa
all'automobile privata sembra inarrestabile, pur
se già ora si perdono ore e ore bloccati nel
traffico delle grandi conurbazioni.
C'è da auspicare che la Cina si converta rapidamente ad un modello di sviluppo più rispettoso
della natura, della propria antica cultura, della
qualità della vita dei propri cittadini. Non è una
speranza del tutto vana. Sfruttando il sistema
governativo autoritario, basta che la dirigenza
prenda una decisione che questa può venir
implementata in tempi che nel nostro mondo
europeo appaiono strabilianti. Una “conversione
ecologica” di quello che fu il Celeste Impero
potrebbe tornare comodo anche all'Occidente,
consentendoci di esportare verso Pechino quelle
tecnologie, quel know how, quella cultura che
abbiamo lentamente sviluppato nel corso della
nostra storia e che potrebbe rivelarsi essenziale
per evitare che l'ascesa della Nazione di Mezzo
come potenza economica mondiale produca
risultati catastrofici sul piano ambientale planetario. Con un po' di fortuna si può sperare che il
miracolo economico cinese si trasformi presto
in un caso di sviluppo ecologicamente compatibile e in un esempio positivo per tutti gli altri paesi
del terzo mondo che aspirano ad abbandonare
la miseria e per i quali Pechino rappresenta oggi
un modello da imitare. La natura pragmatica dei
cinesi, unita alla coscienza che cambiamenti
come quelli climatici avrebbero conseguenze
disastrose anche per il loro paese, e all'emergere di generazioni non più terrorizzate dalla prospettiva di un ritorno alle condizioni di sottosviluppo del passato, permettono di avere una
certa fiducia che nel giro di pochi anni anche la
Cina intraprenda un percorso virtuoso di riduzione della propria impronta ecologica. Certo che
questo percorso avverrà tanto più efficacemente quando più dal ricco Occidente verranno
segnali concreti che questa è la strada che noi
stessi intraprendiamo con decisione. Peccato
che i problemi economici abbiano fatto perdere
slancio all'amministrazione americana, che con
Obama finalmente pareva ottimamente disposta
in questa direzione e che, rimanendo nel nostro
piccolo angolo d'Europa, in questo momento il
governo italiano non dimostri alcuna sensibilità
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Sentieri Urbani
Vita associativa
“NO” a quattro domande di derivazione
d’acqua per riqualificazione di energia
a cura dell’Ufficio Stampa della Giunta della Provincia autonoma di Trento
I
l 26 marzo scorso la Giunta della Provincia
autonoma di Trento ha approvato quattro diverse delibere che riguardavano l'ammissibilità della successiva fase istruttoria di quattro domande di derivazioni per pompaggio d’acqua con
accumulo, finalizzate alla riqualificazione
dell’energia. Questo preliminare giudizio è il risultato di verifiche circa la sussistenza di prevalenti
interessi pubblici generali a carattere ambientale, paesaggistico o socio-economico nonché per
usi diversi. Con le quattro delibere del presidente Lorenzo Dellai e del vicepresidente e assessore all'ambiente, Alberto Pacher, si è deciso di dire "no", ritenendo appunto prevalenti gli interessi pubblici generali. Due domande sono relative
alla possibilità di costruire due distinti impianti di
pompaggio dell’acqua dal lago di Garda con
stoccaggio della risorsa in serbatoi da realizzarsi in sotterraneo sul Monte Altissimo. Un terzo
progetto prevede la realizzazione di una grande
diga sul torrente Maso in località Pian delle Madonne. Il quarto, infine, prevede il sollevamento
delle acque dal fiume Adige sul comune di Terlago, in località Faeda, a monte dei laghi di Lamar.
Ricordiamo che gli impianti di pompaggio per riqualificazione di energia non sono classificabili
come impianti idroelettrici ma si configurano come apparati utili per accumulare energia elettrica già prodotta da altre centrali e capaci di rilasciarla in tempi differiti con maggiore potenza.
Essi sono in grado di concentrare, e di rendere
disponibile alla rete elettrica, l’energia prelevata
dalla medesima durante i momenti di minor consumo. Impianti di grandi dimensioni hanno la
funzione anche di riserva, di bilanciamento e di
riaccensione della rete nel caso di black-out.
La Provincia Autonoma di Trento ha competenza al rilascio della concessione a derivare e per
la valutazione di impatto ambientale relativa a
questi progetti, in base alla legge provinciale numero 18 del 1976, modificata recentemente
con la legge 19 del 2009.
