2006 numero 8 Dicembre
Transcript
2006 numero 8 Dicembre
2014 numero 11 Dicembre Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. del Sud ed inquina l'economia e le istituzioni di tutto il Paese (perché quella che Sciascia chiama la "linea della palma” è risalita fino alle Alpi). E' un modo di pensare che può tentare tutti noi, ma va esorcizzato con la critica e l'autocritica. E' un'ottica distorta che coinvolge anche quel- li che sempre Sciascia definì i "professionisti dell'antimafia", come coloro che si ritengono appartenenti a un'elite intellettuale detentrice esclusiva di un'etica sulla quale spesso si costruiscono gratificanti carriere (negli anni di piombo "il garantismo di parte" indebolì e ritardò la lotta al terrorismo pretendendo di circoscriverlo a destra). L'attività repressiva è necessaria, ma non sufficiente: basta ricordare il rifiorire - dopo l'ultima guerra - di una mafia che sembrava definitivamente estirpata dal fascismo, il quale però (mentalità mafiosa!) non aveva fatto discriminazioni fra i suoi sostenitori, ad eccezione-purtroppo degli ebrei. Molto può fare ,invece,l'attività educativa come quella svolta da don Ciotti con Libera, e da molte altre associazioni di giovani, nonché l'opera individuale di magistrati, giornalisti e artisti (si veda il bellissimo film "La nostra terra") che svolgono attività capillare di convincimento, dimostrando, anche nei fatti, che il rispetto della legalità finisce col pagare, specie quando riesce a strappare i giovani a una sudditanza che è matrice di manovalanza criminale. Per questo, invito a rileggere le illuminanti pagine di Gaetano Mosca che già alla fine dell'800 parla di sentimento (o spirito) di mafia; purtroppo, egli, (e altri come lui) venne messo a tacere dal prevalere dell'omertoso negazionismo di cui ho già parlato. E' quindi fuori quadro il pur bravo Roberto Alaymo che, interpretando il precariato dei lavoratori al sud in chiave cigiellina, parla di una "gratitudine sospesa" che garantisce il datore di lavoro da eventuali ribellismi dei precari. di Enzo Motta: Ho appena letto la nostra rivista di novembre, con gli scritti di Giancarlo Caselli, Gaetano Mosca e Roberto Alaymo, ho letto anche in questi giorni "Buttanissima Sicilia" di Pietrangelo Buttafuoco. Le diverse interpretazioni del fenomeno mafioso mi hanno indotto a mettere ordine nelle mie idee in proposito; vediamo. La mafia moderna in Sicilia è nata dalla saldatura fra interessi agrari ed elettorali conseguente alla vendita dei beni del Demanio e degli Ordini religiosi, dopo l'unità d'Italia (ne è un esempio l'ascesa di Calogero Sedara nel "Gattopardo"); la storia è continuata per oltre centocinquanta anni solo con qualche correzione di rotta; sono quindi pretestuosi gli "scoop" giornalistici alla ricerca del "Grande Fratello" come terzo livello della mafia; i mafiosi e i politici fanno ciascuno il proprio mestiere; oggi come ieri il punto di congiunzione è il voto di scambio che significa voti in cambio di posto di lavoro (possibilmente sinecure) di appalti truccati, di coperture politiche, di un negazionismo vigente ben oltre il secondo dopoguerra. I politici che hanno fatto da intermediari hanno prosperato, salvo quando han dovuto "prendere le distanze" dalla mafia pagando spesso con la vita. (un esempio fra tutti Salvo Lima) Il terreno di coltura è una Sicilia (un meridione) dove l'individualismo esasperato e la difesa a oltranza degli interessi propri e del proprio "gruppo" (non a caso si parla di Famiglia) portano da un lato alla violenza e dall'altro all'alleanza con quello che si ritiene il potente di turno: è la "mentalità mafiosa" diffusa capillarmente anche a livello locale, felicemente individuata da Matteo Collura in diversi suoi interventi e che va estirpata perché la sua estrinsecazione impedisce lo sviluppo 1 che, come dicono gl’Italiani del nord, sono affiliati alla mafia, diventano una scarsa minoranza. Volendo fare delle distinzioni, a seconda delle varie classi sociali e delle varie regioni dell’isola, dirò che lo spirito mafioso, in generale, è più forte e diffuso nei piccoli paesi e meno assai nelle grandi città. Sebbene poi i contadini più poveri dell’interno dell’isola ne siano meno affetti di quelli più agiati ed intelligenti dei comuni vicino a Palermo e delle borgate rurali annesse a questa città. È naturale pure che lo spirito mafioso sia in generale più forte, checché si dica e si scriva in contrario, nelle classi povere e rozze anziché in quelle ricche sopratutto e in quelle istruite. Bisogna però riconoscere che vi è qualche grossa frazione delle classi più povere, formata da coloro che esercitano certi determinati mestieri, che ne è quasi completamente immune; ciò avviene segnatamente nei marinai e pescatori numerosissimi nell’isola. Ed è pure vero che alcune frazioni delle classi dirigenti, certe famiglie ricche e perfino blasonate sono fortemente intinte di mafiosità; si tratta però spesso di famiglie di gabellotti, o grossi affittuari di fondi rustici, recentemente arricchite, nelle quali l’educazione e la cultura sono rimaste indietro alla ricchezza di una o due generazioni; oppure, se son famiglie antiche e blasonate, sono di quelle che al blasone accoppiano una buona dose d’ignoranza e di rusticità, male larvata da una specie di gentilomeria sui generis, e che, abitando per lo più in borghi appartati, dove le idee ed i sentimenti moderni hanno avuto finora poca presa, hanno assunto, mi si passi la metafora, il colore morale dell’ambiente che le circonda. Nella stessa famiglia poi, anzi nello stesso individuo, lo spirito di mafia aumenta o diminuisce e scompare a seconda che egli viene trasportato da un luogo ad un altro dove l’ambiente è diverso. Il Siciliano che va nel continente in paesi dove la mafiosità è considerata come cosa bassa e volgare, col mirabile intuito e colla straordinaria facilità di adattarsi ad un nuovo ambiente che lo distinguono, si spoglia subito di ogni spirito di mafia. Lo stesso fa, in grado minore, il Siciliano che da un piccolo centro mafioso viene a stabilirsi a Palermo, a Messina, a Catania. Viceversa in certi piccoli centri rurali, dove il ricorrere in certe occorrenze alla giustizia regolare riesce cosa poco efficace, forse anche perché è poco usata, e non contribuisce a far rispettare l’individuo che ne usa, anche il Siciliano delle grandi città, che vi deve lungamente dimorare, acquista una forte tinta mafiosa e perfino la possono prendere gli oriundi dell’alta Italia che in questi paesi fissano il loro domicilio. Ho potuto però constatare che i nativi dei comuni e borghi rurali più profondamente e tradizionalmente Questo forse può essere vero altrove, ma dove vige la mentalità mafiosa la gratitudine (per la raccomandazione!) è di per sé "definitiva" perché è impensabile una qualsiasi ribellione, pena conseguenze ben più gravi della perdita del posto. Aggiustare il tiro, quindi; in questo aiuta molto l'ironia corrosiva di tanti scritti, e di film come "La mafia uccide solo d'estate" o "Song' e Napule": una risata può davvero seppellire la mentalità mafiosa. E allora un grazie anche a "Santuzzo" per le sue scelte redazionali e per quelle fatte al "Nuovo filmstudio". Continua pertanto il saggio di Gaetano Mosca (1858-1941) CHE COS’E’ LA MAFIA In molte parti dell’Italia centrale il popolino crede sempre che il poliziotto, lo sbirro sia un essere abietto, e non approva che uno, che viene ferito in rissa da una coltellata, riveli alla giustizia il nome del feritore. Anche là abbiamo dunque non solo la mafia ma la sua indivisibile compagna, l’omertà. E se gli operai di Torino sono in generale immuni da questa lue, nei bassissimi fondi di questa città, fra i barabba ed i gargagnan, è ancora in vigore ed in onore una maniera di fare perfettamente analoga. Ma anche nelle alte classi di buona parte d’Europa e di tutta l’Italia un leggerissimo spirito di mafia ancora sussiste. Fra esse si ammette infatti che per certe offese personali la riparazione non bisogna cercarla nella giustizia legale ma nel duello. Il quale non è in ultima analisi che una forma, attenuata, regolarizzata, circondata da garenzie, di quella tenzone sanguinosa fra due individui a cui ricorrono spesso i popolani della Sicilia e di tutta l’Italia meridionale e centrale per definire le loro querele. È difficile di determinare precisamente quanto lo spirito di mafia sia diffuso in Sicilia. Bisognerebbe prima fissare il punto dove la verità mafiosa comincia e dove finisce. Certo, esaminando uno ad uno i Siciliani con criteri molto rigorosi, battezzando per mafiosi tutti coloro che in qualche caso speciale credono preferibile di mettere a dovere colle proprie mani un tracotante od un offensore anziché ricorrere alla giustizia, si potrebbe asserire che la mafia comprende la maggioranza degli abitanti dell’isola. Ma se invece ricorriamo a criteri più larghi e più giusti, se consideriamo per mafioso solo colui che per spirito di mafia ha commesso un reato, od è almeno capace di commetterlo, allora i Siciliani 2 ricchi di spirito mafioso, se per lungo tempo abitano nelle grandi città dell’isola o nel continente italiano e se acquistano una solida e larga cultura intellettuale, subiscono una vera trasformazione psicologica, in forza della quale sentono una invincibile ripugnanza a ritornare stabilmente nel paterno loco. In seguito alla trasformazione psicologica che ho accennato, essi hanno un tale rispetto per la legalità e sentono tale disgusto per le violenze private da non essere in questi riguardi inferiori ai più perfetti galantuomini dell’alta Italia; ciò che, se mancassero altri argomenti, basterebbe a provare che la mafia non è effetto dell’eredità o della razza, ma dell’ambiente in cui si vive. Accade spesso che un Italiano dell’alta Italia domandi confidenzialmente ad un suo amico siciliano se il tale o il tal altro suo corregionale sia un mafioso e si senta rispondere di sì. La risposta è molto spesso data in