2006 numero 8 Dicembre

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2006 numero 8 Dicembre
2014 numero 11 Dicembre
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Picciotti carissimi,vasamu li mani.
del Sud ed inquina l'economia e le istituzioni di
tutto il Paese (perché quella che Sciascia chiama la
"linea della palma” è risalita fino alle Alpi).
E' un modo di pensare che può tentare tutti noi, ma
va esorcizzato con la critica e l'autocritica.
E' un'ottica distorta che coinvolge anche quel- li
che sempre Sciascia definì i "professionisti
dell'antimafia", come coloro che si ritengono
appartenenti a un'elite intellettuale detentrice
esclusiva di un'etica sulla quale spesso si
costruiscono gratificanti carriere (negli anni di
piombo "il garantismo di parte" indebolì e ritardò la
lotta al terrorismo pretendendo di circoscriverlo a
destra).
L'attività repressiva è necessaria, ma non
sufficiente: basta ricordare il rifiorire - dopo l'ultima
guerra - di una mafia che sembrava definitivamente
estirpata dal fascismo, il quale però (mentalità
mafiosa!) non aveva fatto discriminazioni fra i suoi
sostenitori, ad eccezione-purtroppo degli ebrei.
Molto può fare ,invece,l'attività educativa come
quella svolta da don Ciotti con Libera, e da molte
altre associazioni di giovani, nonché l'opera
individuale di magistrati, giornalisti e artisti (si veda
il bellissimo film "La nostra terra") che svolgono
attività capillare di convincimento, dimostrando,
anche nei fatti, che il rispetto della legalità finisce
col pagare, specie quando riesce a strappare i
giovani a una sudditanza che è matrice di
manovalanza criminale.
Per questo, invito a rileggere le illuminanti pagine
di Gaetano Mosca che già alla fine dell'800 parla di
sentimento (o spirito) di mafia; purtroppo, egli,
(e altri come lui) venne messo a tacere dal
prevalere dell'omertoso negazionismo di cui ho già
parlato.
E' quindi fuori quadro il pur bravo Roberto Alaymo
che, interpretando il precariato dei lavoratori al sud
in chiave cigiellina, parla di una "gratitudine
sospesa" che garantisce il datore di lavoro da
eventuali ribellismi dei precari.
di Enzo Motta:
Ho appena letto la nostra rivista di novembre, con
gli scritti di Giancarlo Caselli, Gaetano Mosca e
Roberto Alaymo, ho letto anche in questi giorni
"Buttanissima Sicilia" di Pietrangelo Buttafuoco.
Le diverse interpretazioni del fenomeno mafioso mi
hanno indotto a mettere ordine nelle mie idee in
proposito; vediamo.
La mafia moderna in Sicilia è nata dalla saldatura
fra interessi agrari ed elettorali conseguente alla
vendita dei beni del Demanio e degli Ordini
religiosi, dopo l'unità d'Italia (ne è un esempio
l'ascesa di Calogero Sedara nel "Gattopardo"); la
storia è continuata per oltre centocinquanta anni
solo con qualche correzione di rotta; sono quindi
pretestuosi gli "scoop" giornalistici alla ricerca del
"Grande Fratello" come terzo livello della mafia; i
mafiosi e i politici fanno ciascuno il proprio
mestiere; oggi come ieri il punto di congiunzione è
il voto di scambio che significa voti in cambio di
posto di lavoro (possibilmente sinecure) di appalti
truccati, di coperture politiche, di un negazionismo
vigente ben oltre il secondo dopoguerra.
I politici che hanno fatto da intermediari hanno
prosperato, salvo quando han dovuto "prendere le
distanze" dalla mafia pagando spesso con la vita.
(un esempio fra tutti Salvo Lima)
Il terreno di coltura è una Sicilia (un meridione)
dove l'individualismo esasperato e la difesa a
oltranza degli interessi propri e del proprio
"gruppo" (non a caso si parla di Famiglia) portano
da un lato alla violenza e dall'altro all'alleanza con
quello che si ritiene il potente di turno: è la
"mentalità mafiosa" diffusa capillarmente anche a
livello locale, felicemente individuata da Matteo
Collura in diversi suoi interventi e che va estirpata
perché la sua estrinsecazione impedisce lo sviluppo
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che, come dicono gl’Italiani del nord, sono affiliati
alla mafia, diventano una scarsa minoranza.
Volendo fare delle distinzioni, a seconda delle varie
classi sociali e delle varie regioni dell’isola, dirò
che lo spirito mafioso, in generale, è più forte e
diffuso nei piccoli paesi e meno assai nelle grandi
città. Sebbene poi i contadini più poveri dell’interno
dell’isola ne siano meno affetti di quelli più agiati
ed intelligenti dei comuni vicino a Palermo e delle
borgate rurali annesse a questa città. È naturale pure
che lo spirito mafioso sia in generale più forte,
checché si dica e si scriva in contrario, nelle classi
povere e rozze anziché in quelle ricche sopratutto e
in quelle istruite. Bisogna però riconoscere che vi è
qualche grossa frazione delle classi più povere,
formata da coloro che esercitano certi determinati
mestieri, che ne è quasi completamente immune;
ciò avviene segnatamente nei marinai e pescatori
numerosissimi nell’isola. Ed è pure vero che alcune
frazioni delle classi dirigenti, certe famiglie ricche e
perfino blasonate sono fortemente intinte di
mafiosità; si tratta però spesso di famiglie di
gabellotti, o grossi affittuari di fondi rustici,
recentemente arricchite, nelle quali l’educazione e
la cultura sono rimaste indietro alla ricchezza di una
o due generazioni; oppure, se son famiglie antiche e
blasonate, sono di quelle che al blasone accoppiano
una buona dose d’ignoranza e di rusticità, male
larvata da una specie di gentilomeria sui generis, e
che, abitando per lo più in borghi appartati, dove le
idee ed i sentimenti moderni hanno avuto finora
poca presa, hanno assunto, mi si passi la metafora,
il colore morale dell’ambiente che le circonda.
Nella stessa famiglia poi, anzi nello stesso
individuo, lo spirito di mafia aumenta o diminuisce
e scompare a seconda che egli viene trasportato da
un luogo ad un altro dove l’ambiente è diverso.
Il Siciliano che va nel continente in paesi dove la
mafiosità è considerata come cosa bassa e volgare,
col mirabile intuito e colla straordinaria facilità di
adattarsi ad un nuovo ambiente che lo distinguono,
si spoglia subito di ogni spirito di mafia. Lo stesso
fa, in grado minore, il Siciliano che da un piccolo
centro mafioso viene a stabilirsi a Palermo, a
Messina, a Catania. Viceversa in certi piccoli centri
rurali, dove il ricorrere in certe occorrenze alla
giustizia regolare riesce cosa poco efficace, forse
anche perché è poco usata, e non contribuisce a far
rispettare l’individuo che ne usa, anche il Siciliano
delle grandi città, che vi deve lungamente dimorare,
acquista una forte tinta mafiosa e perfino la possono
prendere gli oriundi dell’alta Italia che in questi
paesi fissano il loro domicilio.
Ho potuto però constatare che i nativi dei comuni e
borghi rurali più profondamente e tradizionalmente
Questo forse può essere vero altrove, ma dove vige
la mentalità mafiosa la gratitudine (per la
raccomandazione!) è di per sé "definitiva" perché è
impensabile una qualsiasi ribellione, pena
conseguenze ben più gravi della perdita del posto.
Aggiustare il tiro, quindi; in questo aiuta molto
l'ironia corrosiva di tanti scritti, e di film come "La
mafia uccide solo d'estate" o "Song' e Napule":
una risata può davvero seppellire la mentalità
mafiosa. E allora un grazie anche a "Santuzzo" per
le sue scelte redazionali e per quelle fatte al "Nuovo
filmstudio".
Continua pertanto il saggio di Gaetano Mosca
(1858-1941) CHE COS’E’ LA MAFIA
In molte parti dell’Italia centrale il popolino crede
sempre che il poliziotto, lo sbirro sia un essere
abietto, e non approva che uno, che viene ferito in
rissa da una coltellata, riveli alla giustizia il nome
del feritore.
Anche là abbiamo dunque non solo la mafia ma la
sua indivisibile compagna, l’omertà.
E se gli operai di Torino sono in generale immuni
da questa lue, nei bassissimi fondi di questa città,
fra i barabba ed i gargagnan, è ancora in vigore ed
in onore una maniera di fare perfettamente analoga.
Ma anche nelle alte classi di buona parte d’Europa e
di tutta l’Italia un leggerissimo spirito di mafia
ancora sussiste.
Fra esse si ammette infatti che per certe offese
personali la riparazione non bisogna cercarla nella
giustizia legale ma nel duello. Il quale non è in
ultima analisi che una forma, attenuata,
regolarizzata, circondata da garenzie, di quella
tenzone sanguinosa fra due individui a cui ricorrono
spesso i popolani della Sicilia e di tutta l’Italia
meridionale e centrale per definire le loro querele.
È difficile di determinare precisamente quanto lo
spirito di mafia sia diffuso in Sicilia. Bisognerebbe
prima fissare il punto dove la verità mafiosa
comincia e dove finisce.
Certo, esaminando uno ad uno i Siciliani con criteri
molto rigorosi, battezzando per mafiosi tutti coloro
che in qualche caso speciale credono preferibile di
mettere a dovere colle proprie mani un tracotante od
un offensore anziché ricorrere alla giustizia, si
potrebbe asserire che la mafia comprende la
maggioranza degli abitanti dell’isola.
Ma se invece ricorriamo a criteri più larghi e più
giusti, se consideriamo per mafioso solo colui che
per spirito di mafia ha commesso un reato, od è
almeno capace di commetterlo, allora i Siciliani
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ricchi di spirito mafioso, se per lungo tempo abitano
nelle grandi città dell’isola o nel continente italiano
e se acquistano una solida e larga cultura
intellettuale, subiscono una vera trasformazione
psicologica, in forza della quale sentono una
invincibile ripugnanza a ritornare stabilmente nel
paterno loco. In seguito alla trasformazione
psicologica che ho accennato, essi hanno un tale
rispetto per la legalità e sentono tale disgusto per le
violenze private da non essere in questi riguardi
inferiori ai più perfetti galantuomini dell’alta Italia;
ciò che, se mancassero altri argomenti, basterebbe a
provare che la mafia non è effetto dell’eredità o
della razza, ma dell’ambiente in cui si vive.
Accade spesso che un Italiano dell’alta Italia
domandi confidenzialmente ad un suo amico
siciliano se il tale o il tal altro suo corregionale sia
un mafioso e si senta rispondere di sì. La risposta è
molto spesso data in buona fede, ma bisogna
sempre accoglierla con beneficio d’inventario, e
occorrono almeno altre domande più precise se si
vogliono informazioni davvero concludenti. Per un
Siciliano è mafioso qualunque suo corregionale che
lo sia un pochino più di lui: che ammetta quindi,
anche teoricamente, un uso un po’ più largo
dell’azione e della forza privata nel caso che si
debbano prevenire o respingere possibili offese.
Perciò la taccia di mafioso può facilmente venire
applicata anche ad una persona che non è affiliata
ad alcuna associazione criminosa, che non ha mai
commesso e che sarebbe forse incapace di
commettere, un vero reato.
L’immortale Manzoni, il più grande sociologo
dell’Italia moderna, e grande sociologo perché
psicologo profondo, descrivendo Renzo dice che
questi avea «una certa aria di braveria comune
allora anche agli uomini più quieti».