Sono state presentate due diverse domande relative alla possibilità di costruire due distinti impianti di pompaggio dell’acqua dal lago di Garda
con stoccaggio della risorsa in serbatoi da realizzarsi in sotterraneo sul Monte Altissimo, da
realizzarsi a circa un centinaio di metri al di sotto del piano campagna. Il progetto proposto dalla società Eisackwerk srl di Bolzano prevede il
prelievo della portata di 46 m3/s, la costruzione
di un serbatoio di 1 milione di m3 con una po-
Sono «prevalenti gli interessi generali a carattere ambientale socio-economico e
del paesaggio»
tenza di turbinamento fino a 940 MW. Il progetto proposto invece dalla società Progetto Altissimo srl di Trento prevede il prelievo dal lago della
portata di 74 m3/s, la costruzione di un serbatoio di 1,6 milione di m3 con una potenza di turbinamento fino a 1440 MW. Per entrambi i progetti è prevista una centrale da realizzarsi in sotterraneo con accesso mediante gallerie di imbocco dalla statale gardesana.
Il terzo progetto della società So.GEAT srl di
Trento prevede invece la realizzazione di una diga sul torrente Maso in località Pian delle Madonne utile per raccogliere 3,7 milioni di m3 e il
successivo pompaggio al superiore serbatoio di
Costabrunella attraverso una galleria di circa 7
km. La capacità produttiva di questo impianto,
con pompaggio di 46,8 m3/s, è prevista in 900
MW.
La quarta domanda, invece, presentata dagli
ingg. Betti e Vialli di Trento si riferisce ad un impianto, di più modeste dimensioni, che prevede il
sollevamento delle acque dal fiume Adige con
portata di 6,3 m3/s con successivo accumulo in
un piccolo invaso di circa 270000 m3 da realizzarsi sul comune di Terlago, in località Faeda, a
monte dei laghi di Lamar.
Tutti questi impianti prevedono l’allacciamento
ad esistenti tratti dorsali di elettrodotti della rete
elettrica nazionale gestita da Terna.
La Giunta, grazie alle proprie competenti strutture, ha voluto approfondire le tematiche che riguardano gli effetti che queste grandi infrastrutture avrebbero sul territorio provinciale in relazione al quadro programmatico, ambientale, economico e agli aspetti istituzionali.
Gli strumenti della programmazione Europea in
materia di energia e di reti di trasporto prevedono la rimozione dei potenziali ostacoli regolatori
e puntano a creare un unico sistema elettrico,
più efficiente di quello attuale, eliminando utilmente i gap dei sistemi elettrici nazionali che
non consentono il libero scambio dei quantitativi
orari dell’energia giornalmente prodotta.
La politica energetica nazionale in questo mo-
Vita associativa
mento sembra avvantaggiare questi tipi di impianti che sono basati sul gap dei sistemi nazionali, correlato alla scarsa possibilità di scambio
delle quantità di energia richiesta diurna e di
quella offerta notturna, creando sovrapprezzi
ma in prospettiva dovrebbe adeguarsi ai più efficienti scenari europei. Questo fatto non consente il mantenimento nel tempo degli attuali vantaggi.
L’entità dei progetti proposti e gli impatti ambientali che i medesimi produrranno
sull’ambiente e il territorio che essi interessano,
sono tali - così si legge nelle delibere oggi approvate - che le loro realizzazioni non appaiono il linea con le scelte che la Provincia autonoma di
Trento ha effettuato in tema di sostenibilità del
proprio sviluppo, anche con riguardo alle esigenze di tutela dei SIC e delle zone a protezione
speciale interessate dagli impianti.
La paventata costruzione degli elettrodotti richiesti a servizio di questi impianti non è stata
dunque ritenuta compatibile con i vincoli urbanistici che questi implicano sul territorio, considerando anche il loro importante sviluppo in linea
che tocca aree distanti.
Nel caso del torrente Maso, l’interesse a realizzare una nuova diga, destinata anche alla laminazione delle piene, è stato ritenuto secondario
rispetto ai rischi che vengono a crearsi per i territori a valle in termini di pericolo idraulico. Nella
valutazione riferita all’impianto sul torrente Maso, al quale era associata la costruzione di una
grande diga, sono stati considerati i conseguenti rischi antropici, nella fattispecie quello idrauli-
Sentieri Urbani
co, che verrebbero a crearsi sui territori a valle
della medesima.