buona fede, ma bisogna sempre accoglierla con beneficio d’inventario, e occorrono almeno altre domande più precise se si vogliono informazioni davvero concludenti. Per un Siciliano è mafioso qualunque suo corregionale che lo sia un pochino più di lui: che ammetta quindi, anche teoricamente, un uso un po’ più largo dell’azione e della forza privata nel caso che si debbano prevenire o respingere possibili offese. Perciò la taccia di mafioso può facilmente venire applicata anche ad una persona che non è affiliata ad alcuna associazione criminosa, che non ha mai commesso e che sarebbe forse incapace di commettere, un vero reato. L’immortale Manzoni, il più grande sociologo dell’Italia moderna, e grande sociologo perché psicologo profondo, descrivendo Renzo dice che questi avea «una certa aria di braveria comune allora anche agli uomini più quieti». Ora, sarebbe una vera esagerazione paragonare la Sicilia d’oggi alla Lombardia dell’epoca dei Promessi Sposi, ma certo le tracce di quell’epoca si possono ritrovare più vivaci e durature nell’isola che nell’alta Italia. Una certa aria di braveria, o, se così vogliamo, un certo profumo di mafia, è perciò ancor oggi assai più diffuso in Sicilia, anche negli uomini onesti, anziché in Piemonte, nel Veneto, in Lombardia. Sopratutto poi, ed è questa la vera specialità della regione, mentre il detto profumo nell’alta Italia bisogna ricercarlo solo nei bassissimi strati sociali, nell’isola lo si può ancora sporadicamente trovare, e molto intenso, anche in individui delle alte classi; i quali qualche volta occupano posti elevati, che conferiscono molta autorità e che fanno presumere che, chi ne è investito, goda la stima dei propri concittadini. Nel mese di novembre ho visto e apprezzato su Rai5 (canale 23), la migliore rete generalista della attuale Rai, il bel film documentario del palermitano Franco Maresco ( quello che con Daniele Ciprì ha inventato Cinico Tv) dal titolo: Io sono Tony Scott, ovvero come l'Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz (2010). Il documentario racconta la vita del jazzista italoamericano Anthony Joseph Sciacca, meglio noto come Tony Scott, (a casa sua in Sicilia lo chiamavano (Tonuzzu bedduzzu) dalla sua infanzia e giovinezza negli Stati Uniti fino alla morte avvenuta a Roma nel 2007 in seguito ad una lunga malattia Per la realizzazione del documentario, l'autore ha intervistato numerosi musicisti americani ed italiani che avevano conosciuto Tony Scott, quali il leggendario clarinettista Buddy DeFranco, il pianista Mario Rusca e il percussionista Tony Arco. Inoltre, Maresco ha ottenuto la collaborazione delle tre mogli di Scott, oltre che delle due figlie avute dal secondo matrimonio. Anthony Joseph Sciacca in arte Tony Scott - è il più grande clarinettista del jazz. L'affermazione, così perentoria e sicura, è il punto di partenza del documentario ma non si tratta di decidere se la dichiarazione sia vera o meno. Poco importa catalogare il personaggio in questione nella sfera dei jazzisti che conosciamo; Scott è sempre stato dentro quel mondo ma fuori da tutto il resto. Ciò che interessa al regista è riportare l'attenzione sul personaggio, raccontando anche il dolore che ha attraversato la vita di Scott, un musicista straordinario che, dopo anni di successi al fianco dei più grandi jazzisti americani, ha conosciuto la fine, come artista e come uomo, proprio in Italia. Era ammiratore di Charlie Parker, consigliere (forse amante) di Billie Holiday, nemico-amico di Buddy DeFranco. Con il suo clarinetto è riuscito a rivoluzionare la statura di quel particolare strumento (spesso considerato ai margini del jazz), facendolo diventare protagonista di quel mondo fumoso e vitale dei locali dell'East Coast. Il personaggio rappresenta un'eccezione: negli anni Quaranta un bianco che si fa accettare dalla 3 Solo un sassolino duro era rimasto sterile dall’inizio alla fine. Si chiamava Daniele, e io lo odiavo. Daniele non giocava con nessuno. Durante la lezione si sentiva, nei momenti di silenzio, il fregamento continuo delle sue mani sotto il banco. Quando gli parlavi, lui ti interrompeva a metà della frase; oppure rimaneva in silenzio fino alla fine come se fosse sordo. Il mio compagno di banco mi disse una volta che lui era diverso, che aveva qualcosa a che fare con le automobili; ma a me non importava niente, lo odiavo e basta. Io avevo buoni voti ed ero brava a pallavolo. A dieci anni ci vuole poco per essere benvoluti da tutti. Non mi accorgevo del tacito privilegio su cui galleggiavo; mi prendevo tutto come se fosse dovuto, e sapevo anche di poter sforare i limiti con un buono sconto sulle conseguenze. Per questo nessuno se la prendeva molto se qualche volta tiranneggiavo quel bambino silenzioso, ingobbito tutto il tempo sulla propria sedia come un vecchio. Le maestre lo ignoravano per coprire l’imbarazzo della sua presenza. Gli altri lo ignoravano perché dargli fastidio non regalava soddisfazioni: non reagiva. Il suo unico interesse era mantenere in ordine la sua numerosa cancelleria, che ogni mattina disponeva con ordine meticoloso sul banco. Se lo prendevi in giro rimaneva assente, con lo sguardo nel vuoto, come immerso nelle trame di una realtà misteriosa che tutti, eccetto lui, sembravano ignorare. Ma Daniele restava comunque uno sfigato, quindi tormentarlo andava bene. Specie quando a farlo ero io. Ciò che mi divertiva di più, era rubargli le cose: la sua faccia diventava paonazza e le guance gonfie di un respiro affannoso, come un palloncino pronto a scoppiare, le lacrime incipienti ai lati delle palpebre, ma non emetteva un gemito. Si mordeva compulsivamente le dita fin quando non si calmava, o fin quando una maestra stizzita non lo spediva in bagno per calmarsi. Una volta mi sembrò di vederlo uscire con un puntolino rosso di sangue sul pollice, e la mia sicurezza tentennò; ma fu una tenerezza di cuore che scordai subito. Un giorno Daniele, inaspettatamente, rubò qualcosa a me. Era il mio adorato evidenziatore Stabilo giallo. Era un colore bellissimo, e quando lo usavo, tutti i miei compiti sembravano un documento importante, da grandi. comunità nera dei jazzisti è un fatto raro, se non impossibile. Il miracolo dell'integrazione razziale, documentato da video e immagini (tra le quali la famosa fotografia con "Bird" e "Lady Day" di cui Scott va fierissimo), avviene attraverso le note musicali. Dalle interviste dei compagni esce il ritratto di un uomo egocentrico e stravagante, caratterialmente diverso dai colleghi più 'seri', studiosi e tecnicamente ineccepibili. Lui era inguaribilmente anarchico. Il suo corpo, mai composto o irrigidito, si muoveva assieme alla musica e lo scorrere delle emozioni vibrava sulle note del clarinetto. Ma, malgrado la magia di quei momenti, la sua storia è triste. Dopo l'epoca d'oro in America, decide di viaggiare verso l'oriente, dove pone le basi della world music, per poi tornare in Italia. Il paese dell'infanzia, ostile e irriconoscente, lo abbandonerà a se stesso, svilendo il valore della sua musica, chiamandolo a suonare durante piccole sagre paesane di fronte a un pubblico annoiato e meschino. Maresco dimostra, con il distacco discreto di un regista che ama il suo soggetto ma vuole anche metterne a nudo le debolezze, come l'arte abbia bisogno di spazi e riconoscimenti per poter vivere senza restrizioni di libertà. In un paese come il nostro, dove la parola 'cultura' vive agli angoli della quotidianità, uno come Tony Scott finisce per vivere in strada, in un permanente nomadismo disperato, ingloriosa metafora dei nostri tempi oscuri. C'è qualcosa che non va se un artista come lui viene sepolto in una tomba in prestito. Tempo qualche anno e dovrà andarsene anche da lì per lasciare il posto a qualcun altro. -------A firma di una giovane promessa dello scrivere: Francesca Sidoti un bel racconto: Evidenziatore Stabilo giallo Ad aprile i miei genitori iniziarono le pratiche per il divorzio. Due mesi dopo, io finii le elementari. In cinque anni tutti i bambini mutano senza fare domande al tempo, come i piccoli trifogli sbocciano in silenzio. 4 Credevo di averlo perso, fin quando non lo vidi in mano a lui. La sezione C diventava un epico teatro di guerriglia durante ogni intervallo, tra corse forsennate, urli e incursioni nel campo nemico della sezione B, cinque metri più avanti, con cui avevamo iniziato una lotta senza quartiere a partire dalla seconda elementare, cioè da quando le due classi si erano ormai affiatate in una complicità belligerante. In tutto quel caos, fermo come una stella distante, Daniele stava seduto. Sul banco c’era il mio evidenziatore. Egli teneva il mento appoggiato sul ripiano, tra le nocche delle mani abbarbicate sul bordo, e lo sentivo produrre lunghi mormorii incomprensibili. Prendeva l’evidenziatore, lo cambiava di posto, e bisbigliava qualcosa. Lo metteva in posizione verticale, con tutta l’attenzione di cui era capace, e sussurrava più flebilmente. Poi lo buttava giù con un fendente della mano, e borbottava stavolta con aria molto convinta. Stava parlando con il mio evidenziatore. Per la precisione, si produceva in lunghi e complicati discorsi con quel pezzo di plastica dalla punta fosforescente. Ma non mi degnò di alcuna attenzione, quando gli dissi “è mio. Ridammelo.” Il suo sguardo vagò per un attimo attorno alla mia figura, come se rimbalzasse attorno a una barriera invisibile, oltre la quale egli non riuscisse a vedermi; poi tornò a dissertare con la sua refurtiva. Qualcosa dentro di me mi impedì di piagnucolare dalla maestra: in ogni bambino esiste un sensore delicatissimo, designato a captare la mancanza di considerazione da parte degli adulti. Dentro di me sapevo che nessuno mi avrebbe dato attenzione, se mi fossi lamentata di Daniele: il fastidio e i sensi di colpa delle insegnanti, da un lato desiderose di perdonargli tutto, dall’altro di imputargli la sua stessa esistenza, sarebbero implosi infine in una pozza di pigra vigliaccheria. E