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D editoriale: IL PREZZO DELLA
DENUNCIA.
D politica:
LA CA-
DUTA DELLE STATUE E LA NUDITÀ1 DEL TEMPIO. D associazione: « LA STORIA NON
MORI-
RÀ', LA CONDUCE DIO ». D cultura: QUEL « NUOVO
PENSARE »
MODO
DI
DEL PERSONALISMO
COMUNITARIO. D recensione: LA
TRAGEDIA DI NARCISO. D fede:
CARISMA
CHI ESA.
trentino.
4
E OBBEDIENZA ALLA
D
taccuino
D lettere al
1982
culturale
Margine.
IL
MARGINE
Il Margine n. 4 - anno II
aprile 1982
mensile dell'associazione culturale
Oscar A. Remerò
Direttore: PAOLO GHEZZI
Condirettore: MICHELE NICOLETTI
Redazione: LUCIANO AZZOLINI (dir.
resp. a norma di legge) - DANIELA
GIULIANI (segreteria) - PAOLO
GIUNTELLA • ROBERTO LAMBEUTINI - FABRIZIO MATTEVI - VINCENZO
PASSERINI - MARIA TERESA FONTARA - MARIANO PRETTI • SILVANO
ZUCAL
Una copia, L. 1.000 - un arretrato,
L. 2.000 - abbonamento annuo,
L. 10.000 - abbonamento sostenitore, da L. 20.000 in su - prezzi
per l'estero: una copia, L. 2.000
abbonamento annuo, L. 20.000.
I versamenti vanno effettuati sul
c.c.p. n. 14/9339 intestato a « II
Margine », Trenta.
Autorizzazione Tribunale di Trento
n. 326 del 10.1.1981.
Redazione e amministrazione:
« II Margine », via Suffragio 39,
38100 Trento.
II prezzo della denuncia
p.
3
La caduta delle statue
e la nudità del tempio
p.
5
« La storia non morirà,
la conduce Dio»
p. 11
Il prezzo della denuncia
di MICHELE DOSSI
Quel « nuovo modo di pensare »
del personalismo comunitario
p. 16
La tragedia di Narciso
p. 21
Carisma e obbedienza
alla Chiesa
p. 27
Taccuino culturale trentino
p. 32
Riflessioni sul Comitato trentino
della pace
p. 34
PRIMA DI LEGGERE QUESTO NUMERO
II livello degli abbonamenti, lentamente, sale. Purtroppo non c'è da temere una vera
e propria alluvione, ma a quota 500 siamo arrivati, ed è la riconferma che attendevamo. C'è stato un notevole ricambio tra gli abbonati, il che significa che a
qualcuno la nostra rivista non è piaciuta, e che altri, al contrario, l'hanno « scoperta » e apprezzata. Probabilmente, abbiamo perso per strada i lettori iperpoliticizzatì, i cinici e gli ipercritici. Forse, abbiamo trovato altri lettori che, come noi,
sperano ancora che il mondo si possa cambiare, e aspettano solo l'occasione storica per provarci.
Andiamo in macchina mentre sta per scadere l'ultimatum della Gran Bretogna
all'Argentina: al di là di come vada a finire, mette addosso una grande tristezza
vedere i ragazzi delle truppe d'assalto inglesi salire ridendo sul loro transatlantico,
allegri ed entusiasti come andassero in crociera... Ma già, noi di strategia Intornozinnali non capiamo un bel nulla...
« II Margine » è in vendita a Trento presso: « Disertori », via s, Viglilo; « Poollno »,
via Belenzani; « Artigianelli », corso 3 Novembre. A Rovereto presso l'edicola
« Kiniger ».
Il n. 4/1982 è stato chiuso in tipografia il 3 maggio 1982.
La politica internazionale entra ormai nelle case di tutti. Anche alla gente semplice, ai non esperti, capita di discutere delle questioni
che, con tanta frequenza, movimentano il panorama mondiale. Ognuno
avverte all'orizzonte nuvole scure: è diffuso il senso di gravi e ricorrenti minacce a quello che si usa chiamare l'« ordine internazionale ».
Quindici anni fa. Paolo VI, osservando la storia dell'umanità del nostro secolo, percepiva « il dinamismo di mi mondo che vuole vivere
più fraternamente, e che, malgrado le sue ignoranze, i suoi errori,
e anche i suoi peccati, le sue ricadute nella barbarie e le lunghe divagazioni fuori della via della salvezza, si avvicina lentamente, anche senza rendersene conto, al suo Creatore » (Populorum progressio,
79). Quanto è difficile, oggi, fare propria quella certezza del Pontefice!
Quanto più attuale sembra, al suo confronto, l'oscuro avvertimento
di Brecht, dopo la vittoria sul mostro nazista: « I popoli lo spensero,
ma ora non cantiamo vittoria troppo presto: il grembo da cui nacque è ancora fecondo ».
Di fronte a tanto pericolo, s'impone ogni sforzo per il manteninien^
to della pace. La pace come bene supremo. Oggi tutti lo dicono.
Ma se andiamo a vedere appena più attentamente come stanno le
cose, scopriamo una realtà inquietante: la pace di cui parliamo, come pace da mantenere, da salvaguardare, è una pace parziale ed
iniqua. Scopriamo che parlare di pace non è proprio, per noi, paesi.
sviluppati, un discorso « pacifico ». Se vogliamo affermare una pace
autentica, se vogliamo denunciare violenze ed ingiustizie, i primi ad
essere colpiti da queste denunce siamo noi. I conti li può fare ognuno, perché si conoscono: il Nord ricco ha un quarto della popolazione mondiale e quattro quinti del reddito mondiale; il Sud ha tre
miliardi di abitanti, pari a tre quarti della popolazione del mondo,
e dispone di un quinto del reddito mondiale. Una conclusione: cinquanta milioni di morti all'anno per inedia o mancata assistenza!
All'ultimo Convegno giovanile della Cittadella sul tema della pace,
Enrico Chiavacci, moralista, non esitava a dire: « Siamo di fronte
ed una situazione di tragedia, una tragedia di cui sono convinto che
la maggior parte dei buoni cristiani e non cristiani amanti della
pace non si rendono conto ». Altro che pace da difendere! « Questa
in atto è una vera guerra. E' mancanza di pace talmente profonda,
talmente radicale che produce gli stessi effetti di una guerra fatta
con le armi. Pensiamo che sono 15-20 anni che si cerca di fare conferenze tra i paesi del Nord e del Sud e tutte falliscono, e nel frattempo, mettiamo in venti anni, con cinquanta milioni di morti all'anno, siamo arrivati ad un miliardo di morti. Capito? I morti uccisi indirettamente dalle nostre scelte economiche e politiche ».
Oggi tutto questo ci sta davanti agli ocelli. Si può dire che i ricchi
consumano, sulla miseria dei più, un lussuoso banchetto. Ricchi
« umanitari », è vero, che le briciole, a chi bussa alle loro porte,
non le hanno mai negate. Salvo poi rapinare silenziosamente con
una mano quello che, con tanta pompa, hanno concesso con l'altra.
Certo, le complessità dei problemi politici ed economici mondiali
ci confondono. Ma le evidenze non si possono tacere.
Anzitutto l'evidenza della nostra reale collocazione nel confronto popoli oppressi - popoli oppressori: noi, popoli dell'Occidente
cristiano, della grande tradizione umanistica, della difesa dei diritti
della persona, siamo senza dubbio dalla parte degli oppressori. Come ricordava Chiavacci, sono le nostre scelte politiche ed economiche che hanno generato e che, ora, mantengono e rafforzano « una
condizione di assoluto disprezzo della giustizia di Dio nell'ambito
globale della famiglia umana ».
Allora dobbiamo svestire i panni dei giudici. Quanti problemi di coscienza ci siamo fatti: con il Salvador o con la Polonia? Con la Cambogia o con il Guatemala? In realtà Salvador e Polonia, Cambogia e
Guatemala e tutti i poveri e dannati della terra, stanno lì a giudicarci. Se siamo dalla parte degli oppressori, la nostra cultura, i nostri appelli, le nostre parole appaiono radicalmente indegni alla denuncia. II benessere, a clù ce l'ha, permette tutto. Ma porta anche
ad una strettoia che non lascia più spazio ad una denuncia di semplici parole. O il silenzio, o la testimonianza!
La testimonianza di una più grande libertà di fronte al nostro modello di vita, ai nostri beni, ai nostri consumi.
La testimonianza di una tensione morale più alta ed esigente, che
realizzi gesti concreti di rinuncia, di solidarietà e di accoglienza.
La testimonianza di un impegno politico vissuto come responsabilità
verso tutta l'umanità: perché anche la politica e l'economia alzino
lo sguardo, considerino la famiglia umana come un tutt'uno e tendano ad un autentico, integrale umanesimo.
Sono queste le condizioni che possono permetterci parole non ipocrite di denuncia. •
POLITICA
Sul palcoscenico e dietro le quinte dellajjoiìtìca
La caduta delle statue
e la nudità del tempio
di SILVANO ZUCAL
Debbo confessare che la lettura quotidiana dei giornali sta diventando per me un esercizio sempre più penoso. La tentazione di « passare oltre » e di chiudere in fretta il quotidiano scontro con la realtà
mi prende con forza quando giungo alle pagine politiche. La sensazione infatti è quella di una nausea sottile e di una tristezza accentuata. Qualcuno potrebbe insinuare che questo mi accade in virtù
dell'abbandono della militanza politica attiva. Non lo credo. La politica è per me troppo centrale perché ini possa permettere un sereno distacco e un approdo effettivo ad altri interessi, assunti in
maniera esclusiva. Sento che nel bene e nel male è lì che sì giocano
tanti destini e tante umane sofferenze.
Ma se guardo con rocchio più. disincantato possibile alle vicende
politiche italiane di questi mesi non posso non esprimere amarezza
e preoccupazione.
Credo comunque che non bisogna limitarsi a lasciare che fatti, episodi, « casi » possano abbagliarci ed alla fine deviarci nell'analisi.
Dobbiamo avere il coraggio morale e intellettuale di scandagliare e,
se possibile, dì illuminare il processo politico profondo, decisivo che
interessa il nostro Paese.
Ebbene penso che si possa identificare un elemento decisivo dell'attuale momento politico italiano cui facilmente collegare fatti e
avvenimenti che altrimenti rimangono casuali o meramente episodici.
La politica scarna e brulla
Per definire tale elemento uso immagini solo apparentemente liriche, che ridanno però allusivamente il senso del cambiamento politico nel nostro paese. Ebbene in Italia la politica in senso Iato (e
tutti i partiti vi sono inclusi) ha subito una scarnificazione del suo
senso originario ed una gelata impressionante della sua capacità
motivante. Da partiti, come quelli italiani, che trasudavano ideologioita, passionalità, riferimenti quasi sacrali e devoti, stiamo lentamente ma con sempre maggiore evidenza giungendo ad una politica
largamente secolare prima di un'anima motivante... E qui è il primo
elemento di crisi. Per certi aspetti questo ritorno dei partiti alla
secolarità, questa loro de-ideologizzazione, questo assumere come
aspetto cruciale della politica una razionalità costruttiva avevano
un valore positivo ed erano da tempo invocati nell'ambito di una
politica come quella italiana troppo carica di guerre di religione, di
contrasti meramente ideologici. Ma ogni caduta di statue implica
una nudità del tempio. Il problema è cosa faranno i nuovi adoratori.
Essi possono vivere senza tempio e senza statue, possono impazzire,
possono fuggire verso altri templi ed altre statue ed in essi rifugiarsi oppure possono desiderare la ricostruzione del tempo e delle
statue. Dietro il paradosso e la metafora sono altrettanti atteggiamenti emergenti nella politica italiana: tutti, a mio parere, o pericolosi o insufficienti.
