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D editoriale: IL PREZZO DELLA DENUNCIA. D politica: LA CA- DUTA DELLE STATUE E LA NUDITÀ1 DEL TEMPIO. D associazione: « LA STORIA NON MORI- RÀ', LA CONDUCE DIO ». D cultura: QUEL « NUOVO PENSARE » MODO DI DEL PERSONALISMO COMUNITARIO. D recensione: LA TRAGEDIA DI NARCISO. D fede: CARISMA CHI ESA. trentino. 4 E OBBEDIENZA ALLA D taccuino D lettere al 1982 culturale Margine. IL MARGINE Il Margine n. 4 - anno II aprile 1982 mensile dell'associazione culturale Oscar A. Remerò Direttore: PAOLO GHEZZI Condirettore: MICHELE NICOLETTI Redazione: LUCIANO AZZOLINI (dir. resp. a norma di legge) - DANIELA GIULIANI (segreteria) - PAOLO GIUNTELLA • ROBERTO LAMBEUTINI - FABRIZIO MATTEVI - VINCENZO PASSERINI - MARIA TERESA FONTARA - MARIANO PRETTI • SILVANO ZUCAL Una copia, L. 1.000 - un arretrato, L. 2.000 - abbonamento annuo, L. 10.000 - abbonamento sostenitore, da L. 20.000 in su - prezzi per l'estero: una copia, L. 2.000 abbonamento annuo, L. 20.000. I versamenti vanno effettuati sul c.c.p. n. 14/9339 intestato a « II Margine », Trenta. Autorizzazione Tribunale di Trento n. 326 del 10.1.1981. Redazione e amministrazione: « II Margine », via Suffragio 39, 38100 Trento. II prezzo della denuncia p. 3 La caduta delle statue e la nudità del tempio p. 5 « La storia non morirà, la conduce Dio» p. 11 Il prezzo della denuncia di MICHELE DOSSI Quel « nuovo modo di pensare » del personalismo comunitario p. 16 La tragedia di Narciso p. 21 Carisma e obbedienza alla Chiesa p. 27 Taccuino culturale trentino p. 32 Riflessioni sul Comitato trentino della pace p. 34 PRIMA DI LEGGERE QUESTO NUMERO II livello degli abbonamenti, lentamente, sale. Purtroppo non c'è da temere una vera e propria alluvione, ma a quota 500 siamo arrivati, ed è la riconferma che attendevamo. C'è stato un notevole ricambio tra gli abbonati, il che significa che a qualcuno la nostra rivista non è piaciuta, e che altri, al contrario, l'hanno « scoperta » e apprezzata. Probabilmente, abbiamo perso per strada i lettori iperpoliticizzatì, i cinici e gli ipercritici. Forse, abbiamo trovato altri lettori che, come noi, sperano ancora che il mondo si possa cambiare, e aspettano solo l'occasione storica per provarci. Andiamo in macchina mentre sta per scadere l'ultimatum della Gran Bretogna all'Argentina: al di là di come vada a finire, mette addosso una grande tristezza vedere i ragazzi delle truppe d'assalto inglesi salire ridendo sul loro transatlantico, allegri ed entusiasti come andassero in crociera... Ma già, noi di strategia Intornozinnali non capiamo un bel nulla... « II Margine » è in vendita a Trento presso: « Disertori », via s, Viglilo; « Poollno », via Belenzani; « Artigianelli », corso 3 Novembre. A Rovereto presso l'edicola « Kiniger ». Il n. 4/1982 è stato chiuso in tipografia il 3 maggio 1982. La politica internazionale entra ormai nelle case di tutti. Anche alla gente semplice, ai non esperti, capita di discutere delle questioni che, con tanta frequenza, movimentano il panorama mondiale. Ognuno avverte all'orizzonte nuvole scure: è diffuso il senso di gravi e ricorrenti minacce a quello che si usa chiamare l'« ordine internazionale ». Quindici anni fa. Paolo VI, osservando la storia dell'umanità del nostro secolo, percepiva « il dinamismo di mi mondo che vuole vivere più fraternamente, e che, malgrado le sue ignoranze, i suoi errori, e anche i suoi peccati, le sue ricadute nella barbarie e le lunghe divagazioni fuori della via della salvezza, si avvicina lentamente, anche senza rendersene conto, al suo Creatore » (Populorum progressio, 79). Quanto è difficile, oggi, fare propria quella certezza del Pontefice! Quanto più attuale sembra, al suo confronto, l'oscuro avvertimento di Brecht, dopo la vittoria sul mostro nazista: « I popoli lo spensero, ma ora non cantiamo vittoria troppo presto: il grembo da cui nacque è ancora fecondo ». Di fronte a tanto pericolo, s'impone ogni sforzo per il manteninien^ to della pace. La pace come bene supremo. Oggi tutti lo dicono. Ma se andiamo a vedere appena più attentamente come stanno le cose, scopriamo una realtà inquietante: la pace di cui parliamo, come pace da mantenere, da salvaguardare, è una pace parziale ed iniqua. Scopriamo che parlare di pace non è proprio, per noi, paesi. sviluppati, un discorso « pacifico ». Se vogliamo affermare una pace autentica, se vogliamo denunciare violenze ed ingiustizie, i primi ad essere colpiti da queste denunce siamo noi. I conti li può fare ognuno, perché si conoscono: il Nord ricco ha un quarto della popolazione mondiale e quattro quinti del reddito mondiale; il Sud ha tre miliardi di abitanti, pari a tre quarti della popolazione del mondo, e dispone di un quinto del reddito mondiale. Una conclusione: cinquanta milioni di morti all'anno per inedia o mancata assistenza! All'ultimo Convegno giovanile della Cittadella sul tema della pace, Enrico Chiavacci, moralista, non esitava a dire: « Siamo di fronte ed una situazione di tragedia, una tragedia di cui sono convinto che la maggior parte dei buoni cristiani e non cristiani amanti della pace non si rendono conto ». Altro che pace da difendere! « Questa in atto è una vera guerra. E' mancanza di pace talmente profonda, talmente radicale che produce gli stessi effetti di una guerra fatta con le armi. Pensiamo che sono 15-20 anni che si cerca di fare conferenze tra i paesi del Nord e del Sud e tutte falliscono, e nel frattempo, mettiamo in venti anni, con cinquanta milioni di morti all'anno, siamo arrivati ad un miliardo di morti. Capito? I morti uccisi indirettamente dalle nostre scelte economiche e politiche ». Oggi tutto questo ci sta davanti agli ocelli. Si può dire che i ricchi consumano, sulla miseria dei più, un lussuoso banchetto. Ricchi « umanitari », è vero, che le briciole, a chi bussa alle loro porte, non le hanno mai negate. Salvo poi rapinare silenziosamente con una mano quello che, con tanta pompa, hanno concesso con l'altra. Certo, le complessità dei problemi politici ed economici mondiali ci confondono. Ma le evidenze non si possono tacere. Anzitutto l'evidenza della nostra reale collocazione nel confronto popoli oppressi - popoli oppressori: noi, popoli dell'Occidente cristiano, della grande tradizione umanistica, della difesa dei diritti della persona, siamo senza dubbio dalla parte degli oppressori. Come ricordava Chiavacci, sono le nostre scelte politiche ed economiche che hanno generato e che, ora, mantengono e rafforzano « una condizione di assoluto disprezzo della giustizia di Dio nell'ambito globale della famiglia umana ». Allora dobbiamo svestire i panni dei giudici. Quanti problemi di coscienza ci siamo fatti: con il Salvador o con la Polonia? Con la Cambogia o con il Guatemala? In realtà Salvador e Polonia, Cambogia e Guatemala e tutti i poveri e dannati della terra, stanno lì a giudicarci. Se siamo dalla parte degli oppressori, la nostra cultura, i nostri appelli, le nostre parole appaiono radicalmente indegni alla denuncia. II benessere, a clù ce l'ha, permette tutto. Ma porta anche ad una strettoia che non lascia più spazio ad una denuncia di semplici parole. O il silenzio, o la testimonianza! La testimonianza di una più grande libertà di fronte al nostro modello di vita, ai nostri beni, ai nostri consumi. La testimonianza di una tensione morale più alta ed esigente, che realizzi gesti concreti di rinuncia, di solidarietà e di accoglienza. La testimonianza di un impegno politico vissuto come responsabilità verso tutta l'umanità: perché anche la politica e l'economia alzino lo sguardo, considerino la famiglia umana come un tutt'uno e tendano ad un autentico, integrale umanesimo. Sono queste le condizioni che possono permetterci parole non ipocrite di denuncia. • POLITICA Sul palcoscenico e dietro le quinte dellajjoiìtìca La caduta delle statue e la nudità del tempio di SILVANO ZUCAL Debbo confessare che la lettura quotidiana dei giornali sta diventando per me un esercizio sempre più penoso. La tentazione di « passare oltre » e di chiudere in fretta il quotidiano scontro con la realtà mi prende con forza quando giungo alle pagine politiche. La sensazione infatti è quella di una nausea sottile e di una tristezza accentuata. Qualcuno potrebbe insinuare che questo mi accade in virtù dell'abbandono della militanza politica attiva. Non lo credo. La politica è per me troppo centrale perché ini possa permettere un sereno distacco e un approdo effettivo ad altri interessi, assunti in maniera esclusiva. Sento che nel bene e nel male è lì che sì giocano tanti destini e tante umane sofferenze. Ma se guardo con rocchio più. disincantato possibile alle vicende politiche italiane di questi mesi non posso non esprimere amarezza e preoccupazione. Credo comunque che non bisogna limitarsi a lasciare che fatti, episodi, « casi » possano abbagliarci ed alla fine deviarci nell'analisi. Dobbiamo avere il coraggio morale e intellettuale di scandagliare e, se possibile, dì illuminare il processo politico profondo, decisivo che interessa il nostro Paese. Ebbene penso che si possa identificare un elemento decisivo dell'attuale momento politico italiano cui facilmente collegare fatti e avvenimenti che altrimenti rimangono casuali o meramente episodici. La politica scarna e brulla Per definire tale elemento uso immagini solo apparentemente liriche, che ridanno però allusivamente il senso del cambiamento politico nel nostro paese. Ebbene in Italia la politica in senso Iato (e tutti i partiti vi sono inclusi) ha subito una scarnificazione del suo senso originario ed una gelata impressionante della sua capacità motivante. Da partiti, come quelli italiani, che trasudavano ideologioita, passionalità, riferimenti quasi sacrali e devoti, stiamo lentamente ma con sempre maggiore evidenza giungendo ad una politica largamente secolare prima di un'anima motivante... E qui è il primo elemento di crisi. Per certi aspetti questo ritorno dei partiti alla secolarità, questa loro de-ideologizzazione, questo assumere come aspetto cruciale della politica una razionalità costruttiva avevano un valore positivo ed erano da tempo invocati nell'ambito di una politica come quella italiana troppo carica di guerre di religione, di contrasti meramente ideologici. Ma ogni caduta di statue implica una nudità del tempio. Il problema è cosa faranno i nuovi adoratori. Essi possono vivere senza tempio e senza statue, possono impazzire, possono fuggire verso altri templi ed altre statue ed in essi rifugiarsi oppure possono desiderare la ricostruzione del tempo e delle statue. Dietro il paradosso e la metafora sono altrettanti atteggiamenti emergenti nella politica italiana: tutti, a mio parere, o pericolosi o insufficienti. Vivere senza tempio e senza statue del potere (senza templi e senza statue) che nulla concede alle buone maniere e al rispetto razionale, laico delle istituzioni. Gli awersari interni sono liquidati (caso Bas&anini) senza pietà o cooptati ministerialmente (caso Signorile). La delicatezza di talune scelte istituzionali, completamente disattesa (caso Federico Mancini) e la responsabile gestione degli enti economici