Il Parco Virgiliano

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Il Parco Virgiliano
Editoriale
L’ONDA MARINA E IL VENTO SONORO
EFFONDONO IL CANTO DELLE SIRENE
CHE POCHI OSANO ASCOLTARE
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accontare alcune storie sulle terre del golfo di Napoli, attraversando il sottile interstizio che si snoda tra mito e realtà, è
la proposta del numero 1 di “Itineraries”. In tale interstizio
si può facilmente indugiare sull’impressione che un luogo suscita, e
con l’immaginazione, coglierne la natura, sintetizzata nel tempo in
simboli, miti e tradizioni, che ne costituiscono l’eredità genetica.
Tra i miti campani, il più consolidato è quello delle Sirene che
abitarono il “Sireion”, la costa tra il golfo napoletano e quello di
Salerno, dal momento che gli Opici-Sireni, ubbidienti alla voce di un
oracolo, avevano accolto la “dea degli uccelli” Partenope, la
maggiore delle tre sorelle.
La solare e sensuale bellezza della costa tirrenica e del mare
campano accolsero, ripartorendolo, il mito delle vergini figlie della
terra: Partenope, Leucosia e Ligea, creature che si fermarono a lungo
sul promontorio Ateneo, oggi Punta della Campanella, ove in loro
onore sorse un bianco tempio. Una antica tradizione pose, non a
caso, le Sirene nelle acque di Partenope, piccolo mondo scintillante
di trame intrecciate di diverse civiltà. Basti pensare agli antichi naviganti che, scampati alle insidie di Scilla e Cariddi, solcavano le onde
argentine e placide del golfo, portando con loro conoscenze, tecniche, manufatti, culti e tradizioni, guidati dall’isola madre, Pithecusa
(Ischia), antico porto della navigazione mediterranea.
E sempre nella terra delle Sirene “Baia, Pesto, Puteoli, Partenope,
Ercolano, Pompei, Stabia accoglievano, nell’incanto di un mare
dalle sponde fiorite, il lusso dell’opulenza latina”, come scrive il filosofo ermetico napoletano Giuliano Kremmerz, nella leggenda “Il
Ritorno”, quando parla dell’approdo della scienza e dei riti egizi
sulle coste campane.
Ma l’incanto delle Sirene poteva anche equivalere al “non
ritorno” dei naviganti; causa il fascino di una conoscenza promessa
dal loro canto d’usignolo, poiché veleggiando sul mare calmo,
nell’ampio arco del golfo, gli uomini di mare percepivano note non
ordinarie che, schiudendo la mente, inauguravano la navigazione
sull’oceano sconfinato dell’ignoto, palesando un mistero che squarciava il velo della razionalità presuntuosa.
Cosa cantano le Sirene? Chiedeva ai grammatici l’imperatore
Tiberio a Capri. Non era una domanda oziosa. A questa, il pragmatico Cicerone, aveva risposto essere le Sirene simboli di popoli colti i
quali, per la perfezione delle loro arti e scienze, arricchivano di conoscenze le genti straniere. O, perché, come dice il Kremmerz, è possibile, nel ritmo armonico del loro canto, trovare la soluzione del
malinconico problema dell’esistenza.
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Ecco perché desideriamo mostrare in questo numero 1 come l’antico sapere si coniughi alla seducente bellezza delle terre del golfo
napoletano e all’operosità delle genti. Parleremo quindi di parchi e
giardini: il Virgiliano di Napoli a Capo Posillipo, ove si dimentica di
essere in città; i giardini della Reggia di Caserta, invece, rivelano come
la Natura dei luoghi abbia ispirato l’ingegno dell’uomo, e come l’arte
possa essere espressione e veicolo del bello. La Villa dei Misteri di
Pompei è un’occasione per raccontare di uno dei culti più amati dal
mondo antico, un culto molto vicino alla Natura che, non a caso,
attecchì in modo particolare in Campania. E passeremo al termalismo di Ischia, alle sue acque salutari e ai suoi miti antichi sulle Ninfe;
acque già conosciute da romani e greci e divenute celebri grazie
anche a Madame Curie che ne studiò le caratteristiche. Il Museo di
Pithecusae di Lacco Ameno non poteva essere ignorato poiché custodisce la storia millenaria dell’isola verde. Ritorneremo a Capri e alla
sua piccola ma celebre gemma: la piazzetta, e ai giardini di Augusto,
luogo fresco e colorato che si affaccia su uno dei panorami più amati
del mondo. E poi il Sireion dei Campani, la costiera sorrentina, ove
navigare si traduce nel continuo stupore ammirato di anfratti suggestivi, torri saracene, piccoli paesini sdraiati incredibilmente sulle rocce
e un mare che si gloria di lambire le sue terre. Qui si percepisce come
la Natura, nella irregolarità delle coste, esprima al massimo la sua
creatività. Infine il Museobottega della Tarsialignea di Sorrento
mostrerà con orgoglio come le antiche arti artigianali, per fortuna,
non siano del tutto scomparse.
Patrizia Calenda
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Il Parco
Virgiliano
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di Paolo Luise
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I
l parco Virgiliano si estende, con un sistema di terrazze, sulla
sommità di Capo Posillipo, estrema punta del Golfo di Napoli; i
panorami che dai suoi vari belvedere si ammirano sono letteralmente mozzafiato: il golfo di Napoli e quello di Pozzuoli, il Vesuvio,
Sorrento, Capri, Nisida, Bagnoli, Capo Miseno, Procida e Ischia sono
completamente a disposizione dello sguardo del visitatore.