la mia minuscola richiesta di giustizia sarebbe stata zittita, con una delle tante scuse stupide che gli adulti si inventano per essere lasciati in pace. Era una questione tra me e lui, era una questione di orgoglio: mi avrebbe restituito l’evidenziatore di sua volontà, e tutto sarebbe andato come avevo deciso io. L’ultimo giorno della mia quinta elementare era una bella giornata di giugno, con il sole a picco e un vento vorticoso. Molti della mia classe erano in giardino a giocare, pochi altri nella sezione B per un ultimo regolamento di conti. Io feci finta di andare in bagno, ma tornai in classe dove, da solo, Daniele sedeva al banco. Giocherellava imperterrito con il mio tesoro giallo. I suoi sussurri si mescolavano col frinire delle cicale che, assieme a una leggera brezza, si intrufolava dalla finestra socchiusa. “E’ mio. Ridammelo.” Nessuna risposta. “E’ mio. Ridammelo. Hai sentito?” Nessuna risposta. Lo presi per le spalle e lo scossi con tutta la forza che avevo in corpo. “Mi senti? E’ mio!” Lui, colto alla sprovvista, si alzò maldestramente dalla sedia e indietreggiò. Guardava nel vuoto, a disagio. “Io do una cosa a te, tu dai una cosa a me.” Erano parole di una canzone (ai limiti dell’idiozia) che avevamo imparato in prima elementare. Daniele aveva una memoria eccezionale, ma quando si trattava di esprimersi senza copiare da qualcuno, a malapena rispondeva di sì o di no. “Che cosa vuol dire!” “Io do una cosa a te, tu dai una cosa a me. Io sto un po’ con te, tu stai un po’ con me.” Guardava sempre più in basso. “Smettila! Io non sto con te e non ti do niente! Quella canzone è scema e io voglio il mio evidenziatore!” Proprio mentre stavo per strattonarlo una seconda volta, una repentina folata di vento spalancò di botto la finestra. Spazzolò via tutto quello che c’era sul banco di Daniele: gli astucci aperti vomitarono in un attimo tutto il loro contenuto. Pennarelli colorati sparati in ogni angolo dell’aula vuota, il righello sbatté contro la gamba di una seggiola, due o tre gomme rimbalzarono con un ciocco sordo e sparirono sotto l’armadio, le matite colorate si sparsero sul pavimento con il loro rumore di xilofono. In una frazione di secondo era esplosa una specie di bomba multicolore. Mi venne da ridere, come fanno ridere tutte le piccole catastrofi, specie ai bambini. Ma mi zittii subito appena vidi in volto Daniele. La faccia tutta accartocciata in una espressione stravolta, le lacrime agli occhi, il respiro singhiozzante, ed era rosso, rosso come io lo facevo arrossire di solito, ma stavolta, più che ridacchiare, mi fece paura. Non si portò le nocche alla bocca come faceva di solito. Invece, diede in un urlo disperato e ferocissimo, come non ne sentii più né da un bambino, né da un adulto. 5 Cominciò a gridare come una bestia ferita, e a dare pugni e calci a tutto quello che lo circondava. Volò a terra la sedia, il banco fu spinto emettendo un barrito doloroso. Daniele si avventò anche contro il muro, incurante del male che si provocava. Colpì anche me. Era un bambino gracile, ma mi fece male, e tenendomi lo stomaco mi allontanai in un angolo. “Sta prendendo a pugni la barriera invisibile” pensai d’un tratto, respirando a fatica. “Sta prendendo a pugni il vento”. Il dolore è un incantesimo dagli effetti imprevedibili: quel colpo mi aveva fatto sputar fuori tutta la mia rabbia, come un oggetto acuminato ingoiato per sbaglio. Qualcosa dentro di me fu liberato, e prese a sgorgare naturalmente, come un fiume che riconquista il proprio letto. Allora, provai per quel ragazzino un calore nuovo e indecifrabile. Daniele prendeva a pugni la barriera invisibile, prendeva a pugni il vento, il vento che gli scompigliava gli astucci, che gli scompigliava ogni certezza, ogni fragile confine, il vento che aveva fatto saltare come una bomba i sorrisi amorosi di mia madre e mio padre, il vento che aveva frantumato il letto sereno della mia famiglia, e mi aveva trasformato in una peste perfida quando io non volevo, non volevo, desideravo solamente avere controllo su qualcosa, desideravo solo imprigionare il vento, desideravo che tutto restasse com’era. Che tutto restasse com’era. Ma all’epoca avevo dieci anni e non ero consapevole, per niente consapevole di aver compreso la rabbia di quel bambino. Semplicemente, decisi che dovevo farlo stare zitto prima che arrivassero le maestre. Quindi lo presi per la collottola della maglietta e gli stampai un bacio sulle labbra. Più che un bacio, fu una sorta di sberla con la bocca, ma sortì l’effetto sperato: lui tacque di botto e si irrigidì tutto, come una bestiola che si finge morta. Rimase rosso in faccia. Mi trattenni solo un momento, prima di correre via. Dopo l’ultimo giorno di scuola non lo vidi mai più. Portando con sé il mio evidenziatore, Daniele varcò il mondo oscuro dei ricordi. Ma adesso io so, che in quell’aula vuota di giugno avevo forato la sua barriera invisibile: nell’istante in cui io fuggivo dalla porta lo guardai. E per la prima volta lui guardò me. Mi guardò fisso e a lungo. Mi guardò negli occhi. Mi guardò davvero. Pier Guido Quartero, nato nel 1949 a Genova, scrive romanzi storici. Dopo La Lettera perduta, collocata nella Genova del 1350, sono usciti L’Oro di Tabarca e L’Eredità di Don Diego, ed ora Il Segreto dell’Alchimista: tre volumi che raccontano una saga familiare sullo sfondo dell’epopea tabarchina. Nelle isole sarde del Sulcis, a Carloforte e Calasetta, vive una comunità che parla un dialetto genovese. Si tratta di discendenti dai coloni liguri (prevalentemente pegliesi, e per questo motivo la prima presentazione del terzo volume sarà fatta a Pegli) che negli anni ’40 del 1500 si stabilirono a Tabarca, un isolotto davanti alla costa tunisina, dove esercitarono per due secoli la pesca del corallo. Nel 1741 l’isola fu infine occupata dal Bey di Tunisi; quella parte dei coloni che non si erano ancora trasferiti nel Sulcis venne fatta schiava e solo dopo anni di trattative poté essere riscattata per raggiungere la nuova patria. La scelta di appoggiare su questo sfondo una storia sviluppata in tre romanzi, autonomi ma collegati tra loro, è dettata dalla complessità della vicenda tabarchina e dagli spunti che essa offre per delineare un grande affresco della storia di Genova, del Mediterraneo e dell’Europa tra la fine del Medio Evo e il nascere della contemporaneità. Basti pensare che la narrazione viene innescata da un tesoro che Cristoforo Colombo affida al proprio mozzo (e che costituisce uno dei fili che terranno insieme dall’inizio alla fine tutta la trilogia) per concludersi in un tempo in cui uno degli illuministi autori dell’Enciclopedia, il Montesquieu, dopo aver visitato Genova, avrà già espresso nei suoi confronti un giudizio tranciante, quanto ingeneroso. In mezzo ci sono lo scontro tra la Cristianità e l’Impero Turco, quello tra Spagna e Francia, la Riforma e la Controriforma, Galileo e lo sviluppo del metodo scientifico, con i progressi della fisica e della medicina. Ci sono le esplorazioni di nuove terre e lo spostarsi del centro del Mondo dal Mediterraneo all’Atlantico, con il declino di vecchie potenze e la nascita di altre, come il Portogallo e poi i Paesi Bassi e l’Inghilterra. C’è il tramonto delle Repubbliche marinare in una più generale crisi delle autonomie della penisola. Ne seguirà la nascita degli ideali risorgimentali, che, una volta terminata la pubblicazione della trilogia, potrebbe essere oggetto del prossimo lavoro di Quartero. -------------6 Ognuno dei tre romanzi racconta una storia che può essere letta da sola, ma che fa parte di una saga familiare. Sullo sfondo dell’epopea tabarchina, che ufficialmente ha inizio nel 1542 (con il primo insediamento di coloni) e termine nel 1769 (con il riscatto e successiva sistemazione tra Carloforte, Calasetta e Nueva Tabarca degli ultimi coloni rimasti schiavi dei maghrebini), si sviluppa la storia di Giovanni Pittaluga e dei suoi discendenti. Giovanni, coinvolto suo malgrado dai fratellastri nel tentativo di congiura dei Fieschi (1547), fugge a Tabarca con l’aiuto dell’anziano Diego, già marinaio di Colombo, e trova sull’isola l’avventura e l’amore. Questa storia è raccontata nel primo volume (L’Oro di Tabarca), dove sullo sfondo si racconta anche delle questioni legate alla scoperta dell’America, della congiura dei Fieschi e dei rapporti ambigui correnti tra Andrea Doria e i pirati maghrebini (Kaireddin Barbarossa e Dragut), che diedero anche occasione alla concessione per l’insediamento di una fattoria per la pesca del corallo sull’isola di Tabarca. Nel secondo romanzo (L’Eredità di Don Diego), il nipote di Giovanni, Baciccìn, intenzionato a partecipare finanziariamente alla realizzazione di una tonnara ed a divenirne il Raìs, si imbarca in una serie di avventure tra il Maghreb e Genova con lo scopo di recuperare un tesoro lasciato in eredità da Don Diego. Sullo sfondo, il tentativo francese di occupare l’isola, respinto dai difensori (1632) e i falliti tentativi dei Savoia di impossessarsi di Genova: guerra di Zuccarello (battaglia del Pertuso e Santuario della Vittoria) e congiura di Vachero. Nel terzo volume (Il Segreto dell’Alchimista), il bis-nipote di Baciccìn e le donne della sua famiglia sono coinvolti nella caduta dell’isola, occupata da Ikonos, figlio del Bey di Tunisi Alì Pascià nel 1741. L’amicizia con il figlio del capo della tribù beduina accampata sulla sponda africana, a poca distanza dalla fattoria, consente ai nostri eroi di sfuggire alla schiavitù e recarsi a Genova dove, grazie ad un inatteso regalo del destino e dopo una quantità di peripezie, riusciranno a procurarsi una somma sufficiente non solo a sistemarsi a Cala de Seda impiantando un vigneto, ma anche a contribuire agli sforzi del Capitano Porcile e di Don Rivarola diretti alla liberazione dei tabarchini rimasti schiavi. Sullo sfondo, l’occupazione di Tabarca da parte di Ikonos e le traversie dei coloni, il bombardamento di Genova da parte della flotta del Re