Per quanto riguarda gli impianti sul lago di Garda sussistono esigenze legate anche a preservare l’ecosistema delle acque del lago e
l’importante ruolo di naturalità ed integrità nonché di immagine associato al territorio del lago.
La Giunta ha ritenuto opportuno inoltre dare attuazione all’ordine del giorno del Consiglio Provinciale che impegnava ad evitare che in Trentino fossero costruiti serbatoi artificiali con mere
funzioni di sfruttamento energetico, in contrasto
con il rispetto del patrimonio ambientale e naturalistico ambientale. Nel caso dei progetti riferiti
alle derivazioni dal lago di Garda, la Giunta ha tenuto conto delle espressioni dei consigli comunali interessati.
Sulla base di questi motivi connessi alle esigenze
della tutela ambientale e considerato che gli
strumenti della pianificazione provinciale
(PGUAP, PUP, PSP, Piano di tutela delle acque,
Piano energetico ambientale) - di cui la Provincia
si è dotata negli ultimi anni - non auspicano la
presenza di questi impianti di riqualificazione di
energia come elemento caratterizzante
l’indirizzo strategico pianificatorio del Trentino,
escludendo dunque la creazione di una sorta di
piattaforma infrastrutturale così rilevante sotto
il profilo energetico, la Giunta ha ritenuto che
sussistano prevalenti interessi generali a carattere ambientale socio-economico e del paesaggio. Di qui il "no" all'ammissibilità alla successiva
fase istruttoria per le quattro domande di derivazioni per pompaggio d'acqua.
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Sentieri Urbani
Vita associativa
Le attività culturale dell’Inu/Trentino
Incontri dell’estate 2010
a cura di Giovanna Ulrici
Uno degli scopi statutari di INU è rappresentato dalla diffusione
della cultura urbanistica e dalla attività di aggiornamento della
disciplina. INU Sezione Trentino ha recentemente promosso due
aggiornamenti dedicati ad argomenti che si ritengono cruciali
ma non sufficientemente presenti nel dibattito di settore, dei
quali si riferisce brevemente di seguito.
Venerdì 28 maggio 2010
Sala affreschi biblioteca centrale comunale di Trento
VALUTAZIONE AMBIENTALE STRATEGICA. FATTORI DI CRITICITA’ NELLA PIANIFICAZIONE A SCALA COMUNALE.
Relatori: prof. Davide Geneletti e
dott.ssa Chiara Bragagnolo, Università
degli Studi di Trento; Arch. Angiola Turella, Responsabile Ufficio pianificazione
urbanistica, Provincia Autonoma di Trento.
INU ha scelto di presidiare il tema ambientale nella pianificazione con una iniziativa di approfondimento, a pochi mesi
dalla pubblicazione delle “Linee guida per
l'autovalutazione degli strumenti di pianificazione territoriale” (in vigore dal 7
marzo 2010) da parte della Provincia
Autonoma di Trento sulla redazione della
Valutazione Ambientale Strategica (VAS)
e quindi in concomitanza con l’avvio delle
prime esperienze applicative di una procedura complessa che troverà – ci si augura – piena integrazione nella pianificazione delle Comunità di Valle.
La VAS, introdotta dalla direttiva
2001/42/CE, ha l’obiettivo di promuovere un nuovo modello di pianificazione
territoriale orientato alla sostenibilità: si
basa sul principio di prevenzione, e quindi sulla considerazione di possibili impatti, ambientali – sociali – economici, nei
processi decisionali di trasformazione
del territorio: in questo senso rientra in
ogni fase della formazione degli strumenti urbanistici e ne permea la definizione
di strategie e priorità.
Partecipare alla diffusione della cultura
della valutazione ambientale strategica in
campo urbanistico, superando approcci
settoriali che tradizionalmente vedono
chi si occupa di pianificazione dominare
a fatica campi ritenuti specialistici o vincolistici, significa credere nelle potenzialità date da una lettura valutativa/
strategica degli indicatori territoriali,
quando saranno diffusi e di facile accesso.
Approfondire con questo punto di vista il
tema delle risorse al miglioramento del
governo del territorio date dal nuovo assetto urbanistico e amministrativo provinciale significa volere allontanare lo
spettro di approcci valutativi formali e di
fatto ex post rispetto alle fasi cruciali di
scelte pianificatorie, e tutti i rischi di
semplificazione in materia ambientale.
