L`olfatto di Dioniso e le parole per dirlo 1. Homo loquens?

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L`olfatto di Dioniso e le parole per dirlo 1. Homo loquens?
MARCO MAZZEO
Segreti o misteri?
L’olfatto di Dioniso e le parole per dirlo
1. Homo loquens? Chomsky e i misteri eleusini
Nella lettera di invito alla partecipazione a questo numero della rivista,
Mario Alcaro richiama la necessità di riflettere sul movimento di pensiero
forse più decisivo del Novecento: quel che ha dato vita alla cosiddetta
“svolta linguistica”. Credo che ci siano almeno due modi per intendere
questo cambiamento. Una è quello cui accenna polemicamente Alcaro: è il
mito ermeneutico dell’estensione senza limiti e senza attrito del linguaggio. Si tratta di un approccio forte solo in apparenza (tutto quel che è umano è linguistico) perché ha finito col confluire nel cosiddetto “pensiero debole”: una forma a volte raffinata, ma sempre subalterna a quella che Guy
Debord chiama la società dello spettacolo. L’altro modo nel quale intendere la svolta linguistica presenta il carattere opposto: più morbido in apparenza, in realtà una filosofia materialista e militante. Le sue linee portanti potremmo caratterizzarle così. Per comprendere che razza di specie viventi siamo, in che modo viviamo da animali politici, quali sono le possibilità e i limiti delle trasformazioni che la nostra forma di vita può assumere non possiamo non confrontarci con un dato di fatto: siamo l’unica
specie dotata di linguaggio verbale. Il primo paradigma, quello ermeneutico, ci descrive come homo loquens: gli umani sarebbero già da sempre dentro la parola; il problema del rapporto col mondo biologico non si darebbe
e la vita umana coinciderebbe con una sorta di caleidoscopio culturale. Il
secondo modello (quello al quale, se non si fosse capito, aderisco) ci descrive, si potrebbe dire, come animal loquens: animali che nascono privi di
parola in atto (“infante” significa letteralmente “che non parla”) ma con la
capacità potenziale di farlo, con quella che Ferdinand de Saussure chiama
“facoltà del linguaggio”. Questo rapporto con la parola, una possibilità che
ogni volta ha il problema del passaggio all’atto, costituisce la partita di fondo che struttura la nostra esistenza. Per questa ragione, l’antropogenesi è
un processo non solo filogenetico ma ontogenetico: in ogni istante la nostra umanità è in palio. I miei genitori mi abbandonano e se ho fortuna posso sopravvivere in un branco di lupi, assorbendone alcuni tratti comportaBollettino Filosofico 26 (2010): 263-277
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/978885484673919
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mentali. I miei genitori non mi abbandonano, ciò però non esclude che io
possa divenire un giorno un lupo per loro e massacrarli per accelerare il
processo di successione. Il detto homo homini lupus è colto nel pieno del suo
significato politico e linguistico solo se si considerano entrambi gli aspetti
della faccenda (cf. MAZZEO, 2006). Ciò non significa che ogni esperienza
umana non può che venir messa in parole ma, al contrario, che in ogni
istante la vita umana vive del conflitto e della sfida tra esperienza e parola.
Detto in breve, dunque in modo necessariamente ellittico:
1) Tanto meno l’esperienza passa attraverso il linguaggio, tanto più
questa non acquisisce (o perde) focalità percettiva ed emotiva, eccezion
fatta per quel che riguarda alcune forme minime di organizzazione (si pensi, ad esempio, alle leggi della Gestalt o ai cicli biologici vegetativi).
2) Questa eventuale scarsità focale non rimanda a una realtà intima e
interiore, quanto a uno strato generico dell’esperienza. Questo strato è comune alla specie e come tale è anch’esso pubblico, cioè in linea di principio
condivisibile da ogni membro della nostra forma di vita.
3) Esistono dunque esperienze non linguistiche ma non esperienze o
linguaggi privati (WITTGENSTEIN, 1953), cioè in linea di principio accessibili al singolo individuo e non a un altro esponente della specie. Se di indicibile si tratta, quest’ultimo è sempre un indicibile pubblico.
Se si rinuncia a lavorare sul carattere antropogenetico del linguaggio, si
rimane impantanati in due vicoli stretti e fangosi. Al primo, quello ermeneutico, ho già fatto cenno. Il secondo vive di un’idea mistica: esisterebbero realtà costitutivamente indicibili, aree dell’esperienza a cui avrebbe
accesso solo la nostra interiorità (qualunque cosa essa sia) oppure una mente divina. Potremmo chiamare misterico un paradigma ampio e tentacolare
che va dai culti orfici della Grecia arcaica alle punte più avanzate della linguistica contemporanea: da questo punto di vista i culti eleusini e la ricerca
scientifica di Chomsky1 vanno a braccetto. O meglio: come vedremo tra
poco, le cose sono più complicate. Non perché il più autorevole linguista
vivente sia troppo avanti a confronto di pratiche cultuali vecchie di millenni, ma esattamente per il motivo opposto. Per molti aspetti, i culti misterici si rivelano epistemologicamente più avanzati.