Sole, e infine, con riferimento allo scontro tra Inghilterra e Spagna per il controllo delle rotte atlantiche, i pirati delle Antille. Al di là della continuità di sangue tra i protagonisti e della presenza costante della vicenda tabarchina, esistono altri legami tra le tre storie, che, pur non intaccandone l’autonomia narrativa, segnano una serie di tracce di collegamento, talvolta più consistenti (un tesoro colombiano) talvolta più sottili: c’è il nome ricorrente per le imbarcazioni di famiglia (Stella Maris, Maris Stella, Maristella), ci sono alcuni oggetti, come una pipetta “genovesina” di gesso, un cannocchiale e un mortaio. C’è l’abitazione tabarchina della famiglia, con la spalliera di fichi d’india e il cortile ombreggiato dalla vite. C’è una locanda genovese che nello sviluppo temporale del’intera azione si trasformerà in un teatro, visitato anche da Carlo Goldoni (che in quell’occasione trovò moglie): il Falcone. E c’è il confronto costante con l’altro ramo della famiglia, quello dei Merello: fratellastri “cattivi” nel primo romanzo, i cui discendenti tornano in vesti e con ruoli diversi nel secondo volume. Tornano anche nel terzo, come non accadrebbe mai nella vita reale ma non può non accadere in un romanzo che si rispetti. In quest’ultimo, tuttavia, la cosa non è così evidente, tanto che neanche i protagonisti ne hanno coscienza. Può capire solo il lettore, e solo se parla genovese: infatti occorre avere ben presente che cosa significa la parola “merello” per noi. Fragola. Altro non è il caso di dire. Il prossimo 17 gennaio 2015 Quartero tornerà a Savona per presentare la sua trilogia. Lo aspettiamo con piacere. 7 Da un amico catanese, Manlio Guzzardi, che ringraziamo abbiamo ricevuto questa trasposizione in “lingua” della Cavalleria Rusticana” molto più verosimile della Novella di Verga. O pensate forse che Turiddu Macca a Licodia, (CT) paese di un migliaio di abitanti, nel 1880, parlasse il forbito italiano che abbiamo studiato? quannu t'affacci fai la vucca a risa, biatu cui ti duna u primu vasu! Arreri ‘a porta tò lu sangu è svasu e nun m’ mporta si ci moru accisu... E si ci moru e vaju ‘m Paradisu, si nun t’attrovu jù mancu ci trasu”. U ‘ncontru Ma doppu quarchi ghiornu finarmenti, attagghiu d’un cannitu la ‘ncuntrau - Cummà, passati senza diri nenti? R’o focu ‘n munzeddu ‘i cìnniri ristau? Macari Lola s’arriurdava i sintimenti e l’occhi diavuligni li calau, ma Turi, comu ardìcula pungenti, senza pèrdiri tempu riplicau: - P’arrimuddari ‘n cori già ‘mpignatu ci vòsiru li muli e li jumenti d’un carritteri ca vi cancia statu, rrialànnuvi i cullani cche pinnenti! Lola ‘mmustrannu aneddu ‘nto sò jitu, ci rissi beddu chiaru: - Stamu attenti, faciti cuntu c’Arfiu è lu me zitu e ormai ccu vui nun pozzu fari nenti! Ci ‘rrispunnìu Turiddu: -Cummaredda, siti morta ppi mia, sbilu luntanu, jù ci aju l’amuri d’a me matruzza bedda, amuri ppi daveru, amuri sanu! Ppi me pedi ‘a sò casa e ‘a sò vanedda ora ‘ddiventa ‘n puntu assai stramanu, ppi ‘sta scaciuni mi scurdai dda canzunedda ccu li sfuàti di ‘nu marranzano! Però tegnu sarvatu ‘n fazzulettu, u vostru ‘mmuccaturi cche tri ciuri, ca portu ‘mpiccicatu ‘nto me pettu e m’arriorda u vostru anticu amuri! In conclusioni, parrannu ccu rispettu, n’amu a scurdari zoccu accapitau, facemu cuntu ca chiovvi e ca scampau e ‘a nostra canuscenza scumparìu. - Cchi m’incucchiati? Cchi vi sàuta ‘n menti? Jitivinni, binirittu, ppi faùri, nun mi mittiti ‘nta vucca di la genti, facìtimi cchiuttostu i vostri auguri! U currivu Cummari Lola, maritata ccu ‘n rinfriscu, si fici cchiù biddazza e cchiù carnusa; cumpari Arfiu, chiantannu ‘a zotta ‘nto viriscu, s’apparigghiau cca sò vita travagghiusa. Cumpari Turi ‘nveci mèmuru e fuddiscu, virennu a Lola accussì fridda e stufficusa, pinsò ‘ntra r’iddu:” Ma un gnornu jù ti piscu e ti strinciu forti forti cchè me pusa”. Sapennu quantu potti ‘a gilusia, si misi a scuncicari ‘n sichitanza Cavalleria rusticana Novella di Giovanni Verga (si fussi scritta ‘n sicilianu) Personaggi: Cumpari Turiddu Cumpari Arfiu Cummari Lola Cummari Santuzza Prisintazioni Verga ci fici splèndidu raccamu, ccu sita ca nun si sfarda né ‘ngiallisci, Mascagni ‘i ddà ci ‘ntisi ‘n forti chiamu e cc’a musica dd’a storia l’arricchisci, all’unu e all’àutru nuatri ‘i ringraziamu, picchì trattaru ccu tanta maistrìa l’eterna e duci paruledda t’amu , ‘mmiscata ppi mità cc’a gilusia. Ddu ran pueta, a usu di riscialu, ‘st’amuri ni cuntau ‘n form’ erudita, senza purtari sconzu, né rialu, ma ppi cunotto a cu è ca si marita. Macari jù, vincennu lu ‘mmarazzu, tentu l’amprisa e v’addumannu scusa si ‘stu beddu raccamu vu ‘mpastizzu, ‘nta lingua ca ri tannu ccà si usa. ‘A nutizia Stunàu Turiddu quannu ci cuntaru ca Lola si pigghiava ‘n carritteri, appi ‘na scossa, l’occhi s’impannaru, stava quasi abbuccannu avant’arreri. ‘N testa sinteva ‘n pisu d’un cantaru, ‘u cori era ammaciatu ‘nte pinseri, ma fora s’annacava paru paru cc’a sò tinuta ‘i surdatu birsaglieri. I fìmmini di cori arrimuddanti, ‘mpazzuti ppi ddu giummu ca pinnìa, ppi nenti ‘n ci squagghiavanu davanti, quannu passava ppi l’avimaria. Surtantu Lola mancu lu ‘nningava, ppi chissu ‘mpari Turi ni patìa, tutta ‘a notti ‘nte linzola ‘rrivuggheva, arruzzuliànnusi pp’a forti calurìa e ppì sfuàrisi ri coppu si suseva e a ‘nnammurata ci cantava a puisìa: “O Lola, c’hai di latti la cammisa, sì bianca e russa comu ‘na cirasa, 8 ‘na fìmmina ca i biddizzi s’i vinnìa, tantu n’aveva di furmi e di purtanza, Santuzza era u sò nnomu e pp’astinìa, ‘u piaciri e dda ‘nsistenza, finìu ca tuttu a Turiddu ci pruìa, nun sulu ‘u cori, va dittu ‘n confidenza. Ma Lola ‘u seppi e china di currivu, ‘ncuntrannusi ccu Turi, ‘nfuliniata ci rissi dda ccu dda:-Vinnicativu, dda farittedda vi fici ‘a mavarata? C’era bisognu di ‘stu diversivu? Turi ascutava ccu l’aricchi tisi e arrizzati li naschi comu addevu, ci dissi:- Fazzu zoccu vi fa ddu licuddisi. E Lola duci:-’Na vota mi dicisti c’attagghiu a mia t’acchiana ‘na vampata e pirchì ora ‘a mala parti mi facisti? E’ propriu veru ca dda sgallarata u cori, ‘a testa, i cianchi e tutti ‘i costi ti vasa sbruduliannu cca scurata? Ci chiuru ‘nta me casa tutti ‘i ’mposti, si voi stari ccu mia ppi ‘na rancata! Turiddu, caluriusu vizzinisi, aperta ‘ttruvau ‘a porta e mancu stritta: ‘ncucchiati comu fùssiru siamisi, vasuni si nni dèsuru a minnitta. ‘A ciusciata Santuzza s’addunau di ‘sta ‘mmiscata, ristannu sicca comu anciova fritta, nun ci appi quetu, ci vinni ‘a pantaciata, svariannu a manu manca e manu ritta. Ppi ‘nsinu ci pruvau d’arrimuddallu, di pirdunàricci zoccu ci ava fattu, fu tempu persu, c’era cosa di pistallu, Turiddu e Lola nun pèssuru cuntattu, iddu puru ccu Santa s’a pigghiau, ittannu schigghi e facennu ‘n quarantottu e a dda povira carusa a liquidau dicènnucci:-Ppi tìa com’ora fazzu ‘u mottu”. Santuzza ca si ‘ntisi scarpisata, pp’ alliggiriri anticchia lu pinìu, pinsannu ‘i fari ‘na botta di sfuàta, circau a cumpari Arfiu ppi currìu. E giustu giustu lu ‘ncuntrau ppi strata: -Turnàstivu d’a fera, amicu miu? ‘A vastedda vi l’aviti varagnata, ma Lola l’avvilena a quantu viju! -Nun vi capisciu, chi sintiti diri? -Eccu cumpari, ‘nsumma.. ‘na vriogna! Turi ccu Lola! Mi nni faciti jiri, ca m’aju a vùgghiri carduni e sparagogna? -Figghia di Diu, se è veru, viva Cristu, ma si pp’o diavulu risutta ‘na maligna vi scippu u cori e cc’o sangu vi lu pistu, comu fussi ‘a racina di ’na vigna! ‘A sfira Senza pinsarici dui voti, ‘nfuluniatu, cumpari Arfiu trasìu ‘nni dda putìa unn’era Turi ca s’ava avvinazzatu; iddu u taliau ccu facci ‘i vanteria: “Cumpari Arfiu, limpidu è ‘stu vinu”- ci dissi Turi cc’o bicchieri ‘n manu“vivitivillu, ca è propriu brillantinu, a sursuneddi l’ha fari, chianu chianu”. Arfiu u ’mmuttau ccu fari malandrinu, senza taliari ddu bicchieri ‘i vinu e ci vanniàu sdignatu:”Abbìa ‘stu vinu, ca percia li vuredda a funnu chinu!” e doppu l’avvisau:”Dumani all’arba, senza genti e cumpari ‘nto stratuni, chiaremu ‘sta facenna, si vi garba, v’aspettu ddà, a tagghiu ‘i bastarduni!” “Ddà ni viremu, cc’o cuteddu ‘n manu”- scattiau Turiddu e nuddu pipitiau“m’u manciu comu pani,‘stu viddanu”- ccu ‘sta prumissa n’aricchia ci azzannau. L’addiu Turi tardu s’arricugghìu ‘nta casa e a sò matri ca u spittava pacinziusa ‘na cosa ci ava a diri comu scusa, p’accummigghiari dda storia tragidiusa; “Turi, si stracanciatu ‘nta tò vuci”- ci suspirau sò matri -“cchi voj fari? ‘Stu vinu certu è ‘na trimenna cruci, stacci accura c’accurzi di campari!” “Nun è ‘stu vinu c’accussì riduci”- ci rici Turi-“ sù tutti i mè chiffari, dumani all’arba, propriu a menza luci, aju a pàrtiri e tu nun m’aspittari. A Santuzza cci prumisi, Vui u sapiti, ca prestu mi l’avissi maritatu: diciticilli Vui du cosi sapuriti, ppi mia, ca sugnu troppu ‘ntrafficatu. A mia, matruzza, m’a dari ‘n vasuneddu, comu facisti tannu pp’o surdatu”. ”Accussì mi fai muriri, figghiu beddu! Ca Diu t’assisti sempri, salaratu”. ‘A cutiddata Cantava u jaddu ‘nta paci e ‘nta jancura, quannu Arfiu e Turiddu s’attruvaru, p‘arrisòrviri ‘a facenna allura allura, ccu dd’aria fridda comu u gelu di jnnaru e caminannu ciancu a ciancu ‘nto stratuni, Turi ci aveva ‘n pisu ‘nto viddicu, tantu ca prima d’arrivari ‘e bastarduni, ci rissi a chiddu: “Jù mi malidicu, picchì u mali ca vi fici ccu l’ingannu, è giustu e sacrusantu, l’aju scuttari, ma a me matri e a Santuzza ci fa dannu, s’a casa nun ci avissi cchiù turnari”. 9 Ed Arfiu, carmu carmu: “Smaccu ‘st’annu nn’haju ‘gghiuttutu senza pipitiari, ci voli u sangu, annunca jù m’addannu e ppi chissu ‘a tò vita t’aju a livari!”