Vivere senza tempio e senza statue
del potere (senza templi e senza statue) che nulla concede alle buone maniere e al rispetto razionale, laico delle istituzioni. Gli awersari interni sono liquidati (caso Bas&anini) senza pietà o cooptati
ministerialmente (caso Signorile). La delicatezza di talune scelte istituzionali, completamente disattesa (caso Federico Mancini) e la responsabile gestione degli enti economici di stato tranquillamente
ignorata in virtù di una spregiudicatezza senza pudore (caso ENI
-Di Donna). Quale progetto resta allora per il nuovo PSI? Nulla più
di una riforma istituzionale, con aspetti inquietanti, altri accettabilissimi, ma che è il semplice paravento di altri messaggi e di altri
obiettivi. Perfino don Baget Bozzo nel suo furioso amore per il nuovo PSI ha avuto nell'assemblea di Riniini un attimo di resipiscenza,
denunciando l'illusione kelseniana del PSI, l'illusione cioè che sia
puramente un nuovo assetto istituzionale, una riforma delle regole
del gioco, a generare il cambiamento nel paese. Il problema è che
il Psi non vuole affatto cambiare Io Stato e il Paese, ina più semplicemente « occuparlo ». La notissima espressione di Leopoldo Elia
su una certa fase del potere democristiano vale oggi perfettamente
per il Psi di Craxi: ciò che conta è l'occupazione del potere, il permeare di sé istituzioni e governo. Per il cambiamento, l'invenzione,
la progettualità, il governo in senso forte c'è tempo più avanti, dopo
aver vinto il duello per il potere.
*•
II Partito socialista di Bettino Craxi è quello che con più coerente
lucidità ha scelto di vivere senza tempio e senza statue. Le vecchie
statue sono al museo delle cere, i vecchi socialisti che masticavano
ancora un po' di marxismo ideologico e di socialismo etico (pensiamo ai Lombardi, ai De Martino, allo stesso Bobbio) sono stati
velocissimamente giubilati. Nella furia iconoclastica nulla è stato risparmiato. Neppure il simbolo del partito che non richiama più
falci e martelli, frutti e simboli di lotte e di occupazioni di terre e
di battaglie operaie e di canti internazionalisti, ma semplici e neutri
fiori di serra, i garofani. Ora la liturgia stessa dei congressi e dei convegni craxiani è affidata al design ed alle nuove architetture. Claudio
Martelli pensa poi ai mass-media, vera cinghia di trasmissione di un
partito che ormai vuoi essere soprattutto una forza d'opinione e di
consenso variegato, piuttosto che il vecchio partito di fedeli anticlericali e di sanguigni militanti.
In quest'area senza tempio e senza statue non sembra però emergere solamente un nuovo socialismo, riformista, non demagogia),
correttamente innestato nei problemi e nelle attese della società industriale avanzata, un socialismo — per così dire — all'altezza dei
tempi. Sembra piuttosto farsi avanti una spregiudicata concezione
E c'è chi impazzisce...
Ma nella caduta del tempio e delle statue, ci sono adoratori troppo
fedeli per reggere allo scempio di tanta sacralità ed allora sono presi da sussulti irrazionali, impazziscono...
E' il caso del PCI. Il partito sacrale, auto-definitosi « diverso » che
deve fare i conti con la miseria della politica. La Polonia è l'ultimo
cornicione del tempio a cadere. Non erano bastati l'Ungheria e la
Cecoslovacchia, il i-apporto di Kruscev, la guerra tra Cina e Vietnam...
Era necessario quest'ultimo strappo con la definitiva abiura e la relativa scomunica per lesa maestà e soprattutto per paganesimo capitalista, venuta dal Cremlino. Il « caso Cirillo » è stato invece il
primo atto di irrazionalità. Una volta scomunicati, dove trovare ancora elementi per la propria diversità? E allora ben venga una Marina Maresca. Ben vengano i titoli a scatola e la riduzione del giornale devotissimo e calibrato ad un'edizione straordinaria dell'Espresso. Tristi cose e tristi segnali. La vicenda Cirillo è una vicenda antica. Antica come Napoli e come i suoi problemi ove la camorra è
istituzione ben più forte dello Stato e ben più forte dello stesso ter-
rorismo. Ricordo la tristezza nel vedere Cirillo sul palco più alto
in piazza Duomo a Trento nella Festa dell'Amicizia democristiana. La
De non volle accorgersi della realtà, benché lo stesso giornale diocesano di Napoli (non Repubblica, non l'Espresso) avesse denunciato la realtà dei fatti e invitato caldamente Cirillo a farsi da parte.
Ma già, la superbia ottusa della politica. Meglio, speriamo che solo
di arroganza si tratti, perché se fosse qualcosa di diverso, se fosse
connivenza, ci troveremmo di fronte a un fatto terribile, ad un « peccato teologico » come ha detto un mio caro amico: l'aver trattato
per Cirillo, mentre si era rimasti ad un doloroso e fermo no per
Aldo Moro. Ma se la vicenda Cirillo è antica e inquietante, il. « caso » Cirillo, la falsa montatura dell'« Unità », è radicalmente nuovo
e radicalmente inquietante. Segno che il PCI fatica ad accettare la
secolarità della politica e sputare impunemente sugli avversari è il
modo nuovo di affermare la sua diversità.
Fuggire iit altri templi o ricostruire l'antico?
Il dilemma tra fuga e ricostruzione del tempio è invece quello che
interessa la DC. Anni di logorante gestione del potere hanno largamente annacquato tensione morale, valori, punti di riferimento ideali per il partito dei cattolici. In larga parte esso è ormai perfettamente omologato alla società secolare, interprete forse pasticcione
di un contesto sociale di capitalismo avanzato. In questo suo ripiegamento pragmatico rischia però di perder per strada il mondo cattolico. E1 troppo frequente la divaricazione di temi e di prospettive.
Pensiamo solo al tema della pace, cosi idealmente assunta da larghe fasce del mondo cattolico e così largamente disattesa da un
partito democristiano troppo allineato sulle posizioni reaganiane.
L'Assemblea di novembre è stata a un tempo la percezione di questo
scollamento e il tentativo di porvi rimedio. Prima che i cattolici fuggano dalla DC per chiudersi completamente nel sociale, nell'attivismo parrocchiale, nei piccoli gruppi o nei movimenti per trovare
hi altri templi, in altri ambiti motivazioni e fors'auche sicurezze, è
necessario che la DC ridiventi appetibile al mondo cattolico, si rimetta un poco a posto e si rifaccia l'aspetto deteriorato di partito
pragmatico e di pura ricerca del potere. E' il concetto espresso in
maniera limpida da Giovanni Galloni, quando disse che la DC aveva bisogno di una trasfusione di sangue cattolico. Altri intanto pensavano a un secondo partito più « cattolico », più precisamente configurato nella sua veste e nei suoi comportamenti.
In realtà il dilemma nella DC è ancora aperto. Ed anzi, il Congres-
so nel modo in cui è stato preparato, mostra che k carica propulsiva dell'assemblea di novembre non è riuscita a scuotere il
partito. Tutti i suoi mali: correntismo, mancato rinnovamento, precarietà, di linea culturale e politica si sono anzi accentuati. La DC
va al Congresso senza prospettive e quindi sembra irreversibile il
suo essere « fuori del tempio », non nel senso positivo della laicità,
ma in quello deteriore dell'opportunismo palitico, della fragilità
progettuale, della preoccupazione prevalente del potere. E i cattolici
sono aucor più tentati dalla rinuncia, dell'occuparsi piuttosto della
parrocchia, dall'impegnare altrove le foize migliori.
Prevale la lotta per il potere
Se dunque quello descritto è il quadro culturale essenziale entro cui
si muove la politica italiana, non meno fosca è la situazione propriamente politica. Moro aveva ragione ad intrawedere una « terza
fase » nella politica italiana del dopoguerra dopo il centrismo e il
centro-sinistra. Egli non poteva però prevedere quali ne fossero i
contorni e soprattutto che le prospettive non erano quelle da lui immaginate. Non presumo certo di essere un interprete fedele del suo
pensiero, ma rileggendo gli ultimi discorsi dello statista scomparso
mi sembra di poter dire che Moro non prevedeva un ruolo attivo
e protagonistico dei socialisti nella politica italiana. Non prevedeva
soprattutto la sottile tesi deIP« alternanza » socialista, che null'altro
comporta se non la sostituzione della DC al centro dello schieramento politico e la sua progressiva marginalizzazione. Non poteva
ancora Moro prevedere il Congresso democristiano del <t preambolo »
che ha aperto al PSI spazi imprevisti, né si poteva presumere la
crisi di un PCI allora in ascesa. E' chiaro che la questione comunista è ancora una questione cruciale del paese (e in questo la linea
di Moro rimane valida) ma diviene sempre più evidente che la risoluzione di questo nodo storico prevede una fase antecedente di pesantissima conflittualità tra DC e PSI per vedere quale dei due partiti avrà l'onore e gli oneri di sciogliere la questione comunista ed
unificare il Paese. La lotta è quindi sì negli aspetti più evidenti e
deteriori lotta per il potere, ma è anche lotta per appaltarsi la gestione dell'intero'futuro politico del Paese. E' questa una carta delicatissima, che richiede una lotta spieiata. E Craxi non conosce
scrupoli. Chi vincerà avrà in mano l'Italia dei prossimi dieci anni.
L'assommarsi di questi due aspetti (politica secolarizzata e pragmatica, lotta per il potere in una fase di transizione) determina l'imbarbarimento del livello del confronto politico nel nostro paese.
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Valori semplici per credere alla politica
Ciò di cui forse i partiti non si rendono conto compiutamente è che
così agendo perdono due generazioni all'impegno politico. C'è bisogno disperato di verità. Leggere i giornali appaltati alle diverse fazioni è ormai un esercizio demotivante. In un sussulto di onestà
Giampaolo Pansa ha parlato di « giornalisti dimezzati », oramai esponenti di verità preconfezionate e strumentali. Le vicende del governo
Spadolini hanno ampiamente mostrato come troppi sono disposti a
far strame di istituzioni, dignità personale e politica. Eppure occorrerebbero poche ed essenziali cose. Valori semplici, per credere ancora alla politica. Un po' di fede nell'uomo, un po' di rispetto per
ciò che è di tutti, un'appartenenza effettiva alla propria coscienza,
un dialogo ed un confronto contenuti entro i limiti della decenza
democratica, un po' di spìrito di servizio, un po' di amore ai poveri
ed alla gente.
Perché non rimangano puri appelli, dovremmo tutti ripensare (anche noi del Margine) al nostro rapporto con la politica. E' giusto il
silenzio troppo prolungato? E' giusta l'assenza? O è giunto il tempo
di tentare qualcosa? Talvolta già il segno modestissimo di qualcosa
di diverso, può essere una speranza. La nostra latenza, il nostro
marginalizzarci, non devono e non possono renderci assenti e quindi corresponsabili con questo degrado. Dobbiamo inventariare tutte
le vie per mostrare che la politica è ancora possibile. Non sogno di
certo una politica frondosa e carica di ideologia. Non voglio certo
partiti che tornino a un marxismo mitico, illusorio e mistificante né
partiti che si chiudano (tipica tentazione cattolica) in anacronistici
integralismi.