Come è noto, Chomsky ha proposto una distinzione ancora oggi influente. Nella ricerca scientifica sarebbe possibile distinguere nettamente tra problemi, questioni alle quali
è possibile trovare una risposta, e misteri, questioni che sono irrisolvibili in linea di principio. Per una discussione di questa impostazione rimando a MAZZEO, 2005.
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2. L’aroma di Dioniso: il fragore e il fuoco, il vino e la parola
Misterico è il recinto dentro il quale la tradizione occidentale ha confinato una intera modalità di senso, maltrattata con astio: l’olfatto. Ancora
oggi, questo senso è spesso considerato una forma percettiva istintiva e
biologica, residuo dell’evoluzione dei mammiferi e, contemporaneamente,
luogo di manifestazione di eventi soprannaturali e indicibili (l’apparizione
dei santi, come è noto, è spesso preceduta da odore di viole o gelsomino).
L’odorato sarebbe un senso doppiamente misterioso: area arcana del mammifero che è in noi; zona di rivelazione mistica di entità ultraterrene. Per
questo motivo, è spesso trattato come un senso privato: perché modalità
percettiva formatasi prima della comparsa degli umani e del linguaggio;
perché entità sensoriale che darebbe accesso a quel che va oltre l’umanità
terrena. Il naso umano darebbe accesso a un al di qua istintuale formato da
cicli biologici e istinti primordiali, ma anche a un al di là divino nel quale
trovare incontri inspiegabili.
Ecco, in breve, la ragione per la quale è opportuno che un materialismo
militante dedichi parte della propria attenzione al mondo degli odori e degli aromi2. È il luogo migliore per stanare e combattere in un colpo solo
due varianti del paradigma misterico, una biologica (c’è un indicibile filogeneticamente arcaico) e l’altra trascendente (esiste un indicibile che accenna al divino). In questo saggio, affronterò solo un aspetto di una vicenda complessa e ancora poco nota. Criticherò l’idea secondo la quale, poiché l’olfatto sarebbe un senso costitutivamente lontano dal linguaggio,
questo rappresenterebbe un’area dell’esperienza scarsamente rappresentata
nella cultura occidentale. Se infatti si è decisi a scavare e a toccare con mano lo statuto di odori e aromi nelle regioni più arcaiche della nostra tradizione di pensiero, esistono alcuni percorsi mitico-rituali ineludibili. Uno
di questi riguarda Dioniso, la divinità dei culti misterici3. Non a caso, l’archeologia dell’olfatto si imbatte subito in una figura che di misterico ha
davvero molto e che sembra confermare l’associazione “olfattivo uguale
non linguistico”. Le cose stanno davvero in questo modo? Per comprenderlo, facciamo un passo indietro.
2 D’ora in poi quando mi riferirò all’olfatto lo considererò nella sua accezione più ampia e corretta: non solo come il senso degli odori ma anche come il senso degli aromi, cioè
di quelle entità percettive catturate dalle vie retronasali interne alla bocca che interagiscono con i sapori (LE MAGNEN, 1961, p. 29).
3 Di un altro, altrettanto importante che riguarda Adone, Myrra e Afrodite, mi sono
occupato altrove: MAZZEO, 2010a.
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Siamo abituati a considerare questa figura attraverso gli occhi del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche. Uno dei suoi testi più noti, La nascita della
tragedia, si struttura sulla contrapposizione tra impulso apollineo e dionisiaco. Il primo porterebbe gli esseri umani, in questo caso gli antichi greci,
a creare immagini sia rappresentative che oniriche; il secondo impulso, invece, costituirebbe una forza irrazionale, una ebbrezza estatica che trascende la rappresentazione logica del mondo. Non è certo questa la sede
per illustrare e discutere la complessità e le sfumature della contrapposizione. Quel che mi interessa è mettere in evidenza un punto circoscritto e
all’apparenza marginale della lettura nietzschiana del dionisiaco. Per il filosofo tedesco, l’impulso dionisiaco ha una valenza sensoriale duplice e molto forte. Di tipo uditivo: la musica incarna il Dioniso che sarebbe in ciascuno di noi poiché «musica e mito tragico sono nella stessa misura espressioni
dell’attitudine dionisiaca di un popolo e inseparabili l’una dall’altro» (NIETZSCHE, 1886, p. 236). È nel canto corale della lirica greca, «nel ditirambo
dionisiaco [che] l’uomo viene stimolato al più alto potenziamento delle sue
capacità simboliche» (ivi, p. 69). Questo impulso ha anche valenze di tipo
visivo. Nietzsche spiega il rapporto tra dionisiaco e apollineo, ad esempio, con
l’inversione del celebre mito platonico della caverna (ivi, p. 129):
Quando noi, dopo un tentativo risoluto di fissare il sole con gli occhi, ci volgiamo abbagliati da un’altra parte, allora abbiamo davanti agli occhi, quasi
come un rimedio, delle macchie di color scuro: inversamente quelle proiezioni luminose dell’eroe sofocleo, cioè l’elemento apollineo della maschera,
sono prodotti necessari di uno sguardo nell’intimità e nell’orrore della natura, quasi macchie luminose per la cura dell’occhio offeso dalla terribile notte.