Dopo anni di incuria e degrado il parco è stato sottoposto, tra il
1999 e il 2002 e con una spesa di 5 milioni di euro, a un profondo
restyling che ne ha esaltato le qualità di belvedere, lo ha dotato di
splendide piante e aiuole fiorite e ha rinnovato le pavimentazioni, gli
arredi, le infrastrutture, l’impianto di illuminazione, la cavea
all’aperto, il campo sportivo al centro dell’anello principale. È stato
inoltre ricostituito il patrimonio floristico con specie tipiche del
contesto: lecci, olivi, roveri e un denso sottobosco di piante di
macchia: mirto, rosmarino, fillirea. Oggi l’area è aperta al pubblico
14 ore al giorno, con un attento servizio di sorveglianza e una esperta
opera di manutenzione per la salvaguardia del verde e la pulizia
degli ambienti.
È interessante risalire all’origine del nome di Posillipo, la cui
stretta dorsale si dirige verso sud a chiudere il golfo di Napoli. Il suo
versante occidentale precipita, con un erto pendio, sulla pianura di
Bagnoli e Fuorigrotta, mentre quello orientale degrada più dolcemente verso Mergellina. Da nord a sud la sommità dell’altura si tuffa
in mare all’altezza di Capo Coroglio, proprio ove oggi si trova il parco
Virgiliano. In questa località, alla punta di Posillipo, sorgeva la
famosa villa di Vedius Pollio, che ha dato il nome alla collina. Il filosofo romano Seneca ricorda infatti che Posillipo era una villa della
Campania, nei pressi di Napoli e che in essa Vedio Pollione aveva
vivai di pesce. Alla sua morte Pollione lasciò la villa in eredità all’imperatore Augusto, che la fece amministrare da un suo procuratore.
Ma la tenuta di Pollione si estendeva anche nell’area del Parco
Virgiliano. Infatti qui si possono notare colonne e trabeazioni in
marmo proprio all’ingresso del campo sportivo. Nell’inverno 184142 Monsignor Camillo di Pietro promosse una campagna di scavi
sotto la direzione dell’architetto Pietro Bersani, e fu portato in luce
un teatro di 17 ordini di posti separati da due “praecintiones”; la
cavea poggiava sul pendio, orientata verso sud, e la costruzione era
in “opus reticulatum” rivestito in marmo. Di fronte al teatro, con
apertura rivolta alla sua cavea, c’era l’odeon, quasi completamente
conservato: dodici ordini di posti, stessa tecnica costruttiva del teatro.
Ad occidente, poco lontano dal teatro, una costruzione quadrangolare circondata su tre lati da un portico, mentre il quarto lato era di
forma semicircolare con file di sedili che, come in un teatro, erano
in salita. Inoltre ad oriente di questo complesso di costruzioni vi era
un edificio piccolo di forma quadrata e di ignota destinazione.
Ancora più sotto una piscina dalla copertura a volta senza pilastri, ed
i resti di uno stadio.
Pollione, per collegare la villa Pausilypon a Coroglio, aveva fatto
scavare una galleria nella collina, oggi chiamata “Grotta di Seiano”.
Questa fu portata alla luce nel 1840, e resa nuovamente transitabile.
Era più lunga della cripta neapolitana, e dotata di parecchi pozzi di
aerazione. Peccato che oggi sia nuovamente chiusa!
Ma perché il parco a capo Posillipo ricorda il nome di Virgilio? Il
grande poeta e mago cui il primo imperatore di Roma, Ottaviano
Augusto, era tanto affezionato? Si parla di una sua villa a Posillipo e
del suo sepolcro nello stesso luogo. Procediamo con ordine: prima la
villa e poi il sepolcro. Il primo proprietario della villa Pausilypon fu
dunque il ricco cavaliere beneventano Publio Vedio Pollione. Egli
potrebbe essere entrato in possesso del suolo in seguito alle confische
successive alla vittoria di Ottaviano Augusto. Aveva infatti combattuto
durante la guerra civile dalla parte del futuro imperatore e per lui
aveva eseguito il compito, nella provincia d’Asia, dopo la battaglia di
Azio (31 a.C.), di riorganizzare il sistema di tassazione. Rendendosi
così utile ad Ottaviano ne aveva ricevuto la stima e l’amicizia, e
aveva potuto mettere insieme buona parte delle sue ricchezze,
compresi anche i suoi possedimenti nel beneventano. Gli storici antichi lo hanno definito un uomo vizioso e crudele, ricordando tra l’al-
tro la sua passione per le murene che allevava in splendide peschiere.
Fu Pollione a chiamare la residenza Pausilypon, parola greca che
significa “pausa dal dolore”, proprio per esprimere la quiete e la pace
di quel luogo, e in seguito il nome si sarebbe esteso a tutta la collina.
Alla sua morte nel 15 a.C. Vedio, come già detto, lasciò in eredità ad
Ottaviano Augusto la villa napoletana che, da quel momento, rientrò
nei possedimenti imperiali.