Ora, sarebbe una vera esagerazione paragonare la
Sicilia d’oggi alla Lombardia dell’epoca dei
Promessi Sposi, ma certo le tracce di quell’epoca si
possono ritrovare più vivaci e durature nell’isola
che nell’alta Italia. Una certa aria di braveria, o, se
così vogliamo, un certo profumo di mafia, è perciò
ancor oggi assai più diffuso in Sicilia, anche negli
uomini onesti, anziché in Piemonte, nel Veneto, in
Lombardia.
Sopratutto poi, ed è questa la vera specialità della
regione, mentre il detto profumo nell’alta Italia
bisogna ricercarlo solo nei bassissimi strati sociali,
nell’isola lo si può ancora sporadicamente trovare, e
molto intenso, anche in individui delle alte classi; i
quali qualche volta occupano posti elevati, che
conferiscono molta autorità e che fanno presumere
che, chi ne è investito, goda la stima dei propri
concittadini.
Nel
mese di novembre
ho visto e apprezzato su
Rai5 (canale 23),
la migliore rete
generalista della attuale
Rai, il bel film
documentario del
palermitano Franco
Maresco ( quello che
con Daniele Ciprì ha
inventato Cinico Tv)
dal titolo:
Io sono Tony Scott,
ovvero come l'Italia fece fuori il più grande
clarinettista del jazz (2010).
Il documentario racconta la vita del jazzista italoamericano Anthony Joseph Sciacca, meglio noto
come Tony Scott, (a casa sua in Sicilia lo
chiamavano (Tonuzzu bedduzzu) dalla sua infanzia
e giovinezza negli Stati Uniti fino alla morte
avvenuta a Roma nel 2007 in seguito ad una lunga
malattia
Per la realizzazione del documentario, l'autore ha
intervistato numerosi musicisti americani ed italiani
che avevano conosciuto Tony Scott, quali il
leggendario clarinettista Buddy DeFranco, il
pianista Mario Rusca e il percussionista Tony Arco.
Inoltre, Maresco ha ottenuto la collaborazione delle
tre mogli di Scott, oltre che delle due figlie avute
dal secondo matrimonio. Anthony Joseph Sciacca in arte Tony Scott - è il più grande clarinettista del
jazz. L'affermazione, così perentoria e sicura, è il
punto di partenza del documentario ma non si tratta
di decidere se la dichiarazione sia vera o meno.
Poco importa catalogare il personaggio in questione
nella sfera dei jazzisti che conosciamo; Scott è
sempre stato dentro quel mondo ma fuori da tutto il
resto.
Ciò che interessa al regista è riportare l'attenzione
sul personaggio, raccontando anche il dolore che ha
attraversato la vita di Scott, un musicista
straordinario che, dopo anni di successi al fianco dei
più grandi jazzisti americani, ha conosciuto la fine,
come artista e come uomo, proprio in Italia.
Era ammiratore di Charlie Parker, consigliere (forse
amante) di Billie Holiday, nemico-amico di Buddy
DeFranco.
Con il suo clarinetto è riuscito a rivoluzionare la
statura di quel particolare strumento (spesso
considerato ai margini del jazz), facendolo
diventare protagonista di quel mondo fumoso e
vitale dei locali dell'East Coast.
Il personaggio rappresenta un'eccezione: negli anni
Quaranta un bianco che si fa accettare dalla
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Solo un sassolino duro era rimasto sterile dall’inizio
alla fine.
Si chiamava Daniele, e io lo odiavo.
Daniele non giocava con nessuno. Durante la
lezione si sentiva, nei momenti di silenzio, il
fregamento continuo delle sue mani sotto il banco.
Quando gli parlavi, lui ti interrompeva a metà della
frase; oppure rimaneva in silenzio fino alla fine
come se fosse sordo.
Il mio compagno di banco mi disse una volta che lui
era diverso, che aveva qualcosa a che fare con le
automobili; ma a me non importava niente, lo
odiavo e basta.
Io avevo buoni voti ed ero brava a pallavolo.
A dieci anni ci vuole poco per essere benvoluti da
tutti. Non mi accorgevo del tacito privilegio su cui
galleggiavo; mi prendevo tutto come se fosse
dovuto, e sapevo anche di poter sforare i limiti con
un buono sconto sulle conseguenze.
Per questo nessuno se la prendeva molto se qualche
volta tiranneggiavo quel bambino silenzioso,
ingobbito tutto il tempo sulla propria sedia come un
vecchio.
Le maestre lo ignoravano per coprire l’imbarazzo
della sua presenza.
Gli altri lo ignoravano perché dargli fastidio non
regalava soddisfazioni: non reagiva. Il suo unico
interesse era mantenere in ordine la sua numerosa
cancelleria, che ogni mattina disponeva con ordine
meticoloso sul banco.
Se lo prendevi in giro rimaneva assente, con lo
sguardo nel vuoto, come immerso nelle trame di
una realtà misteriosa che tutti, eccetto lui,
sembravano ignorare.
Ma Daniele restava comunque uno sfigato, quindi
tormentarlo andava bene. Specie quando a farlo ero
io.
Ciò che mi divertiva di più, era rubargli le cose: la
sua faccia diventava paonazza e le guance gonfie di
un respiro affannoso, come un palloncino pronto a
scoppiare, le lacrime incipienti ai lati delle palpebre,
ma non emetteva un gemito.
Si mordeva compulsivamente le dita fin quando non
si calmava, o fin quando una maestra stizzita non lo
spediva in bagno per calmarsi.
Una volta mi sembrò di vederlo uscire con un
puntolino rosso di sangue sul pollice, e la mia
sicurezza tentennò; ma fu una tenerezza di cuore
che scordai subito.
Un giorno Daniele, inaspettatamente, rubò qualcosa
a me.
Era il mio adorato evidenziatore Stabilo giallo.
Era un colore bellissimo, e quando lo usavo, tutti i
miei compiti sembravano un documento importante,
da grandi.
comunità nera dei jazzisti è un fatto raro, se non
impossibile.
Il miracolo dell'integrazione razziale, documentato
da video e immagini (tra le quali la famosa
fotografia con "Bird" e "Lady Day" di cui Scott va
fierissimo), avviene attraverso le note musicali.
Dalle interviste dei compagni esce il ritratto di un
uomo egocentrico e stravagante, caratterialmente
diverso dai colleghi più 'seri', studiosi e
tecnicamente ineccepibili.
Lui era inguaribilmente anarchico.
Il suo corpo, mai composto o irrigidito, si muoveva
assieme alla musica e lo scorrere delle emozioni
vibrava sulle note del clarinetto.
Ma, malgrado la magia di quei momenti, la sua
storia è triste.
Dopo l'epoca d'oro in America, decide di viaggiare
verso l'oriente, dove pone le basi della world music,
per poi tornare in Italia.
Il paese dell'infanzia, ostile e irriconoscente, lo
abbandonerà a se stesso, svilendo il valore della sua
musica, chiamandolo a suonare durante piccole
sagre paesane di fronte a un pubblico annoiato e
meschino. Maresco dimostra, con il distacco
discreto di un regista che ama il suo soggetto ma
vuole anche metterne a nudo le debolezze, come
l'arte abbia bisogno di spazi e riconoscimenti per
poter vivere senza restrizioni di libertà.
In un paese come il nostro, dove la parola 'cultura'
vive agli angoli della quotidianità, uno come Tony
Scott finisce per vivere in strada, in un permanente
nomadismo disperato, ingloriosa metafora dei nostri
tempi oscuri.
C'è qualcosa che non va se un artista come lui viene
sepolto in una tomba in prestito.
Tempo qualche anno e dovrà andarsene anche da lì
per lasciare il posto a qualcun altro.
-------A firma di una giovane
promessa dello scrivere:
Francesca Sidoti
un bel racconto:
Evidenziatore Stabilo
giallo
Ad aprile i miei genitori iniziarono le pratiche per il
divorzio.
Due mesi dopo, io finii le elementari.
In cinque anni tutti i bambini mutano senza fare
domande al tempo, come i piccoli trifogli sbocciano
in silenzio.
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Credevo di averlo perso, fin quando non lo vidi in
mano a lui.
La sezione C diventava un epico teatro di guerriglia
durante ogni intervallo, tra corse forsennate, urli e
incursioni nel campo nemico della sezione B,
cinque metri più avanti, con cui avevamo iniziato
una lotta senza quartiere a partire dalla seconda
elementare, cioè da quando le due classi si erano
ormai affiatate in una complicità belligerante.
In tutto quel caos, fermo come una stella distante,
Daniele stava seduto.
Sul banco c’era il mio evidenziatore.
Egli teneva il mento appoggiato sul ripiano, tra le
nocche delle mani abbarbicate sul bordo, e lo
sentivo produrre lunghi mormorii incomprensibili.
Prendeva l’evidenziatore, lo cambiava di posto, e
bisbigliava qualcosa.
Lo metteva in posizione verticale, con tutta
l’attenzione di cui era capace, e sussurrava più
flebilmente.
Poi lo buttava giù con un fendente della mano, e
borbottava stavolta con aria molto convinta.
Stava parlando con il mio evidenziatore.
Per la precisione, si produceva in lunghi e
complicati discorsi con quel pezzo di plastica dalla
punta fosforescente.
Ma non mi degnò di alcuna attenzione, quando gli
dissi “è mio. Ridammelo.”
Il suo sguardo vagò per un attimo attorno alla mia
figura, come se rimbalzasse attorno a una barriera
invisibile, oltre la quale egli non riuscisse a
vedermi; poi tornò a dissertare con la sua refurtiva.
Qualcosa dentro di me mi impedì di piagnucolare
dalla maestra: in ogni bambino esiste un sensore
delicatissimo, designato a captare la mancanza di
considerazione da parte degli adulti.
Dentro di me sapevo che nessuno mi avrebbe dato
attenzione, se mi fossi lamentata di Daniele: il
fastidio e i sensi di colpa delle insegnanti, da un lato
desiderose di perdonargli tutto, dall’altro di
imputargli la sua stessa esistenza, sarebbero implosi
infine in una pozza di pigra vigliaccheria.
E la mia minuscola richiesta di giustizia sarebbe
stata zittita, con una delle tante scuse stupide che gli
adulti si inventano per essere lasciati in pace.
Era una questione tra me e lui, era una questione di
orgoglio: mi avrebbe restituito l’evidenziatore di
sua volontà, e tutto sarebbe andato come avevo
deciso io.
L’ultimo giorno della mia quinta elementare era una
bella giornata di giugno, con il sole a picco e un
vento vorticoso.
Molti della mia classe erano in giardino a giocare,
pochi altri nella sezione B per un ultimo
regolamento di conti. Io feci finta di andare in
bagno, ma tornai in classe dove, da solo, Daniele
sedeva al banco.
Giocherellava imperterrito con il mio tesoro giallo.
I suoi sussurri si mescolavano col frinire delle
cicale che, assieme a una leggera brezza, si
intrufolava dalla finestra socchiusa.
“E’ mio. Ridammelo.”
Nessuna risposta.
“E’ mio. Ridammelo. Hai sentito?”
Nessuna risposta.
Lo presi per le spalle e lo scossi con tutta la forza
che avevo in corpo. “Mi senti? E’ mio!”
Lui, colto alla sprovvista, si alzò maldestramente
dalla sedia e indietreggiò.
Guardava nel vuoto, a disagio.
“Io do una cosa a te, tu dai una cosa a me.”
Erano parole di una canzone (ai limiti dell’idiozia)
che avevamo imparato in prima elementare.