Il rovesciamento scambia di posto luce e ombra: non è la seconda a ristorare gli occhi affinché si possa vedere la prima, ma è l’immagine luminosa a
dar respiro a uno sguardo che si perde nell’oscurità di un elemento cui è
fortemente legato il Dioniso della tradizione greca, la notte4. Il richiamo
all’oscurità indica, seppur in negativo, una categoria del tutto visiva, quella
del buio5. Non a caso, la tragedia è definita nella Nascita della tragedia una
«visione» (ivi, pp. 122-123):
4 Nel verso 485 delle Baccanti di Euripide, opera della quale parleremo tra poco, a
Penteo che gli chiede quando compia i suoi riti, il dio risponde «di notte, per lo più. Ha
una sua solennità rituale, la tenebra».
5 È la ragione per la quale indicare la condizione del cieco per mezzo di questo tipo di
metafore (secondo l’immagine base per la quale “il cieco vivrebbe al buio”) può esser suggestivo per i vedenti ma risulta sostanzialmente fuorviante poiché continua a fare appello a
categorie visive. Il “buio” è una categoria oculare tanto quanto quella di “luce”.
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ora siamo arrivati a cogliere come la scena assieme all’azione venisse pensata in profondità e originariamente solo come visione (vision), che l’unica
“realtà” è proprio il coro, il quale genera fuori di sé la visione e parla con
essa con l’intero simbolismo della danza, del suono e della parola.
La tragedia costituirebbe dunque un’apparizione immaginativa di tipo icastico che si compone di elementi visivi e uditivi. Dal punto di vista sensoriale, dunque, anche la concezione nietzschiana di Dioniso ricade nel clichè
occidentale secondo il quale occhi e orecchie sarebbero vie d’accesso privilegiate all’esperienza. L’olfatto è relegato dietro le quinte tanto che nella
Nascita della tragedia appare una volta sola (ivi, p. 138). Questa assenza è
particolarmente significativa. Non solo perché, nel bene o nel male, ancora
oggi la nostra idea del dionisiaco risente della lettura di Nietzsche ma anche
perché questo autore è spesso considerato come un filosofo eccezionalmente sensibile alla dimensione olfattiva dell’esperienza umana6.
Il senso olfattivo è allora marginale nell’epifania di Dioniso? L’interrogativo è particolarmente insidioso perché sembra non lasciare scampo.
Se si risponde positivamente, avremmo conferma dell’idea che gli odori
sono stati da sempre marginali nella rappresentazione occidentale dell’esperienza umana perché entità percettive ineffabili. Dato l’alone di mistero che circonda il culto dionisiaco, se si risponde in modo negativo, si
rischia di ricadere nell’equazione “olfatto uguale ineffabile”. Se però si accetta la sfida e si intraprende la via del no, è possibile essere spiazzati da
qualche sorpresa.
Sicuramente Dioniso è una figura mitologica che si organizza lungo registri sensoriali diversi. Tra questi, l’olfatto lavora sullo sfondo e, proprio
per tale motivo, risulta fondamentale. Per cominciare a comprendere il
punto può essere utile affrontare nelle sue linee essenziali la tragedia greca
che più direttamente lavora su questa figura, le Baccanti di Euripide. In
breve la trama: Penteo, re di Tebe, non riconosce la divinità di Dioniso e
6 Sia Annick Le Guérer che Chantal Jaquet perorano a lungo l’idea che Nietzsche sia un
filosofo che «ha naso» (LE GUÉRER, 2002, pp. 194 e sgg.) o «un naso filosofo» (JAQUET, 2010,
pp. 410 e sgg.). Entrambe rimangono colpite dalle metafore olfattive che compaiono in opere
come Ecce homo o Genealogia della morale. A tal proposito, è opportuno fare due annotazioni.
La prima: nessuno dei due cita mai la nascita della tragedia o la figura di Dioniso. La seconda:
considerare Nietzsche un autore utile per la rivalutazione dell’olfatto è un’idea discutibile.