. Mìsuru manu a li cutedda, longhi tanti, coddi arrunchiati, jammi a tinchi tanchi, spatteru corpa all’urbisca ccu finnenti, fiddiannu l’aria e cumpuru nun sù stanchi. Arfiu s’a pensa e ‘n pugnu ‘i terra abbìa, ‘nnurbannu Turi e mirànnulu ‘nte cianchi, ci acchiana ‘ncoddu, ‘u ‘nserta e ‘u fiddulìa, cumpari Turi già ci avi l’occhi janchi. Arfiu di bottu si metti fermu fermu: resta ‘mpalatu, cche manu supra i rini, mentri Turi si cuntorci comu ‘n vermu: “Ora tò mà ‘n ci pensa cchiù ‘e jaddini!” Turiddu s’arrizzola a comu ammatti, ‘mpasta ‘u sò sangu cca terra china ‘i spini, ristannu a panza sutta ‘nta l’infratti, jetta l’urtimu ciatu e poi è la fini! ‘N tuttu u paisi ‘u sapi chistu e chiddu:”’N menzu ‘e sipali, ccu ‘n corpu ‘nte vuredda, anu ammazzatu a cumpari Turiddu! V’o diticcillu a dda vicchiaredda!” Tra li vuciazzi, ‘mmuttuni e ‘nu curtigghiu, n’cristianu canuscenti murmurìa: “Chiancìtivi ‘gna Nunzia a vostru figghiu! Perdi l’amuri ‘n menzu‘a gilusia!” Grazie ai buoni uffici dell’amico Carmelo Sergi ho potuto leggere i racconti del comune concittadino Agatino Spampinato (con questo nome poteva essere solo di Catania), raccolti col titolo “Erano i giorni delle fionde”. E’ un diario delle vicende, in genere monellerie, giovanili, che anch’io, purtroppo soltanto per i pochi giorni delle vacanze estive, ho in parte praticato. Quanti bei ricordi con i riferimenti agli angoli della città etnea di tanti anni fa! Lo stile di Spampinato è genuinamente frizzante, ricco di accentuazioni -siamo barocchi noi della costa Est- e accattivante. Allora l’ho fatto leggere ad una cara amica “conterronea” ed ecco cosa scrive Daniela Rosano: Innanzitutto grazie a Santuzzo che nella sua fedele origine sicula, ha voluto farci conoscere il nuovo libro di Agatino Spampinato …… Con leggerezza, spontaneità e un linguaggio fluido, il libro tocca accenti lirici.. che ben si addicono ai ricordi in gran parte lieti dell’infanzia e della giovinezza dell’autore. E sono comunque i periodi più dolci a volte anche trasognati e nobilitati dal trascorrere del tempo, quelli ai quali si volge con sguardo nostalgico l’autore. Gli anni vissuti con la famiglia, due sorelle, un fratello ed anche un altro fratellino scomparso al quale si lega un dolore che si addolcisce nel tempo; e poi gli amici, i parenti, tutti coloro che fanno parte di una famiglia allargata, ma in senso antico (fratelli, cugini, ecc.). E soprattutto i protagonisti, i monelli che si avventurano nelle strade del quartiere di Borgata di Catania curiosi e fiduciosi; con risultati a volte anche con esiti non proprio positivi. Ma i giorni vengono scanditi dai giorni, e sembra un tempo infinito. Il calcetto, le ore passate sulla casetta sull’albero, i bagni nelle vasche di raccolta d’acqua, piovana provando..invidia per i ragazzini che (perché più poveri) riuscivano ad essere accolti nelle colonie marine. La madre che con le sue “geremiadi” cerca di allontanare la sventura dalla famiglia. Le sorelle ormai giovincelle che organizzano le feste sulla terrazza di casa, perché, a quei tempi, non era consentito loro di uscire.. Insomma un libro corale ma soprattutto uno spaccato di personaggi fiduciosi che, finita la guerra, il futuro si presenti prospero per tutti. Ed è questa fiducia, quest’aspettativa che più colpisce perché ormai più ci manca. 10 Ero una ragazzina nei modi, e forse anche una donna. Perché avevo ventidue anni. Statura media, carina, sguardo acquoso, gambe fragiline, magre troppo magre, taglia seconda di reggiseno. Capelli lunghi. Scuri. Graziosa. Italiana. Di Siracusa. Stavo con un polacco di nome Sławek, professione: semaforista. Marcin morì alle ventitré in ospedale, seconda chirurgia, era un sacco informe, sboccava sangue e sangue, dalle orecchie, dal naso e da sotto, credo. Erano le ventitré ed era lunedì. Sławek aspettava sotto la luce gialla e malsana del bigio corridoio, io gli stavo al fianco, non avevo i capelli. E anche Sławek li aveva rasati ché c’aveva i pidocchi, secondo me, era stato lui per primo, come per la rogna, lui per primo. Poi toccava a me. Allora alle diciassette di quel lunedì, Marcin prese il rasoio che usava per la barba e nel cortile del bordello per mignotte dell’est estrapolò ciocca per ciocca, Sławek aveva capelli forti, chiari, lucidi; Marcin aveva pazienza e Sławek non fiatava. Aveva coraggio il mio uomo polacco perfino nelle piccole cose. Alle ventitré Marcin moriva per davvero. Avevo una macchina, era nuova e la pagavo a rate perché pensavo di lavorare abbastanza. Sicché mi licenziarono per inettitudine, assurdo, inettitudine. Oh, facevo la segretaria per dei crapuloni, mi uccideva la loro noia; ho sopportato, mani inzaccherate di toner, pc impostato con programmi per crapuloni. Io sono un’artista. “Belli, mica mi mollate così”. “Belli, io c’ho la macchina da pagare”. Belli. Io sono cattiva e uso di solito parole troppo lunghe. Tipo: effettivamente, oppure improrogabilmente, improcrastinabile, incontrovertibile. Poi mi toccava depennare il mio capo-crapulone, quando al secondo rigo specificava: via Tucitite. Somaro. Tucidide. Di, non ti. Somaro. Era un paesaggio grigio e triste, Siracusa. Grigio nella sostanza, perché poi c’era la luce paglierina a inondare di falso gaudio marine e angiporti; era la luce che confondeva i pensieri che tristi erano tristi; come d’altro canto la gente che scorgevo china e muta, mai un sorriso, accidenti. I miei pensieri erano tristi, prima di diventare pensieri polacchi. Oggi sono adulta. È Natale, l’alberello luccica, abbiamo appeso le bilie colorate, i nastrini di raso delle bomboniere di mia sorella, le mele finte. Il mio polacco è sparito. È tornato a Radom, dicono, non Tano, l’amico di Ivona che stava con Marcin e Marcin è morto. Veronica Tomassini è siciliana, ma di origine umbre, e lei molto puntigliosamente tiene a precisarlo. Giornalista, ama le ambientazioni suburbane, gli outsider, gli immigrati, gli sfrattati ad oltranza dal sentire borghese. Ama i perdenti perché neanche lei ha vinto mai qualcosa, nella vita in generale. Scrive sul Quotidiano La Sicilia dal 1996. Il suo primo romanzo è Sangue di cane Lei è una ragazza qualsiasi. Lui è un abisso. Ogni città d’Italia contiene al proprio interno un’altra città, nascosta e quasi invisibile: la città di chi campa di poco o niente, di chi non ha casa, di chi è arrivato da paesi lontani, di chi trova l’unico sfogo vitale nel bere o nel farsi. Sangue di cane è la storia dell’amore impossibile – e tuttavia inevitabile, essenziale – tra una ragazza della città visibile e un uomo della città invisibile. La protagonista, una giovane di Siracusa, ha infatti incontrato il polacco Sławek, un tronco d’uomo che di professione fa il semaforista e che per sopravvivere allunga la mano chiedendo “Poco spicci, prego”. È con lui che divide la sua quotidianità: Sławek è un alcolizzato, dorme nelle case occupate o nei vagoni morti. Sławek vive di espedienti. Il mondo dei giusti, la città visibile guarda oltre, nessuna concessione per gli amanti. Alle spalle dell’uomo c’è un matrimonio contratto in patria e un passato in cui il suo mestiere è stato quello della violenza, nel futuro invece ci potrebbe essere la costruzione di una nuova famiglia, anche perché dall’unione con questa ragazza siciliana è nato Grzegorz. Ma Sławek non sa smettere di essere un abisso. Eccone un brano: 11 Le OFFICINE SOLIMANO hanno emuli ? Chiude a dicembre il ciclo di attività Cantieri del contemporaneo presso i Cantieri Culturali alla Zisa. Una riflessione sul nostro tempo, attraverso i linguaggi delle arti e della cultura: è a partire da questa idea che L’Assessorato alla Cultura del Comune di Palermo ha promosso un ciclo di attività culturali attraverso un Festival che si protrae da luglio a dicembre. La vocazione e l’identità plurale dei Cantieri Culturali alla Zisa che hanno accolto per la stagione estiva e autunnale “I Cantieri del Contemporaneo”, un progetto di Giuseppe Marsala, con Beatrice Agnello, Cetta Brancato, Clac/Duepunti, Cre-zi/Consorzio Arca, Andrea Cusumano, Paolo Falcone, Santina Franco, Gianni Gebbia, Melino Imparato, Andrea Inzerillo, Beatrice Monroy, neu [nòi]/ Giusy Affronti, Gianfranco Perriera, Alfio Scuderi, Viviana Trapani e ZisaLab. Si tratta dunque di un progetto corale che attraversa diverse generazioni e coinvolge più di 260 tra artisti, intellettuali e uomini di cultura. Musica, cinema, teatro, arti visive, letteratura, danza, filosofia, design e architettura negli spazi dei Cantieri, declinando il tema del Contemporaneo e della crisi che attraversa oggi il nostro tempo. Un concetto, quello di crisi, che il Festival vuole declinare a partire dalle opportunità che vengono generate dal tramonto dei paradigmi tradizionali e in termini di scoperte, di pratiche nuove e combinazioni inedite con cui riscrivere i codici del nostro tempo. Un’idea di crisi come possibile forma di nuova energia sia in termini di forza attiva, sia in termini di resistenza. Il Festival si chiude in Dicembre con PALERMO POST-PRODUCTION, una mostra di ricerche e progetti sul tema della riconversione dell’architettura urbana e sulla rigenerazione della materia costruita esistente, curata da ZisaLab, e che raccoglie gli esiti di tre laboratori di progetti di riconversione e trasformazione dei Cantieri Culturali alla Zisa. PALERMO Autori siciliani in rassegna a Palermo: due "reading" ai Cantieri della Zisa I Cantieri del Contemporaneo, il Festival ideato da Giuseppe Marsala e promosso dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Palermo, propone un ritratto sfaccettato della città contemporanea, declinato nel corso di due reading. Forse non esiste “il romanzo di Palermo”, che periodicamente quotidiani, blog, incontri culturali provano a rintracciare, ma di sicuro gli scrittori palermitani della loro città scrivono parecchio e dalle loro pagine emergono dettagli rivelatori, a volte ribaltamenti di cliché abusati o parole nitide per qualcosa che pensavamo confusamente. L’iniziativa vuole anche rilanciare la Mappa letteraria on line di Palermo (mappaletteraria.comune.palermo.it) e proporre nuove scritture per il suo aggiornamento. Fra i 42 autori siciliani, quasi tutti saranno presenti e saranno loro stessi a leggere una pagina tratta da un loro testo, alcuni invitati personalmente, altri selezionati sulla base delle segnalazioni pervenute alla mail mappaletteraria. [email protected]. "Le città sono da sempre muse per gli artisti. Il cinema ci ha mostrato la città del '900 mentre la letteratura ce la fa immaginare e trasfigurare attraverso le storie. “I romanzi di Palermo” è un modo per tracciare una mappa del nostro immaginario urbano contemporaneo attraverso i tantissimi scrittori contemporanei che a Palermo ambientano i loro romanzi", dichiara Giuseppe Marsala, direttore artistico del Festival Cantieri del Contemporaneo. La mappa letteraria sarà inserita in un progetto multimediale curato dall'agenzia Kappaelle di Palermo, che darà origine all'app mobile “City reading”, attraverso cui ogni utente potrà ricostruire il suo itinerario culturale della città. 