Nel processo di VAS vi sono elementi
strutturali, ineludibili, che non possono
che vivificare l’iter di formazione dei piani: nuove forme strutturate di condivisione delle decisioni e di partecipazione, imprescindibili per la Valutazione strategica, sono riportate dalla legge provinciale
all’interno del processo di piano (accordipiani di programma). Anche
l’articolazione in cui si struttura la procedura di VAS, che prevede una prima fase di previsione degli effetti ambientali
ed economici, anche cumulativi, , e una
seconda fase di presidio degli impatti
mediante monitoraggio potrà rafforzare
ed armonizzarsi con la nuova struttura
degli strumenti urbanistici che riporta
all’interno della pianificazione un approccio per livelli strutturali (PDC) e operativi
(PRG).
L’introduzione della Vas comporterà un
ripensamento del processo di pianificazione, verso un modello meno disegnato
e più strategico; meno statico nel tempo
e più integrato con le scelte vere, che di
solito passano mediante varianti – urgenti - ai piani.
Nell’incontro si è cercato di declinare il
tema della valutazione strategica applicata alla pianificazione su di un particolare
ambito dimensionale, la scala comunale
che, in attesa della messa a regime della pianificazione di comunità, risulta la
scala più consueta nella pratica urbanistica. Scopo della comunicazione del
prof. Geneletti e della dott.ssa Bragagnolo, la dimostrazione che il processo
di VAS è un processo di supporto alle
decisioni, e in quanto tale sintetico, finalizzato alla gestione dei conflitti, svincolato da approcci meramente analitici e –
grazie all’uso di indicatori efficaci – continuo. L’arch. Turella ha ricondotto a centralità il principio della sostenibilità sotteso alla VAS, evidenziandone le componenti sociali ed economiche a fianco di
quelle ambientali.
Declinare la VAS alla scala comunale
può significare affrontare le potenzialità
L’intervista
urbanistiche di un approccio strategico
nella valutazione di diversi scenari di sviluppo, per esempio in rapporto alla localizzazione dei servizi, alla loro accessibilità, in rapporto all’esposizione ad inquinanti, all’occupazione di suolo, ecc.
Declinare alla scala comunale può chiarire meglio le modalità di applicazione locale della VAS in questa fase intermedia
che attende la pianificazione di comunità, o superare i problemi dei limiti amministrativi che non sono i limiti di influenza
degli effetti ambientali, o chiarimenti in
merito ai contenuti delle valutazioni
strategiche e delle rendicontazioni: proprio la VAS potrà evidenziare il limite della scala comunale per molte scelte e la
spinta ad una selezione degli ambiti sui
quali attivare una cooperazione territoriale a scala maggiore (di comunità, si
spera).
Risulta in questo quadro quasi ovvio richiamare l’ urgenza delle questioni ambientali dibattute quotidianamente sulla
stampa locale, tra inquinamenti potenziali, reali e percepiti, in una comunità
che riconosce all’ambiente un alto valore
identitario.
È stato infine ricordato come il tema della VAS apra ad una questione ben più
complessa ed estesa, quella che riguarda il difficile rapporto tra pianificazione
urbanistica ed ambientale di settore: risulta sempre più difficile cercare o rivendicare un primato della pianificazione urbanistica sull’ambiente e sulla gestione
della sicurezza territoriale, che della pianificazione urbanistica spesso “se ne fa
un baffo”. A titolo esemplificativo basta
richiamare il tema nazionale della sicurezza del territorio (sismica o idrogeologica), che assume sempre maggior preminenza mettendo spesso in crisi
l’urbanistica: carte del pericolo troppo
spesso offrono scenari in cui le scelte
urbanistiche mostrano i loro limiti di conoscenza, per esempio dei fenomeni idrogeologici o sismici. Il problema è
quindi ben più delicato della semplice tutela e autorevolezza della disciplina urbanistica, ma è un problema che ha a che
fare con gli effetti pesanti sia in termini
di livelli di rischio di cui le amministrazioni devono caricarsi, sia in termini di costi economici e sociali per la messa in sicurezza o il presidio del territorio generati da una miope pianificazione.
Sentieri Urbani
Martedì 8 giugno 2010
Sala affreschi biblioteca centrale comunale di Trento
LE VICENDE DELLA PIANIFICAZIONE A
TRENTO E A BOLZANO, DAL SECONDO
DOPOGUERRA AD OGGI.
Relatori: prof. Bruno Zanon, Università
degli Studi di Trento; Urb. Peter Morello, INU sezione Alto Adige, Moderatore:
arch. Roberto Bortolotti, Commissione
urbanistica dell’Ordine degli Architetti di
Trento. Interventi di: arch. Luisella Codolo, Dirigente Servizio Ambiente, Comune
di Trento e arch. Giuliano Stelzer, Dirigente Servizio Urbanistica, Comune di
Trento.