Nelle sue opere, Nietzsche spesso propone un’immagine di questo senso reattiva e stereotipata: un senso animale e istintivo da recuperare per ritornare al contatto con il nostro corpo.
La vulgata è la stessa, seppur in questo caso valutata positivamente.
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lo fa arrestare. Per tutta risposta, le donne della città che venerano il dio si
recano sul monte Citerone e danno vita a fenomeni inquietanti e prodigiosi. Fanno sgorgare latte e miele dalle rocce, allattano i bambini che hanno
rapito insieme ai cuccioli degli animali selvatici che incontrano. Dioniso si
libera con una scossa di terremoto e convince Penteo a travestirsi da donna
per spiare quel che avviene sui monti. Quest’ultimo viene poi scoperto e
fatto a pezzi dalle baccanti. Così si consuma la vendetta di Dioniso che induce la madre di Penteo a partecipare al massacro del figlio e costringe il
padre, Cadmo, all’esilio pur avendo questo tentato di convincere Penteo
della divinità di Dioniso.
Come nota VIDAL-NAQUET (1986, p. 234), nessuna altra tragedia insiste tanto sulla dimensione del vedere e dell’esser visti. Buona parte della
trama si gioca infatti su un problema di riconoscimento: Dioniso chiede ripetutamente di esser visto; Penteo vuole vedere con i suoi occhi quel che
sta succedendo; Agaue porta la testa del figlio sulla punta di un bastone vedendo al suo posto la testa di un leone. L’intera tragedia scorre sul filo del
reciproco disconoscimento. In questo senso, la vista gioca un ruolo centrale
ma inefficace: si chiede che si riconosca quel che avviene sotto i propri occhi senza però che questo accada mai in tempo utile. Penteo letteralmente
non “vede” il dio che è davanti ai suoi occhi per colpa della propria empietà
(Bacc., vv. 500-503). Quando spia le baccanti lo fa al fine «di vedere e non
esser visti» (ivi, v. 1050) ma quel che avverrà sarà esattamente il contrario.
Senza capire cosa stia succedendo, viene subito scoperto e sbranato. La
madre di Penteo riesce a vedere di chi è la testa sulla punta del bastone solo quando è ormai troppo tardi (ivi, v. 1282) e decide di andare in luogo
nel quale non vedere il monte Citerone né esser vista da lui dopo il misfatto (ivi, v. 1385).
Nelle Baccanti gli occhi sono importanti ma hanno lo statuto tardo del
testimone: certificano gli accadimenti solo dopo che sono avvenuti, registrano cambiamenti a posteriori, ammettono a cose fatte un fallito riconoscimento. La struttura percettiva della tragedia è di tipo eracliteo: gli occhi
testimoniano, ma è il fuoco il vero padrone del gioco. Su questo Euripide
riprende a pieno la tradizione mitologica che fa di Dioniso dio «igneo» e
«nato dal fuoco» (OTTO, 1933, p. 154). Non a caso Penteo comincia ad
esser punito attraverso l’incendio della propria casa (Bacc., v. 1020); le
baccanti si contraddistinguono per i loro riccioli che portano il fuoco senza
bruciarsi (ivi, v. 758); è lo stesso dio a manifestarsi come un leone fiammeggiante perché la sua luce è quella della folgore (ivi, v. 1083). Il fuoco è
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il mezzo di connessione tra i vari registri sensoriali: dalla testimonianza
(spesso falsa) degli occhi alle palpitazioni tattili-uditive del dio fremente fino al suo volto più profondo, quello aromatico. Lo stesso epiteto con il
quale è frequentemente chiamato Dioniso, Bromio, testimonia il passaggio
di consegne. Il termine significa «fremente, sonoro, risonante» ma anche,
riferito al fuoco, «crepitio» (ROCCI, 1943, p. 368). Più in generale la radice lessicale del termine è legata al tuono e al fulmine. Fremente è il fuoco:
la sua apparenza visiva lascia spazio a quella uditiva del crepitio ma anche al
tattile-olfattivo del calore e del profumo. Quando Euripide descrive l’incendio della casa di Penteo, l’esortazione ripetuta «Bromio, Bromio» (Bacc.,
v. 584) del coro anticipa e ricalca le fiamme che avvolgono il legno. «È lui,
Bromio: dentro la casa eleva il suo grido di vittoria» (ivi, vv. 593-594)
continua il coro alludendo al fuoco che con il suo fragore e il suo calore distrugge l’abitazione del nemico. Dioniso è dio pirico: non del fuoco tecnico, donato da Prometeo, ma di quello rituale estatico. Pirica è la sua nascita: come ricorda anche Euripide (ivi, vv. 90-95), Semele muore bruciata
dal fulmine di Era mentre è incinta e sarà Zeus a salvare il prematuro Dioniso. L’edera, uno dei simboli del dio, è la pianta che lo protegge dalle
fiamme (DI BENEDETTO, 2004, p. 283); il pino, altro vegetale sacro a Dioniso, è l’albero odoroso che brucia per la violenza delle baccanti (Bacc., v.