Ma non posso moralmente accettare che la politica sia o pragmatismo nudo, o fuga ideologica. Credo possa ancora esserci una politica laica, rigorosa, razionale e nello stesso tempo eticamente fondata, nutrita ad una passione per l'uomo, desiderosa del cambiamento e di una migliore convivenza. •
ASSOCIAZIONE
Ricordando Oscar A. Remerò
«La storia non morirà,
la conduce Dio»
di MICHELE NICOLETTI
La parola che la vita e la morte di Oscar Araulfo Remerò ci lasciano
nella storia di oggi, a noi cristiani e uomini dell'Occidente, è la parola
« conversione ». Non l'unica certo, ma la prima che colpisce ripercorrendo le tappe del suo cammino, i suoi discorsi, le sue omelie.
Romero è un convcrtito. Non nasce profeta né martire, ma lo diventa;
non nasce neppure difensore dei poveri, ma lo diventa attraverso la propria storia e la storia del suo popolo. Egli è inizialmente un moderato
— lo riconosce lui stesso — e a chi lo intervista dopo la « conversione »,
la prima cosa che dice è « prima non ero così ». Quando viene nominato
primate del Salvador, il governo stesso non vede male la sua elezione.
Poi, il 12 marzo 1977, viene ucciso padre Rutilio Grande, suo amico fraterno. Romero trascorre l'intera notte accanto alla salma dell'amico e
da quella veglia esce trasformato.
La sua non è una conversione politica da vescovo moderato a vescovo
progressista, è una conversione di fede che si incarna nella storia, che
nella sua responsabilità di vescovo, di maestro e di pastore, si fa teologica ed ecclesiologica. Non è neppure una conversione intellettuale,
non è un'assunzione di un nuovo schema teologico: quella di Romero non
è una teologia della prassi o della liberazione, più profondamente è una
teologia dalla prassi e dalla liberazione.
Il mistero dell'Incarnazione
Al centro di questa conversione sta il mistero dell'incarnazione: l'unice
modo autentico di vivere la fede è entrare nella carne dell'uomo come
Cristo ha fatto. « Sappiamo — dice Romero — che non si tratta direttamente di un'incarnazione universale, che è impossibile, ma di un'incarnazione preferenziale e parziale; un'incarnazione nel mondo dei poveri. A
partir da loro la Chiesa potrà essere per tutti, potrà anche prestare un
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servizio ai potenti, attraverso una pastorale dì conversione; ma non il
contrario, come tante volte è successo ».
Questo concetto di « incarnazione parziale e preferenziale » di Cristo è
centrale nel pensiero di Romero: Cristo si incarna nella parte povera
dell'umanità e dell'uomo, nell'unica parte da cui si può capire e salvare
il tutto.
« Incarnarsi » dunque vuoi dire entrare nella carne, non vuoi dire necessariamente esserci sempre stati; vuoi dire anche accorgersi di esserne
fuori e scegliere di entrarvi. Né Romero, né la Chiesa del suo paese erano sempre stati dalla parte dei poveri: « è una novità per il nostro popolo che oggi i poveri vedano nella Chiesa una fonte di speranza e un
appoggio alla sua nobile lotta di liberazione ». La conversione di Romero
ci dice che è davvero possibile — non solo necessario — cambiare, andare a stare dalla parte dei poveri.
La scelta per i poveri diventa così l'espressione fondamentale della conversione, « il mondo che la Chiesa deve servire è per noi il mondo dei
poveri »; ma Romero sa quanta ambiguità troppe volte ci sia stata in
queste parole, quanto moralismo e quanto paternalismo. Per lui il discorso è del tutto diverso: occorre scegliere i poveri perché solo così è
possibile capire la verità della fede, della Chiesa, del mondo e della
storia. «Questo mondo dei poveri diciamo che è la chiave per comprendere la fede cristiana, l'azione della Chiesa e la dimensione politica di
questa fede e di quest'azione ecclesiale. I poveri sono quelli che ci dicono cos'è la polis, la. città, e che cosa significa per la Chiesa vivere realmente nel mondo ».
Scegliere i poveri non è dunque solo un fatto morale, politico o magari
estetico, è ciò che consente di capire la verità, non solo la verità loro
ma la verità di tutti: i poveri, gli « ultimi » sono misura di tutto l'uomo
e hi questa scelta la fede stessa si comprende nella sua verità.
Il vero « peccato mortale » dell'ingiustizia
A questo proposito Romero afferma che la scelta Gei poveri ci permette
dì avvicinarci in particolare a tre misteri della nostra fede. « In primo
luogo adesso sappiamo quello che è il peccato. Sappiamo che l'offesa a
Dio è la morte dell'uomo. Sappiamo che il peccato è veramente mortale:
non solo per la morte ulteriore di chi Io commette, ina anche per la
morte reale e concreta che provoca ». Sappiamo che davvero l'egoismo
che si solidifica nel capitale, nella ricchezza, nella proprietà privata provoca morte, che non esiste solo un peccato personale, ma anche un peccato storico e sociale che si cristallizza in strutture di oppressione. Con
i poveri capiamo il mistero della storia dell'uomo, di questo impasto di
peccato e redenzione.
« In secondo luogo, ora sappiamo meglio cosa significa incarnazione, cosa
significa il fatto che Gesù prese realmente carne umana e solidarizzò con
i suoi fratelli nella sofferenza, nel pianto e nel gemito, nella donazione
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di sé». Sappiamo che l'amore cristiano smaschera la rassegnazione, cerca l'efficacia storica, passa attraverso la lotta per la giustizia, rende il povero protagonista della sua stessa liberazione.
In terzo luogo con i poveri sappiamo che davvero Dio è il Dio della vita
e che la fede deve testimoniare e offrire questo mistero: «dove c'è vita,
lì si manifesta Dio. Dove il povero comincia a vivere, dove il povero comincia a liberarsi, dove gli uomini sono capaci di sedersi intorno ad una
tavola comune per condividere ciò che hanno, lì è presente il Dio della
vita ».
La scelta per i poveri che Romero ha praticato e predicato ha dunque
questo profondo spessore teologico: non è un'azione, un comportamento
che deriva dalla fede cristiana come una conseguenza di essa, come una
testimonianza o una pratica morale o come una scelta di coerenza. La
prospettiva qui è rovesciata: solo sulla strada dei poveri incontreremo
la verità di Cristo e la nostra verità. « Gli antichi cristiani dicevano " Gloria Dei, vìvens homo" (la gloria dì Dio è l'uomo che vive). Noi potremmo
essere più concreti, dicendo " Gloria Dei, vivens pauper " (la gloria ài Dio
è il povero che vive). Crediamo che dalla trascendenza del Vangelo possiamo giudicare hi che consiste la verità della vita dei poveri; e crediamo anche che, mettendoci a fianco del povero e cercando di dargli la
vita, sapremo in che cosa consiste l'eterna verità del Vangelo ».
Il coraggio di chiamare la povertà per nome
La scelta della povertà è dunque per Romero una scelta di denuncia dei
male presente nel mondo (la mancanza di beni contraria alla volontà di
Dio e frutto dell'ingiustizia umana), è una scelta di spiritualità (i poveri
sono i più disponibili ad accogliere i doni di Do) è una scelta di impegno
(per la liberazione dell'uomo). I poveri die Romero sceglie non sono mai
i poveri in generale, in astratto. Nelle sue omelie egli è abituato a fare
lunghe liste di nomi di poveri uccisi, torturati, scomparsi, accanto ai nomi dei responsabili. E così anche la povertà per Romero ha sempre un
nome preciso, il nome della miseria del popolo salvadoregno causata dalle vecchie strutture dell'ingiustizia sociale, dai padroni delle terre e del
caffè e dello zucchero, da quel pugno di uomini egoisti ed ottusi che
costringono alla povertà la stragrande maggioranza della popolazione.
Ma il Regno di Dio non può costruirsi con queste strutture di peccato.
« Esse, sebbene meno visibili e più fredde, costituiscono la vera violenza
responsabile della nostra situazione. Di qui nascono tutti i peccati sociali
della violenza, sia della complice violenza repressiva dello stato, sia delle
violenze della collera del popolo. Sono le strutture dell'ingiustizia sociale
che hanno crocifisso i poveri del nostro paese, che hanno ucciso di morte
lenta i nostri poveri. Esse sono, pertanto, la radicale negazione del Dio
della Vita».
Dalla parte del popolo, contro ogni violenza
Nel Salvador la scelta dei poveri da parte della Chiesa non è la scelta
di un « oggetto » di attenzione pastorale, o di impegno assistenziale, è il
riconoscimento dell'autentico soggetto storico della liberazione. A questo
proposito Romero usa come termine centrale la parola « popolo », « questo nome così sacro: il popolo ». Per lui il soggetto della liberazione storica dell'uomo è il popolo, è lui l'interlocutore della Chiesa e delle istituzioni. I poveri non sono più un'immagine evanescente, sono una realtà
storica concreta: il popolo, questa parola cosi viva, forte e vera che la
cultura occidentale ha ideologizzato e che la società dei consumi ha manipolato e narcotizzato.
Scegliere i poveri non vuoi dire scegliere una cosa rispetto ad un'altra
significa invece convertirsi alla verità del mondo e della fede. Per questo
a questa conversione sono chiamati tutti e Romero tutti invita: il governo
del Salvador, gli Stati Uniti, l'oligarchia, la Chiesa, i rivoluzionari. Tutti
sono invitati a convertirsi al servizio dei poveri e a servirli nell'amore
e non nella violenza. Ogni violenza è sterile, sia la violenza dei potenti
(« Non dimentichiamo quella tremenda frase di Dio a Caino: la terra insanguinata non potrà mai essere feconda. Le riforme insanguinate non
potranno mai essere fruttuose»), sia la violenza dei rivoluzionari («Niente di violento può essere durevole»). Ma Romero si guarda bene dal
mettere queste violenze sullo stesso piano e anzi considera una vera e
propria ingiustizia il farlo, perché la violenza degli oppressi nasce dalla
violenza delle strutture ingiuste e dalla repressione dello stato militare.
La strada della violenza dunque non porta frutto e ad essa bisogna opporsi con ogni forza, fino all'obiezione di coscienza, gesto a cui Romero
invita i soldati nella sua ultima omelia: « Fratelli, appartenete al nostro
stesso popolo, uccidete i vostri fratelli contadini e davanti ad un ordine
di uccidere che viene da un uomo deve prevalere la legge di Dio che
dice: NON UCCIDERE... nessun soldato è obbligato ad obbedire a un ordine che sia contro la legge dì Dio... Una legge immorale nessuno deve
adempierla... E' ora, ormai, che recuperiate la vostra coscienza e obbediate anzitutto ad essa, piuttosto che all'ordine del peccato ».
L'unità di liturgia e storia
La conversione di Romero, la sua scelta dei poveri, è un fatto storico e
religioso insieme. Nella sua esperienza il dato che continuamente viene
alla luce è la profonda unità esistenziale che c'è tra fede e vita, tra tempo storico e tempo liturgico. L'unità di storia e liturgia non è un fatto
integralista. Niente è più lontano dell'integralismo dal pensiero di Romero e per convincersene basta leggere i passi delle sue omelie sul rapporto tra fede e politica, la sua insistenza sul pluralismo, sulla non esistenza di un, progetto politico «cristiano». L'unità di storia e liturgia
significa qualcosa di più profondo, significa che davvero la liturgia squar-
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eia il velo della storia e ne rivela il senso, che davvero celebrare la Parola e l'Eucaristia non vuoi dire fuggire dal mondo ma entrare nel cuore
di esso.