di stato tranquillamente ignorata in virtù di una spregiudicatezza senza pudore (caso ENI -Di Donna). Quale progetto resta allora per il nuovo PSI? Nulla più di una riforma istituzionale, con aspetti inquietanti, altri accettabilissimi, ma che è il semplice paravento di altri messaggi e di altri obiettivi. Perfino don Baget Bozzo nel suo furioso amore per il nuovo PSI ha avuto nell'assemblea di Riniini un attimo di resipiscenza, denunciando l'illusione kelseniana del PSI, l'illusione cioè che sia puramente un nuovo assetto istituzionale, una riforma delle regole del gioco, a generare il cambiamento nel paese. Il problema è che il Psi non vuole affatto cambiare Io Stato e il Paese, ina più semplicemente « occuparlo ». La notissima espressione di Leopoldo Elia su una certa fase del potere democristiano vale oggi perfettamente per il Psi di Craxi: ciò che conta è l'occupazione del potere, il permeare di sé istituzioni e governo. Per il cambiamento, l'invenzione, la progettualità, il governo in senso forte c'è tempo più avanti, dopo aver vinto il duello per il potere. *• II Partito socialista di Bettino Craxi è quello che con più coerente lucidità ha scelto di vivere senza tempio e senza statue. Le vecchie statue sono al museo delle cere, i vecchi socialisti che masticavano ancora un po' di marxismo ideologico e di socialismo etico (pensiamo ai Lombardi, ai De Martino, allo stesso Bobbio) sono stati velocissimamente giubilati. Nella furia iconoclastica nulla è stato risparmiato. Neppure il simbolo del partito che non richiama più falci e martelli, frutti e simboli di lotte e di occupazioni di terre e di battaglie operaie e di canti internazionalisti, ma semplici e neutri fiori di serra, i garofani. Ora la liturgia stessa dei congressi e dei convegni craxiani è affidata al design ed alle nuove architetture. Claudio Martelli pensa poi ai mass-media, vera cinghia di trasmissione di un partito che ormai vuoi essere soprattutto una forza d'opinione e di consenso variegato, piuttosto che il vecchio partito di fedeli anticlericali e di sanguigni militanti. In quest'area senza tempio e senza statue non sembra però emergere solamente un nuovo socialismo, riformista, non demagogia), correttamente innestato nei problemi e nelle attese della società industriale avanzata, un socialismo — per così dire — all'altezza dei tempi. Sembra piuttosto farsi avanti una spregiudicata concezione E c'è chi impazzisce... Ma nella caduta del tempio e delle statue, ci sono adoratori troppo fedeli per reggere allo scempio di tanta sacralità ed allora sono presi da sussulti irrazionali, impazziscono... E' il caso del PCI. Il partito sacrale, auto-definitosi « diverso » che deve fare i conti con la miseria della politica. La Polonia è l'ultimo cornicione del tempio a cadere. Non erano bastati l'Ungheria e la Cecoslovacchia, il i-apporto di Kruscev, la guerra tra Cina e Vietnam... Era necessario quest'ultimo strappo con la definitiva abiura e la relativa scomunica per lesa maestà e soprattutto per paganesimo capitalista, venuta dal Cremlino. Il « caso Cirillo » è stato invece il primo atto di irrazionalità. Una volta scomunicati, dove trovare ancora elementi per la propria diversità? E allora ben venga una Marina Maresca. Ben vengano i titoli a scatola e la riduzione del giornale devotissimo e calibrato ad un'edizione straordinaria dell'Espresso. Tristi cose e tristi segnali. La vicenda Cirillo è una vicenda antica. Antica come Napoli e come i suoi problemi ove la camorra è istituzione ben più forte dello Stato e ben più forte dello stesso ter- rorismo. Ricordo la tristezza nel vedere Cirillo sul palco più alto in piazza Duomo a Trento nella Festa dell'Amicizia democristiana. La De non volle accorgersi della realtà, benché lo stesso giornale diocesano di Napoli (non Repubblica, non l'Espresso) avesse denunciato la realtà dei fatti e invitato caldamente Cirillo a farsi da parte. Ma già, la superbia ottusa della politica. Meglio, speriamo che solo di arroganza si tratti, perché se fosse qualcosa di diverso, se fosse connivenza, ci troveremmo di fronte a un fatto terribile, ad un « peccato teologico » come ha detto un mio caro amico: l'aver trattato per Cirillo, mentre si era rimasti ad un doloroso e fermo no per Aldo Moro. Ma se la vicenda Cirillo è antica e inquietante, il. « caso » Cirillo, la falsa montatura dell'« Unità », è radicalmente nuovo e radicalmente inquietante. Segno che il PCI fatica ad accettare la secolarità della politica e sputare impunemente sugli avversari è il modo nuovo di affermare la sua diversità. Fuggire iit altri templi o ricostruire l'antico? Il dilemma tra fuga e ricostruzione del tempio è invece quello che interessa la DC. Anni di logorante gestione del potere hanno largamente annacquato tensione morale, valori, punti di riferimento ideali per il partito dei cattolici. In larga parte esso è ormai perfettamente omologato alla società secolare, interprete forse pasticcione di un contesto sociale di capitalismo avanzato. In questo suo ripiegamento pragmatico rischia però di perder per strada il mondo cattolico. E1 troppo frequente la divaricazione di temi e di prospettive. Pensiamo solo al tema della pace, cosi idealmente assunta da larghe fasce del mondo cattolico e così largamente disattesa da un partito democristiano troppo allineato sulle posizioni reaganiane. L'Assemblea di novembre è stata a un tempo la percezione di questo scollamento e il tentativo di porvi rimedio. Prima che i cattolici fuggano dalla DC per chiudersi completamente nel sociale, nell'attivismo parrocchiale, nei piccoli gruppi o nei movimenti per trovare hi altri templi, in altri ambiti motivazioni e fors'auche sicurezze, è necessario che la DC ridiventi appetibile al mondo cattolico, si rimetta un poco a posto e si rifaccia l'aspetto deteriorato di partito pragmatico e di pura ricerca del potere. E' il concetto espresso in maniera limpida da Giovanni Galloni, quando disse che la DC aveva bisogno di una trasfusione di sangue cattolico. Altri intanto pensavano a un secondo partito più « cattolico », più precisamente configurato nella sua veste e nei suoi comportamenti. In realtà il dilemma nella DC è ancora aperto. Ed anzi, il Congres- so nel modo in cui è stato preparato, mostra che k carica propulsiva dell'assemblea di novembre non è riuscita a scuotere il partito. Tutti i suoi mali: correntismo, mancato rinnovamento, precarietà, di linea culturale e politica si sono anzi accentuati. La DC va al Congresso senza prospettive e quindi sembra irreversibile il suo essere « fuori del tempio », non nel senso positivo della laicità, ma in quello deteriore dell'opportunismo palitico, della fragilità progettuale, della preoccupazione prevalente del potere. E i cattolici sono aucor più tentati dalla rinuncia, dell'occuparsi piuttosto della parrocchia, dall'impegnare altrove le foize migliori. Prevale la lotta per il potere Se dunque quello descritto è il quadro culturale essenziale entro cui si muove la politica italiana, non meno fosca è la situazione propriamente politica. Moro aveva ragione ad intrawedere una « terza fase » nella politica italiana del dopoguerra dopo il centrismo e il centro-sinistra. Egli non poteva però prevedere quali ne fossero i contorni e soprattutto che le prospettive non erano quelle da lui immaginate. Non presumo certo di essere un interprete fedele del suo pensiero, ma rileggendo gli ultimi discorsi dello statista scomparso mi sembra di poter dire che Moro non prevedeva un ruolo attivo e protagonistico dei socialisti nella politica italiana. Non prevedeva soprattutto la sottile tesi deIP« alternanza » socialista, che null'altro comporta se non la sostituzione della DC al centro dello schieramento politico e la sua progressiva marginalizzazione. Non poteva ancora Moro prevedere il Congresso democristiano del <t preambolo » che ha aperto al PSI spazi imprevisti, né si poteva presumere la crisi di un PCI allora in ascesa. E' chiaro che la questione comunista è ancora una questione cruciale del paese (e in questo la linea di Moro rimane valida) ma diviene sempre più evidente che la risoluzione di questo nodo storico prevede una fase antecedente di pesantissima conflittualità tra DC e PSI per vedere quale dei due partiti avrà l'onore e gli oneri di sciogliere la questione comunista ed unificare il Paese. La lotta è quindi sì negli aspetti più evidenti e deteriori lotta per il potere, ma è anche lotta per appaltarsi la gestione dell'intero'futuro politico del Paese. E' questa una carta delicatissima, che richiede una lotta spieiata. E Craxi non conosce scrupoli. Chi vincerà avrà in mano l'Italia dei prossimi dieci anni. L'assommarsi di questi due aspetti (politica secolarizzata e pragmatica, lotta per il potere in una fase di transizione) determina l'imbarbarimento del livello del confronto politico nel nostro paese. 9 Valori semplici per credere alla politica Ciò di cui forse i partiti non si rendono conto compiutamente è che così agendo perdono due generazioni all'impegno politico. C'è bisogno disperato di verità. Leggere i giornali appaltati alle diverse fazioni è ormai un esercizio demotivante. In un sussulto di onestà Giampaolo Pansa ha parlato di « giornalisti dimezzati », oramai esponenti di verità preconfezionate e strumentali. Le vicende del governo Spadolini hanno ampiamente mostrato come troppi sono disposti a far strame di istituzioni, dignità personale e politica. Eppure occorrerebbero poche ed essenziali cose. Valori semplici, per credere ancora alla politica. Un po' di fede nell'uomo, un po' di rispetto per ciò che è di tutti, un'appartenenza effettiva alla propria coscienza, un dialogo ed un confronto contenuti entro i limiti della decenza democratica, un po' di spìrito di servizio, un po' di amore ai poveri ed alla gente. Perché non rimangano puri appelli, dovremmo tutti ripensare (anche noi del Margine) al nostro rapporto con la politica. E' giusto il silenzio troppo prolungato? E' giusta l'assenza? O è giunto il tempo di tentare qualcosa? Talvolta già il segno modestissimo di qualcosa di diverso, può essere una speranza. La nostra latenza, il nostro marginalizzarci, non devono e non possono renderci assenti e quindi corresponsabili con questo degrado. Dobbiamo inventariare tutte le vie per mostrare che la politica è ancora possibile. Non sogno di certo una politica frondosa e carica di ideologia. Non voglio certo partiti che tornino a un marxismo mitico, illusorio e mistificante né partiti che si chiudano (tipica tentazione cattolica) in anacronistici integralismi. Ma non posso moralmente accettare che la politica sia o pragmatismo nudo, o fuga ideologica. Credo possa ancora esserci una politica laica, rigorosa, razionale e nello stesso tempo eticamente fondata, nutrita ad una passione per l'uomo, desiderosa del cambiamento e di una migliore convivenza. • ASSOCIAZIONE Ricordando Oscar A. Remerò «La storia non morirà, la conduce Dio» di MICHELE NICOLETTI La parola che la vita e la morte di Oscar Araulfo Remerò ci lasciano nella storia di oggi, a noi cristiani e uomini dell'Occidente, è la parola « conversione ». Non l'unica certo, ma