146). La sua pigna troneggia sul tirso, il bastone degli adepti, e il suo legno
è usato per le fiaccole che illuminano i riti notturni (OTTO, 1933, p. 165).
L’edera è simbolo importante perché neutralizza e controbilancia l’ardore
del dio che si esprime nel vino. Come la vite, è pianta rampicante; al contrario della vite, è un vegetale considerato freddo e umido, che per questo
ha il potere di contrastare il potere ubriacante del vino (OTTO, 1933, p.
163). Il vino, a propria volta, è considerato dai Greci una sostanza vicina al
fuoco per il calore che è in grado di sprigionare: è il liquido che per antonomasia certifica l’alleanza e la compenetrazione tra calore tattile e aroma
profumato. È nientemeno Platone a sottolineare che, per la tradizione greca, il vino è un elemento pirico. Dopo aver condannato gli odori, nel secondo libro delle Leggi Platone riscatta il fuoco (Leggi, II, 666 a-c). Poiché
il vino è fuoco rischia di bruciare i più giovani, mentre può sciogliere forgiando di nuovo i più maturi e anziani. Non si dimentichi, infatti, che Dioniso è dio della doppia nascita: nasce una volta dal corpo della madre,
un’altra da quello di Zeus che per proteggerlo lo cuce dentro il suo femore
affinché completi il suo sviluppo. Nato due volte, Dioniso è divino per
l’eccezionalità dell’evento. Allo stesso tempo, nato due volte, Dioniso
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sembra ancor più vicino agli umani e alla loro possibilità di, per usare l’espressione di HANNAH ARENDT (1958), «una seconda nascita», poiché mette costantemente in gioco il significato della propria vita.
Il vino è il perno di questa labilità potenziale della vita umana. Non a
caso, per Platone, è pharmakon: termine greco che indica sia un veleno che
una medicina. Mentre secondo alcuni il vino è frutto di una vendetta degli
dei contro gli umani, «noi invece lo riconosciamo, secondo il nostro discorso», sottolinea Platone (Leggi, II, 672 c-d), «un farmaco concessoci al
fine opposto, perché l'anima acquisti pudore e il corpo sanità e forza».
È significativo che quando si pensa alla vita sensoriale di Dioniso si evochi
facilmente il suo volto uditivo-musicale (sottolineato da Nietzsche) o quello
visivo (la tradizione alle spalle dell’estetica più canonica) ma non al volto pirico-aromatico del vino, come se questo avesse solo una ricaduta comportamentale (la mania, l’estatico: MAZZEO, 2010b) e non percettiva. Forse a sorpresa, Platone riabilita il fuoco che c’è nel vino considerandone la potenzialità farmacologica, mentre Aristotele cercherà di normalizzarne la portata
percettiva ed etica inchiodandolo, in un passo decisivo del libro Gamma, a
una versione particolarmente dura del principio di non contraddizione7.
Il vino, dunque, è il perno sul quale ruota la figura di Dioniso. È al centro di una costellazione rappresentativa tutt’altro che silente, che riguarda
non solo il vegetale (la vite, l’edera, il pino) ma anche l’animale. La pantera, la forma di vita che secondo la tradizione greca incanta tutte le altre
con il proprio profumo, può essere sconfitta solo attraverso questa sostanza. Solo il vino può ingannarla e renderla inoffensiva (DETIENNE, 1977,
p. 68): ecco il punto debole8 dell’animale che si accompagna a Dioniso «in
un numero infinito d’opere d’arte» (OTTO, 1933, p. 117). Il vino è un
punto di snodo poiché costituisce la cerniera in grado di mettere in congiunzione e contemporaneamente distinguere il registro più superficiale
del mito dionisiaco, quello visivo, con quello più profondo, pirico-aromatico. Per averne un esempio, è sufficiente tornare alle Baccanti. Nel terzo
stasimo della tragedia, Penteo decide di travestirsi per spiare meglio quel
che stanno facendo le donne in preda al furore. Egli, in realtà, è già sotto
l’influsso irresistibile di Dioniso che lo sta portando verso la morte. Uscendo di casa acconciato come una donna fedele al dio, Penteo afferma «di
Per una trattazione di questo punto rimando a MAZZEO, 2009, pp. 35-38.
L’altra esca in grado di mettere in scacco l’animale consiste secondo il mito in un veleno (il Pardàleion) in grado di soffocarla. La risposta della pantera alla trappola è ancora
una volta giocata sul piano olfattivo: l’antidoto al veleno consiste in escrementi umani (DETIENNE, 1977, pp. 90-91).