Quando dai pulpiti del Salvador si leggono i testi dei profeti Amos e
Isaia, « questi testi — diceva Romero — non sono voci lontane di molti
secoli fa... Sono realtà quotidiane, la cui crudeltà e intensità viviamo
giorno per giorno». Ma l'unità di liturgia e storia si celebra nella vita
di Romero nella sua. ultima messa quando sull'altare all'offerta del Corpo di Cristo si unisce l'offerta del suo corpo assassinato.
A molti la storia di Romero continuerà a sembrare una specie di leggenda accaduta in paesi e tempi lontani, a molti il suo messaggio pastorale
sembrerà troppo colorato di realtà latino-americana per poter dire qualcosa a questo Occidente ormai troppo smaliziato, perennemente scettico
e razionalista. Ma anche a chi non conosce lo scontra con la povertà, a
chi ha smarrito ogni speranza nella liberazione, a chi è restato solo con
la sua angoscia sottile, esteticamente compiaciuta, a chi pensa che ormai
non ci resti che invocare la fine perché la storia è uria commedia buffa che va priva di senso verso il nulla, a tutti questi uomini che sono in
noi, Romero parla: « Non siamo disperati. Non siamo impauriti. Nessuno
ha il diritto di sprofondare nella disperazione, tutti abbiamo il dovere di
cercare, uniti, nuove vie e di sperare attivamente, da cristiani... La storia non morirà, la conduce Dio. II principale lavoro dei cristiani dev'essere
quello di impregnarsi del regno di Dìo e con l'anima impregnata del regno di Dio, lavorare nei progetti della storia ». •
CHI SI IMPEGNA CON 1 POVERI
DEVE CORRERE IL LORO STESSO DESTINO
« Cristo ci invita a non aver paura della persecuzione, perché credetemi, fratelli,
colui che sì impegna con i poveri deve correre lo stesso destino dei poveri:
scomparire, essere torturato, catturato, apparire cadavere...
Sono spesso minacciato di morte. Devo dire che come cristiano, non credo
nella morte senza risurrezione: se mi uccidono risusciterò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza presunzione alcuna, con la più grande umiltà. Come
pastore sono obbligato, per mandato divino, B dare la vita per coloro che amo,
che sono tutti salvadoregni, anche quelli che mi vogliono uccidere. Se arrivassero a compiere le minacce, sin da questo momento offro a Dio il mìo
sangue per la redenzione e la risurrezione del Salvador ».
Oscar ArKiilfo Romero
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L'influenza dì Mounìer nella Assemblea Costituente
Quel «nuovo modo di pensare
dei personalismo comunitario
di TOMMASO SUSSARELLU
II dibattito sulla cosiddetta « riforma istituzionale », che ormai da anni
è al centro dell'attenzione di studiosi e uomini politici e che è ritornato
recentemente in primo piano nel confronto politico, che caratterizza gli
attuali rapporti non solo tra i partiti della maggioranza, ma anche tra
questi e il maggiore partito di opposizione, sembra ormai attestarsi su
due linee sostanzialmente parallele: da un Iato vi sono coloro i quali affermano che i problemi italiani non possono trovare soluzione che in
radicali riforme del sistema giuridico, che modifichino addirittura alcuni
fondamentali princìpi di rilevanza costituzionale; dall'altro, stanno coloro i quali non credono nelle modifiche* di ordine formale, ma auspicano
una impietosa verifica delle condizioni di funzionamento attuale delle
istituzioni. Questi ultimi riconoscono piena validità ai principi informatori della nostra Carta costituzionale e sono convinti che la Costituzione
sia stata « tradita », sia dalla legislazione ordinaria che dalla prassi amministrativa. Sono questi « i certosini di un ripristino della razionalità
istituzionale alla stregua di princìpi ritenuti ancora validi nella loro enunciazione formale » (N. Lipari, « Partiti e assetto istituzionale: l'urgenza
di ricominciare da capo », Appunti di cultura e di politica, n. 9, settembre 1981).
Non è in questa occasione che si vuole prendere posizione a favore dell'una o dell'altra proposta, né che si vuole tentare di ricostruire i motivi
di questo « tradimento della Costituzione ». Preme qui invece sottolineare
come ogni progetto di riforma istituzionale non possa prescindere dal
considerare la persona umana come l'unico punto di riferimento per
giudicare la validità delle istituzioni stesse.
Si tratta, quindi, di operare nel rispetto di quella scelta fondamentale, di
carattere culturale, che ha portato a ideare una società nella quale eiascun uomo potesse sentirsi considerato nella sua dignità di uomo e,
al tempo stesso, chiamato, attraverso forme partecipative, ad assumere
la propria parte di responsabilità nella edificazione e nella conduzione
della società. E' questa l'idea fondante che troviamo scritta a chiare lettere in quell'artìcolo 2 della Costituzione che è considerato la codificazione di quel personalismo comunitario che ebbe in Mounier « un as16
seriore originale e tenace » (G. Lazzati, « Le ragioni di un convegno », in
Atti del Convegno di studio dell'Università Cattolica «Mounier trent'anni
dopo », Milano, 1981).
In verità, quel particolare periodo della storia italiana, che ha rappresentato il momento della ideazione dell'assetto istituzionale repubblicano,
vide, pur in presenza di un serrato confronto dialettico tra i costituenti,
portatori di diverse concezioni dello Stato, una convergenza ideale sulle
linee di fondo della proposta personalista (dr. A.. Barbera, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, art. 2, pag. 52). Tuttavia, la
gestione della società nei trent'anni di storia repubblicana che intercorrono da quella ideale convergenza, non induce certo a rilevare una condotta coerente con quella prospettiva di fondo. Per citare ancora Lazzati, a i singoli capitoli nei quali il personalismo comunitario avrebbe
dovuto dare segno di essere veramente l'idea Coniante ogni modulo della
costruzione, nel momento del passaggio dalla, ideazione alla costruzione
stessa, stanno a dimostrare che essi sono stati scritti — se la metafora
ci può servire — dimenticando la premessa, quando non in opposizione
ed essa» (Atti, cit., pag. 10).
La frattura prodottasi in questi anni tra ie proposte contenute nel personalismo comunitario e la concreta gestione della repubblica, appare in
tutta la sua gravita se consideriamo che l'influenza di Mounier nel dibattito all'Assemblea Costituente non fu certamente secondaria, e che delle
sue idee furono valenti portatori costituenti quali Dossetti, Moro, Lazzati
e soprattutto La Pira, i quali rappresentarono in quella sede l'espressione più qualificante di un movimento di pensiero che, se aveva nel gruppo
dossettiano i maggiori assertori, certamente caratterizzava e qualificava
l'intera cultura cattolica italiana del tempo,
Le stesse posizioni di particolare incisività assunte da La Pira, quali il
suo insistere con rigore sul nesso tra libertà e responsabilità, ovvero le
sue proposte tese ad escludere l'uso del termine « libertà » e a privilegiare invece il concetto di «autonomia», che, nella sua concezione, meglio qualifica la « trascendenza attiva » della persona umana, e al tempo
stesso giustifica la necessità di rafforzare l'autorità dello stato in funzione della tutela delle persone e dei gruppi, si chiariscono alla luce dell'influsso del pensiero di Mounier (cfr. S. Grassi, II Contributo di Giorgio
La Pira ai lavori dell'Assemblea Costituente, in: Scelte della Costituente
e cultura giuridica, II, pag. 195).
E' stato inoltre messo recentemente in rilievo come non fu solo l'esperienza filosofica e politica del gruppo di intellettuali che si riconoscevano
nel movimento di « Esprit », ad influenzare dalla Francia il pensiero dei
costituenti. A questo riguardo, è necessario aprire una parentesi per
ricordare come le vicende costituzionali francesi del 1945 e del 1946 furono seguite in Italia con grande attenzione, per gli elementi di omogeneità esìstenti tra i due paesi, oltre che per la coincidenza temporale
dell'elaborazione costituzionale, che derivavano sia dalla struttura economica e sociale, che dalle affinità culturali e dalla collocazione in una
medesima area geografica sottoposta ad influenze politico militari analoghe (cfr. De Siervo «Le idee e le vicende costituzionali in Francia nel
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1945 e nel 1946 e la loro influenza sul dibattito in Italia», in Scelte della
Costituente, cit. pag. 293 e ss.).
In particolare costituirono un sicuro punto di riferimento per alcuni costituenti italiani, appartenenti alla tradizione cattolico-popolare, tra i quali, oltre ai citati, è da annoverare Costantino Mortati, le concezioni costituzionali del Mouvement Répubblicain Populaire (MRP), partito di
ispirazione cristiano-sociale, che, costituitosi alla fine della seconda guerra mondiale, riportò un notevole successo elettorale nelle elezioni per
l'Assemblea Costituente del 1945. Ritroviamo infatti specifici riferimenti
al programma del MRP in La Pira, il quale, nelle sue proposte, oltre che
al « progetto Mounier, si richiamò ad un, « progetto De Menthon », esponente, questo ultimo, del MRP stesso.
Una democrazia popolare
Le tesi di questo partito, certamente non estranee al pensiero di Mounier,
si possono così riassumere: la democrazia è il « regno » di un popolo raggnippato in organismi di sua scelta e accanto ai diritti della persona
si pongono quelli della collettività. Ad una democrazia dei cittadini si
sostituisce una democrazia popolare, in cui il popolo manifesta la sua
sovranità nelle collettività naturali in cui si inserisce (il riferimento a
Mounier è evidente); è auspicato un sistema bicamerale, in cui la prima
camera, eletta con il sistema proporzionale, è vista come espressione
rappresentantiva del corpo elettorale ordinato in partiti, mentre la seconda come espressione delle collettività locali, nonché dei sindacati, degli organismi economici e delle associazioni familiari; il Presidente della
Repubblica, sempre secondo il programma di questo partito, verrebbe
eletto da parte delle due camere, integrate da rappresentanti non parlamentari, « di consigli generali delle città con più di ventimila abitanti »;
è proposta l'introduzione del referendum, come consultazione popolare su
questioni gravi di interesse generale; viene auspicata la regolamentazione giuridica dei partiti, per garantire che la loro organizzazione interna
sia democratica e che vi sia un controllo sui bilanci, da rendere pubblici
(per i riferimenti, cfr. F. Bruno, « I giuristi alla Costituente: l'opera di
Costantino Mortati », in Scelte della Costituente, cit. pagg. 98 e 99).
L'economia di queste brevi note non consente di verificare i motivi per
cui alcune di quelle proposte divennero diritto costituzionale positivo italiano, mentre altre non trovarono accoglimento. Rimane peraltro in tutta la sua rilevanza il riferimento alle vicende costituzionali francesi.
Ma torniamo a Mounier. Egli, ancora nel 1941 e poi nel periodo della
Resistenza, comincia ad ideare assieme ad un gruppo di intellettuali, costituitosi dopo la forzata chiusura di « Esprit », una nuova « dichiarazione dei diritti » che superasse i limiti contenuti nella dichiarazione del
1789, la quale, secondo Mounier, aveva due fondamentali difetti: eccesso
di individualismo ed eccesso di razionalismo (cfr. E. Balboni, in Atti, cit.
pag. 177, cui si rinvia per un approfondimento dell'intera tematica).
Il progetto di Mounier, denominato « Dichiarazione dei diritti della per18
sona e delle comunità » viene pubblicato, discusso e rivisto su « Esprit »,
nei numeri di dicembre 1944 e di aprile e maggio 1945: esso rappresenta
un notevole contributo per la definizione di nuove libertà degli individui
e dei gruppi, e in esso vengono enunciati accanto ai diritti della persona
quelli delle comunità e dello Stato. Si noti, inoltre, che la « Dichiarazione », almeno nelle intenzioni dell'Autore e di quanti parteciparono alla
sua stesura, avrebbe dovuto rappresentare una « convenzione internazionale », le cui norme dovevano entrare a far parte delle Costituzioni di
una pluralità di stati e infatti il progetto stesso inizia, con le parole:
« Gli Stati firmatari riconoscono... ».