Il primo soggiorno di Virgilio a Napoli, si sa che risiedeva a
Posillipo, fu dal 39 al 19 a.C. Quindi è da escludere che Augusto gli
avesse regalato la villa di Pollione. Ciò nonostante vi è una circostanza che lascia perplessi: sotto la villa Pausilypon vi è una minuscola isoletta chiamata “scoglio di Virgilio” tra gli isolotti della
Gaiola e la zona termale della villa. Nei pressi di tale scoglio, sulla
terraferma, si notano le rovine di una sala quadrata con abside e
nicchie, forse un ninfeo sul mare, e sulla scorta di una antichissima
tradizione erudita, esse sono ancora chiamate col nome di “Scuola
di Virgilio”. Che significato ha questa notizia?
Si sa che Virgilio era stato spesso ospite di Pollione, al quale
aveva dedicato la IV egloga. Ma si può anche supporre che la sua
villa fosse confinante con quella dell’amico. Inoltre alcuni studiosi
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suppongono che Ottaviano avesse fatto costruire, per celebrare il
poeta, la sua tomba nella tenuta di Pollione, dato che è risaputo che
Virgilio aveva più volte espresso il desiderio di essere seppellito a
Posillipo.
A questo proposito, un anziano giardiniere del Parco Virgiliano
mi ha detto di recente che un tempo si vociferava che la tomba di
Virgilio si trovasse proprio al centro del campo sportivo del parco.
Così gli aveva detto suo padre, così suo nonno! Non so se credere a
simili tradizioni popolari… è meglio concludere… non sappiamo.
Fatto sta che proprio all’ingresso del campo sportivo vi sono numerose colonne romane e frammenti di trabeazione finemente cesellati
in marmo. Chi li pose in ordine all’ingresso? E da dove provengono?
Bisognerebbe interrogare chi durante l’epoca fascista costruì il parco
Virgiliano.
Parlando ancora della tomba di Virgilio, si deve ricordare che alle
spalle della chiesa di Santa Maria di Piedigrotta a Mergellina e
quindi alla radice della collina di Posillipo, si dice vi sia la tomba di
Virgilio. Intorno al 1930 per volontà dello studioso E. Cocchia fu
acquisita dallo Stato questa zona che a lungo era stata di proprietà
privata. Qui su una edicola vi è il celebre distico funerario attribuito
al poeta: “Mantova mi generò, la Calabria mi rapì, ora mi tiene
Parthenope (Napoli); cantai i pascoli, i campi, i condottieri”.
Che pensare? Una tomba romana in questo sito c’è. Ma chi ci dice
che fosse proprio quella di Virgilio? A me sembra troppo distante
dall’abitazione che doveva trovarsi più in prossimità del promontorio di Posillipo. E perché posta all’ingresso della grotta romana che
conduceva a Fuorigrotta? L’edicola poi è del Seicento, quindi poco
attendibile, non è certo una iscrizione romana. La tradizione inoltre,
per lungo tempo, ha voluto anche che qui, assieme a Virgilio, fosse
sepolto il poeta Giacomo Leopardi. Ma in realtà questi, morto di
peste, fu gettato in una fossa comune! Molte volte la storia è fatta solo
di menzogne!
Il parco Virgiliano fu sistemato per la prima volta nel 1930 in
occasione del bimillenario della nascita del poeta. Nacque come
“Parco delle Rimembranze” negli anni del ventennio fascista per
commemorare i caduti della Grande Guerra. Affacciandosi direttamente sul golfo, offre la possibilità di fare una delle passeggiate più
panoramiche a Napoli. Dall’ardito belvedere nell’area sottostante
denominata “Valle dei Re” si ammira la porzione più spettacolare
del promontorio con l’isola di Nisida, Cala Trentaremi, Cala Badessa.
Inoltre, di notte, se si è fortunati, si può vedere l’affascinante spettacolo della “luna rossa”. In futuro il parco dovrebbe essere unito
all’adiacente parco archeologico di Pausylipon, programmato dalla
Soprintendenza, creando un’area di grande rilievo storico-paesaggistico. Da uno dei belvedere del parco Virgiliano, come già detto, si
vede dall’alto l’Isola di Nisida che si può considerare una continuazione della dorsale del parco stesso. Essa è in realtà un piccolo
vulcano di natura tufacea, la forma del cratere è molto ben conservata e il suo lato meridionale è stato consumato dall’erosione
marina, quindi il mare penetra nella bocca del vulcano: questa insenatura è chiamata porto Paone. Al tempo di Cesare il vulcano era
ancora attivo e dal cratere venivano fuori esalazioni mefitiche.
Lucano e Stazio lo descrivono come un luogo dai vapori maleodoranti e maligni. Oggi, invece, l’attività vulcanica sembra cessata.
Verso la fine della Repubblica l’isola era di proprietà di Marco
Bruto, l’uccisore di Cesare nella congiura della Curia di Roma, come
ricorda anche Cicerone. Qui Bruto e Cassio diedero l’avvio alla
congiura contro Cesare, e qui si dette la morte Porzia, la moglie di
Bruto, quando a Filippi la causa della libertà fu definitivamente
perduta.
Una vista al parco Virgiliano, così ricco di storia, con i suoi giardini fioriti, gli stupendi paesaggi, e ove inoltre è possibile andare a
correre per mantenersi in forma, non può mancare durante una
vacanza nel golfo di Napoli!