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vedere due soli e una doppia Tebe» e poco dopo di vedere Dioniso come
un toro (Bacc., vv. 918-922). Cosa sta succedendo? È vero, Penteo non ha
bevuto vino (DI BENEDETTO, 2004, p. 435) ma ciò non significa però che
non possa comportarsi come un ubriaco (VIDAL-NAQUET, 1986, p. 236).
Penteo, infatti, è ormai posseduto dal dio. Proprio per questo, pur non essendo un iniziato, comincia a vedere Dioniso in una delle sue metamorfosi
animali più conosciute. Il vedere doppio indica il passaggio dal visivo al non
visivo, la zona di confine e di scivolamento dal mancato riconoscimento del
potere di Dioniso e il suo prepotente intervento. Per questo, non solo per
una concessione alla tradizione (cf. invece DI BENEDETTO, 2004, pp. 1516), nelle Baccanti troviamo una valutazione positiva del vino: sulla scia di
Platone è definito pharmakon (Bacc., v. 283) che «affranca dalla tristezza e
concede il sonno, oblio dei mali» (ivi, vv. 280-282) e «il piacere che allontana la tristezza»9 (ivi, v. 423) tanto che Dioniso «è colui che fa crescere
la vite dai ricchi grappoli per il bene degli uomini» (ivi, v. 651). Per questa
ragione le baccanti non solo ne bevono coppe dopo coppe, ma fanno uscire
dalle rocce, oltre al miele e al nettare proprio il vino (ivi, v. 143).
Il vino è il tramite che dagli occhi porta agli odori, agli aromi e ai sapori. Non dimentichiamo che la tragedia ha inizio proprio a causa di un’omissione di ordine rituale-olfattivo: Penteo «esclude dalle libagioni» Dioniso (ivi, v. 46) e per questo ne suscita l’ira. Un simile elemento, spesso
trascurato, potrebbe sembrare secondario. Al contrario, la fumigazione rituale è particolarmente importante per una divinità come quella dionisiaca
legata, se non proprio al vegetarianesimo (tradizione che sostituisce l’offerta di selvaggina con libagioni profumate), al consumo di carne cruda10.
3. La struttura di Dioniso e la grammatica degli aromi
Questa posizione mediana, tra vegetarianesimo e sacrificio animale, ha un
risultato tutt’altro che compromissorio: mangiare carne cruda, elargire vino
Di Benedetto traduce il termine greco alupon con allontana il “dolore”. Può valer la
pena di tradurre con mancanza di “tristezza” per rendere evidente la connessione con la
melanconia. Tema che nei Problemi aristotelici è strettamente connesso col vino e che nella
tradizione successiva è legato proprio alla lupe (si pensi a Paolo di Tarso nella Seconda lettera
ai Corinzi: MAZZEO, 2010b).
10 Il coro non manca di ricordare che le baccanti nel pieno del furore, oltre a far sgorgare latte, miele e vino dalla roccia trovano «dolce […] il piacere di mangiare carne cruda»
(ivi, vv. 135-139).
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ma anche cacciare a mani nude (questo il modo nel quale esercitare l’arte venatoria in onore di Dioniso: ivi, vv. 1205-1210) significa mettere in scena
una forza nel contempo animale e soprannaturale che mette in gioco i confini
tra ciò che è umano e ciò che non lo è più. Tutto questo avviene, come dicevamo, attraverso innanzitutto una miscela aromatica, il vino. Ma c’è di più.
La centralità della dimensione olfattiva per la figura di Dioniso è testimoniata
non solo da corrispondenze simboliche (il vino e il miele, il fuoco e la libagione, ecc.), ma anche da un’analogia di tipo strutturale. In più di una circostanza è stata sottolineata una caratteristica specifica di questa figura. Mentre
è normale per le divinità greche che queste appaiano e intervengano nelle
cose degli uomini mediante apparizioni, Dioniso si distingue per le modalità
della propria assenza (cf. ad es. OTTO, 1933, p. 85; DETIENNE, 1986, p. 16).
Dioniso più che delle apparizioni, è dio delle sparizioni. È una forza irresistibile ma intermittente: per questo è una figura che sembra perennemente
in viaggio, priva di una patria riconosciuta. Questo è uno dei sensi più profondi del suo essere un dio «straniero» (xenos): l’aggettivo non indica, come è
stato documentato11, l’origine non greca di Dioniso. È dio straniero perché
non sta mai a casa propria, pronto com’è a dissolversi e sparire. Questa
evanescenza fa il paio con il suo carattere epidemico (ivi, pp. 10-11): il termine corrispondente greco ha un significato non solo medico come in italiano ma innanzitutto religioso. Il termine «epidemia» indica il sacrificio al dio
quando viene in visita (tanto che i libri ippocratici delle Epidemie si chiamano
così perché costituiscono gli appunti delle visite compiute dal fondatore della
medicina occidentale).