Il testo della a Dichiarazione » si trova ora pubblicato, nella traduzione
italiana, negli Atti del Convegno dell'Università Cattolica, più volte citati
ai quali si rinvia per la lettura degli articoli, limitandoci qui a riportarne la premessa: « Gli Stati firmatari riconoscono che gli individui e le
società sono sottoposti ad un certo numero di diritti connessi con l'esistenza della comunità umana e non derivanti né dall'individuo né dallo
Stato, poiché hanno una duplice base:
1. il bene delle persone;
2.
la vita e lo sviluppo delle persone nel seno delle comunità naturali
in cui esse si trovano: famiglie, nazioni, raggruppamenti geografici o
linguistici, comunità di lavoro, raggruppamenti di affinità o di sede.
Lo scopo di ogni società è dì mettere in opera i migliori mezzi per insegnare a ciascun uomo la libertà della scelta, la responsabilità delle proprie azioni e la partecipazione alle comunità consentite.
Spetta in proprio allo Stato di dare impulso, sia all'indipendenza delle
persone, sia alla vita delle comunità; alla prima, proteggendola contro la
minaccia sempre attuale di una tirannia di gruppi; alla seconda, opponendosi alla sempre rinascente anarchia degli individui. Un organismo
indipendente dai singoli Stati è investito del compito di giudicare sugli
abusi di potere dello Stato e di sciogliere con decisione sovrana i conflitti che ne derivano. Esso definisce i delitti dello Stato ».
E1 sembrato infatti necessario, a chi scrive, riportare almeno il testo
della premessa della « Dichiarazione », sia perché in essa si trova condensata efficacemente la proposta di Mounier, sia perché essa è di per
sé sufficiente per dimostrare l'influenza che il progetto stesso ebbe, oltre
che sull'elaborazione di singoli fondamentali princìpi, sull'impianto stesso
della nostra Carta costituzionale. A questo riguardo, così scrive Balboni,
negli Atti sopra citati: « E* significativo che almeno l'idea forza di Mounier sia riuscita a diventare diritto costituzionale positivo italiano trasfondendosi e nell'art. 2 e nell'architettura complessiva della Costituzione,
che, come tutti sanno, dietro un suggerimento di Aldo Moro, venne costituita secondo il modello della piramide rovesciata o della socialità
progressiva. Tale modello — continua ancora Balboni — assumeva come base la persona, e quindi i diritti civili esplicazione delle libertà personali, per passare poi alle comunità in cui la persona si integra: la famiglia, la scuola (sono i rapporti etico-sociali), le associazioni sindacali
e le comunità di lavoro (sono i rapporti economici) e infine le associa19'
zioni politiche, i parliti. Ed è a partire e sopra questa base che vanno
costruite le strutture dello Stato ».
A questo riguardo non si può tralasciare di ricordare inoltre il pensiero
di Costantino Mortati, che, a proposito dell'idea di democrazia contenuta
nella Costituzione italiana, così scriveva: «... la democrazia prima ancora
di caratterizzare la forma di governo secondo la diversa specie e grado
della partecipazione dei cittadini alla gestione del potere autoritario, entra come elemento costitutivo della forma dello Stato, inteso quale ordine complessivo di vita associata, in quanto compendia in sé i presupposti e le condizioni, cioè l'insieme dei fattori spirituali, economici, sociali, le convinzioni, le strutture, i fini die informano di sé un ordinamento, e rendono possibile e efficiente quella partecipazione. Condizioni
che richiedono, da un Iato, il riconoscimento ad ognuno di una larga
sfera di autonomia qua! è necessaria all'acquisto della consapevolezza
della propria posizione nella società, ed alla formazione di libere opinioni hi ordine ai modi di soddisfare il bene comune, e, dall'altro un
sistema di rapporti associativi da cui siano eliminate le antìtesi radicali
di interessi fra parte e parte della consociazione, poiché la loro presenza renderebbe estremamente ardua la formazione della volontà comune secondo la pacifica dialettica richiesta dal regime democratico ».
Diritti « inviolabili » e doveri « inderogabili »
Così prosegue Mortati, con riferimento all'influenza del personalismo: « La
corrispondenza dello schema costituzionale al modello ora prospettato
può facilmente venire riscontrata quando si ponga in rilievo la stretta
connessione che lega la qualifica di democrazia al gruppo delle norme
successive alla prima, ciascuna delle quali assume, come si è detto, la
funzione di svolgerla e di integrarla.
Considerando anzitutto il presupposto personalistico risulta chiara la
recezione che ne è stata effettuata anzitutto nell'art. 2 che, all'atto stesso
di riconoscere, per conferir loro la necessaria garanzia, i diritti dell'uomo singolo o associato, richiede ad ognuno l'adempimento dei doveri, facendo corrispondere alla " inviolabilità " dei primi, la " inderogabilità "
dei secondi » (cfr. Commentario della Costituzione a cura di G. Branca,
pag. 7).
Proprio su questi princìpi fondamentali le varie forze politiche trovarono negli anni della Costituente un comune terreno d'intesa, in quanto
riconobbero negli enunciati del personalismo comunitario, di cui Mounier fu autorevole esponente, quel « nuovo modo di pensare » che, in
quanto afferma l'anteriorità della persona umana allo Stato, ancora oggi
non può non porsi come connotato fondamentale di tutto l'ordinamento.
RECENSIONE
Lo stato ed il terrorismo
La tragedia di Narciso
di FABRIZIO MATI E VI
Anni di piombo, un film possente: scarno ed essenziale, ma denso
di riflessioni. Non ha bisogno di inventare effetti speciali per accattivare le platee,ché già i fatti raccontati sono impressionanti. A confronto le intermittenze dei luna park cinematografici d'oltreoceano
vanno in cortocircuito. Il film cade pesante sugli spettatori, come
un suono di sirena nella quiete domenicale.
Non occorrono trucchi particolari per raccontare la storia, è sufficiente partecipala con passione e compassione. E qui è proprio la
storia a dominare la ribalta: la nostra storia, la storia di una società che, tra gli osanna del boom economico e gli slogans di una facile
rivoluzione, si è vista crescere in grembo, senza rendersene conto
e pur tuttavia con la responsabilità di una simile genitura, le perversioni del terrorismo.
Allo stesso modo Edipo, ignaro, ha fecondato sua madre. Il paragone con la tragedia greca non è vano preziosismo. Anche nell'opera
di Margarethe von Trotta grava quella medesima, angosciosa, incontenibile drammaticità ed ammanta i personaggi, le azioni, i dialoghi, le scene. Anche qui si medita sulla assurdità delle azioni umane, sulla nostra debolezza ed inconsistenza: la storia pare dominata
da un destino cieco, inesorabile ed irriducibile, contro il quale i poveri e piccoli individui non sono che cosa vana. E' proprio questa
tragica fatalità, che emerge sullo sfondo, a costituire il limite e la
colpa del film. Infatti sul proscenio non è di scena la verosimile invenzione di un poeta, ma la concreta trama della nostra storia, per
cui la cieca irrevocabilità degli eventi non produce la purificazione
degli animi, bensì semina sconcerto e paura di fronte alla realtà. Si
cerca sì di dar ragione degli accadimenti, ma senza nulla concedere
alla speranza ed impiombando crudelmente ogni varco o spiraglio.
II tormento di Christiane
Due sorelle, cresciute assieme, profondamente legate nel cuore: una,
Marianne, da giovane gentile e rispettosa con genitori ed insegnanti,
intraprende la vìa della rivolta armata; l'altra, Juliane, in passato
ribelle e scontrosa, rimane, se pur contestandola, all'interno della
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legalità. Le vicende ricostruiscono, fedelmente, la vita di Gudrun
Ensslin, morta in circostanze oscure nel carcere di Stammheim nel
terribile autunno tedesco del 1977, e con lei della sorella Christiane,
a cui il film è dedicato.
Si tratta, dunque, in primo luogo di un dramma umano: il tormento disperato di chi si trova a sostenere la fedeltà alla legge e l'affetto
alla sorella, che da quella legge è costretta al suicidio. E' l'eterna
tragedia di Antigone di fronte agli imperativi dello stato, che, per
poter sopravvivere, deve squarciare, inesorabilmente, come la mannaia del boia, gli affetti del cuore. E' una scissione tremenda, che attanaglia le membra e non concede respiro, pesando sulla coscienza
come una cappa di piombo: dover condannare chi si ama, non accettare la realtà così com'è e doverla salvaguardare da chi l'ha calpestata e violentata, condividere un medesimo passato e ritrovarsi
per le stesse motivazioni su fronti contrari.
Marianne e Juliane sono l'una il riflesso negativo dell'altra: ciascuna
è ciò che l'altra non è, facce contrapposte di un'unica medaglia.
Proprio da questa complementarietà, possibile per la medesima origine che le accomuna, viene la reciproca comprensione, tanto profonda da rendere l'una interscambiabile con l'altra.
Non a caso il film insiste molto sull'intimità del legame che le unisce: in prigione, nella sala delle visite, si scambiano i maglioni, così
come, dopo la giovinezza, si sono scambiate i ruoli nella vita; ed
ancora, significativamente, la cinepresa indugia sui loro visi riflessi
dal vetro del parlatoio: le due ombre si avvicinano fino a sovrapporsi l'una sull'altra, per poi allontanarsi di nuovo; ed infine, sarà
proprio Juliane, dopo la tragica fine della sorella, a ribellarsi con
forza allo stato, colpevole di quella morte, raccogliendone, in un certo qual modo, l'eredità.
armamenti ed i disastri della guerra, in cui le macerie delle cose si
confondono alle macerie dei corpi senza \ita. Sono scene di rara
potenza, anche rispetto a quelle che possiamo aver già visto, tremende e allucinanti, tormentano dolorosamente la mente e nessuno
le può reggere impassìbile, che strappano a forza le lacrime. Quei
documenti, muti, colpiscono feroci e violenti come un pugno allo
stomaco. Juliane e Marianne li conobbero durante gli anni di scuola.
Davanti a quelle immagini tutte e due escoao dalla sala di proiezione per piangere e vomitare insieme. Lì comincia a formarsi il rigetto per una realtà tanto insostenibile, per una umanità che ha
saputo generare quelle atrocità, per una storia che si è arricchita
su quei massacri. La rivolta nasce da quella bruttezza, da quella violenza, da quel male, opprimenti come lo smog caliginoso delle grandi metropoli. Quel passato, di cui noi siamo gli eredi (e non si deve
dimenticare che tutto il film nasce nella particolare situazione della
Germania), sconvolge e lascia impietriti.
Di fronte a simili catastrofi le prediche del padre, pastore protestante, che promettono castighi terribili per i peccatori ma soltanto nell'ora del giudizio universale, paiono alle due sorelle vane parole.
L'ipocrisia di un presente che continuamente rinvia le soluzioni nel
futuro risulta insopportabile. La radicalità del giudizio di Dio deve
valere anche per l'ai di qua. Ecco allora farsi strada l'utopia della
Città del sole, voluta con una passione assoluta, che nulla può concedere ai compromessi del sistema attuale. Essa pare possibile al
tenace entusiasmo giovanile ed allora tanto più forte è l'odio contro tutto ciò che impedisce di cogliere quella meta.
Viene qui confermata quella matrice religiosa che si è notata anche
a proposito del terrorismo italiano: quel radicalismo ha trovato poi
facile e comodo alimento nel massimalismo rivoluzionario.