L’incontro, dal titolo e dal soggetto certamente impegnativo, trae origine dalla
presentazione di un testo di grande utilità per chi voglia riflettere e informarsi
sulle vicende della pianificazione italiana:
Il nuovo manuale di Urbanistica. Lo stato
della pianificazione urbana. 20 città a
confronto, a cura di E.Piroddi e
A.Cappuccitti, Roma, Gruppo Mancosu
Editore, 2009. Le città di Trento e di
Bolzano trovano spazio nel saggio, e ne
vengono ripercorse le vicende urbanistiche dagli stessi autori, rispettivamente il
prof. Bruno Zanon e il dott. Peter Morello.
Entrambe le città portano impresse nella
loro forma le scelte operate dalla pianificazione degli anni ’60, nei Piani di Piccinato (Bolzano) e di Marconi (Trento):
piani che disegnano le città con grande
sapere tecnico, dopo frettolose ricostruzioni postbelliche e in piena emergenza
demografica, prefigurando scenari di
crescita sovradimensionati.
Per Trento la forma prefigurata per la
città di oggi è frutto di una sedimentazione di scelte riferite a modelli di città in
cui permane come invariante la percezione di una separatezza tra
l’urbanizzato e il territorio altro, tra il
dentro ed il fuori , separatezza leggibile
nei grandi Piani di Marconi degli anni
’60 e di Vittorini negli anni ’80.
Il primo di questi piani si forma in stretto
rapporto con il primo Piano Urbanistico
Provinciale, del prof. Samonà, e deve
confrontarsi con la presenza di una infrastruttura ingombrante quale è
l’Autostrada del Brennero. Anche il Piano di Vittorini pone grande attenzione al
sistema viario e alla costruzione di luoghi
di identità, le aree centrali, nelle nuove
aree urbanizzate, la cui riuscita però
spesso verrà compromessa dalla mancanza di un progetto identitario condiviso.
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Con il Piano Urbanistico di struttura generale del 2001 si introduce, anticipando la legge urbanistica, una declinazione
del Piano su due livelli, strutturale ed operativo, in cui inserire quindi la costruzione di uno scenario di invarianti poi sviluppato nelle “visioni” (proposte di progettazione urbanistica di brani di città) di
Busquets. Come ha osservato l’arch.
Stelzer, intervenuto al dibattito, in una
fase in cui il Piano sembra divenire luogo
per economisti e per legislatori, si torna
sorprendentemente ad un piano che esalta la forma ed il disegno dei luoghi e
dell’insieme urbano. Con tutti i limiti dati
dalla rappresentazione a volte troppo
scenografica o visionaria, il piano Busquets ha affrontato il bisogno di una
forma di città unitaria, unità al presente
persa in un rivolo di spunti frammentari
e settoriali offerti per affrontare il futuro
delle trasformazioni e della crescita urbana.
Il presente inoltre, se così raffrontato ad
un passato anche recente, dimostra tutta la fatica di una complessa strumentazione urbanistica affaticata da una difficile convivenza con piani e norme di settore e con accumuli di Varianti di sempre
più difficile gestione.
L’esperienza di Bolzano testimonia di una storia urbanistica fatta di Piani regolatori congegnati come forti progetti di
società: per dimostrare questa tesi Mo-
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Sentieri Urbani
rello riprende la vicenda della pianificazione del capoluogo altoatesino dalla metà dell’Ottocento. Riprendere i fili della
crescita urbana ottocentesca permette
di impossessarsi della presente struttura della città, le infrastrutture ferroviari
definiscono le forme della città fuori dal
centro storico. La prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale e la distruzione che segue sono
tappe della storia della città che cresce
con i Piani di Piacentini prima e di Piccinato poi. Negli anni Novanta il Piano di
Vittorini, riprendendo alcuni temi dei
precedenti piani, si dedica alla costruzione della centralità nelle nuove aree urbanizzate con una particolare attenzione
al paesaggio (studiato alla stessa scala
dello zooning) e all’uso del verde come
materiale di struttura per il disegno della
città. La storia della pianificazione di Bolzano necessita di sottolineare la cura nel
declinare in ogni fase storica il tema della casa, sia nella attenzione al risparmio
di suolo, sia nelle politiche per la casa e
l’edilizia agevolata. La pianificazione del
capoluogo altoatesino è oggi ricca di forti potenzialità date dallo strumento che
la città ha scelto anticipando o andando
Vita associativa
oltre quanto la normativa prevedesse. Il
Masterplan del 2009 di Bolzano porta a
sistema un forte disegno di città, elaborato dietro a un preciso mandato politico
e alla forza persuasiva e coordinatrice di
Silvano Bassetti. E’ uno strumento di
struttura e di linee di sviluppo, che cercherà attuazione negli anni futuri. In
questa sede ha avuto importanza sottolineare la convergenza, cercata nel Masterplan, tra i tanti Piani di settore
(piano energetico, piano della mobilità,
piano del verde, ecc.) prodromici alla redazione del piano stesso, e il disegno
complessivo e la sintesi da questo compiuti.