I giardini
della Reggia
di Caserta
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di Paolo Luise
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a Reggia di Caserta fu costruita dai sovrani di Napoli per
dotare il Regno di una Reggia che potesse competere per
sfarzo e per lusso con le altre residenze reali d’Europa. La
costruzione ebbe inizio nel 1752 per volontà del re Carlo di Borbone,
e il progetto, affidato a Luigi Vanvitelli, prevedeva due facciate
uguali: l’anteriore che affacciava su una enorme piazza d’armi, e la
posteriore sui giardini del palazzo.
Qui, però, non si vuole parlare della Reggia, ma dei suoi giardini,
e in particolare del giardino inglese della regina Maria Carolina. Un
articolo esaustivo sulla Reggia di Caserta impegnerebbe infatti l’intero libro.
Alla fine del Settecento la regina di Napoli Maria Carolina,
aveva deciso di costruire nella Reggia di Caserta un giardino
secondo la moda inglese, sogno nordico illuminato dal sole mediterraneo e dal clima campano, che si andava ad aggiungere ai già
imponenti giardini della Reggia, ricchi di fontane e meravigliose
statue, disseminate lungo i percorsi d’acqua. Il giardino all’inglese
è un giardino di “paesaggio” che, pur rispettando un certo ordine,
vuole esaltare la spontaneità della natura e, dunque, completamente diverso dal giardino all’italiana, dotato di forme geometriche, siepi tagliate, alberi piantati in ordine regolare lungo filari e
non in apparente disordine. Rispecchia una filosofia secondo la
quale è la Natura a dominare sull’uomo e non viceversa, della
quale si fece portavoce nel XVII secolo il grande filosofo inglese sir
Francis Bacon.
Collaborarono al progetto Carlo Vanvitelli e un giardiniere
inglese John Andrei Graefer, e il Vanvitelli si occupò di progettare i
manufatti architettonici. Tuttavia questo giardino non aveva solo la
funzione di luogo di piacere della regina, ma rispecchiava gli interessi scientifico-botanici dell’epoca, era dunque anche un orto botanico, luogo di sperimentazione e di acclimatazione delle più svariate
specie vegetali, che poi si sarebbero potute diffondere nei numerosi
siti reali e nei vivai pubblici del Regno di Napoli, come Capodimonte
e Portici. Per realizzarlo il Graefer compì numerose ricerche botaniche in varie località del regno, come Capri, il litorale salernitano,
quello sorrentino ed altre ancora.
L’ingresso del giardino si trova nei pressi della fontana di “Diana
ed Atteone” e della cascata che proviene dal monte di Briano. Il giardino è diviso lungo la sua lunghezza in due parti, una silvestre ed
una coltivata. Descriverlo tutto impegnerebbe numerose pagine, per
cui mi limiterò a illustrare solo alcune delle sue bellezze. Nel giardino furono costruite delle finte rovine di un tempio dorico, all’interno del quale vi era la coltivazione delle piante grasse, ed un criptoportico – una grotta semicircolare – al cui interno vi sono colonne,
pilastri e statue di marmo. La costruzione assomiglia a un porticato
circolare di un tempio antico. Davanti ad esso, protetto dall’ombra di
un tasso secolare, uno dei tassi più belli d’Europa, si trova un
laghetto, e qui, su uno scoglio, una deliziosa statua di Venere che fa
il bagno, nell’atteggiamento di uscire dalle acque. Questo luogo è
infatti detto “Bagno di Venere”.
Dal laghetto l’acqua fuoriesce e, attraverso un canale, arriva fino
ad un lago artificiale con due isolette. Su quella più grande vi sono
le finte rovine di un tempietto, mentre su quella più piccola vi è una
costruzione che doveva fungere da ricovero per i cigni.
Continuando a scendere lungo il giardino si incontra una vasta
area pianeggiante ricca di alberi di ogni specie, ora collocati più vicini
gli uni agli altri, ora in modo diradato che provengono da diversi
continenti e si sono acclimatati al clima casertano. Risalendo verso
l’uscita si incontrano l’orto botanico e l’orto agrario. Vi sono anche le
antiche serre, oggi in parte restaurate, che giungono sino all’abitazione del giardiniere. Altra cosa notevole è una grande serra dove è
ospitata una ricca collezione di camelie, per la prima volta coltivate in
Italia.
Elencare tutte le rarità botaniche non è cosa facile, tante ce ne
sono, ma per gli amanti della botanica, si segnala che vi sono piante
entrate all’epoca in Europa e ancora viventi, altre particolari per le
dimensioni e la forma acquisita, ed altre ancora autoctone, imponenti per lo sviluppo e l’età. Per nominarne qualcuna: palme esotiche e spontanee, agrifogli, felci, bossi, noci, conifere, alberi da frutta,
piante acquatiche. Le specie arboree sono 225, con esemplari provenienti dal Nuovo Mondo, dall’Australia, dalla Nuova Guinea,
dall’Asia e dal Giappone.