Daniele aveva una memoria eccezionale, ma
quando si trattava di esprimersi senza copiare da
qualcuno, a malapena rispondeva di sì o di no.
“Che cosa vuol dire!”
“Io do una cosa a te, tu dai una cosa a me. Io sto un
po’ con te, tu stai un po’ con me.”
Guardava sempre più in basso.
“Smettila! Io non sto con te e non ti do niente!
Quella canzone è scema e io voglio il mio
evidenziatore!”
Proprio mentre stavo per strattonarlo una seconda
volta, una repentina folata di vento spalancò di
botto la finestra. Spazzolò via tutto quello che c’era
sul banco di Daniele: gli astucci aperti vomitarono
in un attimo tutto il loro contenuto.
Pennarelli colorati sparati in ogni angolo dell’aula
vuota, il righello sbatté contro la gamba di una
seggiola, due o tre gomme rimbalzarono con un
ciocco sordo e sparirono sotto l’armadio, le matite
colorate si sparsero sul pavimento con il loro
rumore di xilofono.
In una frazione di secondo era esplosa una specie di
bomba multicolore.
Mi venne da ridere, come fanno ridere tutte le
piccole catastrofi, specie ai bambini. Ma mi zittii
subito appena vidi in volto Daniele.
La faccia tutta accartocciata in una espressione
stravolta, le lacrime agli occhi, il respiro
singhiozzante, ed era rosso, rosso come io lo facevo
arrossire di solito, ma stavolta, più che ridacchiare,
mi fece paura.
Non si portò le nocche alla bocca come faceva di
solito.
Invece, diede in un urlo disperato e ferocissimo,
come non ne sentii più né da un bambino, né da un
adulto.
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Cominciò a gridare come una bestia ferita, e a dare
pugni e calci a tutto quello che lo circondava.
Volò a terra la sedia, il banco fu spinto emettendo
un barrito doloroso.
Daniele si avventò anche contro il muro, incurante
del male che si provocava. Colpì anche me.
Era un bambino gracile, ma mi fece male, e
tenendomi lo stomaco mi allontanai in un angolo.
“Sta prendendo a pugni la barriera invisibile” pensai
d’un tratto, respirando a fatica.
“Sta prendendo a pugni il vento”.
Il dolore è un incantesimo dagli effetti
imprevedibili: quel colpo mi aveva fatto sputar fuori
tutta la mia rabbia, come un oggetto acuminato
ingoiato per sbaglio.
Qualcosa dentro di me fu liberato, e prese a
sgorgare naturalmente, come un fiume che
riconquista il proprio letto.
Allora, provai per quel ragazzino un calore nuovo e
indecifrabile.
Daniele prendeva a pugni la barriera invisibile,
prendeva a pugni il vento, il vento che gli
scompigliava gli astucci, che gli scompigliava ogni
certezza, ogni fragile confine, il vento che aveva
fatto saltare come una bomba i sorrisi amorosi di
mia madre e mio padre, il vento che aveva
frantumato il letto sereno della mia famiglia, e mi
aveva trasformato in una peste perfida quando io
non volevo, non volevo, desideravo solamente
avere controllo su qualcosa, desideravo solo
imprigionare il vento, desideravo che tutto restasse
com’era.
Che tutto restasse com’era.
Ma all’epoca avevo dieci anni e non ero
consapevole, per niente consapevole di aver
compreso la rabbia di quel bambino.
Semplicemente, decisi che dovevo farlo stare zitto
prima che arrivassero le maestre.
Quindi lo presi per la collottola della maglietta e gli
stampai un bacio sulle labbra.
Più che un bacio, fu una sorta di sberla con la
bocca, ma sortì l’effetto sperato: lui tacque di botto
e si irrigidì tutto, come una bestiola che si finge
morta. Rimase rosso in faccia.
Mi trattenni solo un momento, prima di correre via.
Dopo l’ultimo giorno di scuola non lo vidi mai più.
Portando con sé il mio evidenziatore, Daniele varcò
il mondo oscuro dei ricordi.
Ma adesso io so, che in quell’aula vuota di giugno
avevo forato la sua barriera invisibile: nell’istante in
cui io fuggivo dalla porta lo guardai.
E per la prima volta lui guardò me.
Mi guardò fisso e a lungo. Mi guardò negli occhi.
Mi guardò davvero.
Pier Guido Quartero,
nato nel 1949 a Genova,
scrive romanzi storici.
Dopo La Lettera perduta,
collocata nella Genova del
1350, sono usciti L’Oro di
Tabarca e L’Eredità di
Don
Diego,
ed
ora
Il Segreto dell’Alchimista:
tre volumi che raccontano una saga familiare sullo
sfondo dell’epopea tabarchina.
Nelle isole sarde del Sulcis, a Carloforte e
Calasetta, vive una comunità che parla un dialetto
genovese.
Si tratta di discendenti dai coloni liguri
(prevalentemente pegliesi, e per questo motivo la
prima presentazione del terzo volume sarà fatta a
Pegli) che negli anni ’40 del 1500 si stabilirono a
Tabarca, un isolotto davanti alla costa tunisina,
dove esercitarono per due secoli la pesca del
corallo.
Nel 1741 l’isola fu infine occupata dal Bey di
Tunisi; quella parte dei coloni che non si erano
ancora trasferiti nel Sulcis venne fatta schiava e
solo dopo anni di trattative poté essere riscattata per
raggiungere la nuova patria.
La scelta di appoggiare su questo sfondo una storia
sviluppata in tre romanzi, autonomi ma collegati tra
loro, è dettata dalla complessità della vicenda
tabarchina e dagli spunti che essa offre per
delineare un grande affresco della storia di Genova,
del Mediterraneo e dell’Europa tra la fine del Medio
Evo e il nascere della contemporaneità.
Basti pensare che la narrazione viene innescata da
un tesoro che Cristoforo Colombo affida al proprio
mozzo (e che costituisce uno dei fili che terranno
insieme dall’inizio alla fine tutta la trilogia) per
concludersi in un tempo in cui uno degli illuministi
autori dell’Enciclopedia, il Montesquieu, dopo aver
visitato Genova, avrà già espresso nei suoi confronti
un giudizio tranciante, quanto ingeneroso.
In mezzo ci sono lo scontro tra la Cristianità e
l’Impero Turco, quello tra Spagna e Francia, la
Riforma e la Controriforma, Galileo e lo sviluppo
del metodo scientifico, con i progressi della fisica e
della medicina. Ci sono le esplorazioni di nuove
terre e lo spostarsi del centro del Mondo dal
Mediterraneo all’Atlantico, con il declino di vecchie
potenze e la nascita di altre, come il Portogallo e poi
i Paesi Bassi e l’Inghilterra. C’è il tramonto delle
Repubbliche marinare in una più generale crisi delle
autonomie della penisola. Ne seguirà la nascita
degli ideali risorgimentali, che, una volta terminata
la pubblicazione della trilogia, potrebbe essere
oggetto del prossimo lavoro di Quartero.
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Ognuno dei tre romanzi racconta una storia che può
essere letta da sola, ma che fa parte di una saga
familiare.
Sullo sfondo dell’epopea tabarchina, che
ufficialmente ha inizio nel 1542 (con il primo
insediamento di coloni) e termine nel 1769 (con il
riscatto e successiva sistemazione tra Carloforte,
Calasetta e Nueva Tabarca degli ultimi coloni
rimasti schiavi dei maghrebini), si sviluppa la storia
di Giovanni Pittaluga e dei suoi discendenti.
Giovanni, coinvolto suo malgrado dai fratellastri
nel tentativo di congiura dei Fieschi (1547), fugge a
Tabarca con l’aiuto dell’anziano Diego, già
marinaio di Colombo, e trova sull’isola l’avventura
e l’amore.
Questa storia è raccontata nel primo volume (L’Oro
di Tabarca), dove sullo sfondo si racconta anche
delle questioni legate alla scoperta dell’America,
della congiura dei Fieschi e dei rapporti ambigui
correnti tra Andrea Doria e i pirati maghrebini
(Kaireddin Barbarossa e Dragut), che diedero anche
occasione alla concessione per l’insediamento di
una fattoria per la pesca del corallo sull’isola di
Tabarca.
Nel secondo romanzo (L’Eredità di Don Diego), il
nipote di Giovanni, Baciccìn, intenzionato
a
partecipare finanziariamente alla realizzazione di
una tonnara ed a divenirne il Raìs, si imbarca in una
serie di avventure tra il Maghreb e Genova con lo
scopo di recuperare un tesoro lasciato in eredità da
Don Diego. Sullo sfondo, il tentativo francese di
occupare l’isola, respinto dai difensori (1632) e i
falliti tentativi dei Savoia di impossessarsi di
Genova: guerra di Zuccarello (battaglia del Pertuso
e Santuario della Vittoria) e congiura di Vachero.
Nel terzo volume (Il Segreto dell’Alchimista), il
bis-nipote di Baciccìn e le donne della sua famiglia
sono coinvolti nella caduta dell’isola, occupata da
Ikonos, figlio del Bey di Tunisi Alì Pascià nel 1741.
L’amicizia con il figlio del capo della tribù beduina
accampata sulla sponda africana, a poca distanza
dalla fattoria, consente ai nostri eroi di sfuggire alla
schiavitù e recarsi a Genova dove, grazie ad un
inatteso regalo del destino e dopo una quantità di
peripezie, riusciranno a procurarsi una somma
sufficiente non solo a sistemarsi a Cala de Seda
impiantando un vigneto, ma anche a contribuire agli
sforzi del Capitano Porcile e di Don Rivarola diretti
alla liberazione dei tabarchini rimasti schiavi.
Sullo sfondo, l’occupazione di Tabarca da parte di
Ikonos e le traversie dei coloni, il bombardamento
di Genova da parte della flotta del Re Sole, e infine,
con riferimento allo scontro tra Inghilterra e Spagna
per il controllo delle rotte atlantiche, i pirati delle
Antille.
Al di là della continuità di sangue tra i protagonisti
e della presenza costante della vicenda tabarchina,
esistono altri legami tra le tre storie, che, pur non
intaccandone l’autonomia narrativa, segnano una
serie di tracce di collegamento, talvolta più
consistenti (un tesoro colombiano) talvolta più
sottili: c’è il nome ricorrente per le imbarcazioni di
famiglia (Stella Maris, Maris Stella, Maristella), ci
sono alcuni oggetti, come una pipetta “genovesina”
di gesso, un cannocchiale e un mortaio.
C’è l’abitazione tabarchina della famiglia, con la
spalliera di fichi d’india e il cortile ombreggiato
dalla vite.
C’è una locanda genovese che nello sviluppo
temporale del’intera azione si trasformerà in un
teatro, visitato anche da Carlo Goldoni (che in
quell’occasione trovò moglie): il Falcone. E c’è il
confronto costante con l’altro ramo della famiglia,
quello dei Merello: fratellastri “cattivi” nel primo
romanzo, i cui discendenti tornano in vesti e con
ruoli diversi nel secondo volume.
Tornano anche nel terzo, come non accadrebbe mai
nella vita reale ma non può non accadere in un
romanzo che si rispetti. In quest’ultimo, tuttavia, la
cosa non è così evidente, tanto che neanche i
protagonisti ne hanno coscienza.
Può capire solo il lettore, e solo se parla genovese:
infatti occorre avere ben presente che cosa significa
la
parola
“merello”
per
noi.
Fragola.
Altro non è il caso di dire.
Il prossimo 17 gennaio 2015 Quartero tornerà a
Savona per presentare la sua trilogia.