Leggere la cronologia della strumentazione urbanistica permette anche – come ha osservato l’arch. Codolo presente
al dibattito - di annotare l’avvio ed il con-
solidamento di una componente essenziale nello sviluppo del governo del territorio e nella concretizzazione delle previsioni di piano: lo strutturarsi di un forte
ufficio di Piano all’interno della Amministrazione comunale capace di continuità
gestionale ed attuazione delle previsioni
di Piano.
La storia evidenzia anche il ruolo degli
autori dei Piani come personalità capaci
di dominare non solo la disciplina urbanistica ma di orientare la politica di gestione del Piano: se è cambiata la pianificazione è anche cambiato il contesto socio
-politico, sono aumentate le difficoltà di
dialogo e l’approccio estemporaneo e
frammentato ai temi del disegno della
città.
Per l’organizzazione di questo incontro, INU sezione Trentino ha cercato e trovato
ospitalità in Casacittà, grazie ad una collaborazione positiva con l’Ordine degli Architetti PPC della provincia di Trento, nella convinzione che un ragionamento collettivo sulla storia della pianificazione della città non possa che accrescere i risultati della riflessione sul presente e sul futuro della città stessa, soprattutto se
condotto all’interno delle istituzioni. Con questo incontro si è inoltre voluto rafforzare il clima di scambio e collaborazione con la sezione Alto Adige di INU,
anch’essa da poco rinnovata nel Direttivo, come mezzo per una maggiore conoscenza e comparazione con la realtà bolzanina.
Recensione in forma di lettera
di Luigi Casanova (Vicepresidente di CIPRA Italia)
Cari amici delle montagne,
vi invio un invito alla lettura.
È appena uscito il libro curato da Marcella Morandini e Sergio Reolon, “Alpi
regione d'Europa. da area geografica a
sistema politico”.
Marcella Morandini è stata funzionaria
di CIPRA, direttrice dell'Ecoistituto di
Bolzano ed oggi è funzionaria del Segretariato della Convenzione delle Alpi.
Sergio Reolon, oggi consigliere regionale del Veneto, è stato presidente
della Provincia di Belluno, probabilmente poco capito da certo ambientalismo
ideologico.
Cosa ci dice questo sintetico e stimolante libro? Che la regione alpina non
può più essere letta come un insieme
ambientale, una nicchia ecologica, ma
che se vuole un futuro deve costruire
una sua politica, deve ottenere autonomia, una autonomia completa come
quella vissuta nelle due province di
Trento e Bolzano (che sapete io critico
in molti aspetti, ma così riesco ad
averla sotto controllo). Per ricostruire
una identità vera e non il folclore, per
mantenere attivi servizi, per richiamare intelligenze e lavoro, perché le Alpi
ritornino ad essere luogo di vita e ritornino vissute e specialmente conosciute.
Il libro non serve soltanto a noi dolomitici per crescere, ma i tanti spunti
presenti saranno utili a tutta la montagna italiana, alle Prealpi come agli
Appennini. Usciamo dal servilismo e
dall'inchino rivolto ai cittadini delle
grandi metropoli e costruiamo, noi
popoli delle montagne, la nostra autonomia. Che non si chiama banalmente
federalismo, è molto, molto di più. Non
si chiama la interessata carità delle
province di Trento e Bolzano rivolte ad
Asiago e Belluno perché stiano zitti
con progetti che distruggono l'ambiente (vedi Marcesina o tappa del giro
d'Italia a Falcade). Ma una parola strategica: responsabilità.
Per questi motivi l'ambientalismo deve
fare politica, mai ideologica, sempre e
con maggiore convinzione investire per
ritrovare il nostro essere, il nostro
valore di abitanti delle montagne.