12 Un giro a Palermo tra le citazioni da Wilde a Pirandello COSE DI CASA NOSTRA Davide è un ragazzo gay di 20 anni, qualche mese fa ha deciso di fare coming-out con i genitori, ma non si sarebbe mai aspettato una reazione così violenta. All’inizio suo padre ha iniziato a insultarlo e a dire che avrebbe preferito un figlio drogato, poi alla fine sono arrivate le botte. Davide è stato massacrato selvaggiamente dai genitori che poi lo hanno rinchiuso in casa per settimane senza nessun tipo di contatto con l’esterno. Tutto questo è successo in provincia di Palermo e non in qualche paese arabo. Fortunatamente dopo più di un mese Davide è riuscito a scappare di casa e racconta: “Avevo davanti due scelte: farmi uccidere o provare a scappare. Ma non mi importava, dovevo scappare. Però avevo paura che mi venissero a cercare” Davide è scappato con 80 € e adesso vive a Catania in una casa con degli studenti universitari, non ha più contatti con la famiglia, se non quelli con la zia che ogni tanto lo contatta su Facebook per dirgli… “Mia zia invece ancora adesso mi scrive su Facebook che devo impiccarmi. Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni.” Una storia tremenda, ma non è un caso isolato; Davide a differenza di altri ragazzi gay però ha avuto il coraggio di testimoniare la sua esperienza. La cosa sconvolgente è che sotto l’articolo di PalermoToday ci sono anche dei commenti di solidarietà…ai genitori di Davide. L’omofobia non è mai giustificabile o accettabile, ma quando si annida in casa, tra le persone che dovrebbero amarti incondizionatamente è pericolosa, perché è proprio in quel caso che crollano le certezze e chi non ha la forza di Davide potrebbe davvero decidere di farla finita. Per questo e tanti altri motivi serve assolutamente una legge contro l’omofobia che rovina migliaia di vite che non vengono vissute pienamente, che costringe troppe persone a vivere nell’ombra. In ogni caso in bocca al lupo Davide. Il Papireto, la Zisa, la Cattedrale: un itinerario della città nei luoghi che i grandi scrittori hanno descritto nei loro libri. Sono nati dalle occasioni più diverse, sono testi letterari, più o meno noti, che vagano come isole in un arcipelago fluttuante, sparsi qua e là. Raccoglierli, farne un galleggiante unico, una canoa, una zattera, indirizzare le correnti cui da tempo erano affidati verso un'unica direzione è stata l'idea che ha portato alla realizzazione della “Mappa letteraria on line di Palermo”, uno spazio dove, mediante una serie di interconnessioni ipertestuali, il fruitore può sapere tutto su quei punti della città che sono stati oggetto di pagine letterarie. La mappa sarà inserita in un progetto multimediale curato dalla Kappaelle, da cui nascerà l'app mobile “City reading”, attraverso cui ogni utente potrà ricostruire il suo itinerario culturale della città. Le citazioni sono suddivise per tipologia letteraria e la navigazione per periodo storico. Domanda: possono scrittori, artisti e filosofi rivelarsi ottimi compagni per scoprire Palermo, come succede con l'affascinante urbanistica di Amsterdam e la scenografica bellezza di Madrid, colte nel loro incanto dagli sguardi di Flaubert e di Humbold, ma anche con il Lake District di Wordsworth, o con l'intenso cromatismo della Provenza di Van Gogh? La risposta è affermativa. Nella mappa letteraria di Palermo, il “Viaggio in Sicilia” porta Bernard Barenson a Monreale: «...visione anticipante del Paradiso, quanto la Gerusalemme tutta d'oro del libro degli Inni». Lodi sperticate quelle di Cesare Brandi di “Sicilia mia” per Palermo: «Neanche a Venezia i mosaici avranno maggiore fulgore, e in nessun luogo, neanche a Marrakech, splenderà l'architettura araba come nella Zisa, anche se in parte rovinata, nella Cappella Palatina, il cui soffitto è il più bel monumento arabo che esista al mondo». 13 Il nostro socio onorario e amico Gianfranco Barcella, è docente di materie letterarie, giornalista. È stato direttore editoriale di periodici. Ha pubblicato tra l’altro: monografia su Pietro Giuria, Sabatelli Editore; Invito alla lettura di Milena Milani, IbiskosUlivieri. Per De Ferrari Editore ha realizzato le seguenti pubblicazioni: Una sola verità, romanzo giallo; Le vie dei savonesi illustri; Le vie degli albisolesi illustri; Santa Maria Giuseppa Rossello Testimone di Misericordia. Nel 2012 pubblica il libro di versi In riva al mare, Quest’anno ha pubblicato con Giuliano Ladolfi editore questa bella raccolta di poesie: Quaderno di bordo A firma del nostro nuovo Socio e collaboratore Avv. Elio Palelologo, che ringraziamo, un ricordo d'infanzia".. Il contesto è quello di "Cufali", in Librizzi, provincia di Messina, in cui trascorreva le vacanze estive.. Minicu e il giro dei fichidindia Eravamo tutti intorno. Una caterva di gente intorno a lui, seduto su di uno sgabello che aveva costruito unendo pezzi di legno. Minicu, il nostro mezzadro, raccoglieva, tutte le sere, un secchio di fichidindia, di vario colore e qualità, dal verde pastello al rosso sanguigno, che sbucciava con il suo coltello a serramanico, appuntito e tagliente. Li prendeva con una mano e, con l’altra, li incideva con tre tagli veloci e non ti accorgevi neppure come facesse. In un attimo il ficodindia sbucciato e infilzato nella punta del coltello era nelle tue mani e subito ingoiato. Come facesse a non pungersi con le micidiali spine di quei frutti era, ed è rimasto, un mistero. Si grattava le dita, di tanto in tanto, con lo stesso coltello, come se le spine si lasciassero trascinare dalla lama, senza infilarsi nella pelle. La verità è che aveva la pelle coriacea come quella degli elefanti, per il pesante lavoro nei campi. .. Un mistero, qualche volta sfatato, come non passasse sui fichidindia qualche spina trascinata, all’interno, dal taglio. L’attesa del giro dopo era, o ti sembrava, assai lunga perché Minicu doveva riempire le molte bocche che gli stavano intorno. Ma i giri erano tanti, come i frutti che riuscivi alla fine a mangiare. Sino a tarda sera, alla luce della flebile fiamma del lume a petrolio. Ci guardava, con il suo eterno sorriso, ma non capivi se per lui era maggiore la soddisfazione di averti sfamato o quella di averti tenuto in pugno per qualche ora. Ci sono ancora i fichidindia, di vario colore e qualità, dal verde pastello al rosso sanguigno, ma lui no, se non nel ricordo e nel cuore.. Un vero viaggio nel mare della vita sino alla ben conosciuta meta di tutti noi, che lo atterrisce, ma nel tempo lo affascina e lo conforta con la consapevolezza degli strumenti da opporre all’avvento della nera signora: l’incanto e la memoria. Ho poi passato il libro a mia moglie Giovanna, che ben più pratica di me di versi, così ne scrive: Nel suo “Quaderno di bordo” Gianfranco Barcella si definisce “ un semplice nocchiero sulla rotta del presente” che naviga” per mari tenebrosi senza fari”. Il mare è certo una metafora , è la vita che il poeta attraversa affrontando i marosi e le intemperie dei venti , ma / l’azzurro del mare è sentore di vita/ che fa dimenticare la riva della morte / Forse questo è il senso profondo del Quaderno di bordo, il doloroso oscillare del poeta tra la cruda consapevolezza della fine del viaggio che offusca di ombre l’orizzonte e il desiderio di vita che cogliamo nell’ammirazione del libero volo di un gabbiano o nell’immagine della primavera” spumeggiante di vita” e in molte altre immagini felici . / la paura di perdere il nodoso cavicchio/ che frena la corsa verso l’eterna resa/ è un sentimento tanto vero che ancora una volta ci fa dire che la poesia riesce a dare voce a quell’inesprimibile che è dentro ognuno di noi. 14 PROVERBI E MODI DI DIRE Una presa di coscienza A seguito dei numerosi fatti di cronaca che confermano l’incremento dei femminicidi, l’Autrice ha voluto delineare, attraverso la storia, la vita delle donne, le loro lotte per la conquista di diritti fondamentali, come la parola, l’educazione, il voto, il divorzio e l’aborto. Una vera e propria guerra dell’“altra metà del cielo” che ancora oggi rivendica la possibilità di esistere ed essere riconosciuta come donna e non come genere. Forse noi donne dovremmo conoscere la nostra storia e sapere quanto abbiamo lottato, durante i secoli, per conseguire il semplice diritto alla parola, all’istruzione, al voto, al divorzio, all’aborto. Conoscerci per farci conoscere ed entrare a testa alta in un mondo fallocratico dove spesso siamo relegate a semplici oggetti o usate come voto di scambio o peggio violentate, schiavizzate e uccise. Per questo motivo ho scritto “Dalla cintura di castità al tanga Storie di donne” definito dall’editore una sorta di manifesto dell’orgoglio femminile. Nulla diventa mai reale finché non è conosciuto per esperienza. Persino un proverbio non è un proverbio finché la Vita non ce lo ha illustrato. John Keats, Lettera a George e Georgina Keats, 1819 L’abbilità fa parti di l’anurata società. La bbona muglieri è la prima ricchizza di la casa. La cannila è ‘na mezza cumpagnia. L’acidduzzu nà la gaggia, canta ò pi amuri o pì raggia. La donna sì voli, a l’omu lu porta d’unni voli. La donna spissu si lamenta e doli e si fa malata quannu voli. L’acqua sinni và ‘nni la pinnenza, l’amuri sinni và dunni ce’ spiranza. La fimmina