Lo aspettiamo con piacere.
7
Da un amico catanese, Manlio Guzzardi, che
ringraziamo abbiamo ricevuto questa trasposizione
in “lingua” della Cavalleria Rusticana” molto più
verosimile della Novella di Verga. O pensate forse
che Turiddu Macca a Licodia, (CT) paese di un
migliaio di abitanti, nel 1880, parlasse il forbito
italiano che abbiamo studiato?
quannu t'affacci fai la vucca a risa, biatu cui ti duna
u primu vasu!
Arreri ‘a porta tò lu sangu è svasu e nun m’ mporta
si ci moru accisu...
E si ci moru e vaju ‘m Paradisu, si nun t’attrovu jù
mancu ci trasu”.
U ‘ncontru
Ma doppu quarchi ghiornu finarmenti, attagghiu
d’un cannitu la ‘ncuntrau
- Cummà, passati senza diri nenti? R’o focu ‘n
munzeddu ‘i cìnniri ristau?
Macari Lola s’arriurdava i sintimenti e l’occhi
diavuligni li calau,
ma Turi, comu ardìcula pungenti, senza pèrdiri
tempu riplicau:
- P’arrimuddari ‘n cori già ‘mpignatu ci vòsiru li
muli e li jumenti
d’un carritteri ca vi cancia statu, rrialànnuvi i
cullani cche pinnenti!
Lola ‘mmustrannu aneddu ‘nto sò jitu, ci rissi
beddu chiaru: - Stamu attenti,
faciti cuntu c’Arfiu è lu me zitu e ormai ccu vui nun
pozzu fari nenti!
Ci ‘rrispunnìu Turiddu: -Cummaredda, siti morta
ppi mia, sbilu luntanu,
jù ci aju l’amuri d’a me matruzza bedda, amuri ppi
daveru, amuri sanu!
Ppi me pedi ‘a sò casa e ‘a sò vanedda ora ‘ddiventa
‘n puntu assai stramanu,
ppi ‘sta scaciuni mi scurdai dda canzunedda ccu li
sfuàti di ‘nu marranzano!
Però tegnu sarvatu ‘n fazzulettu, u vostru
‘mmuccaturi cche tri ciuri,
ca portu ‘mpiccicatu ‘nto me pettu e m’arriorda u
vostru anticu amuri!
In conclusioni, parrannu ccu rispettu, n’amu a
scurdari zoccu accapitau,
facemu cuntu ca chiovvi e ca scampau e ‘a nostra
canuscenza scumparìu.
- Cchi m’incucchiati? Cchi vi sàuta ‘n menti?
Jitivinni, binirittu, ppi faùri,
nun mi mittiti ‘nta vucca di la genti, facìtimi
cchiuttostu i vostri auguri!
U currivu
Cummari Lola, maritata ccu ‘n rinfriscu, si fici
cchiù biddazza e cchiù carnusa;
cumpari Arfiu, chiantannu ‘a zotta ‘nto viriscu,
s’apparigghiau cca sò vita travagghiusa.
Cumpari Turi ‘nveci mèmuru e fuddiscu, virennu a
Lola accussì fridda e stufficusa,
pinsò ‘ntra r’iddu:” Ma un gnornu jù ti piscu e ti
strinciu forti forti cchè me pusa”.
Sapennu quantu potti ‘a gilusia, si misi a scuncicari
‘n sichitanza
Cavalleria rusticana
Novella di Giovanni Verga
(si fussi scritta ‘n sicilianu)
Personaggi:
Cumpari Turiddu
Cumpari Arfiu
Cummari Lola
Cummari Santuzza
Prisintazioni
Verga ci fici splèndidu raccamu, ccu sita ca nun si
sfarda né ‘ngiallisci,
Mascagni ‘i ddà ci ‘ntisi ‘n forti chiamu e cc’a
musica dd’a storia l’arricchisci,
all’unu e all’àutru nuatri ‘i ringraziamu, picchì
trattaru ccu tanta maistrìa
l’eterna e duci paruledda t’amu , ‘mmiscata ppi
mità cc’a gilusia.
Ddu ran pueta, a usu di riscialu, ‘st’amuri ni
cuntau ‘n form’ erudita,
senza purtari sconzu, né rialu, ma ppi cunotto a cu
è ca si marita.
Macari jù, vincennu lu ‘mmarazzu, tentu l’amprisa
e v’addumannu scusa
si ‘stu beddu raccamu vu ‘mpastizzu, ‘nta lingua ca
ri tannu ccà si usa.
‘A nutizia
Stunàu Turiddu quannu ci cuntaru ca Lola si
pigghiava ‘n carritteri,
appi ‘na scossa, l’occhi s’impannaru, stava quasi
abbuccannu avant’arreri.
‘N testa sinteva ‘n pisu d’un cantaru, ‘u cori era
ammaciatu ‘nte pinseri,
ma fora s’annacava paru paru cc’a sò tinuta ‘i
surdatu birsaglieri.
I fìmmini di cori arrimuddanti, ‘mpazzuti ppi ddu
giummu ca pinnìa,
ppi nenti ‘n ci squagghiavanu davanti, quannu
passava ppi l’avimaria.
Surtantu Lola mancu lu ‘nningava, ppi chissu
‘mpari Turi ni patìa,
tutta ‘a notti ‘nte linzola ‘rrivuggheva,
arruzzuliànnusi pp’a forti calurìa
e ppì sfuàrisi ri coppu si suseva e a ‘nnammurata ci
cantava a puisìa:
“O Lola, c’hai di latti la cammisa, sì bianca e russa
comu ‘na cirasa,
8
‘na fìmmina ca i biddizzi s’i vinnìa, tantu n’aveva
di furmi e di purtanza,
Santuzza era u sò nnomu e pp’astinìa, ‘u piaciri e
dda ‘nsistenza,
finìu ca tuttu a Turiddu ci pruìa, nun sulu ‘u cori, va
dittu ‘n confidenza.
Ma Lola ‘u seppi e china di currivu, ‘ncuntrannusi
ccu Turi, ‘nfuliniata
ci rissi dda ccu dda:-Vinnicativu, dda farittedda vi
fici ‘a mavarata?
C’era bisognu di ‘stu diversivu? Turi ascutava ccu
l’aricchi tisi
e arrizzati li naschi comu addevu, ci dissi:- Fazzu
zoccu vi fa ddu licuddisi.
E Lola duci:-’Na vota mi dicisti c’attagghiu a mia
t’acchiana ‘na vampata
e pirchì ora ‘a mala parti mi facisti? E’ propriu veru
ca dda sgallarata
u cori, ‘a testa, i cianchi e tutti ‘i costi ti vasa
sbruduliannu cca scurata?
Ci chiuru ‘nta me casa tutti ‘i ’mposti, si voi stari
ccu mia ppi ‘na rancata!
Turiddu, caluriusu vizzinisi, aperta ‘ttruvau ‘a porta
e mancu stritta:
‘ncucchiati comu fùssiru siamisi, vasuni si nni
dèsuru a minnitta.
‘A ciusciata
Santuzza s’addunau di ‘sta ‘mmiscata, ristannu
sicca comu anciova fritta,
nun ci appi quetu, ci vinni ‘a pantaciata, svariannu a
manu manca e manu ritta.
Ppi ‘nsinu ci pruvau d’arrimuddallu, di pirdunàricci
zoccu ci ava fattu,
fu tempu persu, c’era cosa di pistallu, Turiddu e
Lola nun pèssuru cuntattu,
iddu puru ccu Santa s’a pigghiau, ittannu schigghi e
facennu ‘n quarantottu
e a dda povira carusa a liquidau dicènnucci:-Ppi tìa
com’ora fazzu ‘u mottu”.
Santuzza ca si ‘ntisi scarpisata, pp’ alliggiriri
anticchia lu pinìu,
pinsannu ‘i fari ‘na botta di sfuàta, circau a cumpari
Arfiu ppi currìu.
E giustu giustu lu ‘ncuntrau ppi strata: -Turnàstivu
d’a fera, amicu miu?
‘A vastedda vi l’aviti varagnata, ma Lola l’avvilena
a quantu viju!
-Nun vi capisciu, chi sintiti diri? -Eccu cumpari,
‘nsumma.. ‘na vriogna!
Turi ccu Lola! Mi nni faciti jiri, ca m’aju a vùgghiri
carduni e sparagogna?
-Figghia di Diu, se è veru, viva Cristu, ma si pp’o
diavulu risutta ‘na maligna
vi scippu u cori e cc’o sangu vi lu pistu, comu fussi
‘a racina di ’na vigna!
‘A sfira
Senza pinsarici dui voti, ‘nfuluniatu, cumpari Arfiu
trasìu ‘nni dda putìa
unn’era Turi ca s’ava avvinazzatu; iddu u taliau ccu
facci ‘i vanteria:
“Cumpari Arfiu, limpidu è ‘stu vinu”- ci dissi Turi
cc’o bicchieri ‘n manu“vivitivillu, ca è propriu brillantinu, a sursuneddi
l’ha fari, chianu chianu”.
Arfiu u ’mmuttau ccu fari malandrinu, senza taliari
ddu bicchieri ‘i vinu
e ci vanniàu sdignatu:”Abbìa ‘stu vinu, ca percia li
vuredda a funnu chinu!”
e doppu l’avvisau:”Dumani all’arba, senza genti e
cumpari ‘nto stratuni,
chiaremu ‘sta facenna, si vi garba, v’aspettu ddà, a
tagghiu ‘i bastarduni!”
“Ddà ni viremu, cc’o cuteddu ‘n manu”- scattiau
Turiddu e nuddu pipitiau“m’u manciu comu pani,‘stu viddanu”- ccu ‘sta
prumissa n’aricchia ci azzannau.
L’addiu
Turi tardu s’arricugghìu ‘nta casa e a sò matri ca u
spittava pacinziusa
‘na cosa ci ava a diri comu scusa, p’accummigghiari
dda storia tragidiusa;
“Turi, si stracanciatu ‘nta tò vuci”- ci suspirau sò
matri -“cchi voj fari?
‘Stu vinu certu è ‘na trimenna cruci, stacci accura
c’accurzi di campari!”
“Nun è ‘stu vinu c’accussì riduci”- ci rici Turi-“ sù
tutti i mè chiffari,
dumani all’arba, propriu a menza luci, aju a pàrtiri e
tu nun m’aspittari.
A Santuzza cci prumisi, Vui u sapiti, ca prestu mi
l’avissi maritatu:
diciticilli Vui du cosi sapuriti, ppi mia, ca sugnu
troppu ‘ntrafficatu.
A mia, matruzza, m’a dari ‘n vasuneddu, comu
facisti tannu pp’o surdatu”.
”Accussì mi fai muriri, figghiu beddu! Ca Diu
t’assisti sempri, salaratu”.
‘A cutiddata
Cantava u jaddu ‘nta paci e ‘nta jancura, quannu
Arfiu e Turiddu s’attruvaru,
p‘arrisòrviri ‘a facenna allura allura, ccu dd’aria
fridda comu u gelu di jnnaru
e caminannu ciancu a ciancu ‘nto stratuni, Turi ci
aveva ‘n pisu ‘nto viddicu,
tantu ca prima d’arrivari ‘e bastarduni, ci rissi a
chiddu: “Jù mi malidicu,
picchì u mali ca vi fici ccu l’ingannu, è giustu e
sacrusantu, l’aju scuttari,
ma a me matri e a Santuzza ci fa dannu, s’a casa
nun ci avissi cchiù turnari”.