Marcella Morandini
e Sergio Reolon (a
cura di), “Alpi
regione d'Europa.
Da area geografica
a sistema politico”,
Editore Marsilio,
collana “Ricerche”,
110 pagine, brossura, 14 euro
Vita associativa
Sentieri Urbani
La differenza da… fare!
di Paola Ischia (Commissione Nazionale Ambiente, Energia, Clima, Consumo di Suolo)
S
empre più nettamente si sta delineando a
livello internazionale, la crescente presa
di coscienza sulla progettazione dello
spazio urbano come campo d’azione delle politiche di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti climatici, di sostenibilità del progetto e
dell’azione programmatica di governo del territorio. Tra le grandi capitali, Londra da tempo
articola una convergenza di strategie nel
“Thames Gateway”, il programma di sviluppo e
riqualificazione della parte orientale, comprensivo degli interventi per l’evento delle Olimpiadi
2012, nell’ottica della low carbon economy, con
grande attenzione al verde ed al paesaggio
(“parklands landscape”), nell’affrontare le prevedibili problematiche di inondazione. L’ex amministrazione di Ken Livingstone ha attivato interazioni pubblico-private agendo su: trasformazione
urbana, mobilità pubblica, riqualificazione di aree
dismesse. Il Design Museum ha recentemente
ospitato la mostra “Sustainable futures* - (*can
design make a difference?)”, suddivisa in cinque
sezioni: città, energia ed economia, cibo, materiali, creatività degli abitanti. Sono stati esposti
prodotti, concept, progetti, invitando ad
un’interazione e scambio di proposte e conoscenze. Dalla città carbon free di Curitiba in
Brasile, a Masdar negli Emirati Arabi Uniti,
dall’Eco-Boulevard de Vallecas a Madrid, con le
strutture ad “albero d’aria” predisposte in attesa
di una complessiva rigenerazione, al quartiere di
Friburgo, dal Californian Academy of Science
certificato LEED Platinum, al Sahara Forest
project o alla Solar Updraft Tower in Germania,
casi emblematici di sistemi passivi capaci di
effetti straordinari e privi di pericoli o costi sociali. A ciò è stata affiancata la presentazione di
battelli, autovetture, macchinari autoalimentati
da fotovoltaico, abiti in fibre naturali o riciclate e
piante attivamente impiegate nel purificare l’aria
di interni. Accanto allo “straordinario” in esposizione, è significativa la raffinata, costante tensione alla civitas, all’elegante silenziosa offerta di
nuova fruizione urbana che si respira nella metropoli: l’invito suscitato da rastrelliere con cicli
a noleggio e l’organizzazione di maratone ciclistiche con chiusura al traffico di vaste aree urbane, l’accompagnamento attraverso punti informativi a supporto della fruizione pedonale, la
creazione di “passeggi” in aree da rivitalizzare, la
comparsa di improvvise isole verdi microclima-
tizzate da getti d’acqua sotto porticati vegetali
ombrosi, la predisposizione di spazi collettivi che
integrano le tradizionali biblioteche con luoghi di
aggregazione e formazione civica, intrecciati allo
shopping, in luoghi destrutturati, la diffusa distribuzione di suppellettili in cellulosa per il pasto da
consumare in luoghi che certificano l’assenza di
conservanti negli alimenti, a fine giornata distribuiti in opere caritatevoli se non totalmente
esauriti. Il progetto che fa la differenza deve
certo essere declinato secondo fasi o livelli che
l’attuale crisi economica comporta ma non può
aspettare: il tempo è elemento determinate, i
risultati e gli effetti resi visibili intrecciano ed
innescano processi virtuosi. La prestigiosa A.A.,
Architectural Association School, ha promosso
un evento collaterale alla Biennale di Architettura di Venezia, titolato “Beyond entropy: when
energy becomes form”, analizzando il rapporto
fra arte, architettura e scienza “… nell’individuare un nuovo paradigma per il concetto di
energia”. “Politiche energetiche e sviluppo sostenibile nei sistemi territoriali” è il titolo del Convegno organizzato dal Ministero dell’Ambiente e
Tutela del Territorio e del Mare che aprirà la VII
edizione di “UrbanPromo, città, trasformazioni,
investimenti”, dal 27 al 30 ottobre 2010 a
Venezia, quest’anno ospitato nella prestigiosa
sede della Fondazione Giorgio Cini, nell’Isola di
San Giorgio Maggiore, in occasione del quale
avverrà la premiazione della terza edizione del
Premio SEE Sustainable Energy for Europe,
promosso dalla Commissione Europea in collaborazione con INU.