Nonostante il trascorrere del tempo i giardini della Reggia di
Caserta, attraverso le varie vicende storiche, sono ancora oggi ben
conservati. Una simile meraviglia non dovrebbe sfuggire al turista
attento! poiché rappresenta un’attrazione mondiale al pari degli
scavi di Pompei. Come non essere tentati di passeggiare nei freschi
giardini reali che, grazie alla loro importanza storica, sono una
attrattiva per gli studiosi di architettura e per i botanici più qualificati del mondo? poiché uniscono l’armonia della natura all’arte
dell’uomo? Come non curiosare nel giardino inglese della regina
Maria Carolina che, per accontentare l’amica Emma Hamilton,
moglie del ministro di sua Maestà britannica presso il Regno di
Napoli, impegnò persino somme di denaro prelevate dai suoi fondi
personali per realizzare un simile meraviglia?
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La Villa
dei Misteri
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di Patrizia Calenda
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oco distante dalla Porta Ercolanese, uno dei principali sbocchi dell’antica Pompei, la Villa dei Misteri di impianto
sannitico è, oggi, il più organico e tipico esempio del
graduale trasformarsi nel tempo delle ville pompeiane. Nei suoi tre
secoli di vita la villa suburbana fu ampliata sotto l’influenza delle
architetture ellenistiche, parzialmente decorata nel periodo preaugusteo e poi affrescata con decorazioni di II stile in piena età augustea. Dalla morte di Augusto sino al terremoto del 62 acquistò il
duplice carattere di dimora patrizia e villa rustica che abbandonò
per la sua ultima destinazione di fattoria, a seguito del processo di
industrializzazione agricola dell’età degli imperatori della casa
giulio-claudia che, a Pompei al tempo dell’eruzione del 79 d.C.,
poteva dirsi realizzato.
È rimasta traccia del suo ultimo proprietario in un suggello di
bronzo rinvenuto fra le macerie di una delle sue stanze: L. Istacidi
Zosimi. Si potrebbe trattare, l’ipotesi è di Amedeo Maiuri, di un
liberto affrancato della nobile famiglia pompeiana degli Istacidi, il
quale avrebbe acquistato la villa dopo che il terremoto del 62 d.C.
aveva invilito il prezzo degli immobili urbani e suburbani, abitandola sino alla terribile e distruttiva eruzione dell’agosto del 79 che,
nel volgere di poco più di due ore, seppellì la città. Ma nulla si conosce dei precedenti proprietari, committenti della suggestiva decorazione parietale alla quale la Villa deve il suo nome, se non l’ipotesi
che potesse trattarsi della gens Istacidia.
Chi vi entra e si affaccia su una sala aperta ad occidente del
portico incontra, affrescate, bellissime scene che caratterizzano uno
dei culti misterici più amati dal mondo pagano. L’intero ambiente
decorato e consacrato a Dioniso, il dio folle dell’ebbrezza, offre muto,
nel suo sorprendente aspetto artistico, la profonda esperienza
dell’iniziatura dionisiaca e introduce anche il più scettico dei visitatori nel mondo panico della Natura. Il grande oecus collegato, attraverso uno stretto passaggio, ad un cubicolo a doppia alcova, doveva
probabilmente costituire l’anticamera del talamo, anche considerando l’affinità di decorazione degli ambienti: nel cubicolo figure
isolate proprie alla cerchia dionisiaca accanto a donne in atteggiamenti sacerdotali; nella sala la rappresentazione dell’iniziatura ai
misteri del dio.
L’affresco murale in II stile, risalente al I secolo a.C., coincide con
la fase più sontuosa della villa e col grande favore di cui godevano
scuole filosofiche, corporazioni religiose e cultura ellenistica in
Campania, assai favorevole al culto dionisiaco, che pure era stato più
volte condannato dal Senato romano. Livio racconta che proprio una
matrona campana, Annia Paculla, si sia resa responsabile del primo
senatoconsulto “de Bacchanalibus” del 186 a.C. che ne proibì severamente, ma inefficacemente, la celebrazione e furono donne
campane a diffonderne per la prima volta i misteri a Roma. Ma,
tanto più veemente era l’opposizione al culto dionisiaco, colpevole di
sottrarre le donne invasate dal dio alla disciplina e al costume coniugale, sovvertendo ogni ordinamento sociale, quanto più incondizionatamente questo afferrava gli animi. Ecco perché i misteri dionisiaci si svolgevano privatamente, in case di persone facoltose e i
partecipanti erano sottoposti al giuramento del silenzio.
Molte testimonianze dell’origine e della sopravvivenza di questi
misteri provengono da città campane: a Cuma un’iscrizione del V
secolo a.C. allude ad un sepolcreto esclusivamente riservato ad associati
dionisiaci, a Puteoli due iscrizioni romane rivelano l’esistenza di un
thiasus Placidianus del quale facevano parte sacerdotes orgiophantae.
Ma il documento più espressivo del radicarsi del culto dionisiaco
in Campania è proprio l’affresco misterico della Villa. Testimone di
un culto che, seppure fiorito altrove, era tenacemente penetrato sino
ad assumere un sua propria fisionomia, l’affresco, pur muovendo da
idee e schemi ellenistici, se ne distacca. Grazie alla libera e vivace
reazione della genialità italica, non riproduce tipi e figure di repertorio, eco del mondo greco, ma elabora la pittura come un insieme
vivente, così che i personaggi non idealizzati, possiedono una
schietta impronta di umanità.