la prima che colpisce ripercorrendo le tappe del suo cammino, i suoi discorsi, le sue omelie. Romero è un convcrtito. Non nasce profeta né martire, ma lo diventa; non nasce neppure difensore dei poveri, ma lo diventa attraverso la propria storia e la storia del suo popolo. Egli è inizialmente un moderato — lo riconosce lui stesso — e a chi lo intervista dopo la « conversione », la prima cosa che dice è « prima non ero così ». Quando viene nominato primate del Salvador, il governo stesso non vede male la sua elezione. Poi, il 12 marzo 1977, viene ucciso padre Rutilio Grande, suo amico fraterno. Romero trascorre l'intera notte accanto alla salma dell'amico e da quella veglia esce trasformato. La sua non è una conversione politica da vescovo moderato a vescovo progressista, è una conversione di fede che si incarna nella storia, che nella sua responsabilità di vescovo, di maestro e di pastore, si fa teologica ed ecclesiologica. Non è neppure una conversione intellettuale, non è un'assunzione di un nuovo schema teologico: quella di Romero non è una teologia della prassi o della liberazione, più profondamente è una teologia dalla prassi e dalla liberazione. Il mistero dell'Incarnazione Al centro di questa conversione sta il mistero dell'incarnazione: l'unice modo autentico di vivere la fede è entrare nella carne dell'uomo come Cristo ha fatto. « Sappiamo — dice Romero — che non si tratta direttamente di un'incarnazione universale, che è impossibile, ma di un'incarnazione preferenziale e parziale; un'incarnazione nel mondo dei poveri. A partir da loro la Chiesa potrà essere per tutti, potrà anche prestare un 10 11 servizio ai potenti, attraverso una pastorale dì conversione; ma non il contrario, come tante volte è successo ». Questo concetto di « incarnazione parziale e preferenziale » di Cristo è centrale nel pensiero di Romero: Cristo si incarna nella parte povera dell'umanità e dell'uomo, nell'unica parte da cui si può capire e salvare il tutto. « Incarnarsi » dunque vuoi dire entrare nella carne, non vuoi dire necessariamente esserci sempre stati; vuoi dire anche accorgersi di esserne fuori e scegliere di entrarvi. Né Romero, né la Chiesa del suo paese erano sempre stati dalla parte dei poveri: « è una novità per il nostro popolo che oggi i poveri vedano nella Chiesa una fonte di speranza e un appoggio alla sua nobile lotta di liberazione ». La conversione di Romero ci dice che è davvero possibile — non solo necessario — cambiare, andare a stare dalla parte dei poveri. La scelta per i poveri diventa così l'espressione fondamentale della conversione, « il mondo che la Chiesa deve servire è per noi il mondo dei poveri »; ma Romero sa quanta ambiguità troppe volte ci sia stata in queste parole, quanto moralismo e quanto paternalismo. Per lui il discorso è del tutto diverso: occorre scegliere i poveri perché solo così è possibile capire la verità della fede, della Chiesa, del mondo e della storia. «Questo mondo dei poveri diciamo che è la chiave per comprendere la fede cristiana, l'azione della Chiesa e la dimensione politica di questa fede e di quest'azione ecclesiale. I poveri sono quelli che ci dicono cos'è la polis, la. città, e che cosa significa per la Chiesa vivere realmente nel mondo ». Scegliere i poveri non è dunque solo un fatto morale, politico o magari estetico, è ciò che consente di capire la verità, non solo la verità loro ma la verità di tutti: i poveri, gli « ultimi » sono misura di tutto l'uomo e hi questa scelta la fede stessa si comprende nella sua verità. Il vero « peccato mortale » dell'ingiustizia A questo proposito Romero afferma che la scelta Gei poveri ci permette dì avvicinarci in particolare a tre misteri della nostra fede. « In primo luogo adesso sappiamo quello che è il peccato. Sappiamo che l'offesa a Dio è la morte dell'uomo. Sappiamo che il peccato è veramente mortale: non solo per la morte ulteriore di chi Io commette, ina anche per la morte reale e concreta che provoca ». Sappiamo che davvero l'egoismo che si solidifica nel capitale, nella ricchezza, nella proprietà privata provoca morte, che non esiste solo un peccato personale, ma anche un peccato storico e sociale che si cristallizza in strutture di oppressione. Con i poveri capiamo il mistero della storia dell'uomo, di questo impasto di peccato e redenzione. « In secondo luogo, ora sappiamo meglio cosa significa incarnazione, cosa significa il fatto che Gesù prese realmente carne umana e solidarizzò con i suoi fratelli nella sofferenza, nel pianto e nel gemito, nella donazione 12 di sé». Sappiamo che l'amore cristiano smaschera la rassegnazione, cerca l'efficacia storica, passa attraverso la lotta per la giustizia, rende il povero protagonista della sua stessa liberazione. In terzo luogo con i poveri sappiamo che davvero Dio è il Dio della vita e che la fede deve testimoniare e offrire questo mistero: «dove c'è vita, lì si manifesta Dio. Dove il povero comincia a vivere, dove il povero comincia a liberarsi, dove gli uomini sono capaci di sedersi intorno ad una tavola comune per condividere ciò che hanno, lì è presente il Dio della vita ». La scelta per i poveri che Romero ha praticato e predicato ha dunque questo profondo spessore teologico: non è un'azione, un comportamento che deriva dalla fede cristiana come una conseguenza di essa, come una testimonianza o una pratica morale o come una scelta di coerenza. La prospettiva qui è rovesciata: solo sulla strada dei poveri incontreremo la verità di Cristo e la nostra verità. « Gli antichi cristiani dicevano " Gloria Dei, vìvens homo" (la gloria dì Dio è l'uomo che vive). Noi potremmo essere più concreti, dicendo " Gloria Dei, vivens pauper " (la gloria ài Dio è il povero che vive). Crediamo che dalla trascendenza del Vangelo possiamo giudicare hi che consiste la verità della vita dei poveri; e crediamo anche che, mettendoci a fianco del povero e cercando di dargli la vita, sapremo in che cosa consiste l'eterna verità del Vangelo ». Il coraggio di chiamare la povertà per nome La scelta della povertà è dunque per Romero una scelta di denuncia dei male presente nel mondo (la mancanza di beni contraria alla volontà di Dio e frutto dell'ingiustizia umana), è una scelta di spiritualità (i poveri sono i più disponibili ad accogliere i doni di Do) è una scelta di impegno (per la liberazione dell'uomo). I poveri die Romero sceglie non sono mai i poveri in generale, in astratto. Nelle sue omelie egli è abituato a fare lunghe liste di nomi di poveri uccisi, torturati, scomparsi, accanto ai nomi dei responsabili. E così anche la povertà per Romero ha sempre un nome preciso, il nome della miseria del popolo salvadoregno causata dalle vecchie strutture dell'ingiustizia sociale, dai padroni delle terre e del caffè e dello zucchero, da quel pugno di uomini egoisti ed ottusi che costringono alla povertà la stragrande maggioranza della popolazione. Ma il Regno di Dio non può costruirsi con queste strutture di peccato. « Esse, sebbene meno visibili e più fredde, costituiscono la vera violenza responsabile della nostra situazione. Di qui nascono tutti i peccati sociali della violenza, sia della complice violenza repressiva dello stato, sia delle violenze della collera del popolo. Sono le strutture dell'ingiustizia sociale che hanno crocifisso i poveri del nostro paese, che hanno ucciso di morte lenta i nostri poveri. Esse sono, pertanto, la radicale negazione del Dio della Vita». Dalla parte del popolo, contro ogni violenza Nel Salvador la scelta dei poveri da parte della Chiesa non è la scelta di un « oggetto » di attenzione pastorale, o di impegno assistenziale, è il riconoscimento dell'autentico soggetto storico della liberazione. A questo proposito Romero usa come termine centrale la parola « popolo », « questo nome così sacro: il popolo ». Per lui il soggetto della liberazione storica dell'uomo è il popolo, è lui l'interlocutore della Chiesa e delle istituzioni. I poveri non sono più un'immagine evanescente, sono una realtà storica concreta: il popolo, questa parola cosi viva, forte e vera che la cultura occidentale ha ideologizzato e che la società dei consumi ha manipolato e narcotizzato. Scegliere i poveri non vuoi dire scegliere una cosa rispetto ad un'altra significa invece convertirsi alla verità del mondo e della fede. Per questo a questa conversione sono chiamati tutti e Romero tutti invita: il governo del Salvador, gli Stati Uniti, l'oligarchia, la Chiesa, i rivoluzionari. Tutti sono invitati a convertirsi al servizio dei poveri e a servirli nell'amore e non nella violenza. Ogni violenza è sterile, sia la violenza dei potenti (« Non dimentichiamo quella tremenda frase di Dio a Caino: la terra insanguinata non potrà mai essere feconda. Le riforme insanguinate non potranno mai essere fruttuose»), sia la violenza dei rivoluzionari («Niente di violento può essere durevole»). Ma Romero si guarda bene dal mettere queste violenze sullo stesso piano e anzi considera una vera e propria ingiustizia il farlo, perché la violenza degli oppressi nasce dalla violenza delle strutture ingiuste e dalla repressione dello stato militare. La strada della violenza dunque non porta frutto e ad essa bisogna opporsi con ogni forza, fino all'obiezione di coscienza, gesto a cui Romero invita i soldati nella sua ultima omelia: « Fratelli, appartenete al nostro stesso popolo, uccidete i vostri fratelli contadini e davanti ad un ordine di uccidere che viene da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice: NON UCCIDERE... nessun soldato è obbligato ad obbedire a un ordine che sia contro la legge dì Dio... Una legge immorale nessuno deve adempierla... E' ora, ormai, che recuperiate la vostra coscienza e obbediate anzitutto ad essa, piuttosto che all'ordine del peccato ». L'unità di liturgia e storia La conversione di Romero, la sua scelta dei poveri, è un fatto storico e religioso insieme. Nella sua esperienza il dato che continuamente viene alla luce è la profonda unità esistenziale che c'è tra fede e vita, tra tempo storico e tempo liturgico. L'unità di storia e liturgia non è un fatto integralista. Niente è più lontano dell'integralismo dal pensiero di Romero e per convincersene basta leggere i passi delle sue omelie sul rapporto tra fede e politica, la sua insistenza sul pluralismo, sulla non esistenza di un, progetto politico «cristiano». L'unità di storia e liturgia significa qualcosa di più profondo, significa che davvero la liturgia squar- 14 eia il velo della storia e ne rivela il senso, che davvero celebrare la Parola e l'Eucaristia non vuoi dire fuggire dal mondo ma entrare nel cuore di esso. Quando dai pulpiti del Salvador si leggono i testi dei profeti Amos e Isaia, « questi testi — diceva Romero — non sono voci lontane di molti secoli fa... Sono realtà quotidiane, la cui crudeltà e intensità viviamo giorno per giorno». Ma l'unità di liturgia e storia si celebra nella vita di Romero nella sua. ultima messa quando sull'altare all'offerta del Corpo di Cristo si unisce l'offerta del suo corpo assassinato. A molti la storia di Romero continuerà a sembrare una specie di leggenda accaduta in paesi e tempi lontani, a