La pesantezza del passato
La barbarie del terrorismo e la ferocia dello stato
Ma non si tratta solo di un dramma umano ristretto a pochi personaggi, perché quella vicenda diviene emblematica di tutta una realtà sociale. Essa riassume, in questo contrasto di sangue, la tragedia
del terrorismo, dalle sue origini nelle rivolte studentesche negli anni
'60 ai suoi esiti violenti e traumatici di oggi, con una analisi ben
più meditata di quella che sostiene i film di Giordana e Bertolucci.
Perché dunque il terrorismo?
Centrali e decisive per la dinamica del film sono le lunghe sequenze
di repertorio che ripropongono le immagini orribili dei campi di
concentramento nazisti: tra fili spinati e reticolati si aggirano figure
umane di cui a fatica si riconoscono i profili, sotto il ridicolo controllo dei mitra spianati mucchi di cadaveri scheletrici vengono accatastati nelle fosse comuni. Ed ancora la possenza superba degli
Ma se con coraggio Margarethe von Trotta cerca di dare un senso
agli ultimi eventi storici, con pari decisione non risparmia la sua
critica.
Il progetto terroristico pare viziato dalle medesime colpe di quella
società che pretende di abbattere: la tentazione dei successo personale, il fascino delle azioni spettacolari, la pratica dell'imposizione
violenta.
L'accusa di Juliane alla sorella ferisce a sangue, come una lama di
coltello: avresti potuto andare a lavorare nel terzo mondo, ma una
simile scelta richiedeva sacrifici troppo grossi, che tu non volevi sopportare ;hai preferito la comodità delle gesta clamorose.
Il terrorismo si trascina dietro questa assurda antinomia: ripete dentro di sé ciò che si propone di distruggere, riproduce in funzione
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negativa quella concezione borghese contro cui si è mosso. Esso violenta i rapporti personali, si costruisce sulla base di rigide gerarchie militari, si sviluppa mediante la pratica del ricatto, si alimenta
delle oppressioni omicide, sì propone la totale alienazione dalla realtà concreta, si definisce attraverso la logica del dominio.
Riproduce così l'effetto di Hiroshima: la vittoria ottenuta con la
distruzione assoluta, che permette di conquistare un deserto vuoto.
In nome della rivoluzione futura il presente è annientato. Marianne
lascia dietro di sé un marito costretto al suicidio dalla disperazione
ed un figlio già consumato dal terrore verso un mondo che non lo
accetta né lo desidera.
A tanto può arrivare il fanatismo. Ecco giustificate allora le terribili parole di Juliane: « una generazione prima saresti stata una fanatica di Hitler ». Non a caso i compagni clandestini di Marianne,
nel taglio dei capelli e nella foggia degli abiti, richiamano gli avventori nazionalsocialisti.
Il terrorismo, dunque, è l'ombra riflessa del suo nemico e ne ripete
le angherie. Il tema del riflesso mi pare ricorrente nel corso del film.
Le due sorelle riflettono l'una nell'altra il proprio passato; il terrorismo nella sua pratica riproduce la logica violenta e nullificante
della realtà costituita; il sistema legale, per contrastare l'insurrezione armata, ne ripete la strategia omicida.
Infatti lo stato risponde alla barbarie del terrorismo con altrettanta
ferocia. La parte conclusiva del film è tutta tesa a riproporre i
terrificanti interrogativi che pesano sui suicidi verificatesi nel supercarcere dì Stamrnheim. Qui, al mattino del 10 ottobre 1977, furono
trovati i corpi di quattro terroristi. Uno di essi, una ragazza, era
ancora in vita. Ter gli altri non occorreva preoccuparsi di nulla.
Erano Jan Cari Raspe, Andreas Baader e Gudrun Ensslin. Non molto tempo prima era stata trovata, pure lei suicidata, "Ulrike Meinhof.
Su tutti quei cadaveri sono sempre stati sollevati fieri dubbi, anche
da un giornale insospettabile come lo Spiegel, e qtiesti dubbi non
sono stati mai dissipati.
Il film non assume posizioni perentorie, ma lascia intendere che, in
base alle ricerche della sorella di Gudrun, la tesi ufficiale risulta insostenibile. Quest'anno è uscito in Germania, dopo che nessun giornale ha voluto raccogliere la sua verità/un libro di Christiane Ensslin
secondo il quale i membri più noti della banda Baader-Meinhof furono strangolati in ccncomitanza al colpo di mano effettuato a Mogadiscio, da reparti speciali della polizia tedesca, contro un gruppo
di terroristi.
Dunque a tragedie si sommano tragedie. Lo stato, il mostro Leviatano di Hobbes ,si erge con tutta la sua forza assolata e alla pratica
del terrorismo risporde con l'esercizio del terrore. Ecco allora ve-
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nire le campagne di stampa, il clima di caccia alle streghe, la soppressione dei diritti civili degli accusati, la demonizzazione dei movimenti di contestazione. Più voci hanno sottolineato come alla base
della proliferazione del terrorismo vi sia la repressione poliziesca.
Nel film i cani-lupo accucciati ai piedi dei poliziotti, che presiedono
le carceri, ricordano i doberman delle S.S. Così come le lente, prolungate, crudeli sequenze all'interno delle supercarceri inducono ad
immaginare uno stato sorretto e guidato dalle teste di cuoio più che
da tensioni politiche e civili. Muraglioni, fili spinati, inferriate; lo
sferragliare dei lucchetti e delle manette, il cigolare dei cancelli, il
rumore secco dei caricatori inseriti.
E' la scenografia che accompagna ogni risposta puramente militare
alle provocazioni del terrorismo, di cui anche le piccole pagine del
Margine hanno parlato, e che in Germania si è attuata con particolare durezza.
Il crepitìo delle armi non permette di ricordare
Una simile strategia presuppone di rinunciare a qualsiasì tentativo
di interrogarsi sul senso del nostro presente storico, comporta una
rimozione collettiva della cronologia di questi avvenimenti. Lo sforzo di capire è già sospetto di collaborazionismo, quasi che la ragione critica sia di per sé sovversiva. A conferma di ciò vengono le
polemiche suscitate in Germania ed in Italia dall'uscita del nostro
film, accusato di essere troppo compiacente.
Con simili atteggiamenti la storia e la sua memoria sono messe da
parte per applicare la legge del taglione. Non vi è nulla da comprendere, ma solo da combattere ad armi pari. Così la rivolta armata
diviene un fenomeno naturale alla pari dì terremoti ed inondazioni,
altrettanto imprevedibile e terrificante. Essa si riduce ad incidente
qiiotidiano. E' un pericolo costante che si può controllare solo sparando più colpi dell'avversario. E' comprensibile che, in un simile
contesto, uno sconosciuto, più fanatico degli altri, tenti dì bruciare
col vetriolo, come è realmente accaduto, un bambino di dieci anni,
perché figlio di un terrorista.
In conclusione gli ostaggi di ieri oggi sono divenuti i nuovi sequestratoli, vittime ed aguzzini si scambiano le parti, in una girandola
allucinante che non può trovare fine.
Il grigiore dei tempi
II sistema ed il terrorismo si riflettono a vicenda la. medesima violenza, la medesima morale assolutistica, la medesima volontà di potenza, la medesima tensione distruttiva, la medesima atmosfera di
morte. Ecco la tematica del riflesso di cui si diceva. Ma in questo
25
gioco di specchi il film non lascia intrawedere possibilità di fuga.
Collocata tra l'incudine e il martello, ugualmente terrificanti, la vita
sembra costretta ad una lenta agonia. La realtà, ipnotizzata ed accecata dai riflessi della sua barbarie, pare destinata a consumare
qualsivoglia ipotesi positiva ed esaurirsi nello status quo. EJ la condanna di Narciso che, ammalato dalla sua immagine rispecchiata
nell'acqua, si lascia morire d'inedia. Ma qui non si contempla la propria bellezza, bensì la propria malvagità irriducibile.
Domina lungo tutto il film un senso di sconfìtta, di desolazione,
un'impotenza assoluta. Grava sulla storia un tempo di piombo: esso
è il vero protagonista nascosto. Da lui viene il grigiore monotono ed
il silenzio gelido che ammanta ogni scena: il tono plumbeo che sempre predomina nel cielo, la luce livida delle città, la costante atmosfera autunnale della vita quotidiana, l'opacità angosciosa del carcere e l'uniforme coloratura delle sue ferraglie. La realtà torna a
mostrarsi in bianco e nero. Tutto, dappertutto, gronda di grigio e
di piombo, come se, dopo un immenso diluvio, la fanghiglia ed il
pantano avessero ricoperto oggetti e persone.
In tuia scena particolarmente significativa del film Juliane, prima
d'incontrarsi con la sorella, si aggira tra immobili ed inespressive
statue di pietra, che riproducono i grandi personaggi del passato.
Di loro non restano che quei massi corrosi dal tempo. Anche la natura, che compare soltanto per fare da sfondo al suicidio del marito
di Marianne, è descritta con tìnte invernali, appena forzate da un
pallido sole.
« Die bleierne Zeit » recita il titolo tedesco, ricalcando il verso hblderliniano in cui si nomina « die diirftige Zeit »: il tempo della povertà e dell'indigenza, il tempo degli dei fuggiti che ritorneranno
solo « in die richtige Zeit », nel tempo giusto ed opportuno.
A tanto sconforto il film non concede scampo. Anch'esso riflette il
vuoto di quel sistema che s'impegna e denunciare.
Ciò che rimane è solo un bambino, dimenticato dalla madre in nome
della rivoluzione e violentato dalla società in nome dell'ordine costituito. Davanti alla fotografia della mamma chiede :« perché ha
buttato le bombe? Devo sapere tutto... comincia... comincia...». Leggendo i giornali di questi mesi, ascoltando i discorsi per strada, ina
pure assistendo a questo film, sembra difficile immaginare che qualcuno sì preoccuperà di rispondergli.
Dopo il crollo delle grandi ideologie, tutti impegnati a sancire l'impotenza della sconfitta, ad invocare pene pesanti per chi ha turbato la quiete, a proclamare la grande restaurazione del dovere incondizionato per superare l'attuale emergenza, non c'è tempo né
spazio, né interesse né voglia per preoccuparsi dei drammi degli uomini e tanto meno per rispondere agli interrogativi dei più piccoli, •
26
Sulle orme di Francesco d'Assisi
Carisma e obbedienza alla Chiesa
di GIORGIO BUTTERINI
i
Che io sappia nella storia della letteratura si possono ricordare almeno tre questioni letterarie: una questione omerica, che tutti conosciamo; una questione sinottica che ha per oggetto i Vangeli e la
vita di Cristo; e per ultima, dalla quale prendo avvio per queste
considerazioni, una questione francescana che ha per oggetto le biografie di Francesco d'Assisi e di conseguenza l'immagine storica del
santo. Ed è sorprendente e significativa la comunanza di simili personaggi in « questioni » letterarie che riguardano fondamentalmente
la figura e l'opera di questi grandi personaggi, come se la loro grandezza non permettesse agli uomini di coglierne tutta la ricchezza.