L’epifania ed il mito dionisiaco risvegliarono un’appassionata
adesione, sollecitando quella profonda esigenza dell’animo umano
di esprimersi in relazione all’idea sublime dell’infinito. In Dioniso
questa aspirazione sembrava potersi attuare: la creazione del dio
rispondeva al grandioso proposito umano di sperimentare un’indicibile e gioiosa totalità. Per di più la gioia che il dio annunciava era
accessibile a tutti, anche agli schiavi e a coloro cui erano interdetti i
culti gentilizi. La sua identità contraddittoria si assimilava a quella
umana, sicché l’uomo nel riflettersi in se stesso, scopriva la realtà
dionisiaca, divina e naturale nel contempo; l’occuparsi di Dioniso si
traduceva quindi in un catartico riappropriarsi della propria natura,
integra e immediata, sana e traboccante di se stessa in tutte le sue
estreme manifestazioni.
Le ventinove figure della megalografia, grandi poco meno del
naturale, sembrano spostarsi liberamente e con grazia particolare
lungo l’affresco parietale su uno sfondo rosso cinabro, legate a un
garbato e ben combinato moto. Seppure obbedienti ad una precisa
convenzione, esse suscitano una piacevole impressione di naturalezza. Nel loro distribuirsi, rigoroso ma dinamico, entro i riquadri
della decorazione, compongono una serie di scene o momenti rituali
di un percorso intimistico dove la gestualità è l’elemento rivelatore
del dramma sacro che si articola attraverso di esse. La presenza sulla
parete centrale di Dioniso che, lasciato il tirso ed ebbro d’amore, si
abbandona fra le braccia di Arianna, imponentemente seduta in
trono, offre la chiave d’interpretazione del sacro divenire e ne raffigura la finalità. La loro posizione palesa la dimensione spaziotemporale di un eterno presente originario, sotteso allo scorrere del
tempo storico, in cui deve svolgersi necessariamente la rappresentazione misterica. Ma c’è di più. Arianna emerge come fulcro della vita
del dio, oltre che origine e meta delle aspettative dei nobili interpreti.
Infatti la maggior parte degli studiosi vede in Dioniso l’erede e il
testimone del culto ad antiche deità femminili, le quali con il modificarsi sociale dei tempi, ad esempio con l’istituzione della polis,
ebbero a condividere la loro remota e piena autonomia con divinità
maschili. Dioniso richiama un’origine primordiale, il pantheon preolimpico, rappresentativo di una Natura integra e sovrana, non
ancora inquinata dagli artifici tipici del potere costituito.
Così lo sguardo del visitatore scorre ammirato attraverso gli
inquietanti e solenni riquadri, fino a convergere al centro dove la
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coppia divina si manifesta nell’unico fotogramma privo di attesa,
completo ed esauriente, pago di se stesso.
Solo un’altra figura possiede la stessa prerogativa. Sulla sinistra è
ritratta la Domina, la Signora della villa, con lo sguardo assorto e
serenamente rivolto ad una giovane donna, sulla parete meridionale,
che si rimira in uno specchio, sollevato da un amorino. La Signora
della casa che, secondo Maiuri, è una matrona campana, sacerdotessa del culto bacchico, e committente dell’affresco, viene da Kerènyi
associata per la sua posizione alla Regina di Atene durante la celebrazione del culto dionisiaco statale. Per entrambi gli studiosi ella ha
comunque un ruolo preminente in relazione alla sala misterica.
D’altra parte non sono rare nella prosopografia pompeiana immagini
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di sacerdotesse, per citarne alcune: Eumachia, Mamia, Holconia,
Istacidia, il cui esercizio era prerogativa del patriziato più rilevante e
si tramandava di madre in figlia, come privilegio di nobiltà.
È sufficiente un rapido sguardo all’intera megalografia per
scoprire che le donne sono le uniche celebranti, come nel mito
furono le inseparabili compagne del femmineo dio, modelli archetipali delle comunità femminili che ne officiavano il culto misterico,
a parte un giovanetto e alcune figure mitiche, sileni e satiri, da
sempre parte della cerchia dionisiaca. L’erotismo estatico e l’aspetto
frenetico della possessione dionisiaca erano connaturati a una
dimensione supersensibile della vita percepita dalla natura femminile. Per W.F. Otto, tale dimensione, “che, nel suo traboccare diventava follia, era congiunta nel godimento più profondo alla morte”.