molti il suo messaggio pastorale sembrerà troppo colorato di realtà latino-americana per poter dire qualcosa a questo Occidente ormai troppo smaliziato, perennemente scettico e razionalista. Ma anche a chi non conosce lo scontra con la povertà, a chi ha smarrito ogni speranza nella liberazione, a chi è restato solo con la sua angoscia sottile, esteticamente compiaciuta, a chi pensa che ormai non ci resti che invocare la fine perché la storia è uria commedia buffa che va priva di senso verso il nulla, a tutti questi uomini che sono in noi, Romero parla: « Non siamo disperati. Non siamo impauriti. Nessuno ha il diritto di sprofondare nella disperazione, tutti abbiamo il dovere di cercare, uniti, nuove vie e di sperare attivamente, da cristiani... La storia non morirà, la conduce Dio. II principale lavoro dei cristiani dev'essere quello di impregnarsi del regno di Dìo e con l'anima impregnata del regno di Dio, lavorare nei progetti della storia ». • CHI SI IMPEGNA CON 1 POVERI DEVE CORRERE IL LORO STESSO DESTINO « Cristo ci invita a non aver paura della persecuzione, perché credetemi, fratelli, colui che sì impegna con i poveri deve correre lo stesso destino dei poveri: scomparire, essere torturato, catturato, apparire cadavere... Sono spesso minacciato di morte. Devo dire che come cristiano, non credo nella morte senza risurrezione: se mi uccidono risusciterò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza presunzione alcuna, con la più grande umiltà. Come pastore sono obbligato, per mandato divino, B dare la vita per coloro che amo, che sono tutti salvadoregni, anche quelli che mi vogliono uccidere. Se arrivassero a compiere le minacce, sin da questo momento offro a Dio il mìo sangue per la redenzione e la risurrezione del Salvador ». Oscar ArKiilfo Romero 15 L'influenza dì Mounìer nella Assemblea Costituente Quel «nuovo modo di pensare dei personalismo comunitario di TOMMASO SUSSARELLU II dibattito sulla cosiddetta « riforma istituzionale », che ormai da anni è al centro dell'attenzione di studiosi e uomini politici e che è ritornato recentemente in primo piano nel confronto politico, che caratterizza gli attuali rapporti non solo tra i partiti della maggioranza, ma anche tra questi e il maggiore partito di opposizione, sembra ormai attestarsi su due linee sostanzialmente parallele: da un Iato vi sono coloro i quali affermano che i problemi italiani non possono trovare soluzione che in radicali riforme del sistema giuridico, che modifichino addirittura alcuni fondamentali princìpi di rilevanza costituzionale; dall'altro, stanno coloro i quali non credono nelle modifiche* di ordine formale, ma auspicano una impietosa verifica delle condizioni di funzionamento attuale delle istituzioni. Questi ultimi riconoscono piena validità ai principi informatori della nostra Carta costituzionale e sono convinti che la Costituzione sia stata « tradita », sia dalla legislazione ordinaria che dalla prassi amministrativa. Sono questi « i certosini di un ripristino della razionalità istituzionale alla stregua di princìpi ritenuti ancora validi nella loro enunciazione formale » (N. Lipari, « Partiti e assetto istituzionale: l'urgenza di ricominciare da capo », Appunti di cultura e di politica, n. 9, settembre 1981). Non è in questa occasione che si vuole prendere posizione a favore dell'una o dell'altra proposta, né che si vuole tentare di ricostruire i motivi di questo « tradimento della Costituzione ». Preme qui invece sottolineare come ogni progetto di riforma istituzionale non possa prescindere dal considerare la persona umana come l'unico punto di riferimento per giudicare la validità delle istituzioni stesse. Si tratta, quindi, di operare nel rispetto di quella scelta fondamentale, di carattere culturale, che ha portato a ideare una società nella quale eiascun uomo potesse sentirsi considerato nella sua dignità di uomo e, al tempo stesso, chiamato, attraverso forme partecipative, ad assumere la propria parte di responsabilità nella edificazione e nella conduzione della società. E' questa l'idea fondante che troviamo scritta a chiare lettere in quell'artìcolo 2 della Costituzione che è considerato la codificazione di quel personalismo comunitario che ebbe in Mounier « un as16 seriore originale e tenace » (G. Lazzati, « Le ragioni di un convegno », in Atti del Convegno di studio dell'Università Cattolica «Mounier trent'anni dopo », Milano, 1981). In verità, quel particolare periodo della storia italiana, che ha rappresentato il momento della ideazione dell'assetto istituzionale repubblicano, vide, pur in presenza di un serrato confronto dialettico tra i costituenti, portatori di diverse concezioni dello Stato, una convergenza ideale sulle linee di fondo della proposta personalista (dr. A.. Barbera, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, art. 2, pag. 52). Tuttavia, la gestione della società nei trent'anni di storia repubblicana che intercorrono da quella ideale convergenza, non induce certo a rilevare una condotta coerente con quella prospettiva di fondo. Per citare ancora Lazzati, a i singoli capitoli nei quali il personalismo comunitario avrebbe dovuto dare segno di essere veramente l'idea Coniante ogni modulo della costruzione, nel momento del passaggio dalla, ideazione alla costruzione stessa, stanno a dimostrare che essi sono stati scritti — se la metafora ci può servire — dimenticando la premessa, quando non in opposizione ed essa» (Atti, cit., pag. 10). La frattura prodottasi in questi anni tra ie proposte contenute nel personalismo comunitario e la concreta gestione della repubblica, appare in tutta la sua gravita se consideriamo che l'influenza di Mounier nel dibattito all'Assemblea Costituente non fu certamente secondaria, e che delle sue idee furono valenti portatori costituenti quali Dossetti, Moro, Lazzati e soprattutto La Pira, i quali rappresentarono in quella sede l'espressione più qualificante di un movimento di pensiero che, se aveva nel gruppo dossettiano i maggiori assertori, certamente caratterizzava e qualificava l'intera cultura cattolica italiana del tempo, Le stesse posizioni di particolare incisività assunte da La Pira, quali il suo insistere con rigore sul nesso tra libertà e responsabilità, ovvero le sue proposte tese ad escludere l'uso del termine « libertà » e a privilegiare invece il concetto di «autonomia», che, nella sua concezione, meglio qualifica la « trascendenza attiva » della persona umana, e al tempo stesso giustifica la necessità di rafforzare l'autorità dello stato in funzione della tutela delle persone e dei gruppi, si chiariscono alla luce dell'influsso del pensiero di Mounier (cfr. S. Grassi, II Contributo di Giorgio La Pira ai lavori dell'Assemblea Costituente, in: Scelte della Costituente e cultura giuridica, II, pag. 195). E' stato inoltre messo recentemente in rilievo come non fu solo l'esperienza filosofica e politica del gruppo di intellettuali che si riconoscevano nel movimento di « Esprit », ad influenzare dalla Francia il pensiero dei costituenti. A questo riguardo, è necessario aprire una parentesi per ricordare come le vicende costituzionali francesi del 1945 e del 1946 furono seguite in Italia con grande attenzione, per gli elementi di omogeneità esìstenti tra i due paesi, oltre che per la coincidenza temporale dell'elaborazione costituzionale, che derivavano sia dalla struttura economica e sociale, che dalle affinità culturali e dalla collocazione in una medesima area geografica sottoposta ad influenze politico militari analoghe (cfr. De Siervo «Le idee e le vicende costituzionali in Francia nel 17 1945 e nel 1946 e la loro influenza sul dibattito in Italia», in Scelte della Costituente, cit. pag. 293 e ss.). In particolare costituirono un sicuro punto di riferimento per alcuni costituenti italiani, appartenenti alla tradizione cattolico-popolare, tra i quali, oltre ai citati, è da annoverare Costantino Mortati, le concezioni costituzionali del Mouvement Répubblicain Populaire (MRP), partito di ispirazione cristiano-sociale, che, costituitosi alla fine della seconda guerra mondiale, riportò un notevole successo elettorale nelle elezioni per l'Assemblea Costituente del 1945. Ritroviamo infatti specifici riferimenti al programma del MRP in La Pira, il quale, nelle sue proposte, oltre che al « progetto Mounier, si richiamò ad un, « progetto De Menthon », esponente, questo ultimo, del MRP stesso. Una democrazia popolare Le tesi di questo partito, certamente non estranee al pensiero di Mounier, si possono così riassumere: la democrazia è il « regno » di un popolo raggnippato in organismi di sua scelta e accanto ai diritti della persona si pongono quelli della collettività. Ad una democrazia dei cittadini si sostituisce una democrazia popolare, in cui il popolo manifesta la sua sovranità nelle collettività naturali in cui si inserisce (il riferimento a Mounier è evidente); è auspicato un sistema bicamerale, in cui la prima camera, eletta con il sistema proporzionale, è vista come espressione rappresentantiva del corpo elettorale ordinato in partiti, mentre la seconda come espressione delle collettività locali, nonché dei sindacati, degli organismi economici e delle associazioni familiari; il Presidente della Repubblica, sempre secondo il programma di questo partito, verrebbe eletto da parte delle due camere, integrate da rappresentanti non parlamentari, « di consigli generali delle città con più di ventimila abitanti »; è proposta l'introduzione del referendum, come consultazione popolare su questioni gravi di interesse generale; viene auspicata la regolamentazione giuridica dei partiti, per garantire che la loro organizzazione interna sia democratica e che vi sia un controllo sui bilanci, da rendere pubblici (per i riferimenti, cfr. F. Bruno, « I giuristi alla Costituente: l'opera di Costantino Mortati », in Scelte della Costituente, cit. pagg. 98 e 99). L'economia di queste brevi note non consente di verificare i motivi per cui alcune di quelle proposte divennero diritto costituzionale positivo italiano, mentre altre non trovarono accoglimento. Rimane peraltro in tutta la sua rilevanza il riferimento alle vicende costituzionali francesi. Ma torniamo a Mounier. Egli, ancora nel 1941 e poi nel periodo della Resistenza, comincia ad ideare assieme ad un gruppo di intellettuali, costituitosi dopo la forzata chiusura di « Esprit », una nuova « dichiarazione dei diritti » che superasse i limiti contenuti nella dichiarazione del 1789, la quale, secondo Mounier, aveva due fondamentali difetti: eccesso di individualismo ed eccesso di razionalismo (cfr. E. Balboni, in Atti, cit. pag. 177, cui si rinvia per un approfondimento dell'intera tematica). Il progetto di Mounier, denominato « Dichiarazione dei diritti della per18 sona e delle comunità » viene pubblicato, discusso e rivisto su « Esprit », nei numeri di dicembre 1944 e di aprile e maggio 1945: esso rappresenta un notevole contributo per la definizione di nuove libertà degli individui e dei gruppi, e in esso vengono enunciati accanto ai diritti della persona quelli delle comunità e dello Stato. Si noti, inoltre, che la « Dichiarazione », almeno nelle intenzioni dell'Autore e di quanti parteciparono alla sua stesura, avrebbe dovuto rappresentare una « convenzione internazionale », le cui norme dovevano entrare a far parte delle Costituzioni di una pluralità di stati e infatti il progetto stesso inizia, con le parole: « Gli Stati firmatari riconoscono... ». Il testo della a Dichiarazione » si trova ora pubblicato, nella traduzione italiana, negli Atti del Convegno dell'Università Cattolica, più volte citati ai quali si rinvia per la lettura degli articoli, limitandoci qui a riportarne la premessa: « Gli Stati firmatari riconoscono che gli individui e le società sono sottoposti ad un certo numero di diritti connessi con l'esistenza della comunità umana e non derivanti né dall'individuo né dallo Stato, poiché hanno una duplice base: 1. il bene delle persone; 2. la vita e lo sviluppo delle persone nel seno delle comunità naturali in cui esse si trovano: famiglie, nazioni, raggruppamenti geografici o linguistici, comunità di lavoro, raggruppamenti di affinità o di sede. Lo scopo di ogni società è dì mettere in opera i migliori mezzi per insegnare a ciascun uomo la libertà della scelta, la responsabilità delle proprie azioni e la partecipazione alle comunità consentite. Spetta in proprio allo Stato di dare impulso, sia all'indipendenza delle persone, sia alla vita delle comunità; alla prima, proteggendola contro la minaccia sempre attuale di una tirannia di gruppi; alla seconda, opponendosi alla sempre rinascente anarchia degli individui. Un organismo indipendente dai singoli Stati è investito del compito di giudicare sugli abusi di potere dello Stato e di sciogliere con decisione sovrana i conflitti che ne derivano. Esso definisce i delitti dello Stato ». E1 sembrato infatti necessario, a chi scrive, riportare almeno il testo della premessa della « Dichiarazione », sia perché in essa si trova condensata efficacemente la proposta di Mounier, sia perché essa è di per sé sufficiente per dimostrare l'influenza che il progetto stesso ebbe, oltre che sull'elaborazione di singoli fondamentali princìpi, sull'impianto stesso della nostra Carta costituzionale. A questo riguardo, così scrive Balboni, negli Atti sopra citati: « E* significativo che almeno l'idea forza di Mounier sia riuscita a diventare diritto costituzionale positivo italiano trasfondendosi e nell'art. 2 e nell'architettura complessiva della Costituzione, che, come tutti sanno, dietro un suggerimento di Aldo Moro, venne costituita secondo il modello della piramide rovesciata o della socialità progressiva. Tale modello — continua ancora Balboni — assumeva come base la persona, e quindi i diritti civili esplicazione delle libertà personali, per passare poi alle comunità in cui la persona si integra: la famiglia, la scuola (sono i rapporti etico-sociali), le associazioni sindacali e le comunità di lavoro (sono i rapporti economici) e infine le associa19' zioni politiche, i parliti. Ed è a partire e sopra questa base che vanno costruite le strutture dello Stato ». A questo riguardo non si può tralasciare di ricordare inoltre il pensiero di Costantino Mortati, che, a proposito dell'idea di democrazia contenuta nella Costituzione italiana, così scriveva: «... la democrazia prima ancora di caratterizzare la forma di governo secondo la diversa specie e grado della partecipazione dei cittadini alla gestione del potere autoritario, entra come elemento costitutivo della forma dello Stato, inteso quale ordine complessivo di vita associata, in quanto compendia in sé i presupposti e le condizioni, cioè l'insieme dei fattori spirituali, economici, sociali, le convinzioni, le strutture, i fini die informano di sé un ordinamento, e rendono possibile e efficiente quella partecipazione. Condizioni che richiedono, da un Iato, il riconoscimento ad ognuno di una larga sfera di autonomia qua! è necessaria all'acquisto della consapevolezza della propria posizione nella società, ed alla formazione di libere opinioni hi ordine ai modi di soddisfare il bene comune, e, dall'altro un sistema di rapporti associativi da cui siano eliminate le antìtesi radicali di interessi fra parte e parte della consociazione, poiché la loro presenza renderebbe estremamente ardua la formazione della volontà comune secondo la pacifica dialettica richiesta dal regime democratico ». Diritti « inviolabili » e doveri « inderogabili » Così prosegue Mortati, con riferimento all'influenza del personalismo: « La corrispondenza dello schema costituzionale al modello ora prospettato può facilmente venire riscontrata quando si ponga in rilievo la stretta connessione che lega la qualifica di democrazia al gruppo delle norme successive alla prima, ciascuna delle quali assume, come si è detto, la funzione di svolgerla e di integrarla. Considerando anzitutto il presupposto personalistico risulta chiara la recezione che ne è stata effettuata anzitutto nell'art. 2 che, all'atto stesso di riconoscere, per conferir loro la necessaria garanzia, i diritti dell'uomo singolo o associato, richiede ad ognuno l'adempimento dei doveri, facendo corrispondere alla " inviolabilità " dei primi, la " inderogabilità " dei secondi » (cfr. Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, pag. 7). Proprio su questi princìpi fondamentali le varie forze politiche trovarono negli anni della Costituente un comune terreno d'intesa, in quanto riconobbero negli enunciati del personalismo comunitario, di cui Mounier fu autorevole esponente, quel « nuovo modo di pensare » che, in quanto afferma l'anteriorità della persona umana allo Stato, ancora oggi non può non porsi come connotato fondamentale di tutto l'ordinamento. RECENSIONE Lo stato ed il terrorismo La tragedia di Narciso di FABRIZIO MATI E VI Anni di piombo, un film possente: scarno ed essenziale, ma denso di riflessioni. Non ha bisogno di inventare effetti speciali per accattivare le platee,ché già i fatti raccontati sono impressionanti. A confronto le intermittenze dei luna park cinematografici d'oltreoceano vanno in cortocircuito. Il film cade pesante sugli spettatori, come un suono di sirena nella quiete domenicale. Non occorrono trucchi particolari per raccontare la storia, è sufficiente partecipala con passione e compassione. E qui è proprio la storia a dominare la ribalta: la nostra storia, la storia di una società che, tra gli osanna del boom economico e gli slogans di una facile rivoluzione, si è vista crescere in grembo, senza rendersene conto e pur tuttavia con la responsabilità di una simile genitura, le perversioni del terrorismo. Allo stesso modo Edipo, ignaro, ha fecondato sua madre. Il paragone con la tragedia greca non è vano preziosismo. Anche nell'opera di Margarethe von Trotta grava quella medesima, angosciosa, incontenibile drammaticità ed ammanta i personaggi, le azioni, i dialoghi, le scene. Anche qui si medita sulla assurdità delle azioni umane, sulla nostra debolezza ed inconsistenza: la storia pare dominata da un destino cieco, inesorabile ed irriducibile, contro il quale i poveri e piccoli individui non sono che cosa vana. E' proprio questa tragica fatalità, che emerge sullo sfondo, a costituire il limite e la colpa del film. Infatti sul proscenio non è di scena la verosimile invenzione di un poeta, ma la concreta trama della nostra storia, per cui la cieca irrevocabilità degli eventi non produce la purificazione degli animi, bensì semina sconcerto e paura di fronte alla realtà. Si cerca sì di dar ragione degli accadimenti, ma senza nulla concedere alla speranza ed impiombando crudelmente ogni varco o spiraglio. II tormento di Christiane Due sorelle, cresciute assieme, profondamente legate nel cuore: una, Marianne, da giovane gentile e rispettosa con genitori ed insegnanti, intraprende la vìa della rivolta armata; l'altra, Juliane, in passato ribelle e scontrosa, rimane, se pur contestandola, all'interno della 20 21 legalità. Le vicende ricostruiscono, fedelmente, la vita di Gudrun Ensslin, morta in circostanze oscure nel carcere di Stammheim nel terribile autunno tedesco del 1977, e con lei della sorella Christiane, a cui il film è dedicato. Si tratta, dunque, in primo luogo di un dramma umano: il tormento disperato di chi si trova a sostenere la fedeltà alla legge e l'affetto alla sorella, che da quella legge è costretta al suicidio. E' l'eterna tragedia di Antigone di fronte agli imperativi dello stato, che, per poter sopravvivere, deve squarciare, inesorabilmente, come la mannaia del boia, gli affetti del cuore. E' una scissione tremenda, che attanaglia le membra e non concede respiro, pesando sulla coscienza come una cappa di piombo: dover condannare chi si ama, non accettare la realtà così com'è e doverla salvaguardare da chi l'ha calpestata e violentata, condividere un medesimo passato e ritrovarsi per le stesse motivazioni su fronti contrari. Marianne e Juliane sono l'una il riflesso negativo dell'altra: ciascuna è ciò che l'altra non è, facce contrapposte di un'unica medaglia. Proprio da questa complementarietà, possibile per la medesima origine che le accomuna, viene la reciproca comprensione, tanto profonda da rendere l'una interscambiabile con l'altra. Non a caso il film insiste molto sull'intimità del legame che le unisce: in prigione, nella sala delle visite, si scambiano i maglioni, così come, dopo la giovinezza, si sono scambiate i ruoli nella vita; ed ancora, significativamente, la cinepresa indugia sui loro visi riflessi dal vetro del parlatoio: le due ombre si avvicinano fino a sovrapporsi l'una sull'altra, per poi allontanarsi di nuovo; ed infine, sarà proprio Juliane, dopo la tragica fine della sorella, a ribellarsi con forza allo stato, colpevole di quella morte, raccogliendone, in un certo qual modo, l'eredità. armamenti ed i disastri della guerra, in cui le macerie delle cose si confondono alle macerie dei corpi senza \ita. Sono scene di rara potenza, anche rispetto a quelle che possiamo aver già visto, tremende e allucinanti, tormentano dolorosamente la mente e nessuno le può reggere impassìbile, che strappano a forza le lacrime. Quei documenti, muti, colpiscono feroci e violenti come un pugno allo stomaco. Juliane e Marianne li conobbero durante gli anni di scuola. Davanti a quelle immagini tutte e due escoao dalla sala di proiezione per piangere e vomitare insieme. Lì comincia a formarsi il rigetto per una realtà tanto insostenibile, per una umanità che ha saputo generare quelle atrocità, per una storia che si è arricchita su quei massacri. La rivolta nasce da quella bruttezza, da quella violenza, da quel male, opprimenti come lo smog caliginoso delle grandi metropoli. Quel passato, di cui noi siamo gli eredi (e non si deve dimenticare che tutto il film nasce nella particolare situazione della Germania), sconvolge e lascia impietriti. Di fronte a simili catastrofi le prediche del padre, pastore protestante, che promettono castighi terribili per i peccatori ma soltanto nell'ora del giudizio universale, paiono alle due sorelle vane parole. L'ipocrisia di un presente che continuamente rinvia le soluzioni nel futuro risulta insopportabile. La radicalità del giudizio di Dio