c’avi russuri, attira cchiù di li ricchizzi. La fimmina è comu li muluna: ‘mmezzu a centu cì ‘nnè bona una. La gaddina appena fà l’ovu, nun si chiama cchiù puddascia. La mamma tì dota e la vicina tì marita. La megliu acqua si la vivinu li porci. L’amicizia fatta a l’ambrescia dura picca. L’amicu farsu è un malu vicinu, ti tira la petra e s’ammuccia la manu. L’amicu è comu lu paracqua, quannu chiovi nun lu trovi mà. La minnitta è un piattu cà si po’ manciari friddu. L’amuri di mamma nun t’inganna. L’amuri è orvu……lu sdegnu avi quattrocchi. L’anni passanu ‘ncapu di natri. La notti porta cunsigliu. L’occhi sunnu lu specchiu di l’arma. L’occhiu voli la sò parti. L’omu chi nun si fà li fatti sò, cù la lanterna và circannu guai. L’omu di la sò casa trascuratu, è di sicuru cà mori curnutu. La casa senza la fimmina ’mpuvirisci. La ‘ngnuranza è ‘nna cosa amara; nun costa nenti ma si paga cara. La nivi ‘ncapu ddù munti chi la po’ purtari. La pecura ancora avà nasciri e vulemu arrustiri lu ficatu ? La pecura zzoppa si godi la via. La pirsuna cà pì iddu stessu è trascuratu, di tutti è criticatu. La pruvuli fà lu cacciaturi. La puvirtà nunn’è vriogna, ma mancu preiu. Stefania Spotorno è insegnante di Lettere Moderne all’Istituto Magistrale “Della Rovere” e al Liceo Scientifico “Orazio Grassi” di Savona. Incaricata dal Ministero della Pubblica Istruzione in qualità di formatrice del linguaggio cinematografico in ogni ordine e grado di scuola. Insegnante di Cinematografia all’IRSAE con lezioni impartite a maestri e professori. Docente per vent’anni all’UNITRE di Savona. Collaboratrice di riviste di storia dell’arte moderna e cinematografia. Autrice del saggio-romanzo Il nido degli astori (Savona, 1992); Gambe che volevano correre (Savona, 2009); Poesie scritte in cucina (Cuneo, 2013). La presentazione nazionale del libro avverrà il 6 dicembre al Palazzo dei Congressi dell’Eur di Roma e a Savona il 12 dicembre a Villa Cambiaso, via Torino, alle ore 20.30. Parteciperemo numerosi vero? 15 del film coincide all’opposto con un posizionamento cruciale dei titoli di testa,che si vedono così investiti della funzione essenziale di organizzare il passaggio dello spettatore dal mondo extratestuale a quello testuale: di gestire,dunque, un transito, ma anche una transazione (confermando, ad esempio, aspettative già formate nello spettatore, ed attivandone delle nuove). Molto più, dunque, dell’esercizio di una funzione prettamente informativa (quello che i titoli raccontano è, in fondo, la storia della produzione del film.) Vale la pena soffermarsi ancora sulla questione della marginalità , perché è ad essa che si lega una prima grande problematica teorica che attraversa lo studio dei titoli: che, in posizione di Soglia rendono indecisi tra il Dentro e il Fuori, rappresentano chiaramente, in ambito cinematografico, una delle componenti più significative di quel complesso apparato denominato di paratesto. Tra le principali funzioni del paratesto, vanno rilevate quella di “presentare” e “rendere presente” il testo: i titoli di testa presentano certamente il film (innanzitutto nominandolo), ma in che modo possono “renderlo presente”? Partecipano, i titoli di testa, a quell’attività di seduzione dello spettatore di cui si fanno carico,in primo luogo, le strategie promozionali? In che modo possono costruire il film come “oggetto di desiderio”? Una grande questione è quella dell’enunciazione. Nel momento in cui si sovrimprimono alle prime immagini diegetiche*, le menzioni verbali dei titoli rappresentano tracce evidenti del processo di produzione del discorso stesso; mentre le immagini avviano la finzione, le scritte la rivelano come tale. PILLOLE DI CINEMA I titoli di testa e di coda nel Cinema Alvin: «È già cominciato il film?» Cassiera: «Sì, ma solo da due minuti.» Alvin: «Chiuso… fa niente, dai… io non… non posso entrare…» Annie: «Due minuti, Alvin.» Alvin: «No, mi dispiace ma non posso… il cinema è già saltato… io sai… io non posso entrare a metà…» Annie: «A metà?! Hai perso i titoli di testa, sono in svedese…» Alvin: «Prendiamo un caffè per due ore… o qualcosa… qui davanti?» Io e Annie ( Annie Hall , Woody Allen, 1977) Nei titoli di testa appaiono solo i principali (regista, sceneggiatore, produttore, maggiori interpreti), mentre quelli di coda indicano i nomi dei singoli partecipanti alla realizzazione dell'opera. Nei titoli di coda vengono inserite anche informazioni come i titoli e i compositori delle tracce della colonna sonora del film, i luoghi usati nelle riprese, le persone che hanno permesso le riprese in una data location e omaggi a persone. I titoli di coda sono spesso scritti con un carattere di colore bianco e di dimensione ridotta, scorrono dal basso verso l'alto su uno sfondo scuro e in sottofondo è presente una musica che accompagna l'andamento dei titoli, spesso la traccia principale della colonna sonora. In alcuni casi i titoli scorrono a fianco o al di sopra di immagini come scene scartate durante la lavorazione, errori degli attori o una scena che ha la funzione di epilogo. L’importanza della collocazione periferica di tali sequenze è evidente fin dal fatto che essa rientra nelle denominazioni stesse e sembra anzi costituire l’elemento distintivo in base al quale identificarle e definirle. Sono state a lungo considerate marginali , di poca importanza, non determinanti. Lo spettatore può distrarsi durante i titoli di testa, che non sono ancora il film, e alzarsi durante i titoli di coda, che non sono già più il film, mentre l’esercente può decidere di accendere le luci se non, in maniera del tutto arbitraria, interrompere la proiezione e su quello produttivo: i titoli di testa e di coda, come si è visto, sono sequenze marginali anche nel senso di meno rilevanti, cioè modificabili e alterabili con una relativa facilità, rispetto a sequenze più interne al corpo filmico Sembrerebbe questo il presupposto (scorretto) in base al quale spiegare la diffusa disattenzione nei confronti dell’oggetto. Eppure, tale collocazione ai margini *DIEGESI: Indica,all'interno delle strutture del racconto cinematografico e nel linguaggio della critica, la pertinenza e la coerenza di tutti gli elementi che concorrono a definire e sorreggere la narrazione filmica e il mondo visivo messo in atto dall'opera: dalla sua temporalità e spazialità alla strutturazione dei personaggi, dalla definizione degli ambienti ai contenuti psicologici, dai materiali gestuali e sonori alla dinamica dei dialoghi, dalla presupposizione del contesto immaginario (anche nel 'fuori campo') alle forme narrative della finzione. La diegesi si definisce allora nella cooperazione, all'interno delle convenzioni di racconto, tra il testo filmico con i suoi contenuti palesi e impliciti e il suo destinatario, sia esso un comune spettatore o un critico. S'intende per diegetico (o intradiegetico) tutto l'insieme dei segni, eventi, elementi che appartengono allo sviluppo della finzione narrativa e della messinscena visiva o che in esso vengono presupposti, e per extradiegetico tutto ciò che esula dall'universo visuale e finzionale, pur contribuendo a comporre l'opera filmica (per es., la musica di commento alle immagini). 16 tragicamente nell’acqua. Sulla sua superficie, compare la dicitura“The End”: non sono passati che pochissimi minuti dall’inizio del film, l’effetto di sorpresa è innegabile e disorientante, ma la spiegazione della bizzarria è immediata. Uno stacco ci rivela una sala di proiezione: quello che stavamo vedendo non era l’inizio del film, ma il finale di un “film nel film” di cui il regista, Sullivan, discute animatamente con i produttori nella sequenza immediatamente successiva. Il “The End” fa chiaramente parte di quei segnali che vengono in genere definiti “di annuncio” o di “autoannuncio”, quelle formule, che istituiscono l’inizio e la fine dicendoli, designandoli come tali: e, come ben emerge dall’esempio di I dimenticati , l’efficacia pragmatica di tali segnali emerge con forza particolare quando essi si collocano in maniera anomala nel testo, vale a dire in prossimità del limite opposto a quello che dovrebbero segnalare. Ma, più in generale, che tipo di effetti caratterizzano, specificatamente, i titoli di testa e di coda, quando risultano dislocati, rispetto alle abituali collocazioni? Del resto, il panorama degli studi sui “limiti” in ambito cinematografico sembra oggi mandare segnali positivi, e si riscontra una passione insolitamente vivace per le forme del cominciare e del finire. Ma focalizzarsi sul limite significa proprio riflettere sull’apertura del testo, sull’apertura di canali di scambio tra il testo e altri testi (vedremo ad esempio come i titoli rappresentino un efficacissimo operatore di intertestualità), tra testo e contesto. Significa, forse, cercare modelli di organizzazione e comprensione di tali scambi, pur facendo salva la necessità (non solo metodologica) di potersi rapportare ad un testo che, in quanto tale, abbia un inizio ed una fine (mobili,dialogici, rivolti sempre verso l’interno e, contemporaneamente, verso l’esterno). Una minima porzione in cui “l’universo si cristallizza”, ha scritto Calvino: Ma tale situazione è da intendersi come una “scandalosa contestazione”, oppure come garanzia necessaria e imprescindibile del buon ingresso dello spettatore nella finzione? E, d’altro canto: come definire l’istanza che si fa carico dell’enunciazione dei titoli? Come leggere il valore che acquistano, ad esempio, i titoli “parlati”, in rapporto a quelli (più ordinari) scritti? Infine, altro snodo teorico cruciale: la questione dell’incipit. “Il film comincia con il primo fotogramma”, ha affermato Saul Bass, noto designer che ha introdotto una concezione autenticamente rivoluzionaria dei titoli. Eppure, se qualcuno ci dice che il tal film ha un inizio straordinario, possiamo star certi che non si sta riferendo ai titoli di testa. Dove comincia, allora, il film? Come includere i titoli di testa nel quadro più