9
Ed Arfiu, carmu carmu: “Smaccu ‘st’annu nn’haju
‘gghiuttutu senza pipitiari,
ci voli u sangu, annunca jù m’addannu e ppi chissu
‘a tò vita t’aju a livari!”.
Mìsuru manu a li cutedda, longhi tanti, coddi
arrunchiati, jammi a tinchi tanchi,
spatteru corpa all’urbisca ccu finnenti, fiddiannu
l’aria e cumpuru nun sù stanchi.
Arfiu s’a pensa e ‘n pugnu ‘i terra abbìa,
‘nnurbannu Turi e mirànnulu ‘nte cianchi,
ci acchiana ‘ncoddu, ‘u ‘nserta e ‘u fiddulìa,
cumpari Turi già ci avi l’occhi janchi.
Arfiu di bottu si metti fermu fermu: resta ‘mpalatu,
cche manu supra i rini,
mentri Turi si cuntorci comu ‘n vermu: “Ora tò mà
‘n ci pensa cchiù ‘e jaddini!”
Turiddu s’arrizzola a comu ammatti, ‘mpasta ‘u sò
sangu cca terra china ‘i spini,
ristannu a panza sutta ‘nta l’infratti, jetta l’urtimu
ciatu e poi è la fini!
‘N tuttu u paisi ‘u sapi chistu e chiddu:”’N menzu
‘e sipali, ccu ‘n corpu ‘nte vuredda,
anu ammazzatu a cumpari Turiddu! V’o diticcillu a
dda vicchiaredda!”
Tra li vuciazzi, ‘mmuttuni e ‘nu curtigghiu,
n’cristianu canuscenti murmurìa:
“Chiancìtivi ‘gna Nunzia a vostru figghiu! Perdi
l’amuri ‘n menzu‘a gilusia!”
Grazie ai buoni uffici dell’amico Carmelo Sergi ho
potuto leggere i racconti del comune concittadino
Agatino Spampinato (con questo nome poteva
essere solo di Catania), raccolti col titolo “Erano i
giorni delle fionde”.
E’ un diario delle vicende, in genere monellerie,
giovanili, che anch’io, purtroppo soltanto per i
pochi giorni delle vacanze estive, ho in parte
praticato. Quanti bei ricordi con i riferimenti agli
angoli della città etnea di tanti anni fa!
Lo stile di Spampinato è genuinamente frizzante,
ricco di accentuazioni -siamo barocchi noi della
costa Est- e accattivante.
Allora l’ho fatto leggere ad una cara amica
“conterronea” ed ecco cosa scrive Daniela Rosano:
Innanzitutto grazie a Santuzzo che nella sua fedele
origine sicula, ha voluto farci conoscere il nuovo libro
di Agatino Spampinato ……
Con leggerezza, spontaneità e un linguaggio fluido,
il libro tocca accenti lirici.. che ben si addicono ai
ricordi in gran parte lieti dell’infanzia e della
giovinezza dell’autore.
E sono comunque i periodi più dolci a volte anche
trasognati e nobilitati dal trascorrere del tempo,
quelli ai quali si volge con sguardo nostalgico
l’autore.
Gli anni vissuti con la famiglia, due sorelle, un
fratello ed anche un altro fratellino scomparso al
quale si lega un dolore che si addolcisce nel tempo;
e poi gli amici, i parenti, tutti coloro che fanno parte
di una famiglia allargata, ma in senso antico
(fratelli, cugini, ecc.).
E soprattutto i protagonisti, i monelli che si
avventurano nelle strade del quartiere di Borgata di
Catania curiosi e fiduciosi; con risultati a volte
anche con esiti non proprio positivi.
Ma i giorni vengono scanditi dai giorni, e sembra
un tempo infinito.
Il calcetto, le ore passate sulla casetta sull’albero, i
bagni nelle vasche di raccolta d’acqua, piovana
provando..invidia per i ragazzini che (perché più
poveri) riuscivano ad essere accolti nelle colonie
marine.
La madre che con le sue “geremiadi” cerca di
allontanare la sventura dalla famiglia.
Le sorelle ormai giovincelle che organizzano le
feste sulla terrazza di casa, perché, a quei tempi,
non era consentito loro di uscire..
Insomma un libro corale ma soprattutto uno
spaccato di personaggi fiduciosi che, finita la
guerra, il futuro si presenti prospero per tutti.
Ed è questa fiducia, quest’aspettativa che più
colpisce perché ormai più ci manca.
10
Ero una ragazzina nei modi, e forse anche una
donna.
Perché avevo ventidue anni. Statura media, carina,
sguardo acquoso, gambe fragiline, magre troppo
magre, taglia seconda di reggiseno.
Capelli lunghi. Scuri. Graziosa. Italiana.
Di Siracusa.
Stavo con un polacco di nome Sławek, professione:
semaforista.
Marcin morì alle ventitré in ospedale, seconda
chirurgia, era un sacco informe, sboccava sangue e
sangue, dalle orecchie, dal naso e da sotto, credo.
Erano le ventitré ed era lunedì. Sławek aspettava
sotto la luce gialla e malsana del bigio corridoio, io
gli stavo al fianco, non avevo i capelli.
E anche Sławek li aveva rasati ché c’aveva i
pidocchi, secondo me, era stato lui per primo, come
per la rogna, lui per primo. Poi toccava a me.
Allora alle diciassette di quel lunedì, Marcin prese
il rasoio che usava per la barba e nel cortile del
bordello per mignotte dell’est estrapolò ciocca per
ciocca, Sławek aveva capelli forti, chiari, lucidi;
Marcin aveva pazienza e Sławek non fiatava. Aveva
coraggio il mio uomo polacco perfino nelle piccole
cose. Alle ventitré Marcin moriva per davvero.
Avevo una macchina, era nuova e la pagavo a rate
perché pensavo di lavorare abbastanza.
Sicché mi licenziarono per inettitudine, assurdo,
inettitudine. Oh, facevo la segretaria per dei
crapuloni, mi uccideva la loro noia; ho sopportato,
mani inzaccherate di toner, pc impostato con
programmi per crapuloni. Io sono un’artista.
“Belli, mica mi mollate così”. “Belli, io c’ho la
macchina da pagare”. Belli. Io sono cattiva e uso
di solito parole troppo lunghe.
Tipo: effettivamente, oppure improrogabilmente,
improcrastinabile, incontrovertibile.
Poi mi toccava depennare il mio capo-crapulone,
quando al secondo rigo specificava: via Tucitite.
Somaro. Tucidide. Di, non ti. Somaro.
Era un paesaggio grigio e triste, Siracusa.
Grigio nella sostanza, perché poi c’era la luce
paglierina a inondare di falso gaudio marine e
angiporti; era la luce che confondeva i pensieri che
tristi erano tristi; come d’altro canto la gente che
scorgevo china e muta, mai un sorriso, accidenti.
I miei pensieri erano tristi, prima di diventare
pensieri polacchi.
Oggi sono adulta.
È Natale, l’alberello luccica, abbiamo appeso le
bilie colorate, i nastrini di raso delle bomboniere di
mia sorella, le mele finte.
Il mio polacco è sparito. È tornato a Radom,
dicono, non Tano, l’amico di Ivona che stava con
Marcin e Marcin è morto.
Veronica Tomassini
è siciliana, ma di
origine umbre,
e lei molto
puntigliosamente
tiene a precisarlo.
Giornalista, ama
le ambientazioni
suburbane, gli
outsider, gli
immigrati, gli
sfrattati ad
oltranza dal
sentire borghese.
Ama i perdenti
perché neanche
lei ha vinto mai
qualcosa, nella
vita in generale.
Scrive sul Quotidiano La Sicilia dal 1996.
Il suo primo romanzo è Sangue di cane
Lei è una ragazza qualsiasi. Lui è un abisso.
Ogni città d’Italia contiene al proprio interno
un’altra città, nascosta e quasi invisibile: la città di
chi campa di poco o niente, di chi non ha casa, di
chi è arrivato da paesi lontani, di chi trova l’unico
sfogo vitale nel bere o nel farsi.
Sangue di cane è la storia dell’amore impossibile –
e tuttavia inevitabile, essenziale – tra una ragazza
della città visibile e un uomo della città invisibile.
La protagonista, una giovane di Siracusa, ha infatti
incontrato il polacco Sławek, un tronco d’uomo che
di professione fa il semaforista e che per
sopravvivere allunga la mano chiedendo “Poco
spicci, prego”.
È con lui che divide la sua quotidianità: Sławek è
un alcolizzato, dorme nelle case occupate o nei
vagoni morti.
Sławek vive di espedienti.
Il mondo dei giusti, la città visibile guarda oltre,
nessuna concessione per gli amanti.
Alle spalle dell’uomo c’è un matrimonio contratto
in patria e un passato in cui il suo mestiere è stato
quello della violenza, nel futuro invece ci potrebbe
essere la costruzione di una nuova famiglia, anche
perché dall’unione con questa ragazza siciliana è
nato Grzegorz.
Ma Sławek non sa smettere di essere un abisso.
Eccone un brano:
11
Le OFFICINE SOLIMANO hanno emuli ?
Chiude a dicembre il ciclo di attività Cantieri del
contemporaneo
presso i Cantieri Culturali alla
Zisa. Una riflessione sul nostro tempo, attraverso i
linguaggi delle arti e della cultura: è a partire da
questa idea che L’Assessorato alla Cultura del
Comune di Palermo ha promosso un ciclo di attività
culturali attraverso un Festival che si protrae da
luglio a dicembre. La vocazione e l’identità plurale
dei Cantieri Culturali alla Zisa che hanno accolto
per la stagione estiva e autunnale “I Cantieri del
Contemporaneo”, un progetto di Giuseppe
Marsala, con Beatrice Agnello, Cetta Brancato,
Clac/Duepunti, Cre-zi/Consorzio Arca, Andrea
Cusumano, Paolo Falcone, Santina Franco, Gianni
Gebbia, Melino Imparato, Andrea Inzerillo,
Beatrice Monroy, neu [nòi]/ Giusy Affronti,
Gianfranco Perriera, Alfio Scuderi, Viviana Trapani
e ZisaLab. Si tratta dunque di un progetto corale
che attraversa diverse generazioni e coinvolge più
di 260 tra artisti, intellettuali e uomini di cultura.
Musica, cinema, teatro, arti visive, letteratura,
danza, filosofia, design e architettura negli spazi dei
Cantieri, declinando il tema del Contemporaneo e
della crisi che attraversa oggi il nostro tempo.
Un concetto, quello di crisi, che il Festival vuole
declinare a partire dalle opportunità che vengono
generate dal tramonto dei paradigmi tradizionali e
in termini di scoperte, di pratiche nuove e
combinazioni inedite con cui riscrivere i codici del
nostro tempo. Un’idea di crisi come possibile forma
di nuova energia sia in termini di forza attiva, sia in
termini di resistenza.
Il Festival si chiude in Dicembre con PALERMO
POST-PRODUCTION, una mostra di ricerche e
progetti
sul
tema
della
riconversione
dell’architettura urbana e sulla rigenerazione della
materia costruita esistente, curata da ZisaLab, e che
raccoglie gli esiti di tre laboratori di progetti di
riconversione e trasformazione dei Cantieri
Culturali alla Zisa.
PALERMO Autori siciliani in rassegna a Palermo:
due "reading" ai Cantieri della Zisa
I Cantieri del Contemporaneo, il Festival ideato da
Giuseppe Marsala e promosso dall'Assessorato alla
Cultura del Comune di Palermo, propone un ritratto
sfaccettato della città contemporanea, declinato nel
corso di due reading.