deve valere anche per l'ai di qua. Ecco allora farsi strada l'utopia della Città del sole, voluta con una passione assoluta, che nulla può concedere ai compromessi del sistema attuale. Essa pare possibile al tenace entusiasmo giovanile ed allora tanto più forte è l'odio contro tutto ciò che impedisce di cogliere quella meta. Viene qui confermata quella matrice religiosa che si è notata anche a proposito del terrorismo italiano: quel radicalismo ha trovato poi facile e comodo alimento nel massimalismo rivoluzionario. La pesantezza del passato La barbarie del terrorismo e la ferocia dello stato Ma non si tratta solo di un dramma umano ristretto a pochi personaggi, perché quella vicenda diviene emblematica di tutta una realtà sociale. Essa riassume, in questo contrasto di sangue, la tragedia del terrorismo, dalle sue origini nelle rivolte studentesche negli anni '60 ai suoi esiti violenti e traumatici di oggi, con una analisi ben più meditata di quella che sostiene i film di Giordana e Bertolucci. Perché dunque il terrorismo? Centrali e decisive per la dinamica del film sono le lunghe sequenze di repertorio che ripropongono le immagini orribili dei campi di concentramento nazisti: tra fili spinati e reticolati si aggirano figure umane di cui a fatica si riconoscono i profili, sotto il ridicolo controllo dei mitra spianati mucchi di cadaveri scheletrici vengono accatastati nelle fosse comuni. Ed ancora la possenza superba degli Ma se con coraggio Margarethe von Trotta cerca di dare un senso agli ultimi eventi storici, con pari decisione non risparmia la sua critica. Il progetto terroristico pare viziato dalle medesime colpe di quella società che pretende di abbattere: la tentazione dei successo personale, il fascino delle azioni spettacolari, la pratica dell'imposizione violenta. L'accusa di Juliane alla sorella ferisce a sangue, come una lama di coltello: avresti potuto andare a lavorare nel terzo mondo, ma una simile scelta richiedeva sacrifici troppo grossi, che tu non volevi sopportare ;hai preferito la comodità delle gesta clamorose. Il terrorismo si trascina dietro questa assurda antinomia: ripete dentro di sé ciò che si propone di distruggere, riproduce in funzione 22 23 negativa quella concezione borghese contro cui si è mosso. Esso violenta i rapporti personali, si costruisce sulla base di rigide gerarchie militari, si sviluppa mediante la pratica del ricatto, si alimenta delle oppressioni omicide, sì propone la totale alienazione dalla realtà concreta, si definisce attraverso la logica del dominio. Riproduce così l'effetto di Hiroshima: la vittoria ottenuta con la distruzione assoluta, che permette di conquistare un deserto vuoto. In nome della rivoluzione futura il presente è annientato. Marianne lascia dietro di sé un marito costretto al suicidio dalla disperazione ed un figlio già consumato dal terrore verso un mondo che non lo accetta né lo desidera. A tanto può arrivare il fanatismo. Ecco giustificate allora le terribili parole di Juliane: « una generazione prima saresti stata una fanatica di Hitler ». Non a caso i compagni clandestini di Marianne, nel taglio dei capelli e nella foggia degli abiti, richiamano gli avventori nazionalsocialisti. Il terrorismo, dunque, è l'ombra riflessa del suo nemico e ne ripete le angherie. Il tema del riflesso mi pare ricorrente nel corso del film. Le due sorelle riflettono l'una nell'altra il proprio passato; il terrorismo nella sua pratica riproduce la logica violenta e nullificante della realtà costituita; il sistema legale, per contrastare l'insurrezione armata, ne ripete la strategia omicida. Infatti lo stato risponde alla barbarie del terrorismo con altrettanta ferocia. La parte conclusiva del film è tutta tesa a riproporre i terrificanti interrogativi che pesano sui suicidi verificatesi nel supercarcere dì Stamrnheim. Qui, al mattino del 10 ottobre 1977, furono trovati i corpi di quattro terroristi. Uno di essi, una ragazza, era ancora in vita. Ter gli altri non occorreva preoccuparsi di nulla. Erano Jan Cari Raspe, Andreas Baader e Gudrun Ensslin. Non molto tempo prima era stata trovata, pure lei suicidata, "Ulrike Meinhof. Su tutti quei cadaveri sono sempre stati sollevati fieri dubbi, anche da un giornale insospettabile come lo Spiegel, e qtiesti dubbi non sono stati mai dissipati. Il film non assume posizioni perentorie, ma lascia intendere che, in base alle ricerche della sorella di Gudrun, la tesi ufficiale risulta insostenibile. Quest'anno è uscito in Germania, dopo che nessun giornale ha voluto raccogliere la sua verità/un libro di Christiane Ensslin secondo il quale i membri più noti della banda Baader-Meinhof furono strangolati in ccncomitanza al colpo di mano effettuato a Mogadiscio, da reparti speciali della polizia tedesca, contro un gruppo di terroristi. Dunque a tragedie si sommano tragedie. Lo stato, il mostro Leviatano di Hobbes ,si erge con tutta la sua forza assolata e alla pratica del terrorismo risporde con l'esercizio del terrore. Ecco allora ve- 24 nire le campagne di stampa, il clima di caccia alle streghe, la soppressione dei diritti civili degli accusati, la demonizzazione dei movimenti di contestazione. Più voci hanno sottolineato come alla base della proliferazione del terrorismo vi sia la repressione poliziesca. Nel film i cani-lupo accucciati ai piedi dei poliziotti, che presiedono le carceri, ricordano i doberman delle S.S. Così come le lente, prolungate, crudeli sequenze all'interno delle supercarceri inducono ad immaginare uno stato sorretto e guidato dalle teste di cuoio più che da tensioni politiche e civili. Muraglioni, fili spinati, inferriate; lo sferragliare dei lucchetti e delle manette, il cigolare dei cancelli, il rumore secco dei caricatori inseriti. E' la scenografia che accompagna ogni risposta puramente militare alle provocazioni del terrorismo, di cui anche le piccole pagine del Margine hanno parlato, e che in Germania si è attuata con particolare durezza. Il crepitìo delle armi non permette di ricordare Una simile strategia presuppone di rinunciare a qualsiasì tentativo di interrogarsi sul senso del nostro presente storico, comporta una rimozione collettiva della cronologia di questi avvenimenti. Lo sforzo di capire è già sospetto di collaborazionismo, quasi che la ragione critica sia di per sé sovversiva. A conferma di ciò vengono le polemiche suscitate in Germania ed in Italia dall'uscita del nostro film, accusato di essere troppo compiacente. Con simili atteggiamenti la storia e la sua memoria sono messe da parte per applicare la legge del taglione. Non vi è nulla da comprendere, ma solo da combattere ad armi pari. Così la rivolta armata diviene un fenomeno naturale alla pari dì terremoti ed inondazioni, altrettanto imprevedibile e terrificante. Essa si riduce ad incidente qiiotidiano. E' un pericolo costante che si può controllare solo sparando più colpi dell'avversario. E' comprensibile che, in un simile contesto, uno sconosciuto, più fanatico degli altri, tenti dì bruciare col vetriolo, come è realmente accaduto, un bambino di dieci anni, perché figlio di un terrorista. In conclusione gli ostaggi di ieri oggi sono divenuti i nuovi sequestratoli, vittime ed aguzzini si scambiano le parti, in una girandola allucinante che non può trovare fine. Il grigiore dei tempi II sistema ed il terrorismo si riflettono a vicenda la. medesima violenza, la medesima morale assolutistica, la medesima volontà di potenza, la medesima tensione distruttiva, la medesima atmosfera di morte. Ecco la tematica del riflesso di cui si diceva. Ma in questo 25 gioco di specchi il film non lascia intrawedere possibilità di fuga. Collocata tra l'incudine e il martello, ugualmente terrificanti, la vita sembra costretta ad una lenta agonia. La realtà, ipnotizzata ed accecata dai riflessi della sua barbarie, pare destinata a consumare qualsivoglia ipotesi positiva ed esaurirsi nello status quo. EJ la condanna di Narciso che, ammalato dalla sua immagine rispecchiata nell'acqua, si lascia morire d'inedia. Ma qui non si contempla la propria bellezza, bensì la propria malvagità irriducibile. Domina lungo tutto il film un senso di sconfìtta, di desolazione, un'impotenza assoluta. Grava sulla storia un tempo di piombo: esso è il vero protagonista nascosto. Da lui viene il grigiore monotono ed il silenzio gelido che ammanta ogni scena: il tono plumbeo che sempre predomina nel cielo, la luce livida delle città, la costante atmosfera autunnale della vita quotidiana, l'opacità angosciosa del carcere e l'uniforme coloratura delle sue ferraglie. La realtà torna a mostrarsi in bianco e nero. Tutto, dappertutto, gronda di grigio e di piombo, come se, dopo un immenso diluvio, la fanghiglia ed il pantano avessero ricoperto oggetti e persone. In tuia scena particolarmente significativa del film Juliane, prima d'incontrarsi con la sorella, si aggira tra immobili ed inespressive statue di pietra, che riproducono i grandi personaggi del passato. Di loro non restano che quei massi corrosi dal tempo. Anche la natura, che compare soltanto per fare da sfondo al suicidio del marito di Marianne, è descritta con tìnte invernali, appena forzate da un pallido sole. « Die bleierne Zeit » recita il titolo tedesco, ricalcando il verso hblderliniano in cui si nomina « die diirftige Zeit »: il tempo della povertà e dell'indigenza, il tempo degli dei fuggiti che ritorneranno solo « in die richtige Zeit », nel tempo giusto ed opportuno. A tanto sconforto il film non concede scampo. Anch'esso riflette il vuoto di quel sistema che s'impegna e denunciare. Ciò che rimane è solo un bambino, dimenticato dalla madre in nome della rivoluzione e violentato dalla società in nome dell'ordine costituito. Davanti alla fotografia della mamma chiede :« perché ha buttato le bombe? Devo sapere tutto... comincia... comincia...». Leggendo i giornali di questi mesi, ascoltando i discorsi per strada, ina pure assistendo a questo film, sembra difficile immaginare che qualcuno sì preoccuperà di rispondergli. Dopo il crollo delle grandi ideologie, tutti impegnati a sancire l'impotenza della sconfitta, ad invocare pene pesanti per chi ha turbato la quiete, a proclamare la grande restaurazione del dovere incondizionato per superare l'attuale emergenza, non c'è tempo né spazio, né interesse né voglia per preoccuparsi dei drammi degli uomini e tanto meno per rispondere agli interrogativi dei più piccoli, • 26 Sulle orme di Francesco d'Assisi Carisma e obbedienza alla Chiesa di GIORGIO BUTTERINI i Che io sappia nella storia della letteratura si possono ricordare almeno tre questioni letterarie: una questione omerica, che tutti conosciamo; una questione sinottica che ha per oggetto i Vangeli e la vita di Cristo; e per ultima, dalla quale prendo avvio per queste considerazioni, una questione francescana che ha per oggetto le biografie di Francesco d'Assisi e di conseguenza l'immagine storica del santo. Ed è sorprendente e significativa la comunanza di simili personaggi in « questioni » letterarie che riguardano fondamentalmente la figura e l'opera di questi grandi personaggi, come se la loro grandezza non permettesse agli