ampio delle strategie d’esordio? Come nei pacchetti giapponesi, sono l’apertura e la scoperta di un oggetto ancora chiuso che costituiscono il piacere, non il regalo, il contenuto. Thierry Kuntzel, “Le Travail du film, L’analisi ci permette di considerare i titoli in una dimensione diacronica, oltre che sincronica; rileveremo infatti come di fronte alle opzioni espressive possibili, alcune siano più caratteristiche di un’epoca piuttosto che di un’altra e come le stesse opzioni producano effetti di senso diversi con il passaggio da un periodo ad un altro: lo sfondo statico ed uniforme, senza alcuna componente figurativa, che ha una presenza fortemente standardizzata nella sequenza dei titoli almeno fino agli anni Trenta e Quaranta,acquisisce una capacità di significazione del tutto inedita e peculiare nel momento in cui Woody Allen lo ripropone, costantemente, in apertura dei suoi film. I titoli di testa, tra l’altro, rappresentano un terreno privilegiato per mettere a confronto e coniugare gli strumenti d’analisi del testo cinematografico a strumenti che derivano da altri ambiti espressivi: il cinema si confronta con gli stili tipografici, la grafica, l’immagine pittorica, l’animazione, il valore ritmico e“passionale” della componente musicale. Proprio dall’incontro tra cinema e grafica, tra strategie pubblicitarie e concezione dei titoli di testa, si delinea, a nostro avviso, l’identità del tutto peculiare del “titolista”. Altra questione ancora sono i titoli di testa che compaiono all’interno del film. Ma, anche, i titoli di coda. I dimenticati (Sullivan’s Travel , PrestonSturges, 1942) ha inizio con le immagini di un treno in corsa. Sembra trattarsi di un chiaro incipit in medias res: due uomini lottano furiosamente sul tetto dei vagoni, uno spara all’altro, cercano ancora di resistere, fino a che precipitano entrambi L’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’universo si cristallizza in una forma, in cui acqui-sta un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in un’immobilità mortale,ma vivente come un organismo. 17 Mettete il coperchio e cuocete a fuoco lento per circa 40 minuti, agitando di tanto in tanto il tegame,facendo “saltare”il cavolfiore. Importante NON mettere acqua e non esagerare con il vino, in modo che il cavolfiore possa quasi soffriggere durante la cottura. Ricoprire con l'altra sfoglia premendo sui bordi e bucherellare la pasta. Infornare per 40 minuti e servirla caldissima. Un gesto di cortesia suggerisce che il taglio che apre la crosta avvenga per mano del più autorevole della famiglia o dei convitati, cosicché sia proprio il primo ad assaporare il fantastico aroma che si spande sulla tavola. . ----------------------------------- Non c’era Natale senza che, mia nonna prima e mia madre dopo, la preparassero. Seguendo la tradizione, anche mia moglie, fa proprio bene la : "Scacciata di cavolfiore" Ingredienti per la scacciata : 1 kg. di farina di semola 50 gr. di lievito di birra Preparazione: Sciogliere il lievito di birra in 1/2 bicchiere di acqua tiepida leggermente salata, versare la farina sulla spianatoia, impastarla con il lievito e continuare ad impastare aggiungendo la poca acqua necessaria ad ottenere una pasta piuttosto dura. Fare un panetto, infarinarlo, avvolgerlo in un canovaccio e lasciarlo lievitare per un'ora circa in luogo tiepido. Quando la pasta è gonfia prenderla e lavorarla di nuovo, con l'aggiunta di un cucchiaino di olio d'oliva che sarà assorbito. Dividere la pasta e spianarla con il mattarello a sfoglie piuttosto spesse, Con una sfoglia foderare una teglia di circa 30 cm.di diametro, oleata ed infarinata. Rosanna Atti Vanadia invece ci regala la ricetta per la preparazione di una TORTA SPECIALE - Ingredienti per il ripieno: 400-500 di tuma o pepato fresco 2-3 cipolline nuove vino rosso,1/2 bicchiere scarso 100 gr. di olive nere 4 acciughe sott'olio -pepe, sale, olio d'oliva- aglio 1 klg cavolfiore affogato Mondate il cavolfiore togliendo le foglie esterne e una buona parte del gambo (lasciate solo la parte più vicina alle cime), lavatelo, dategli una breve lessatura (5 minuti) e mettetelo a sgocciolare in uno scolapasta. Tagliate le cimette più grosse del cavolfiore a fettine e lasciate intere le cime più piccole. In un tegame mettete uno strato di cavolfiore,cospargete con le cipolline, le acciughe,le olive e il pecorino;salate e pepate. Mettete un’altro strato di cavolfiore,di nuovo le cipolline,le acciughe,le olive, il pecorino,il sale e il pepe. Irrorate il tutto con l’olio extravergine d’oliva e il vino rosso. Versare a fontana la Generosità Mescolare con la Dolcezza Amalgamare con tanta Amicizia Fare lievitare con Pazienza Aggiungere Allegria Un pizzico di Buonumore Farcire di Rispetto e tanto Amore Coprire con abbondante Tenerezza Offrirne grandi fette senza economia, in particolare a quelli che nutrono nel cuore diffidenza e antipatia. Agata e Lucia al telefono: Agata: Luciuzza bedda a vuò sapiri na cosa? Doppu tri anni ca facemu l’amuri, Alfio mi parrò di matrimoniu. Lucia: Biiiiiiiiii bedda matri e chi ti rissi? Agata: Mi rissi ca so mugghieri si chiama Carmela e i tri picciriddi: Salvuccio, ‘Ntonio e Angelino. Al bar: Me mugghieri sta facenno una nuova dieta: banane e cocco. Manco un ggrammu pesse, ma virissi come acchiana sull’arbuli! 18 Libertà, Regole e Trasgressioni. Il successo della diretta live via satellite APPUNTAMENTI DA NON PERDERE -Nuovofilmstudio e altri 119 cinema collegati via satellite in tutta Italia, -279 istituti scolastici di secondo grado partecipanti, -160 città coinvolte, -24.500 studenti presenti nei cinema (e 300 circa al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano), -1.500 dirigenti scolastici partecipi. OFFICINE SOLIMANO Mercoledì 3 DICEMBRE (dalle 20.00) GIORNATA DEDICATA A LUCIANA COSTANTINO I numeri sono imponenti, facendo di questa iniziativa il più grande evento educativo trasmesso in diretta mai realizzato in Italia e in Europa. L'evento in questione è “Libertà, Regole e Trasgressioni” tenutosi venerdì 7 novembre, iniziativa voluta dall’Associazione Sulleregole, fondata nel 2010 dall'ex magistrato Gherardo Colombo, progettata e organizzata dall’agenzia Unisona di Milano che ha messo a disposizione il suo network di centinaia di cinema dotati di tecnologia satellitare Open Sky Cinema, partner chiave dell’evento. Nella sua lezione civica Colombo ha toccato punti fondamentali, quali il rapporto di ciascuno di noi con le regole e la natura stessa delle regole. Presente all'incontro l'attore Claudio Bisio che con la sua simpatia ha facilitato il dialogo tra Colombo e i ragazzi. «Credetemi ragazzi, oggi l’atto più trasgressivo è rispettare le regole e mettere in atto i dettami costituzionali»: questo è il messaggio che condensa le quasi tre ore di incontro e che ben sintetizza la visione complessiva di Gherardo Colombo. Insomma, una bella esperienza che, dal punto di vista di Open Sky Cinema, ha significato dimostrare ai cinema modi alternativi da sviluppare con il collegamento via satellite per dare alla sala nuove opportunità di sfruttamento Chi dice “teatro” a Savona dice “Luciana Costantino”: attrice, regista, amministratrice di compagnie, maestra di teatro, organizzatrice infaticabile di manifestazioni e spettacoli, sempre curiosa,mai doma. A dieci anni esatti dal giorno in cui ci ha lasciati, una giornata per ricordarla: con gli allievi di un tempo, gli amici di sempre, gli artisti e i semplici appassionati che le devono tanto. Ingresso e partecipazione libera. Sabato 6 Dicembre ore 16,00 in Darsena, Piazza D’alaggio A cura dell’Assonautica e del nostro Sodalizio verrà apposta una targa in ricordo del “COSTA DEL SOL” con i versi del nostro Socio Umberto Gugliotta A seguire una presentazione del libro di Umberto Gugliotta, dedicato al brigantino che ricorderemo brindando in un piccolo rinfresco. 19 Anna e Giuse Cervetto presentano in Sala “Vasé” i video amatoriali “Diario di viaggio” Sabato 6 dicembre 2014 - ore 16.30, OFFICINE SOLIMANO Sala Raindogs Giovedì 18 Dicembre ore 21 Myanmar (ex Birmania) Presentazione del progetto musicale ideato e condotto da: Enzo Cioffi (chitarre), Claudio Bellato (chitarre), Andrea Bottaro, (Basso e contrabbasso), Maurizio Pettigiani (percussioni). Abbiamo visitato parte del Myanmar nel 2003, contagiati dall’entusiasmo degli amici che prima di noi si erano avventurati in questo affascinante, mitico paese e per l’occasione, davvero eccezionale, di ascoltare il concerto del violinista UTO UGHI in uno dei più importanti templi di BAGAN. Abbiamo dovuto constatare la veridicità di tanti scrittori che hanno dato testimonianza dell’ancora intatta e selvaggia bellezza della regione nonché della cultura e delle tradizioni che il popolo birmano ha saputo conservare intatte. Lo splendore dorato delle cupole delle pagode ci ha avvolto e accompagnato durante tutto il viaggio. Il gruppo propone un genere latino moderno oggi denominato “Latin Jazz”, con riletture di classici del calibro di Chick Corea, Astor Piazzolla, Luiz Bonfà ed altri compositori alternate a composizioni originali scritte da Enzo Cioffi e Claudio Bellato. OFFICINE SOLIMANO Sala Raindogs Venerdi 5 DICEMBRE (dalle 22) Shemekia Copeland Band A tutti gli Amici del “Pirandello” AUGURI di BUONE FESTE Figlia dello scomparso Johnny Clyde Copeland, tra i più affermati bluesmen texani, Shemekia Copeland (1979) inizia a cantare ad otto anni, al seguito del padre, in mezzo a mostri sacri come B.B. King, James Cotton, Clarence Gatemouth Brown, Etta James, Bobby Rush. Debuttante nel ’98 con il primo cd per l’etichetta Alligator, Shemekia Copeland ha bruciato letteralmente le tappe della notorietà nel mondo del blues internazionale. All’età di vent’anni è già paragonata a Koko Taylor, Etta James e Ruth Brawn dai critici e dal pubblico. Nel 2001 vince un Grammy Award, i suoi dischi sono prodotti da gente come Dr. John e Steve Cropper. Le pareti del Raindogs tremeranno! Santuzzo 20