L’iniziato, scosso fin nelle sue radici era così, attraverso i misteri
dionisiaci, rigenerato in un processo di morte e rinascita. Questa la
natura del dio, tragicamente contraddittoria, sfrenatamente vitale,
coercitiva ed irruente, e la follia che ispirava, culmine dell’eccitazione orgiastica, consentiva di trascendere la coscienza quotidiana,
circoscritta all’ordinario; si presentava quindi come stato intermedio,
interstizio sospeso fra la vita e la morte in cui l’orgiasta accedeva ad
una visione e ad una conoscenza preclusa ai non iniziati. Ecco
perché l’irresistibile frenesia d’amore di Dioniso era anche distacco
supremo; il suo amore estatico, estraneo ad ogni sfrenata lussuria, e
alla virilità olimpica, era inoltre quasi muliebre nel suo aspetto più
nobile di cura e nutrizione. Nel mito, infatti, egli celebrava le sue più
grandi vittorie fra le braccia delle donne, esuberanti di pienezza
vitale grazie alla loro capacità di generare, nutrire e trasformare. La
prima scena dell’affresco pompeiano, sul lato settentrionale, mostra
un gruppo di figure femminili che si raccoglie attorno ad un
fanciullo nudo che cinge unicamente alti calzari di cuoio, gli embàdes, i tipici calzari dionisiaci. Egli legge le istruzioni del rituale dionisiaco, mentre una giovane donna reca una lanx di bronzo dorato su
cui sono disposte delle focacce e un ramoscello di lauro. Questo
culto, oggi fatto risalire alla cultura minoica, in origine di matrice
naturistica, fu assorbito tra il IV ed il V secolo a.C. dall’Orfismo: il
mito della morte e resurrezione del dio fu rivisitato in chiave salvifica
e spiritualizzante. È certo che la parte segreta dell’iniziazione orficadionisiaca fosse preclusa ai profani, pertanto anche gli affreschi della
villa pompeiana, sfiorandone soltanto i momenti cruciali, ne adombrano il mistero. Così il giovanetto, espressione di una natura ancora
indeterminata, sotto la vigile guida delle sacerdotesse dionisiache,
dovrà sperimentare il dio in se stesso, attraverso un percorso illustrato
da scene mitiche proprie della vita di Dioniso.
Nei riquadri successivi prosegue il cerimoniale ritualistico: una
sacerdotessa che volge le spalle come per meglio occultare i gesti e gli
atti allo sguardo profano, assistita da due ancelle, dal lato sinistro
solleva il velo che ricopre una mistica cista, contenente gli oggetti
sacri del rito, mentre con l’altra mano bagna nell’acqua lustrale,
versata da una giovane canefora, un ramoscello d’edera, pianta
sacra a Dioniso, sopra un’altra cista. Questo primo svelamento introduce alla misterica atmosfera dei pannelli successivi.
Dal sacrale mondo femminile si passa, senza interruzioni, al
mondo mitico del corteo dionisiaco: un vecchio sileno suona la lira e
col volto estasiato prelude all’armonia che subentra allorché si penetra, attraverso il rito sacrificale, nell’universo panico di Dioniso. È
questo l’aspetto pacifico col quale si preannunzia il dio: la natura si
riconcilia con l’uomo, la terra offre spontaneamente latte e miele, le
belve feroci si avvicinano pacificamente. “Cola latte dalla terra, cola
vino, cola nettare dalle api, e l’aria ondeggia come per incenso
siriano” dice Euripide nelle Baccanti, mentre, secondo Platone, le
divine donne inebriate, si pongono al seno, come lattanti, caprioletti e
lupacchiotti. L’uomo sente risuonare in se qualcosa di soprannaturale:
egli avverte se stesso e non solo. Il sileno preannunzia il nume che, nel
pannello successivo sotto forma di capretto, sugge il latte dal seno di
una panisca, assorbendo da lei rigoglio e pienezza vitale, mentre un
satiro suona una siringa a sette canne. Questa maternità che non
conosce limiti sottolinea il ruolo fondamentale delle donne nei Misteri
dionisiaci, tanto che veniva loro attribuito il nome di “nutrici” del dio.
La trasformazione dell’adolescente, istruito dal collegio sacerdotale
femminile, inizia così a manifestarsi. Ed è la tradizione che lo
conferma, poiché tra gli elementi che caratterizzano il culto dionisiaco
vi sono la capra e la maschera. Quest’ultima è una delle forme attraverso cui il dio si manifesta nella sua epifania. Testimone di ciò che
mostra un cambiamento di personalità, è la più incisiva immagine di
presenza, e nel contempo, di assenza poiché dietro di essa vi è il nulla,
ed è dunque la migliore figurazione di uno stato di alterità lucida e
consapevole. La capra è il suo sostituto: tipico animale sacrificale della
religione dionisiaca e appellativo di Dioniso stesso: “giovane capretto”,
ma anche Dioniso “in nera pelle di capra”, epiteto usato anche per le
Erinni. Quest’ultimo attributo collega il dio alle profondità oscure e
sotterranee della matrice, ove hanno dimora le forze creatrici della vita
e quelle distruttive della morte, e quindi ancora al mondo femminile.
Ed è proprio l’Italia che ha lasciato le testimonianze più significative
della correlazione fra la capra e i regni femminili del profondo:
Giunone si copre di una pelle di capra, nelle Lupercali strisce di pelle
di capra erano adoperate per favorire la fecondità muliebre, mentre a
Roma al Flamen Dialis era addirittura vietato pronunciarne il nome.
Ma la partecipazione mistica alla Natura, vissuta come stato
dionisiaco, è anche un’esperienza di timor panico. Il fragore con cui
avanza Dioniso è segno di un’autentica irruzione nella coscienza.
Improvvisamente un elemento smisurato irrompe provocando un
terrore che sopraffà le normali impressioni sensoriali. La consueta
immagine del mondo svanisce e il prepotente presentimento di una
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listica del culto bacchico, poiché il rito della flagellazione, innegabilmente sacro e rituale, è una rappresentazione simbolica della forza rigeneratrice della Natura. Solo dopo aver ricevuto la percossa misterica
la baccante danzerà libera, facendo risuonare le nacchere, inebriata dalla gioia, sopraffatta dalla divina
follia del dio. Così si compie la duplice rappresentazione del thíasos dionisiaco.