uomini di coglierne tutta la ricchezza. La questione francescana Poco dopo la morte di Francesco (3 ottobre 1226), il papa Gregorio IX, già grande amico e protettore di Francesco ancora quand'era cardinale di Ostia, incarica un compagno di Francesco, Tomniaso da Celano, di scrivere una vita del santo. Tale vita dal titolo « Legenda prima » è redatta da Tommaso negli anni 1228-29. Dovrebbe essere la biografia ufficiale del santo, ma molti compagni di Francesco, i più fedeli a lui, la ritengono troppo « ufficiale » e troppo poco « francescana ». Il malumore è tale che il superiore generale dei francescani, Crescenzio da Jesi, incarica il medesimo Celano a redìgere una «Leggenda » (= biografia) di Francesco più completa e accettabile e invita tutti quanti avessero notizie di Francesco ad inviarle al biografo ufficiale. Il Celano consegna negli anni 1246-47 la sua seconda litografia di Francesco conosciuta come « Legenda secunda ». Essa doveva « risultare il punto di incontro di tutta una serie di testimonianze, che, pur trascelte ed elaborate letterariamente, dovevano, in ogni caso, essere di necessità adoperate » (Manselli: Nos qui cum to fuimus). Tommaso, mostrando una notevole maestria letteraria, 27 risolse il problema dividendo il testo in due parti: una prima in cui segue una linea biografica; una seconda in cui sistema il materiale che gli è stato fatto pervenire organizzandolo secondo le virtù del santo. In tal modo il Celano « potè evitare un giudizio complessivo sia su Francesco sia sulla sua fraternità, che sarebbe stato indispensabile qualora i singoli racconti fossero stati fusi in un unico discorso » (Manselli). Il punto dolente fu proprio questo giudizio che Tommaso voleva evitare, ma che in realtà doveva essere dato, con tutti i rischi che esso comportava. Storicamente s'era ormai consolidata una duplice immagine del movimento francescano: da una parte il gruppo che faceva capo a frate Elia, ossia l'ordine francescano inserito totalmente nelle esigenze della Chiesa ufficiale e quindi integrato nelle istituzioni ecclesiastiche del tempo, e che si manifestava soprattutto in una organizzazione conventuale secondo il diritto ecclesiastico (donde il nome di « conventuali ») e dall'altra parte i poveri fraticelli che seguivano l'ideale genuino di Francesco, personificato dai primi compagni di Francesco, rimasti a lui fedeli (gli spirituali). Proprio questo gruppo, esteriormente disorganizzato, spesso senza case^e senza fissa dimora (peregrini), libero di vivere senza limiti la povertà, nell'insicurezza di tutte le cose del inondo, ma sicuro di Dio, e proprio per questa sua libertà sospetto alla Chiesa organizzata, produrrà tutta una serie di vite e scritti alternativi su Francesco d'Assisi: si tratta di leggende o vite non ufficiali, per lo più anonime, scritte da testimoni diretti dell'opera di Francesco e quindi di grande valore storico: la Leggenda dei tre compagni (ossia di tre dei primi compagni di Francesco; Leone, Ruffino e Angelo); la leggenda perugina; lo scritto dell'anonimo perugino, lo specchio di perfezione e infine il « Sacrum commercium sancti Francisci cum Domina Paupertate ». San Bonaventura Tuttavia anche l'altro ramo francescano non si sentiva sufficientemente appagato dalla vita secunda del Celano, tanto più che il Celano notoriamente era uno spirituale. La nuova vita così anziché soddisfare le esigenze e colmare le fratture, le approfondì e accrebbe il desiderio di una nuova biografia più completa e la più oggeltiva possibile. Il capitolo generale dì Narbona del 1260 affidò tale compito a Bonaventura dì Bagnoreggio, il maestro francescano di Parigi: il frutto del suo lavoro sarà la « Legenda major », che si preoccupa soprattutto di inquadrare Francesco nel disegno prowi28 denziale della storia della Chiesa. In un successivo capitolo generale, 1266, si ritenne di poter risolvere una volta per tutte la disputa sulla figura di Francesco ordinando la distruzione di ogni e qualsiasi biografia precedente, comprese le due, che pure erano state ufficiali, di Tommaso da Celano. Al loro posto era riconosciuta come unica valida e ufficiale la nuova biografia di s. Bonaventura, Con tale decisione molte biografìe di Francesco andarono perdute; alcune di queste, secondo le testimonianze autorevoli di Angelo Clareno e Pietro Ulivi, di assoluta grandezza. Fortunatamente non tutte tali biografie furono distrutte, ma alcune nascoste dagli spirituali nei piccoli eremi dell'Italia centrale. Queste sono state scoperte dal Sabatier alla fine del secolo scorso e fu appunto sulla scorta di tali sue scoperte che ebbe origine la cosidetta « questione francescana », ossia quali fonti sono le più oggettivamente fedeli alla vera figura di Francesco e di conseguenza, come era veramente questo Poverello d'Assisi? è possibile attraverso tali fonti o quali fonti ricostruire la figura storica di Francesco? Francesco conteso E' sorprendente che una figura, a testimonianza di tutti di una estrema semplicità e trasparenza come fu Francesco di Assisi, abbia dato adito a tante contese, divisioni, ìnterpretazìoni. Ritengo che proprio tale difficoltà dei discepoli di Francesco a capire la sua figura rappresenti il monumento più grande alla sua personalità e santità. La sintesi di cui è stato capace Francesco di carisma e obbedienza, di fedeltà all'ideale che gli veniva da Dio e di sottomissione e unità all'istituzione ecclesiale e romana, non è più riuscita nel suo movimento, che invece ha ceduto di volta in volta all'una o aU'altra: solo un grande personaggio come Francesco e una grande santità fondata su una fede incrollabile, ha reso possibile tale sintesi che non era riuscita ai riformatori che lo avevano preceduto e non è più riuscita ai suoi continuatori. Tutta la storia dell'Ordine francescano nelle successive riforme che lo hanno caratterizzato e nelle divisioni che lo hanno lacerato e travagliato, sono la testimonianza dell'esigenza sempre presente da una parte di essere fedeli all'ideale francescano, dall'altro di essere leali alla Chiesa. Si formano così i francescani conventuali che si rifanno allo spirito di Francesco e alla sua regola come viene interpretata dalla Chiesa, ossia con le glosse esplicative di Roma; la riforma successiva di Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca e tante altre riforme in giro per l'Europa, pretendono di vivere lo spirito francescano co29 me risalta dalla regola francescana senza le glosse esplicative romane; le ulteriori riforme, tra cui la più consistente quella dei cappuccini, pretendono invece di vivere lo spirito francescano e la regola francescana secondo l'interpre fazione che di essa ne da lo stesso Francesco nel suo testamento. Francesco nella sua biografia Si presentano qui alcuni interrogativi su Francesco stesso. E' vero che lo stesso Francesco ha sentito il bisogno di dare una sua autentica interpretazione della sua scelta religiosa, scrivendo a tale proposito un « testamento », che doveva essere una precisa puntualizzazione della sua « regola »? e chi allora aveva scritto la regola francescana? la regola francescana, scritto autentico di Francesco, non è quindi sufficiente per conoscere autenticamente il santo? — Per rispondere a tali interrogativi si 'rende necessaria una breve biografia del santo stesso. La conversione di Francesco non è stata né breve né facile, come potrebbe far credere il racconto del Crocefisso parlante di san Damiano. Certo da quel Crocefisso prende consistenza la conversione di Francesco, già iniziatasi Bei due anni di carcere a Perugia, e avviatasi decisamente con la lettura del Vangelo nella chiesetta della Porziuncola. E' dal Vangelo che nasce l'ideale francescano, in una stupenda simbiosi tra spirito evangelico e uomo medievale vissuto com'era Francesco. Dopo esser stato accolto sotto il mantello protettore del vescovo di Assisi, Francesco viene inviato nel monastero dei benedettini sul Monte Subasio. Non voleva forse Francesco una scelta radicale religiosa? ovvio quindi inviarlo in un monastero. Ma Francesco aveva una « sua » scelta da fare, una « sua » via da percorrere e nel monastero ci rimarrà solo pochi giorni. Ne uscirà per andare a vivere il suo ideale nella chiesetta della Porziuncola e di s. Damiano, ed elemosinando, lui ricco figlio della borghesia di Assisi, qualcosa da mangiare di porta in porta nella sua città, da coloro che gli erano stati compagni di divertimenti e di vita cittadina attiva. Il fascino di Francesco dovette essere straordinario, se subito Bernardo di Quintavalle, Pietro di Catania, poi Egidio, Ruffino, Leone e tanti altri decisero di seguirlo. Quando Francesco, sull'esempio di Cristo, conterà 12 discepoli (frati), con frasi del vangelo delinca una « forma dì vita » che diventa la prima regola francescana che lo stesso Francesco sottopone al papa Innocenze III a Roma. Ed è questo l'altro elemento estremamente interessante di Francesco: l'esigenza di aver l'approvazione della Chiesa, di sentirsi Chiesa. Un ri30 conoscimento che inseguirà caparbiamente e otterrà nonostante che nel 1215 il Concilio Lateranense IV avesse deciso che nessuna nuova regola doveva esserci più nella Chiesa oltre a quelle di Basilio, Agostino, Benedetto, Nel 1216 san Domenico sceglie la regola agostiniana e la completa con le esigenze del suo nuovo ordine. Francesco non accetta nessun'altra regola: la sua regola è il vangelo e non ha bisogno di altra. La sua forma di vita scritta su insistenza del cardinale di Ostia (non ancora divenuto papa), non otterrà nel 1221 l'approvazione ed è nota come la regola « non bullata » (mentre la prima forma di vita è andata perduta: quella scritta nel 1210). Poco dopo Francesco, coadiuvato da illustri canonisti scrive la regola francescana, quella approvata da Onorio VI, secondo lo spirito suo proprio, ma anche secondo le direttive di Roma. L'ostacolo del Laterano IV viene superato trovando che l'ordine e la prima regola (la forma vitae) era già stata approvata da Innocenze III prima del Concilio, e quindi non incorreva nella proibizione del Concìlio a creare nuove regole monastiche nella chiesa. Proprio questo fatto è estremamente significativo di quella unità che Francesco era riuscito a creare tra quelle due forze contrapposte che sono carisma da una parte e istituzione dall'altra: da una parte ci teneva ad essere nella Chiesa con una regola approvata, dall'altra ci teneva a proclamare la libertà dello spirito francescano e lo ha fatto nel volere una « sua » regola e con l'interpretazione tutta sua data ad essa con il testamento. • ... « Perché a te, perché a te, perché a te? =>. Santo Francesco risponde: « Che è quello che tu vuoi dire? ». Disse frate Masseo: « Dico, perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederli e d'udirti e d'ubbidirti? Tu non se' bello uomo del corpo, tu non se' di grande scienza, tu non se' nobile; onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro? ». Udendo questo santo Francesco, tutto rallegralo in ispirilo, rizzando la faccia al cìelo, per grande spazio ìstette colla mente levata in Dio; e poi ritornando in sé, s'inginocchiò e rendette laude e grazia