Evanescenza ed epidemia sono i tratti strutturali di Dioniso ma anche
dell’esperienza olfattiva e aromatica: la forza pregnante di una sostanza
percettiva in grado di diffondersi e venire in visita e che, altrettanto improvvisamente, scompare. Il dio del vino manca della struttura spazio-temporale che la tradizione concede agli altri dei. L’olfatto è, in modo analogo, privo di quelle strutture minime di orientamento gestaltico che riconosciamo ai sensi considerati superiori (la vista, l’udito) che organizzano in
modo automatico le forme (mentre forse ne esistono di tipo temporale, in
grado di organizzarne le successioni: HOLLEY, 2002). Se Dioniso è il dio
straniero, è dato umano universale che l’odore costituisca una modalità
privilegiata per discriminare o identificare l’estraneo: dal razzismo bianco
11 VIDAL-NAQUET (1986, p. 226) ricorda che il nome di Dioniso appare in un testo
scritto in Lineare B, arcaico sistema di scrittura dell’area micenea. OTTO (1933, p. 61)
rintraccia riferimenti al dio nei testi omerici datandone l’ingresso nel mondo greco in un
periodo risalente al II millennio a.C. circa.
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coloniale alle credenze delle comunità tradizionali (LE BRETON, 2006, pp.
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1991). Per questo è molto spesso legato all’idea del contagio e dell’epidemia magico-medica: non solo nelle società non occidentali ma nel cuore
dell’Europa almeno fino al XIX secolo (CORBIN, 1986). Dioniso è il dio del
due in uno, nato due volte, uomo e donna, animale e umano che incarna la
frontiera labile che separa queste zone dell’essere. In modo analogo, l’olfatto è il senso del limite in grado di rappresentare la sovrapposizione tra
biologia e cultura, percezione ed emozione, umano e non umano. Come
un aroma Dioniso riempie e inebria; come un odore il dio appare e scompare grazie a una meravigliosa intermittenza. Eccoci di nuovo, secondo una
diversa chiave, a uno dei problemi cardine delle Baccanti, quello del riconoscimento. Le peculiarità percettive degli aromi sono le stesse di quelle
dionisiache: il carattere ondivago della loro presenza porta a dubbi, errori,
sorprese. In entrambi i casi ciò non vuol dire che si tratti di entità inafferrabili, più distanti o meno linguistiche delle altre ma di forme culturali il
cui ruolo è rappresentare il confine tra noi e gli altri.
4. I segreti non sono misteri: Kerényi sottosopra
Proviamo a tirare le fila del discorso. Sebbene una tradizione accreditata,
oggi dominante, sottolinei lo strapotere della percezione visiva sin dagli albori della cultura occidentale, è possibile rintracciare un filo odoroso, nascosto ma intenso, in grado di modificare il quadro. L’idea che la bellezza greca
sia principalmente visiva (cf. ad es. CARCHIA, 1999) trova la sua falsificazione
in figure mitico-religiose (Adone e Mirra, Afrodite e Dioniso) centrali nell’universo simbolico-rituale della Grecia antica. Allo stesso tempo, basta
un’indagine anche superficiale delle modalità di rappresentazione di questa
modalità di senso per far emergere una corrispondenza tra il culto misterico
di una delle divinità più importanti del mondo greco (Dioniso) e l’importanza di un senso ancora oggi considerato misterioso (l’olfatto). Una coincidenza? Probabilmente no. L’analogia tra grammatica degli aromi e logica di
Dioniso si incardina su un principale asse comune: il mistero. Il dato è interessante perché mette in discussione un primo mitologema, la presunta assenza dell’olfatto nella scena culturale occidentale. Si tratta, però, di un dato
ancora equivoco. È ancora legittimo pensare che, in fondo, il modo tradi-
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zionale di affrontare la percezione olfattiva e i culti dionisiaci sia corretto:
“vedi”, si potrebbe dire, “sono legate tra loro due entità, una sensoriale, l’altra mitologica accomunate dalla loro distanza dal linguaggio”.
Eccoci al cuore del problema. In un bellissimo libro che ricostruisce le
vicende storiche e mitologiche del culto di Dioniso, KARL KERÉNYI (1976,
p. 214, nota 102) si lascia andare a un’affermazione apparentemente marginale, relegata in nota:
Tutto ciò che veniva tenuto segreto nel culto greco era sicuramente noto a
tutti coloro che erano nelle vicinanze del luogo di culto preso in considerazione, ma era qualcosa che non poteva essere pronunciato. Possedeva
infatti questo carattere – il carattere dell’àrrheton – indipendentemente
dalla volontà di chi partecipava al culto. Perché nel senso più profondo
[…] era appunto ineffabile: un autentico segreto. Solo successivamente divieti espliciti fecero dell’àrrheton un apòrrheton.