Forse non esiste “il romanzo di Palermo”, che
periodicamente quotidiani, blog, incontri culturali
provano a rintracciare, ma di sicuro gli scrittori
palermitani della loro città scrivono parecchio e
dalle loro pagine emergono dettagli rivelatori, a
volte ribaltamenti di cliché abusati o parole nitide
per qualcosa che pensavamo confusamente.
L’iniziativa vuole anche rilanciare la Mappa
letteraria
on
line
di
Palermo
(mappaletteraria.comune.palermo.it) e proporre
nuove scritture per il suo aggiornamento.
Fra i 42 autori siciliani, quasi tutti saranno presenti
e saranno loro stessi a leggere una pagina tratta da
un loro testo, alcuni invitati personalmente, altri
selezionati sulla base delle segnalazioni pervenute
alla mail mappaletteraria. [email protected].
"Le città sono da sempre muse per gli artisti. Il
cinema ci ha mostrato la città del '900 mentre la
letteratura ce la fa immaginare e trasfigurare
attraverso le storie.
“I romanzi di Palermo” è un modo per tracciare una
mappa
del
nostro
immaginario
urbano
contemporaneo attraverso i tantissimi scrittori
contemporanei che a Palermo ambientano i loro
romanzi", dichiara Giuseppe Marsala, direttore
artistico del Festival Cantieri del Contemporaneo.
La mappa letteraria sarà inserita in un progetto
multimediale curato dall'agenzia Kappaelle di
Palermo, che darà origine all'app mobile “City
reading”, attraverso cui ogni utente potrà ricostruire
il suo itinerario culturale della città.
12
Un giro a Palermo tra le citazioni
da Wilde a Pirandello
COSE DI CASA NOSTRA
Davide è un ragazzo gay di 20 anni, qualche mese
fa ha deciso di fare coming-out con i genitori, ma
non si sarebbe mai aspettato una reazione così
violenta. All’inizio suo padre ha iniziato a insultarlo
e a dire che avrebbe preferito un figlio drogato, poi
alla fine sono arrivate le botte. Davide è stato
massacrato selvaggiamente dai genitori che poi lo
hanno rinchiuso in casa per settimane senza nessun
tipo di contatto con l’esterno.
Tutto questo è successo in provincia di Palermo e
non in qualche paese arabo.
Fortunatamente dopo più di un mese Davide è
riuscito a scappare di casa e racconta: “Avevo
davanti due scelte: farmi uccidere o provare a
scappare. Ma non mi importava, dovevo scappare.
Però avevo paura che mi venissero a cercare”
Davide è scappato con 80 € e adesso vive a Catania
in una casa con degli studenti universitari, non ha
più contatti con la famiglia, se non quelli con la zia
che ogni tanto lo contatta su Facebook per dirgli…
“Mia zia invece ancora adesso mi scrive su
Facebook che devo impiccarmi. Secondo loro non
devo esistere. Non a queste condizioni.”
Una storia tremenda, ma non è un caso isolato;
Davide a differenza di altri ragazzi gay però ha
avuto il coraggio di testimoniare la sua esperienza.
La cosa sconvolgente è che sotto l’articolo di
PalermoToday ci sono anche dei commenti di
solidarietà…ai genitori di Davide.
L’omofobia non è mai giustificabile o accettabile,
ma quando si annida in casa, tra le persone che
dovrebbero
amarti
incondizionatamente
è
pericolosa, perché è proprio in quel caso che
crollano le certezze e chi non ha la forza di Davide
potrebbe davvero decidere di farla finita.
Per questo e tanti altri motivi serve assolutamente
una legge contro l’omofobia che rovina migliaia di
vite che non vengono vissute pienamente, che
costringe troppe persone a vivere nell’ombra.
In ogni caso in bocca al lupo Davide.
Il Papireto, la Zisa, la Cattedrale:
un itinerario della città nei luoghi che i grandi
scrittori hanno descritto nei loro libri.
Sono nati dalle occasioni più diverse, sono testi
letterari, più o meno noti, che vagano come isole in
un arcipelago fluttuante, sparsi qua e là.
Raccoglierli, farne un galleggiante unico, una
canoa, una zattera, indirizzare le correnti cui da
tempo erano affidati verso un'unica direzione è stata
l'idea che ha portato alla realizzazione della “Mappa
letteraria on line di Palermo”, uno spazio dove,
mediante una serie di interconnessioni ipertestuali,
il fruitore può sapere tutto su quei punti della città
che sono stati oggetto di pagine letterarie.
La mappa sarà inserita in un progetto multimediale
curato dalla Kappaelle, da cui nascerà l'app mobile
“City reading”, attraverso cui ogni utente potrà
ricostruire il suo itinerario culturale della città. Le
citazioni sono suddivise per tipologia letteraria e la
navigazione per periodo storico.
Domanda: possono scrittori, artisti e filosofi
rivelarsi ottimi compagni per scoprire Palermo,
come succede con l'affascinante urbanistica di
Amsterdam e la scenografica bellezza di Madrid,
colte nel loro incanto dagli sguardi di Flaubert e di
Humbold, ma anche con il Lake District di
Wordsworth, o con l'intenso cromatismo della
Provenza di Van Gogh? La risposta è affermativa.
Nella mappa letteraria di Palermo, il “Viaggio in
Sicilia” porta Bernard Barenson a Monreale:
«...visione anticipante del Paradiso, quanto la
Gerusalemme tutta d'oro del libro degli Inni».
Lodi sperticate quelle di Cesare Brandi di “Sicilia
mia” per Palermo: «Neanche a Venezia i mosaici
avranno maggiore fulgore, e in nessun luogo,
neanche a Marrakech, splenderà l'architettura araba
come nella Zisa, anche se in parte rovinata, nella
Cappella Palatina, il cui soffitto è il più bel
monumento arabo che esista al mondo».
13
Il nostro socio onorario e amico Gianfranco
Barcella, è docente di
materie
letterarie,
giornalista.
È
stato
direttore
editoriale di periodici.
Ha pubblicato tra l’altro:
monografia su Pietro
Giuria, Sabatelli Editore;
Invito alla lettura di
Milena Milani, IbiskosUlivieri.
Per De Ferrari Editore ha
realizzato le seguenti
pubblicazioni: Una sola
verità, romanzo giallo; Le vie dei savonesi illustri;
Le vie degli albisolesi illustri; Santa Maria
Giuseppa Rossello Testimone di Misericordia.
Nel 2012 pubblica il libro di versi In riva al mare,
Quest’anno ha pubblicato con Giuliano Ladolfi
editore questa bella raccolta di poesie:
Quaderno di bordo
A
firma del nostro nuovo Socio e collaboratore
Avv. Elio Palelologo, che ringraziamo, un ricordo
d'infanzia"..
Il contesto è quello di "Cufali", in Librizzi,
provincia di Messina, in cui trascorreva le vacanze
estive..
Minicu e il giro dei fichidindia
Eravamo tutti intorno.
Una caterva di gente intorno a lui, seduto su di uno
sgabello che aveva costruito unendo pezzi di legno.
Minicu, il nostro mezzadro, raccoglieva, tutte le
sere, un secchio di fichidindia, di vario colore e
qualità, dal verde pastello al rosso sanguigno, che
sbucciava con il suo coltello a serramanico,
appuntito e tagliente. Li prendeva con una mano e,
con l’altra, li incideva con tre tagli veloci e non ti
accorgevi neppure come facesse.
In un attimo il ficodindia sbucciato e infilzato nella
punta del coltello era nelle tue mani e subito
ingoiato. Come facesse a non pungersi con le
micidiali spine di quei frutti era, ed è rimasto, un
mistero. Si grattava le dita, di tanto in tanto, con lo
stesso coltello, come se le spine si lasciassero
trascinare dalla lama, senza infilarsi nella pelle.
La verità è che aveva la pelle coriacea come quella
degli elefanti, per il pesante lavoro nei campi.
.. Un mistero, qualche volta sfatato, come non
passasse sui fichidindia qualche spina trascinata,
all’interno, dal taglio.
L’attesa del giro dopo era, o ti sembrava, assai
lunga perché Minicu doveva riempire le molte
bocche che gli stavano intorno. Ma i giri erano tanti,
come i frutti che riuscivi alla fine a mangiare.
Sino a tarda sera, alla luce della flebile fiamma del
lume a petrolio.
Ci guardava, con il suo eterno sorriso, ma non
capivi se per lui era maggiore la soddisfazione di
averti sfamato o quella di averti tenuto in pugno per
qualche ora.
Ci sono ancora i fichidindia, di vario colore e
qualità, dal verde pastello al rosso sanguigno, ma
lui no, se non nel ricordo e nel cuore..
Un vero viaggio nel mare della vita sino alla ben
conosciuta meta di tutti noi, che lo atterrisce, ma nel
tempo lo affascina e lo conforta con la
consapevolezza degli strumenti da opporre
all’avvento della nera signora: l’incanto e la
memoria.
Ho poi passato il libro a mia moglie Giovanna, che
ben più pratica di me di versi, così ne scrive:
Nel
suo “Quaderno di bordo” Gianfranco
Barcella si definisce “ un semplice nocchiero sulla
rotta del presente” che naviga” per mari tenebrosi
senza fari”.
Il mare è certo una metafora , è la vita che il poeta
attraversa affrontando i marosi e le intemperie dei
venti , ma / l’azzurro del mare è sentore di vita/ che
fa dimenticare la riva della morte /
Forse questo è il senso profondo del Quaderno di
bordo, il doloroso oscillare del poeta tra la cruda
consapevolezza della fine del viaggio che offusca di
ombre l’orizzonte e il desiderio di vita che cogliamo
nell’ammirazione del libero volo di un gabbiano o
nell’immagine della primavera” spumeggiante di
vita” e in molte altre immagini felici .
/ la paura di perdere il nodoso cavicchio/ che frena
la corsa verso l’eterna resa/
è un sentimento tanto vero che ancora una volta ci
fa dire che la poesia riesce a dare voce a
quell’inesprimibile che è dentro ognuno di noi.
14
PROVERBI E MODI DI DIRE
Una presa di coscienza
A
seguito dei numerosi fatti di cronaca che
confermano l’incremento dei femminicidi, l’Autrice
ha voluto delineare, attraverso la storia, la vita delle
donne, le loro lotte per la conquista di diritti
fondamentali, come la parola, l’educazione, il voto,
il divorzio e l’aborto.
Una vera e propria guerra dell’“altra metà del cielo”
che ancora oggi rivendica la possibilità di esistere
ed essere riconosciuta come donna e non come
genere.
Forse noi donne dovremmo conoscere la nostra
storia e sapere quanto abbiamo lottato, durante i
secoli, per conseguire il semplice diritto alla parola,
all’istruzione, al voto, al divorzio, all’aborto.
Conoscerci per farci conoscere ed entrare a testa
alta in un mondo fallocratico dove spesso siamo
relegate a semplici oggetti o usate come voto di
scambio o peggio violentate, schiavizzate e uccise.
Per questo motivo ho scritto “Dalla cintura di
castità al tanga Storie di donne” definito
dall’editore una sorta di manifesto dell’orgoglio
femminile.
Nulla diventa mai reale finché non è conosciuto per
esperienza. Persino un proverbio non è un proverbio
finché la Vita non ce lo ha illustrato. John Keats,
Lettera a George e Georgina Keats, 1819
L’abbilità fa parti di l’anurata società.