Ma tornando ad Arianna, il cui nome era ampiamente diffuso nell’Italia meridionale, è suo il ruolo
determinante dell’intero fregio. Il giovane Dioniso, incoronato d’edera, è la coscienza individuale che,
attraverso il percorso misterico, si effonde nella coscienza universale rappresentata da Arianna. A
maggiore conferma, egli porta un solo sandalo, mentre l’altro giace ai piedi del trono. Il piede nudo
indica, appunto, la sua dipendenza dai regni sotterranei e la sua appartenenza al mondo femminile,
similmente ai temibili eroi che andavano in guerra con un solo piede calzato per stabilire, con l’altro
nudo, un legame con le forze telluriche. Purtroppo il pannello è parzialmente distrutto e non può essere
studiato nella sua interezza. Si nota però che Arianna abbraccia il dio e nel contempo stringe, con la
mano libera ed ingioiellata, un lembo della tunica che sembra assumere la forma del nodo d’Iside.
Inoltre non è da escludere un rapporto tra Arianna ed Afrodite, già espresso a Cipro ed attinente a
Pompei, sacra a Venere, attestato nella megalografia dalla presenza di un eros accanto alla giovane
donna della parete meridionale. Nella sua duplice veste di madre e sposa Arianna modella le prerogative delle baccanti, nutrici ed amanti del dio. Ed è forse per questo che con la matrona e la giovane
donna inizia e termina la megalografia pompeiana.
visione nuova si affaccia. Il mondo primigenio riemerge attraverso le
profondità dell’essere: il contatto col dio è imminente e manda in
frantumi l’aspetto ben ordinato della realtà, portando con sé una
verità che rende “folli”. È il furore telestico, l’ekstasis, una mutazione dallo stato ordinario che rende possibile l’esplorazione dell’indicibile, fugando ogni resistenza. E benché la tradizione congiunga
l’estasi dionisiaca al prepotere di una istintualità animalesca, nulla
ne indica nell’affresco pompeiano la presenza ma, al contrario, ne
viene sottolineata la matrice naturistica e sapienziale.
Questo mostra la donna col velo gonfio di vento che arretra atterrita e, sconvolta da qualche terribile visione, anticipa la ben nota
immagine successiva. Il giovane iniziando guarda in una coppa
argentea offertagli da un sileno incoronato d’edera e dallo sguardo
severo. Nello stesso preciso istante un altro ragazzo, che ritengo sia lo
stesso pittoricamente sdoppiato, solleva una mostruosa maschera
barbuta di color rosso sanguigno. L’immagine sdoppiata del vivente
coincideva con la natura doppia di Dioniso, percepito come colui in
cui la vita si manifestava nel modo più immediato, ma anche come
un non vivente, distaccato cioè da tutto ciò che vive. Dioniso era
Lysios, il liberatore, colui che consentiva a ciascuno di dilatarsi in
una coscienza cosmica. L’iniziato è pronto dunque a riflettersi in sé,
come in uno specchio e, poiché attinge ad uno stato di coscienza
panica, non è più il semplice osservatore di un mondo esteriore, ma
si riconosce oltre i limiti della consapevolezza ordinaria. La
maschera dionisiaca esprimeva dunque un significato diametralmente opposto a quello odierno, additando la vera identità che
doveva emergere, non più solo limitatamente umana. Alcuni hanno
supposto che il ragazzo bevesse dalla coppa. L’esistenza di una
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bevanda inebriante, prodotta da fermentazione e inducente uno stato
speciale simile all’estasi, è attestata sin dalle culture più antiche; a
emblema di questa portentosa droga fu eletto il miele, e successivamente il vino, identificazione di Dioniso, spesso raffigurato con vari
tipi di recipienti per bevande.
Alla consacrazione dionisiaca del giovane, corrisponde la preparazione delle baccanti, subito dopo la raffigurazione di Arianna e
Dioniso. Ma i pannelli che si riferiscono alla loro consacrazione sono
i più sintetici ed enigmatici, testimonianza dell’assoluta segretezza
del culto dionisiaco che senz’altro esclude, come vogliono alcuni
commentatori, una semplice preparazione delle fanciulle alla notte
coniugale.
Una donna inginocchiata, i capelli coperti da un copricapo, e
portatrice di tirso, tutti elementi che la individuano come una neofita,
è protesa in atteggiamento umile e supplicante verso un liknon, la
mystica vannus che contiene un phallos coperto da un drappo.
Quest’ultimo, simbolo e rappresentazione della vita eccitata e
polluente, in realtà non accompagnava mai il dio e il suo essere celato
ne esprime piuttosto la natura di mystērion. La donna si prepara alla
sua consacrazione, estremamente sintetizzata dalla figura alata,
iniziatrice non mortale ma divina, che sta per flagellarla.
Nel pannello successivo ella, coi capelli scomposti e trattenuti da
un’altra donna, per liberarle la schiena, si appoggia a lei, in stato di
abbandono completo perché pronta a ricevere la verga misterica. La
figura dalle ali nere è una potenza della notte; in quanto alata mostra
la sua arcaicità ed il legame con l’elemento aria-vento, che la rende
una forza normativa, preposta, per estensione, al giuramento iniziatico. Impugna un lungo, temibile flagello, rivelando l’origine natura-
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