La questione francescana
Poco dopo la morte di Francesco (3 ottobre 1226), il papa Gregorio IX, già grande amico e protettore di Francesco ancora quand'era
cardinale di Ostia, incarica un compagno di Francesco, Tomniaso da
Celano, di scrivere una vita del santo. Tale vita dal titolo « Legenda
prima » è redatta da Tommaso negli anni 1228-29. Dovrebbe essere la
biografia ufficiale del santo, ma molti compagni di Francesco, i più
fedeli a lui, la ritengono troppo « ufficiale » e troppo poco « francescana ». Il malumore è tale che il superiore generale dei francescani, Crescenzio da Jesi, incarica il medesimo Celano a redìgere una
«Leggenda » (= biografia) di Francesco più completa e accettabile e
invita tutti quanti avessero notizie di Francesco ad inviarle al biografo ufficiale. Il Celano consegna negli anni 1246-47 la sua seconda
litografia di Francesco conosciuta come « Legenda secunda ». Essa
doveva « risultare il punto di incontro di tutta una serie di testimonianze, che, pur trascelte ed elaborate letterariamente, dovevano,
in ogni caso, essere di necessità adoperate » (Manselli: Nos qui cum
to fuimus). Tommaso, mostrando una notevole maestria letteraria,
27
risolse il problema dividendo il testo in due parti: una prima in cui
segue una linea biografica; una seconda in cui sistema il materiale
che gli è stato fatto pervenire organizzandolo secondo le virtù del
santo. In tal modo il Celano « potè evitare un giudizio complessivo
sia su Francesco sia sulla sua fraternità, che sarebbe stato indispensabile qualora i singoli racconti fossero stati fusi in un unico discorso » (Manselli).
Il punto dolente fu proprio questo giudizio che Tommaso voleva evitare, ma che in realtà doveva essere dato, con tutti i rischi che esso
comportava. Storicamente s'era ormai consolidata una duplice immagine del movimento francescano: da una parte il gruppo che faceva
capo a frate Elia, ossia l'ordine francescano inserito totalmente nelle esigenze della Chiesa ufficiale e quindi integrato nelle istituzioni
ecclesiastiche del tempo, e che si manifestava soprattutto in una
organizzazione conventuale secondo il diritto ecclesiastico (donde
il nome di « conventuali ») e dall'altra parte i poveri fraticelli che
seguivano l'ideale genuino di Francesco, personificato dai primi compagni di Francesco, rimasti a lui fedeli (gli spirituali). Proprio questo gruppo, esteriormente disorganizzato, spesso senza case^e senza fissa dimora (peregrini), libero di vivere senza limiti la povertà,
nell'insicurezza di tutte le cose del inondo, ma sicuro di Dio, e proprio per questa sua libertà sospetto alla Chiesa organizzata, produrrà tutta una serie di vite e scritti alternativi su Francesco d'Assisi:
si tratta di leggende o vite non ufficiali, per lo più anonime, scritte
da testimoni diretti dell'opera di Francesco e quindi di grande valore storico: la Leggenda dei tre compagni (ossia di tre dei primi
compagni di Francesco; Leone, Ruffino e Angelo); la leggenda perugina; lo scritto dell'anonimo perugino, lo specchio di perfezione
e infine il « Sacrum commercium sancti Francisci cum Domina Paupertate ».
San Bonaventura
Tuttavia anche l'altro ramo francescano non si sentiva sufficientemente appagato dalla vita secunda del Celano, tanto più che il Celano notoriamente era uno spirituale. La nuova vita così anziché
soddisfare le esigenze e colmare le fratture, le approfondì e accrebbe il desiderio di una nuova biografia più completa e la più oggeltiva possibile. Il capitolo generale dì Narbona del 1260 affidò tale
compito a Bonaventura dì Bagnoreggio, il maestro francescano di
Parigi: il frutto del suo lavoro sarà la « Legenda major », che si
preoccupa soprattutto di inquadrare Francesco nel disegno prowi28
denziale della storia della Chiesa. In un successivo capitolo generale, 1266, si ritenne di poter risolvere una volta per tutte la disputa sulla figura di Francesco ordinando la distruzione di ogni e qualsiasi biografia precedente, comprese le due, che pure erano state
ufficiali, di Tommaso da Celano. Al loro posto era riconosciuta come
unica valida e ufficiale la nuova biografia di s. Bonaventura, Con
tale decisione molte biografìe di Francesco andarono perdute; alcune di queste, secondo le testimonianze autorevoli di Angelo Clareno e Pietro Ulivi, di assoluta grandezza.
Fortunatamente non tutte tali biografie furono distrutte, ma alcune
nascoste dagli spirituali nei piccoli eremi dell'Italia centrale. Queste
sono state scoperte dal Sabatier alla fine del secolo scorso e fu appunto sulla scorta di tali sue scoperte che ebbe origine la cosidetta
« questione francescana », ossia quali fonti sono le più oggettivamente fedeli alla vera figura di Francesco e di conseguenza, come era
veramente questo Poverello d'Assisi? è possibile attraverso tali fonti o quali fonti ricostruire la figura storica di Francesco?
Francesco conteso
E' sorprendente che una figura, a testimonianza di tutti di una estrema semplicità e trasparenza come fu Francesco di Assisi, abbia dato adito a tante contese, divisioni, ìnterpretazìoni. Ritengo che proprio tale difficoltà dei discepoli di Francesco a capire la sua figura
rappresenti il monumento più grande alla sua personalità e santità.
La sintesi di cui è stato capace Francesco di carisma e obbedienza, di
fedeltà all'ideale che gli veniva da Dio e di sottomissione e unità
all'istituzione ecclesiale e romana, non è più riuscita nel suo movimento, che invece ha ceduto di volta in volta all'una o aU'altra: solo un grande personaggio come Francesco e una grande santità fondata su una fede incrollabile, ha reso possibile tale sintesi che non
era riuscita ai riformatori che lo avevano preceduto e non è più
riuscita ai suoi continuatori. Tutta la storia dell'Ordine francescano
nelle successive riforme che lo hanno caratterizzato e nelle divisioni
che lo hanno lacerato e travagliato, sono la testimonianza dell'esigenza sempre presente da una parte di essere fedeli all'ideale francescano, dall'altro di essere leali alla Chiesa. Si formano così i francescani conventuali che si rifanno allo spirito di Francesco e alla
sua regola come viene interpretata dalla Chiesa, ossia con le glosse
esplicative di Roma; la riforma successiva di Bernardino da Siena,
Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca e tante altre riforme
in giro per l'Europa, pretendono di vivere lo spirito francescano co29
me risalta dalla regola francescana senza le glosse esplicative romane; le ulteriori riforme, tra cui la più consistente quella dei cappuccini, pretendono invece di vivere lo spirito francescano e la regola francescana secondo l'interpre fazione che di essa ne da lo stesso
Francesco nel suo testamento.
Francesco nella sua biografia
Si presentano qui alcuni interrogativi su Francesco stesso. E' vero
che lo stesso Francesco ha sentito il bisogno di dare una sua autentica interpretazione della sua scelta religiosa, scrivendo a tale
proposito un « testamento », che doveva essere una precisa puntualizzazione della sua « regola »? e chi allora aveva scritto la regola
francescana? la regola francescana, scritto autentico di Francesco,
non è quindi sufficiente per conoscere autenticamente il santo? —
Per rispondere a tali interrogativi si 'rende necessaria una breve biografia del santo stesso.
La conversione di Francesco non è stata né breve né facile, come potrebbe far credere il racconto del Crocefisso parlante di san Damiano. Certo da quel Crocefisso prende consistenza la conversione di
Francesco, già iniziatasi Bei due anni di carcere a Perugia, e avviatasi decisamente con la lettura del Vangelo nella chiesetta della Porziuncola. E' dal Vangelo che nasce l'ideale francescano, in una stupenda simbiosi tra spirito evangelico e uomo medievale vissuto com'era Francesco. Dopo esser stato accolto sotto il mantello protettore del vescovo di Assisi, Francesco viene inviato nel monastero dei
benedettini sul Monte Subasio. Non voleva forse Francesco una scelta radicale religiosa? ovvio quindi inviarlo in un monastero. Ma Francesco aveva una « sua » scelta da fare, una « sua » via da percorrere
e nel monastero ci rimarrà solo pochi giorni. Ne uscirà per andare
a vivere il suo ideale nella chiesetta della Porziuncola e di s. Damiano, ed elemosinando, lui ricco figlio della borghesia di Assisi, qualcosa da mangiare di porta in porta nella sua città, da coloro che
gli erano stati compagni di divertimenti e di vita cittadina attiva.
Il fascino di Francesco dovette essere straordinario, se subito Bernardo di Quintavalle, Pietro di Catania, poi Egidio, Ruffino, Leone e
tanti altri decisero di seguirlo. Quando Francesco, sull'esempio di
Cristo, conterà 12 discepoli (frati), con frasi del vangelo delinca una
« forma dì vita » che diventa la prima regola francescana che lo
stesso Francesco sottopone al papa Innocenze III a Roma. Ed è questo l'altro elemento estremamente interessante di Francesco: l'esigenza di aver l'approvazione della Chiesa, di sentirsi Chiesa. Un ri30
conoscimento che inseguirà caparbiamente e otterrà nonostante che
nel 1215 il Concilio Lateranense IV avesse deciso che nessuna nuova
regola doveva esserci più nella Chiesa oltre a quelle di Basilio, Agostino, Benedetto,
Nel 1216 san Domenico sceglie la regola agostiniana e la completa
con le esigenze del suo nuovo ordine. Francesco non accetta nessun'altra regola: la sua regola è il vangelo e non ha bisogno di altra.
La sua forma di vita scritta su insistenza del cardinale di Ostia (non
ancora divenuto papa), non otterrà nel 1221 l'approvazione ed è nota come la regola « non bullata » (mentre la prima forma di vita è
andata perduta: quella scritta nel 1210). Poco dopo Francesco, coadiuvato da illustri canonisti scrive la regola francescana, quella approvata da Onorio VI, secondo lo spirito suo proprio, ma anche secondo le direttive di Roma. L'ostacolo del Laterano IV viene superato trovando che l'ordine e la prima regola (la forma vitae) era già
stata approvata da Innocenze III prima del Concilio, e quindi non
incorreva nella proibizione del Concìlio a creare nuove regole monastiche nella chiesa. Proprio questo fatto è estremamente significativo di quella unità che Francesco era riuscito a creare tra quelle
due forze contrapposte che sono carisma da una parte e istituzione
dall'altra: da una parte ci teneva ad essere nella Chiesa con una
regola approvata, dall'altra ci teneva a proclamare la libertà dello spirito francescano e lo ha fatto nel volere una « sua » regola e con l'interpretazione tutta sua data ad essa con il testamento. •
... « Perché a te, perché a te, perché a te? =>. Santo Francesco risponde: « Che è
quello che tu vuoi dire? ». Disse frate Masseo: « Dico, perché a te tutto il mondo
viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederli e d'udirti e d'ubbidirti?
Tu non se' bello uomo del corpo, tu non se' di grande scienza, tu non se' nobile;
onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro? ». Udendo questo santo Francesco, tutto rallegralo in ispirilo, rizzando la faccia al cìelo, per grande spazio
ìstette colla mente levata in Dio; e poi ritornando in sé, s'inginocchiò e rendette
laude e grazia a Dio; e poi con grande fervore di spirito si rivolse a frate Masseo
e disse: « Vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché
a me tutto 'I mondo mi venga dietro? Questo Io ho da quelli occhi dello altissime
Iddio, li quali in ogni luogo contemplano i buoni e li rei: ìmperciò che quelli occhi
santissimi non hanno veduto fra li peccatori nassuno più vile, né più insufficiente,
né più grande peccatore dì me; e però a fare quell'operazione maravigliosa, la
quale egli intende fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e perciò
ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca ch'ogni bene è da lui, e non dalla creatura, e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi sì gloria, si
glorii nel Signore, a cui è ogni onore e gloria in eterno a.