La bbona muglieri è la prima ricchizza di la
casa.
La cannila è ‘na mezza cumpagnia.
L’acidduzzu nà la gaggia, canta ò pi amuri o pì
raggia.
La donna sì voli, a l’omu lu porta d’unni voli.
La donna spissu si lamenta e doli e si fa
malata quannu voli.
L’acqua sinni và ‘nni la pinnenza, l’amuri sinni
và dunni ce’ spiranza.
La fimmina c’avi russuri, attira cchiù di li
ricchizzi.
La fimmina è comu li muluna: ‘mmezzu a centu
cì ‘nnè bona una.
La gaddina appena fà l’ovu, nun si chiama
cchiù puddascia.
La mamma tì dota e la vicina tì marita.
La megliu acqua si la vivinu li porci.
L’amicizia fatta a l’ambrescia dura picca.
L’amicu farsu è un malu vicinu, ti tira la petra
e s’ammuccia la manu.
L’amicu è comu lu paracqua, quannu chiovi nun
lu trovi mà.
La minnitta è un piattu cà si po’ manciari
friddu.
L’amuri di mamma nun t’inganna.
L’amuri è orvu……lu sdegnu avi quattrocchi.
L’anni passanu ‘ncapu di natri.
La notti porta cunsigliu.
L’occhi sunnu lu specchiu di l’arma.
L’occhiu voli la sò parti.
L’omu chi nun si fà li fatti sò, cù la lanterna
và circannu guai.
L’omu di la sò casa trascuratu, è di sicuru cà
mori curnutu.
La casa senza la fimmina ’mpuvirisci.
La ‘ngnuranza è ‘nna cosa amara; nun costa
nenti ma si paga cara.
La nivi ‘ncapu ddù munti chi la po’ purtari.
La pecura ancora avà nasciri e vulemu arrustiri
lu ficatu ?
La pecura zzoppa si godi la via.
La pirsuna cà pì iddu stessu è trascuratu, di tutti
è criticatu.
La pruvuli fà lu cacciaturi.
La puvirtà nunn’è vriogna, ma mancu preiu.
Stefania Spotorno è insegnante di Lettere Moderne
all’Istituto Magistrale “Della Rovere” e al Liceo
Scientifico “Orazio Grassi” di Savona.
Incaricata dal Ministero della Pubblica Istruzione in
qualità di formatrice del linguaggio cinematografico
in ogni ordine e grado di scuola.
Insegnante di Cinematografia all’IRSAE con lezioni
impartite a maestri e professori.
Docente per vent’anni all’UNITRE di Savona.
Collaboratrice di riviste di storia dell’arte moderna
e cinematografia.
Autrice del saggio-romanzo Il nido degli astori
(Savona, 1992); Gambe che volevano correre
(Savona, 2009); Poesie scritte in cucina (Cuneo,
2013). La presentazione nazionale del libro avverrà
il 6 dicembre al Palazzo dei Congressi dell’Eur di
Roma e a Savona il 12 dicembre a Villa
Cambiaso, via Torino, alle ore 20.30.
Parteciperemo numerosi vero?
15
del
film
coincide
all’opposto
con
un
posizionamento cruciale dei titoli di testa,che si
vedono così investiti della funzione essenziale di
organizzare il passaggio dello spettatore dal mondo
extratestuale a quello testuale: di gestire,dunque, un
transito, ma anche una transazione (confermando,
ad esempio, aspettative già formate nello spettatore,
ed attivandone delle nuove). Molto più, dunque,
dell’esercizio di una funzione prettamente
informativa (quello che i titoli raccontano è, in
fondo, la storia della produzione del film.)
Vale la pena soffermarsi ancora sulla questione
della marginalità , perché è ad essa che si lega una
prima grande problematica teorica che attraversa lo
studio dei titoli: che, in posizione di Soglia rendono
indecisi tra il Dentro e il Fuori, rappresentano
chiaramente, in ambito cinematografico, una delle
componenti più significative di quel complesso
apparato denominato di paratesto. Tra le principali
funzioni del paratesto, vanno rilevate quella di
“presentare” e “rendere presente” il testo: i titoli di
testa presentano certamente il film (innanzitutto
nominandolo), ma in che modo possono “renderlo
presente”?
Partecipano, i titoli di testa, a
quell’attività di seduzione dello spettatore di cui si
fanno carico,in primo luogo, le strategie
promozionali? In che modo possono costruire il
film come “oggetto di desiderio”? Una grande
questione è quella dell’enunciazione. Nel momento
in cui si sovrimprimono alle prime immagini
diegetiche*, le menzioni verbali dei titoli
rappresentano tracce evidenti del processo di
produzione del discorso stesso; mentre le immagini
avviano la finzione, le scritte la rivelano come tale.
PILLOLE DI CINEMA
I titoli di testa e di coda nel Cinema
Alvin: «È già cominciato il film?»
Cassiera: «Sì, ma solo da due minuti.»
Alvin: «Chiuso… fa niente, dai… io non… non
posso entrare…»
Annie: «Due minuti, Alvin.»
Alvin: «No, mi dispiace ma non posso… il cinema è
già saltato… io sai… io non posso entrare a
metà…»
Annie: «A metà?! Hai perso i titoli di testa, sono in
svedese…»
Alvin: «Prendiamo un caffè per due ore… o
qualcosa… qui davanti?»
Io e Annie ( Annie Hall , Woody Allen, 1977)
Nei titoli di testa appaiono solo i principali (regista,
sceneggiatore, produttore, maggiori interpreti),
mentre quelli di coda indicano i nomi dei singoli
partecipanti alla realizzazione dell'opera.
Nei titoli di coda vengono inserite anche
informazioni come i titoli e i compositori delle
tracce della colonna sonora del film, i luoghi usati
nelle riprese, le persone che hanno permesso le
riprese in una data location e omaggi a persone.
I titoli di coda sono spesso scritti con un carattere di
colore bianco e di dimensione ridotta, scorrono dal
basso verso l'alto su uno sfondo scuro e in
sottofondo è presente una musica che accompagna
l'andamento dei titoli, spesso la traccia principale
della colonna sonora. In alcuni casi i titoli scorrono
a fianco o al di sopra di immagini come scene
scartate durante la lavorazione, errori degli attori o
una scena che ha la funzione di epilogo.
L’importanza della collocazione periferica di tali
sequenze è evidente fin dal fatto che essa rientra
nelle denominazioni stesse e sembra anzi costituire
l’elemento distintivo in base al quale identificarle e
definirle. Sono state a lungo considerate marginali ,
di poca importanza, non determinanti.
Lo spettatore può distrarsi durante i titoli di testa,
che non sono ancora il film, e alzarsi durante i titoli
di coda, che non sono già più il film, mentre
l’esercente può decidere di accendere le luci se non,
in maniera del tutto arbitraria, interrompere la
proiezione e su quello produttivo: i titoli di testa e
di coda, come si è visto, sono sequenze marginali
anche nel senso di meno rilevanti, cioè modificabili
e alterabili con una relativa facilità, rispetto a
sequenze più interne al corpo filmico Sembrerebbe
questo il presupposto (scorretto) in base al quale
spiegare la diffusa disattenzione nei confronti
dell’oggetto. Eppure, tale collocazione ai margini
*DIEGESI: Indica,all'interno delle strutture del racconto
cinematografico e nel linguaggio della critica, la
pertinenza e la coerenza di tutti gli elementi che
concorrono a definire e sorreggere la narrazione filmica
e il mondo visivo messo in atto dall'opera: dalla sua
temporalità e spazialità alla strutturazione dei
personaggi, dalla definizione degli ambienti ai contenuti
psicologici, dai materiali gestuali e sonori alla dinamica
dei dialoghi, dalla presupposizione del contesto
immaginario (anche nel 'fuori campo') alle forme
narrative della finzione.
La diegesi si definisce allora nella cooperazione,
all'interno delle convenzioni di racconto, tra il testo
filmico con i suoi contenuti palesi e impliciti e il suo
destinatario, sia esso un comune spettatore o un critico.
S'intende per diegetico (o intradiegetico) tutto l'insieme
dei segni, eventi, elementi che appartengono allo
sviluppo della finzione narrativa e della messinscena
visiva o che in esso vengono presupposti, e per
extradiegetico tutto ciò che esula dall'universo visuale e
finzionale, pur contribuendo a comporre l'opera filmica
(per es., la musica di commento alle immagini).
16
tragicamente nell’acqua. Sulla sua superficie,
compare la dicitura“The End”: non sono passati che
pochissimi minuti dall’inizio del film, l’effetto di
sorpresa è innegabile e disorientante, ma la
spiegazione della bizzarria è immediata.
Uno stacco ci rivela una sala di proiezione: quello
che stavamo vedendo non era l’inizio del film, ma il
finale di un “film nel film” di cui il regista,
Sullivan, discute animatamente con i produttori
nella sequenza immediatamente successiva.
Il “The End” fa chiaramente parte di quei segnali
che vengono in genere definiti “di annuncio” o di
“autoannuncio”, quelle formule, che istituiscono
l’inizio e la fine dicendoli, designandoli come tali:
e, come ben emerge dall’esempio di I dimenticati ,
l’efficacia pragmatica di tali segnali emerge con
forza particolare quando essi si collocano in
maniera anomala nel testo, vale a dire in prossimità
del limite opposto a quello che dovrebbero
segnalare.
Ma, più in generale, che tipo di effetti
caratterizzano, specificatamente, i titoli di testa e di
coda, quando risultano dislocati, rispetto alle
abituali collocazioni?
Del resto, il panorama degli studi sui “limiti” in
ambito cinematografico sembra oggi mandare
segnali positivi, e si riscontra una passione
insolitamente vivace per le forme del cominciare e
del finire.
Ma focalizzarsi sul limite significa proprio riflettere
sull’apertura del testo, sull’apertura di canali di
scambio tra il testo e altri testi (vedremo ad esempio
come i titoli rappresentino un efficacissimo
operatore di intertestualità), tra testo e contesto.
Significa, forse, cercare modelli di organizzazione e
comprensione di tali scambi, pur facendo salva la
necessità (non solo metodologica) di potersi
rapportare ad un testo che, in quanto tale, abbia un
inizio ed una fine (mobili,dialogici, rivolti sempre
verso l’interno e, contemporaneamente, verso
l’esterno). Una minima porzione in cui “l’universo
si cristallizza”, ha scritto Calvino:
Ma tale situazione è da intendersi come una
“scandalosa contestazione”, oppure come garanzia
necessaria e imprescindibile del buon ingresso dello
spettatore nella finzione? E, d’altro canto: come
definire l’istanza che si fa carico dell’enunciazione
dei titoli? Come leggere il valore che acquistano,
ad esempio, i titoli “parlati”, in rapporto a quelli
(più ordinari) scritti? Infine, altro snodo teorico
cruciale: la questione dell’incipit.
“Il film comincia con il primo fotogramma”, ha
affermato Saul Bass, noto designer che ha
introdotto
una
concezione
autenticamente
rivoluzionaria dei titoli. Eppure, se qualcuno ci
dice che il tal film ha un inizio straordinario,
possiamo star certi che non si sta riferendo ai titoli
di testa. Dove comincia, allora, il film?
Come includere i titoli di testa nel quadro più ampio
delle strategie d’esordio?
Come nei pacchetti giapponesi, sono l’apertura e la
scoperta di un oggetto ancora chiuso che
costituiscono il piacere, non il regalo, il contenuto.