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Sentieri Urbani
Vita associativa
Biblioteca dell’urbanista
Ernesto N. Rogers
Editoriali di Architettura
Leonardo Ciacci (et al.)
Giovanni Astengo. Urbanista Militante
Darko Pandakovic, Angelo Dal Sasso
Saper vedere il paesaggio
Zandonai editore, Rovereto, 2009
(1^ edizione)
Marsilio, Venezia, 2009
(1^ edizione)
Città studi, Novara, 2009
(1^ edizione)
«Architettura è, concettualmente, sinonimo di vita, e non solo di quella che sperimentiamo in noi, ma di quella che testimonia il nostro assaggio tra i vivi presenti per i vivi futuri: realizzare
un’architettura è “presentificare” il passato e “infuturare” il presente. Chi non
intende questi princìpi fondamentali è inutile che faccia l’architetto o insegni ad
altri a diventarlo».
Critici e polemici, i testi di Rogers raccolti in questo volume, pubblicato per la
prima volta nel 1968, toccano temi di
sorprendente attualità. La cultura architettonica in Italia e all’estero, di cui Rogers fornisce una lucida interpretazione,
la denuncia della speculazione edilizia, la
necessità del rinnovamento generazionale, i problemi che affliggono l’Università
italiana, il valore della democrazia e il
ruolo attivo dell’architettura nella costruzione della società futura sono solo alcune delle problematiche affrontate da Rogers, che spesso travalicano i confini
strettamente disciplinari.
Un ideale comune percorre tutti questi
testi appassionati e appassionanti: la fede nel valore civile dell’architettura.
Ernesto Nathan Rogers (1909-1969) è
stato tra le figure più significative della
cultura architettonica italiana del Novecento.
Un film in DVD e un libro, per avere testimonianza visiva dell'azione e della personalità di una delle figure più emblematiche della costruzione dell'Italia contemporanea: Giovanni Astengo, architetto
urbanista, che negli anni più intensi della
ricostruzione del dopoguerra e dello sviluppo dell'Italia industriale, ha dato più di
altri il segno della necessità e dell'azione
della pianificazione urbana e territoriale.
Maestro tra i più autorevoli, Astengo
non ha tuttavia lasciato dietro di sé un
suo libro, un testo che nell'università e
tra i nuovi studenti, ne tenesse viva la
memoria. Quattordici interviste filmate
originali rilasciate dal suoi più stretti collaboratori con cui Astengo ha condiviso
battaglie professionali politiche e culturali e da alcuni dei suoi allievi, hanno fornito il materiale necessario al montaggio
di questo film, a cui sono state unite sequenze di documenti televisivi originali
che di Astengo conservano l'immagine e
la voce e ne restituiscono una figura sorprendente. Ricomposte in un film di 80
minuti circa, le testimonianze che raccontano questo personaggio appaiono ora come un convincente strumento d'interpretazione, capace di raccontare
un'avventura professionale e scientifica
ricollocata nel clima culturale e politico
del suo tempo.
Il paesaggio è parte della nostra esperienza quotidiana e noi siamo parte di
esso. Dall'infanzia alla vecchiaia lo percepiamo quotidianamente: in esso si intrecciano le nostre relazioni e i nostri destini, ma spesso non siamo in grado di
leggerlo ed interpretarlo. Gli "addetti ai
lavori", data la sua complessità, lo affrontano con strumenti prevalentemente
settoriali. Questo libro, il cui titolo parafrasa i due celebri testi di Bruno Zevi
"Saper vedere l'Architettura" (1948) e
"Saper vedere l'Urbanistica" (1961),
tratta in termini accessibili il tema del
paesaggio, articolato in elementi costitutivi, utilizzando diverse categorie di lettura e il contributo di differenti approcci disciplinari, privilegiando sempre la dimensione percettiva, morfologica, spaziale e
architettonica. Vengono prese in considerazione le complesse relazioni tra uomo e ambiente terrestre: gli aspetti psicologici dell'esperienza del paesaggio, i
presupposti filosofici, i contenuti storici, i
valori artistici, la ricchezza espressiva
della natura, i diversi livelli di analisi, pianificazione, progetto e gestione. Si tratta
di un manuale rivolto agli studenti di architettura e pianificazione, ma anche a
pubblici amministratori e a quanti hanno
a cuore i destini del Bel Paese che è stata l'Italia.