(Ponti Francescane, n. 1838, pagg. 1475-1476)
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TACCUINO CULTURALE TRENTINO
(a cura di MARIA TERESA PONTARA)
II segno • indica gli appuntamenti che a parere della redazione si presentano particolarmente significativi ed interessanti.
Le date degli incontri sono: 24 aprile, 8 - 1 5 - 2 2 - 2 9 maggio.
Direttore del Corso: dott. Gìampaolo Mazzero, psicologo del Consultorio Familiare di
Verona sud.
Segreteria del Corso: A.Ge. - Trento, via s. Giovanni Bosco 3
Inizia sabato 8 maggio (incontri successivi 15-22 maggio) un Corso per insegnanti e
animatori culturali sul tema 11 linguaggio delle immagini: ambiente e figura, organizzato
doll'AlART trentina con sede in via s. Giovanni Bosco 3 - Casa s. Paolo - Trento.
SCIENZE NATURALI
•
FEDE E CULTURA RELIGIOSA
6 maggio ore 20.30:
21 maggio ore 18:
30 aprile ore 21:
Gìom: 1) profeta dteobbedìenie, rei. p. Livio Passalacqua
e/o Villa s. Ignazio - Trento, via alle Laste 22
La Chiesa italiana testimone di unità nella contrapposizione
delle culture a delle visioni dell'uomo, re), padre Bartotomeo
Sorge, direttore di Civiltà Cattolica
e/o Centro Bernardo desio - Trento, via Barbatovi 4
L'Associazione Astrofili Trentini ha organizzato per i mesi di aprile o maggio un ciclo
di conferenze di astronomia, astrofisica e cosmologia.
Gli Incontri si svolgeranno presso l'Aula Magna del Museo Tridentìno di Scienze Naturali a Trento in via Caleptna 14, Palazzo Sardegna:
I pulsar: stelle di neutroni, rei. prof. Massimo Cerdonio
dell'Università di Trento
7 maggio ore 21 ;
Origine ed evoluzione dell'Universo, rei. prof. Giuliano Romano dell'Università di Padova e dell'Osservatorio Astrotìsico
di Asiago
14 maggio ore 31 :
La vita nell'Universo, rei. prof. Giuncarlo Favero dell'Università di Padova
In concomitanza con queste conferenze, l'Associazione Astrofili organizza, condizioni
tereologiche permettendo, una serata di 'osservazioni del clelo al telescopio.
me-
CONVEGNI
Papato o istanze acumenlche — Convegno organizzato dall'Istituto di Scienze Religiose,
relatori: prof. Giuseppe Ghìberti dell'Università Cattolica di Milano, prof. Vittorio Peri
di Roma, prof. Harmann Pottmeyer dall'Università di Bochum e prof. Donato Valentlnl
dell'Università Pontifìcia Saleslana di Roma
L'inizio dal Convegno e previsto per le ora 17 di mercoledì 19 maggio, mentre giovedì ad ore 16 il terrà una Tavola rotonda conclusiva
e/o Istituto di Scienze Religiose - Yillazzano di Trento, Villa Tambosi
MOSTRE
L'Eneide di Virgilio illustrata da Luigi Ratini - Trento - Palazzo delle Albere dal 2 aprile
al 30 maggio - Museo Provinciale d'Arte • Provincia Autonoma di Trento.
VARIE
•
STORIA, FILOSOFIA E SCIENZE UMANE
Dal 25 aprile al 1° maggio: 30° Fllmfestìval internazionale montagna esplorazione
« città di Trento ». Le proiezioni saranno effettuate presso il Teatro Sociale a Trento
In via Oss Mazzurana 17 e il Cinema Dolomiti in via Borsieri 7.
Continua il Corso dì aggiornamento per insegnanti di Storia con due incontri il 7 e l'B
maggio ore 17 presso il Centro A. Rosnnìni a Trento, largo Carducci 24, relatori: .prof.
Zaninelli dell'Università Cattolica di Milano e il prof. Roberto RufFIIIi dell'Università di
Bologna
CORSI
E' iniziato sabato 17 aprite il Ctrso dr educazione sessuale per genitori ed educatori organizzato dall'Associazione Italiana Genitori in collaborazione con MpV, FIDAE, UCIIM
e A1MC.
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LETTERE AL MARGINE
RIFLESSIONI SUL COMITATO TRENTINO DELLA PACE
// Comitato tremino per la pace, il disarmo e la cooperazione tra i popoli compie sei
mesi di vita: un periodo troppo breve per tracciare un primo bilancio dell'attività,
ma forse sufficiente per gualche riflessione.
L'appello rivolto dalle ACLJ trentine il 15 settembre '81 ad un'ottantina di persone
affinchè si costituissero in comitato per la pace e il disarmo trovò una pronta risposta e una convinta adesione; le prime iniziative (raccolta di firme per la pace,
pubblici dibattiti, incontri nelle scuole con studenti e docenti) videro un'ampia partecipazione dei firmatari all'appello, costituitisi nel frattempo in Comitato. La manifestatone pubblica svoltasi a Trento il 21 novembre all'insegna del disarmo e detta
pace vide l'affluenza da Trento, Rovereto e dalle valli di molta gente: era da parecchi
anni che nel Trentino non si assisteva a manifestazioni di tale ampiezza. Seguì al
corteo per le vie cittadine un affollatissimo dibattito nella sala della Regione, relatori
Carghi, Tridente ed Enrica Collotti Piscel. Il Comitato promosse infine, già in clima
natalizio, la manifestazione dei palloncini colorati con i messaggi di pace che vide
una larga partecipazione di alunni delle scuole elementari e medie.
Un avvio dell'attività del Comitato pieno di speranze dunque. Ovviamente sin dall'inizio nessuno si nascondeva le difficoltà che il Comitato avrebbe incontrato nel suo
cammino; si aveva però la netta i?npressione che le naturali differenze esistenti fra
i firmatari nel modo di intendere l'impegno per la pace avrebbero preferito armonizzarsi con il procedere dell'attività del Comitato. Solo la richiesta al governo italiano
di sospendere la decisione dell'installazione dei nuovi missili a Comiso aveva sollevato
perplessità da parte di alcuni firmatari dell'appello, nella convinzione che una simile
richiesta potesse apparire inefticace al fine del superamento della logica dei blocchi
militari contrapposti.
Ftf di fronte ai successi ìel movimento per la pace in Europa, in Italia e anche nel
Trentino cbe le deferenze all'interno del comitato iniziarono ad accentuarsi, con il
risultato che le Ione politiche e sociali richiamarono a sé le forze e le energie del
Comitato per la pace; ciò avvenne in perfetta buona fede, nella convinzione che la
pluralità di voci e di posizioni avrebbe rafforzato il movimento senza nulla togliere
alla capacità di iniziative del Comitato.
La previsione si è rivelala errata; si è sottovalutato il fatto cbe parole come pace,
disarmo e cooperatone fra i popoli, se da una parie hanno una grande forza e capacità di rubiamo sulle coscienze dei singoli, dall'altra perdono immediatamente di
valore e significato se usile per motivi dì parte: verità lapalissiana fin che si vuole,
ma di cui non si e tenuto sufficientemente conto. Abbiamo assistito così ad iniziative sulla paci orgamzvife da partiti, movimenti e sindacati in cui la presenza del
Comitato Trentino in quanto tale non veniva né sollecitata, né tanto meno al Comitato stesso veniva offerte di gestire autonomamente gli spazi che ciascuna {orza politica o socìde intendeva organizzare per rivolgersi atta pubblica opinione. I tragici
fatti di Polonia, sopravi^tie^ido a queste già organiche debolezze hanno avuto l'effetto di mettere crsdatatate a nudo la precarietà che era imita in tali approcci al
problema della pace, co> patiti e sindacati vanamente protesi in un tentativo di
coinvolgimelo ( wob-èitiziosie popolare cbe ha avuto scarsi risultati. Di fronte alla
violenza cbe in Polonia tvme in Salvador sì riafferma, si va nuovamente diffondendo
un senso di impotenza e dì rassegnazione. E' quindi ora e tempo di rilanciare il nostro Comitato e ognuno ìeut fare qualcosa per la pace —• ma perché le convinzioni
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politiche e religiose cbe differenziano quanti si riconoscono in questa causa non costituiscano « ostacolo, ma anzi stimolo ad un impegno comune » come sta scritto nel
primo appello del Comitato trentino — bisogna che i singoli riflettano sulla scarsa
efficacia che l'impegno sul tema della pace raggiunge all'interno dei rispettivi partiti e movimenti. L'attività del Comitato va infine indirizzata verso iniziative di informazione, specie nelle scuole, sullo stato e la qualità degli armamenti, sui processi
storici che hanno portato all'attuale equilibrio del terrore, utilizzando a tal fine anche
la pagina offerta da « Consiglio provinciale cronache ». Su questa linea si muove anche la proposta avanzata nella segreteria organizzativa del Comitato, e che verrà
sottoposta a tutti i firmatari, di aprire un concorso nelle scuole sul tema della pace,
del disarmo e della cooperazione fra i popoli. I lavori più significativi degli alunni
delle xruole elementari ?. medie verranno esposti in una mostra al termine dell'anno scolastico.
Vincenzo Cali
CONVEGNO
DELLE RIVISTE
CATTODCO-DEMOCRATICHE
« I I Margine» ha organizzato il 15 e 16 maggio prossimi a Firenze un incontro
nazionale dì studio tra tutte le piccole testate locali che operano nell'area cattolicodemocratica. Lo scopo di questo incontro è l'approfondimento di alcune tematiche
relative al problema della comunicazione e della informazione e il confronto e lo
scambio tra le diverse esperienze.
Questo i programma dei lavori;
Introduzione ai lavori
ore 15.30
SABATO 15
Relazione del prof. Achille Ardigò:
16.00
« Comunicazione di massa e comunicazione conviviale »
Comunicazioni di:
17.00
— Nuccio Fava (giornalista RAI )
—- Roberto Zaccaria (doc. diritto regionale; cons.
amm. R A I )
Incontro sulla Lega Democratica
DOMENICA
16
ore
9.00
12.00
Tavola rotonda animata dalla redazione del « Margine » e del « Guado »
— Il problema del linguaggio
— Comunicazione e politica
— L'informazione religiosa ed ecclesiale
— Cinema arte letteratura; nuovi strumenti di
comunicazione
Dibattito
Conclusione
La sera del sabato sarà dedicata alla presentazione e al dibattito sull'attività della
Lega Democratica. Ogni testata è pregata di arrivare al seminario con una relazione
scritta sull'attività svolta da consegnare alla segreteria < specificando numero abbonati, diffusione, identità, ecc.) e se possìbile con fotocopia dell'indirizzario degli
abbonati.
Per informazioni sulla sede del convegno e sulle possibilità di alloggio rivolgersi a:
Libreria Cultura, via G. Capponi 30, 50121 FIRENZE - tei. 055/570077.
IN
CASERMA
Negli angoli della camerata
l'ombra della sera
invisibile come una ragnatela.
L'anima respira il verde dei prati
a primavera. Insieme, ma lontani,
finiamo ogni giornata in un amore
strano. Tu dici che è matto,
e mi fai pensare all'uomo
di un ospedale, ammalato, che vuole
uscire a prendere le rondini
quando volano la sera.
La tua bellezza è questa primavera.
ARMANDO
VADAGNINI
(da « / desiderati passaggi », 1912)
IL MARGINE n 4 - ap'i'e
'82
per iodico rnei= le - anno 'I - Redaz e amministraz.:
38100 TRENTO, via Suffragio 39 - Spezzone ir = bb. posiaìe gruppo I M / 7 D - L. 1 000
ti;. .Argentari.m - Trer.-o