Thierry Kuntzel, “Le Travail du film,
L’analisi ci permette di considerare i titoli in una
dimensione diacronica, oltre che sincronica;
rileveremo infatti come di fronte alle opzioni
espressive possibili, alcune siano più caratteristiche
di un’epoca piuttosto che di un’altra e come le
stesse opzioni producano effetti di senso diversi con
il passaggio da un periodo ad un altro: lo sfondo
statico ed uniforme, senza alcuna componente
figurativa, che ha una presenza fortemente
standardizzata nella sequenza dei titoli almeno fino
agli anni Trenta e Quaranta,acquisisce una capacità
di significazione del tutto inedita e peculiare nel
momento in cui Woody Allen lo ripropone,
costantemente, in apertura dei suoi film.
I titoli di testa, tra l’altro, rappresentano un terreno
privilegiato per mettere a confronto e coniugare gli
strumenti d’analisi del testo cinematografico a strumenti che derivano da altri ambiti espressivi: il
cinema si confronta con gli stili tipografici, la
grafica, l’immagine pittorica, l’animazione, il
valore ritmico e“passionale” della componente
musicale.
Proprio dall’incontro tra cinema e
grafica, tra strategie pubblicitarie e concezione dei
titoli di testa, si delinea, a nostro avviso, l’identità
del tutto peculiare del “titolista”. Altra questione
ancora sono i titoli di testa che compaiono
all’interno del film. Ma, anche, i titoli di coda.
I dimenticati (Sullivan’s Travel , PrestonSturges, 1942)
ha inizio con le immagini di un treno in corsa.
Sembra trattarsi di un chiaro incipit in medias res:
due uomini lottano furiosamente sul tetto dei
vagoni, uno spara all’altro, cercano ancora di
resistere, fino a che precipitano entrambi
L’universo si disfa in una nube di calore, precipita
senza scampo in un vortice d’entropia, ma
all’interno di questo processo irreversibile possono
darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che
tendono verso una forma, punti privilegiati da cui
sembra di scorgere un disegno, una prospettiva.
L’opera letteraria è una di queste minime porzioni
in cui l’universo si cristallizza in una forma, in cui
acqui-sta un senso, non fisso, non definitivo, non
irrigidito in un’immobilità mortale,ma vivente come
un organismo.
17
Mettete il coperchio e cuocete a fuoco lento per
circa 40 minuti, agitando di tanto in tanto il
tegame,facendo “saltare”il cavolfiore.
Importante NON mettere acqua e non esagerare con
il vino, in modo che il cavolfiore possa quasi
soffriggere durante la cottura.
Ricoprire con l'altra sfoglia premendo sui bordi e
bucherellare la pasta.
Infornare per 40 minuti e servirla caldissima.
Un gesto di cortesia suggerisce che il taglio che
apre la crosta avvenga per mano del più autorevole
della famiglia o dei convitati, cosicché sia proprio
il primo ad assaporare il fantastico aroma che si
spande sulla tavola. .
-----------------------------------
Non
c’era Natale senza che, mia
nonna prima e mia madre dopo, la
preparassero.
Seguendo la tradizione, anche mia
moglie, fa proprio bene la :
"Scacciata di cavolfiore"
Ingredienti per la scacciata :
1 kg. di farina di semola
50 gr. di lievito di birra
Preparazione:
Sciogliere il lievito di birra in 1/2 bicchiere di acqua
tiepida leggermente salata, versare la farina sulla
spianatoia, impastarla con il lievito e continuare ad
impastare aggiungendo la poca acqua necessaria ad
ottenere una pasta piuttosto dura.
Fare un panetto, infarinarlo, avvolgerlo in un
canovaccio e lasciarlo lievitare per un'ora circa in
luogo tiepido.
Quando la pasta è gonfia prenderla e lavorarla di
nuovo, con l'aggiunta di un cucchiaino di olio
d'oliva che sarà assorbito.
Dividere la pasta e spianarla con il mattarello a
sfoglie piuttosto spesse,
Con una sfoglia foderare una teglia di circa 30
cm.di diametro, oleata ed infarinata.
Rosanna Atti Vanadia
invece ci regala la ricetta per la preparazione di una
TORTA SPECIALE
-
Ingredienti per il ripieno:
400-500 di tuma o pepato fresco
2-3 cipolline nuove
vino rosso,1/2 bicchiere scarso
100 gr. di olive nere
4 acciughe sott'olio
-pepe, sale, olio d'oliva- aglio
1 klg cavolfiore affogato
Mondate il cavolfiore togliendo le foglie esterne e
una buona parte del gambo (lasciate solo la parte
più vicina alle cime), lavatelo, dategli una breve
lessatura (5 minuti) e mettetelo a sgocciolare in uno
scolapasta. Tagliate le cimette più grosse del
cavolfiore a fettine e lasciate intere le cime più
piccole.
In un tegame mettete uno strato di
cavolfiore,cospargete con le cipolline, le
acciughe,le olive e il pecorino;salate e pepate.
Mettete un’altro strato di cavolfiore,di nuovo le
cipolline,le acciughe,le olive, il pecorino,il sale e il
pepe. Irrorate il tutto con l’olio extravergine d’oliva
e il vino rosso.
Versare a fontana la Generosità
Mescolare con la Dolcezza
Amalgamare con tanta Amicizia
Fare lievitare con Pazienza
Aggiungere Allegria
Un pizzico di Buonumore
Farcire di Rispetto e tanto Amore
Coprire con abbondante Tenerezza
Offrirne grandi fette senza economia,
in particolare a quelli che nutrono nel
cuore diffidenza e antipatia.
Agata e Lucia al telefono:
Agata: Luciuzza bedda a vuò sapiri na cosa?
Doppu tri anni ca facemu l’amuri, Alfio mi parrò di
matrimoniu.
Lucia: Biiiiiiiiii bedda matri e chi ti rissi?
Agata: Mi rissi ca so mugghieri si chiama Carmela
e i tri picciriddi: Salvuccio, ‘Ntonio e Angelino.
Al bar:
Me mugghieri sta facenno una nuova dieta: banane
e cocco.
Manco un ggrammu pesse, ma virissi come
acchiana sull’arbuli!
18
Libertà, Regole e Trasgressioni.
Il successo della diretta live via satellite
APPUNTAMENTI DA NON PERDERE
-Nuovofilmstudio
e altri 119 cinema collegati via satellite in tutta
Italia,
-279 istituti scolastici di secondo grado partecipanti,
-160 città coinvolte,
-24.500 studenti presenti nei cinema (e 300 circa al
Piccolo Teatro Studio Melato di Milano),
-1.500 dirigenti scolastici partecipi.
OFFICINE SOLIMANO
Mercoledì 3 DICEMBRE (dalle 20.00)
GIORNATA DEDICATA A
LUCIANA COSTANTINO
I numeri sono imponenti, facendo di questa
iniziativa il più grande evento educativo trasmesso
in diretta mai realizzato in Italia e in Europa.
L'evento in questione è “Libertà, Regole e
Trasgressioni” tenutosi venerdì 7 novembre,
iniziativa voluta dall’Associazione Sulleregole,
fondata nel 2010 dall'ex magistrato Gherardo
Colombo, progettata e organizzata dall’agenzia
Unisona di Milano che ha messo a disposizione il
suo network di centinaia di cinema dotati di
tecnologia satellitare Open Sky Cinema, partner
chiave dell’evento.
Nella sua lezione civica Colombo ha toccato punti
fondamentali, quali il rapporto di ciascuno di noi
con le regole e la natura stessa delle regole.
Presente all'incontro l'attore Claudio Bisio che con
la sua simpatia ha facilitato il dialogo tra Colombo
e i ragazzi.
«Credetemi ragazzi, oggi l’atto più trasgressivo è
rispettare le regole e mettere in atto i dettami
costituzionali»: questo è il messaggio che condensa
le quasi tre ore di incontro e che ben sintetizza la
visione complessiva di Gherardo Colombo.
Insomma, una bella esperienza che, dal punto di
vista di Open Sky Cinema, ha significato dimostrare
ai cinema modi alternativi da sviluppare con il
collegamento via satellite per dare alla sala nuove
opportunità di sfruttamento
Chi dice “teatro” a Savona dice “Luciana
Costantino”: attrice, regista, amministratrice di
compagnie, maestra di teatro, organizzatrice
infaticabile di manifestazioni e spettacoli, sempre
curiosa,mai doma. A dieci anni esatti dal giorno in
cui ci ha lasciati, una giornata per ricordarla: con gli
allievi di un tempo, gli amici di sempre, gli artisti e
i semplici appassionati che le devono tanto.
Ingresso e partecipazione libera.
Sabato 6 Dicembre ore 16,00
in Darsena, Piazza D’alaggio
A cura dell’Assonautica e del nostro Sodalizio
verrà apposta una targa in ricordo del
“COSTA DEL SOL”
con i versi del nostro Socio Umberto Gugliotta
A seguire una presentazione del libro di Umberto
Gugliotta, dedicato al brigantino che ricorderemo
brindando in un piccolo rinfresco.
19
Anna e Giuse Cervetto
presentano in Sala “Vasé” i video amatoriali
“Diario di viaggio”
Sabato 6 dicembre 2014 - ore 16.30,
OFFICINE SOLIMANO
Sala Raindogs
Giovedì 18 Dicembre ore 21
Myanmar (ex Birmania)
Presentazione del progetto musicale ideato e
condotto da: Enzo Cioffi (chitarre), Claudio Bellato
(chitarre), Andrea Bottaro, (Basso e contrabbasso),
Maurizio Pettigiani (percussioni).
Abbiamo visitato parte del Myanmar nel 2003,
contagiati dall’entusiasmo degli amici che prima di
noi si erano avventurati in questo affascinante,
mitico paese e per
l’occasione, davvero
eccezionale, di ascoltare il concerto del violinista
UTO UGHI in uno dei più importanti templi di
BAGAN. Abbiamo dovuto constatare la veridicità
di tanti scrittori che hanno dato testimonianza
dell’ancora intatta e selvaggia bellezza della regione
nonché della cultura e delle tradizioni che il popolo
birmano ha saputo conservare intatte. Lo splendore
dorato delle cupole delle pagode ci ha avvolto e
accompagnato durante tutto il viaggio.
Il gruppo propone un genere latino moderno oggi
denominato “Latin Jazz”, con riletture di classici
del calibro di Chick Corea, Astor Piazzolla, Luiz
Bonfà ed altri compositori alternate a composizioni
originali scritte da Enzo Cioffi e Claudio Bellato.
OFFICINE SOLIMANO
Sala Raindogs
Venerdi 5 DICEMBRE (dalle 22)
Shemekia Copeland Band
A tutti gli Amici del
“Pirandello”
AUGURI di
BUONE FESTE
Figlia dello scomparso Johnny Clyde Copeland, tra
i più affermati bluesmen texani, Shemekia Copeland
(1979) inizia a cantare ad otto anni, al seguito del
padre, in mezzo a mostri sacri come B.B. King,
James Cotton, Clarence Gatemouth Brown, Etta
James, Bobby Rush.
Debuttante nel ’98 con il primo cd per l’etichetta
Alligator, Shemekia Copeland ha bruciato
letteralmente le tappe della notorietà nel mondo del
blues internazionale.
All’età di vent’anni è già paragonata a Koko Taylor,
Etta James e Ruth Brawn dai critici e dal pubblico.
Nel 2001 vince un Grammy Award, i suoi dischi
sono prodotti da gente come Dr. John e Steve
Cropper. Le pareti del Raindogs tremeranno!
Santuzzo
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