a Dio; e poi con grande fervore di spirito si rivolse a frate Masseo e disse: « Vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me tutto 'I mondo mi venga dietro? Questo Io ho da quelli occhi dello altissime Iddio, li quali in ogni luogo contemplano i buoni e li rei: ìmperciò che quelli occhi santissimi non hanno veduto fra li peccatori nassuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore dì me; e però a fare quell'operazione maravigliosa, la quale egli intende fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e perciò ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca ch'ogni bene è da lui, e non dalla creatura, e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi sì gloria, si glorii nel Signore, a cui è ogni onore e gloria in eterno a. (Ponti Francescane, n. 1838, pagg. 1475-1476) 31 TACCUINO CULTURALE TRENTINO (a cura di MARIA TERESA PONTARA) II segno • indica gli appuntamenti che a parere della redazione si presentano particolarmente significativi ed interessanti. Le date degli incontri sono: 24 aprile, 8 - 1 5 - 2 2 - 2 9 maggio. Direttore del Corso: dott. Gìampaolo Mazzero, psicologo del Consultorio Familiare di Verona sud. Segreteria del Corso: A.Ge. - Trento, via s. Giovanni Bosco 3 Inizia sabato 8 maggio (incontri successivi 15-22 maggio) un Corso per insegnanti e animatori culturali sul tema 11 linguaggio delle immagini: ambiente e figura, organizzato doll'AlART trentina con sede in via s. Giovanni Bosco 3 - Casa s. Paolo - Trento. SCIENZE NATURALI • FEDE E CULTURA RELIGIOSA 6 maggio ore 20.30: 21 maggio ore 18: 30 aprile ore 21: Gìom: 1) profeta dteobbedìenie, rei. p. Livio Passalacqua e/o Villa s. Ignazio - Trento, via alle Laste 22 La Chiesa italiana testimone di unità nella contrapposizione delle culture a delle visioni dell'uomo, re), padre Bartotomeo Sorge, direttore di Civiltà Cattolica e/o Centro Bernardo desio - Trento, via Barbatovi 4 L'Associazione Astrofili Trentini ha organizzato per i mesi di aprile o maggio un ciclo di conferenze di astronomia, astrofisica e cosmologia. Gli Incontri si svolgeranno presso l'Aula Magna del Museo Tridentìno di Scienze Naturali a Trento in via Caleptna 14, Palazzo Sardegna: I pulsar: stelle di neutroni, rei. prof. Massimo Cerdonio dell'Università di Trento 7 maggio ore 21 ; Origine ed evoluzione dell'Universo, rei. prof. Giuliano Romano dell'Università di Padova e dell'Osservatorio Astrotìsico di Asiago 14 maggio ore 31 : La vita nell'Universo, rei. prof. Giuncarlo Favero dell'Università di Padova In concomitanza con queste conferenze, l'Associazione Astrofili organizza, condizioni tereologiche permettendo, una serata di 'osservazioni del clelo al telescopio. me- CONVEGNI Papato o istanze acumenlche — Convegno organizzato dall'Istituto di Scienze Religiose, relatori: prof. Giuseppe Ghìberti dell'Università Cattolica di Milano, prof. Vittorio Peri di Roma, prof. Harmann Pottmeyer dall'Università di Bochum e prof. Donato Valentlnl dell'Università Pontifìcia Saleslana di Roma L'inizio dal Convegno e previsto per le ora 17 di mercoledì 19 maggio, mentre giovedì ad ore 16 il terrà una Tavola rotonda conclusiva e/o Istituto di Scienze Religiose - Yillazzano di Trento, Villa Tambosi MOSTRE L'Eneide di Virgilio illustrata da Luigi Ratini - Trento - Palazzo delle Albere dal 2 aprile al 30 maggio - Museo Provinciale d'Arte • Provincia Autonoma di Trento. VARIE • STORIA, FILOSOFIA E SCIENZE UMANE Dal 25 aprile al 1° maggio: 30° Fllmfestìval internazionale montagna esplorazione « città di Trento ». Le proiezioni saranno effettuate presso il Teatro Sociale a Trento In via Oss Mazzurana 17 e il Cinema Dolomiti in via Borsieri 7. Continua il Corso dì aggiornamento per insegnanti di Storia con due incontri il 7 e l'B maggio ore 17 presso il Centro A. Rosnnìni a Trento, largo Carducci 24, relatori: .prof. Zaninelli dell'Università Cattolica di Milano e il prof. Roberto RufFIIIi dell'Università di Bologna CORSI E' iniziato sabato 17 aprite il Ctrso dr educazione sessuale per genitori ed educatori organizzato dall'Associazione Italiana Genitori in collaborazione con MpV, FIDAE, UCIIM e A1MC. 32 33 LETTERE AL MARGINE RIFLESSIONI SUL COMITATO TRENTINO DELLA PACE // Comitato tremino per la pace, il disarmo e la cooperazione tra i popoli compie sei mesi di vita: un periodo troppo breve per tracciare un primo bilancio dell'attività, ma forse sufficiente per gualche riflessione. L'appello rivolto dalle ACLJ trentine il 15 settembre '81 ad un'ottantina di persone affinchè si costituissero in comitato per la pace e il disarmo trovò una pronta risposta e una convinta adesione; le prime iniziative (raccolta di firme per la pace, pubblici dibattiti, incontri nelle scuole con studenti e docenti) videro un'ampia partecipazione dei firmatari all'appello, costituitisi nel frattempo in Comitato. La manifestatone pubblica svoltasi a Trento il 21 novembre all'insegna del disarmo e detta pace vide l'affluenza da Trento, Rovereto e dalle valli di molta gente: era da parecchi anni che nel Trentino non si assisteva a manifestazioni di tale ampiezza. Seguì al corteo per le vie cittadine un affollatissimo dibattito nella sala della Regione, relatori Carghi, Tridente ed Enrica Collotti Piscel. Il Comitato promosse infine, già in clima natalizio, la manifestazione dei palloncini colorati con i messaggi di pace che vide una larga partecipazione di alunni delle scuole elementari e medie. Un avvio dell'attività del Comitato pieno di speranze dunque. Ovviamente sin dall'inizio nessuno si nascondeva le difficoltà che il Comitato avrebbe incontrato nel suo cammino; si aveva però la netta i?npressione che le naturali differenze esistenti fra i firmatari nel modo di intendere l'impegno per la pace avrebbero preferito armonizzarsi con il procedere dell'attività del Comitato. Solo la richiesta al governo italiano di sospendere la decisione dell'installazione dei nuovi missili a Comiso aveva sollevato perplessità da parte di alcuni firmatari dell'appello, nella convinzione che una simile richiesta potesse apparire inefticace al fine del superamento della logica dei blocchi militari contrapposti. Ftf di fronte ai successi ìel movimento per la pace in Europa, in Italia e anche nel Trentino cbe le deferenze all'interno del comitato iniziarono ad accentuarsi, con il risultato che le Ione politiche e sociali richiamarono a sé le forze e le energie del Comitato per la pace; ciò avvenne in perfetta buona fede, nella convinzione che la pluralità di voci e di posizioni avrebbe rafforzato il movimento senza nulla togliere alla capacità di iniziative del Comitato. La previsione si è rivelala errata; si è sottovalutato il fatto cbe parole come pace, disarmo e cooperatone fra i popoli, se da una parie hanno una grande forza e capacità di rubiamo sulle coscienze dei singoli, dall'altra perdono immediatamente di valore e significato se usile per motivi dì parte: verità lapalissiana fin che si vuole, ma di cui non si e tenuto sufficientemente conto. Abbiamo assistito così ad iniziative sulla paci orgamzvife da partiti, movimenti e sindacati in cui la presenza del Comitato Trentino in quanto tale non veniva né sollecitata, né tanto meno al Comitato stesso veniva offerte di gestire autonomamente gli spazi che ciascuna {orza politica o socìde intendeva organizzare per rivolgersi atta pubblica opinione. I tragici fatti di Polonia, sopravi^tie^ido a queste già organiche debolezze hanno avuto l'effetto di mettere crsdatatate a nudo la precarietà che era imita in tali approcci al problema della pace, co> patiti e sindacati vanamente protesi in un tentativo di coinvolgimelo ( wob-èitiziosie popolare cbe ha avuto scarsi risultati. Di fronte alla violenza cbe in Polonia tvme in Salvador sì riafferma, si va nuovamente diffondendo un senso di impotenza e dì rassegnazione. E' quindi ora e tempo di rilanciare il nostro Comitato e ognuno ìeut fare qualcosa per la pace —• ma perché le convinzioni 34 politiche e religiose cbe differenziano quanti si riconoscono in questa causa non costituiscano « ostacolo, ma anzi stimolo ad un impegno comune » come sta scritto nel primo appello del Comitato trentino — bisogna che i singoli riflettano sulla scarsa efficacia che l'impegno sul tema della pace raggiunge all'interno dei rispettivi partiti e movimenti. L'attività del Comitato va infine indirizzata verso iniziative di informazione, specie nelle scuole, sullo stato e la qualità degli armamenti, sui processi storici che hanno portato all'attuale equilibrio del terrore, utilizzando a tal fine anche la pagina offerta da « Consiglio provinciale cronache ». Su questa linea si muove anche la proposta avanzata nella segreteria organizzativa del Comitato, e che verrà sottoposta a tutti i firmatari, di aprire un concorso nelle scuole sul tema della pace, del disarmo e della cooperazione fra i popoli. I lavori più significativi degli alunni delle xruole elementari ?. medie verranno esposti in una mostra al termine dell'anno scolastico. Vincenzo Cali CONVEGNO DELLE RIVISTE CATTODCO-DEMOCRATICHE « I I Margine» ha organizzato il 15 e 16 maggio prossimi a Firenze un incontro nazionale dì studio tra tutte le piccole testate locali che operano nell'area cattolicodemocratica. Lo scopo di questo incontro è l'approfondimento di alcune tematiche relative al problema della comunicazione e della informazione e il confronto e lo scambio tra le diverse esperienze. Questo i programma dei lavori; Introduzione ai lavori ore 15.30 SABATO 15 Relazione del prof. Achille Ardigò: 16.00 « Comunicazione di massa e comunicazione conviviale » Comunicazioni di: 17.00 — Nuccio Fava (giornalista RAI ) —- Roberto Zaccaria (doc. diritto regionale; cons. amm. R A I ) Incontro sulla Lega Democratica DOMENICA 16 ore 9.00 12.00 Tavola rotonda animata dalla redazione del « Margine » e del « Guado » — Il problema del linguaggio — Comunicazione e politica — L'informazione religiosa ed ecclesiale — Cinema arte letteratura; nuovi strumenti di comunicazione Dibattito Conclusione La sera del sabato sarà dedicata alla presentazione e al dibattito sull'attività della Lega Democratica. Ogni testata è pregata di arrivare al seminario con una relazione scritta sull'attività svolta da consegnare alla segreteria < specificando numero abbonati, diffusione, identità, ecc.) e se possìbile con fotocopia dell'indirizzario degli abbonati. Per informazioni sulla sede del convegno e sulle possibilità di alloggio rivolgersi a: Libreria Cultura, via G. Capponi 30, 50121 FIRENZE - tei. 055/570077. IN CASERMA Negli angoli della camerata l'ombra della sera invisibile come una ragnatela. L'anima respira il verde dei prati a primavera. Insieme, ma lontani, finiamo ogni giornata in un amore strano. Tu dici che è matto, e mi fai pensare all'uomo di un ospedale, ammalato, che vuole uscire a prendere le rondini quando volano la sera. La tua bellezza è questa primavera. ARMANDO VADAGNINI (da « / desiderati passaggi », 1912) IL MARGINE n 4 - ap'i'e '82 per iodico rnei= le - anno 'I - Redaz e amministraz.: 38100 TRENTO, via Suffragio 39 - Spezzone ir = bb. posiaìe gruppo I M / 7 D - L. 1 000 ti;. .Argentari.m - Trer.-o