Il dizionario della lingua greca (ROCCI, 1943, p. 231) ci informa che àrrethon indica «il non detto, il segreto, che non si deve divulgare, indicibile,
immenso, turpe», mentre l’apòrrethon «l’interdetto, vietato, proibito, ciò
di cui non si può parlare, segreto; da non dirsi, abominevole, orribile».
KERÉNYI (1976, p. 232) individua nel primo l’ineffabile e nel secondo «ciò
che andava tenuto nascosto». Dando per buona questa identificazione (il
Rocci sembra mostrare una fluidità semantica forse maggiore), è discutibile
la gerarchia genetica stabilita tra i due termini. La posizione di Kerényi esprime con chiarezza e sintesi il canone misterico: c’è un ineffabile che poi,
storicamente, si consolida attraverso un divieto di espressione. Un mistero
che poi viene tenuto segreto. La cosa però, a guardarla bene, non ha molto
senso: perché vietare di dire qualcosa, se questa è indicibile? Se fosse indicibile, non sarebbe possibile dirla, dunque sarebbe superfluo vietarlo (è
come se qualcuno affiggesse il cartello “divieto di balneazione” al centro del
deserto del Sahara). Le pratiche cultuali misteriche hanno maggiore senso
se non ci lasciamo impressionare dalla presunta indicibilità del rito e concentriamo la nostra attenzione su una nozione che è sotto i nostri occhi, il
segreto. Il culto è misterico perché segreto, perché non bisogna dirne. Col
tempo il divieto da implicito diviene esplicito, probabilmente perché si sono allentate le maglie di una comunità mistica prima molto più serrata e
ristretta12. Ma il segreto è tutto tranne un mistero: è qualcosa che si può
12 È lo stesso KERÉNYI (1976, p. 225) che sembra suggerirlo quando sottolinea che fino
al VI secolo a.C. i culti dionisiaci rimasero pratiche fisse legate alla tradizione orale e solo
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dire e che si preferisce non dire, non certo qualcosa che non mi è possibile
dire in parole. Mia madre non sa che alle scuole elementari le rubavo degli
spiccioli per giocare ai videogiochi: ciò non vuol dire che ciò sia un mistero, cioè che sia qualcosa che le mie parole non possono comunicare ad altri. Ciò vuol dire che non esistono aree d’esperienza sfocate che è difficile
mettere in parole? Certo che no. È difficile per noi oggi comprendere a
fondo il significato dei culti misterici greci, così come organizzare linguisticamente le nostre esperienze olfattive13. Ciò avviene, però, a causa di un
percorso genetico opposto a quello suggerito da Kerényi e più in genere
dal paradigma misterico: non c’è prima il mistero e poi il segreto, è il segreto reiterato a fondare il mistero. Lo spiega bene un racconto del romanziere
statunitense Stephen King, divenuto nel 2004 un film di successo dal titolo
Secret Window. Il protagonista uccide la moglie e il suo amante. Può farla
franca solo in un modo: trasformando il suo segreto in un mistero. Dopo
aver sepolto i corpi riesce ad aspettare che il tempo porti con sé l’oblio di
quel che è avvenuto: «sono sicuro che, con il tempo, la sua morte sarà un
mistero anche per me» conclude il protagonista (KING, 1990, p. 265). Il silenzio reiterato porta all’oblio delle ragioni del silenzio non solo «per chi è
da quelle parti» (si pensi all’idea di Kerényi) ma innanzitutto per coloro che lo
mantengono: l’assenza di verbalizzazione provoca nel tempo una perdita di
messa a fuoco il cui effetto è un’area opaca e grigia che si può improvvisamente interpretare come originaria e intangibile.
Il mistero è l’area del silenzio imposto e di cui si è persa la ragione dell’imposizione, non la zona dell’impossibilità di parola. Proprio perché la
parola è possibile che lì la si vieta. È vero, dunque: il legame tra culti misterici dionisiaci e olfatto esprime la prima via occidentale al silenzio olfattivo. Non però quello dell’impossibilità della parola odorosa che confina
questa modalità di senso in un’area dell’esperienza ineffabile e privata,
quanto nella dimensione del tutto sociale del segreto condiviso. Il passaggio
da segreto a privato è la svolta ideologica che occorre smascherare per costruire una storia naturale degli odori e, più in generale, una teoria antropogenetica del linguaggio verbale.
con Onomacrito furono redatte in forma scritta a causa di innovazioni culturali che rischiavano di farne smarrire il senso unitario.
13 Uno studio impressionante mostra che per un soggetto occidentale è quasi impossibile riconoscere tutti i campioni aromatici compresi in un paniere olfattivo molto semplice (che prevedeva ad esempio l’odore del caffè): ZUCCO, 2000, p. 65.
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