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NUMERO 15: La forma del poema
Editoriale, di Italo Testa 2
IL DIBATTITO
LETTURE
FUOCHI TEORICI
PERCORSI ITALIANI
Pier Paolo Pasolini
di Lisa Gasparotto
6
Fabiano Alborghetti
260
Vincenzo Frungillo
131
Dina Basso
264
Niccolò Scaffai
138
Francesco Filia
270
Giuseppe Fonte
274
Vittorio Sereni
di Luca Lenzini
18
POEMA E CANONE FEMMINILE
Luca Minola
278
Amelia Rosselli
di Antonio Loreto
Patrizia Vicinelli
di Matteo Di Meco
Luciano Neri
281
24
151
Gilda Policastro
285
Andrea Raos
289
46
Patrizia Vicinelli
di Renata Morresi
162
Viviana Scarinci
295
Rosaria Lo Russo
Florinda Fusco
173
199
Fabio Teti
299
Giovanni Giudici
di Lisa Cadamuro
Attilio Bertolucci
e Alberto Bellocchio
di Gabriella Palli Baroni
51
Antonio Porta
di Andrea Gibellini
58
ALTRI SCENARI
I TRADOTTI
Yves Bonnefoy
di Enrico Capodaglio
204
John Ashbery
tradotto da Damiano Abeni
305
308
Remo Pagnanelli
di Roberto Galaverni
62
Durs Gruenbein
di Domenico Pinto
216
Francis Catalano
tradotto da Italo Testa
Giuliano Mesa
di Gian Luca Picconi
69
Anthony Hecht
di Joseph Harrison
218
Kurt Drawert
tradotto da Anna Maria Carpi 314
82
Alice Oswald
di Francesca Matteoni
224
Santiago Elordi
tradotto da Matteo Lefèvre
323
W. G. Sebald
di Raul Calzoni
231
Charles Reznikoff
tradotto da Andrea Raos
332
Jacques Roubaud
tradotto da Italo Testa
345
Vincent Tholomé
tradotto da Michele Zaffarano
348
Nika Turbina
tradotta da Federico Federici
352
Mario Benedetti
di Tommaso Di Dio
Luciano Cecchinel
di Giovanni Turra
Giancarlo Majorino
di Biagio Cepollaro
Andrea Zanzotto
di Luca Stefanelli
93
INCURSIONI
98
101
Giovanna Frene
248
Marco Giovenale
249
Stefano Raimondi
253
1
EDITORIALE
Il numero 15 de L'Ulisse prosegue il ciclo di indagini sulle metamorfosi delle forme e dei generi
poetici contemporanei dedicate nei numeri scorsi al teatro di poesia (n. 9-10), alla lirica (n. 11) e
quindi alla prosa poetica (n. 13). Mettendo a tema questa volta ŖLa forma del poemaŗ non ci siamo
interrogati però solo sulle mutazioni contemporanee dell'epos. L'attenzione per l'organizzazione
poematica del discorso in versi, infatti, ci pareva offrire un punto d'osservazione privilegiato su quel
fenomeno di incrocio dei generi che è sempre più avvertibile nella poesia contemporanea e che
muove da un'esigenza diffusa di allargamento degli orizzonti di ciò che può essere detto in poesia.
Per questo motivo L'Ulisse si rivolge sia alla diversificata fenomenologia delle strutture poematiche
(poema, poemetto, long poem, romanzo in versi, serie, ciclo, sequenza per frammenti) sia
all'organizzazione macrotestuale del libro e dell'opera di poesia, con un attenzione privilegiata per
gli ultimi tre decenni.
In Percorsi italiani questo tema è affrontato in una serie di saggi monografici dedicati a singoli
autori, seguendo un itinerario che muove dall'eredità della terza e della quarta generazione Ŕ e dalla
funzione espansiva quivi giocata dalla forma poemetto Ŕ; trova poi un punto di snodo negli anni
ottanta, con l'emersione paradigmatica degli approcci epistemologici da un lato della memoria lunga
di Bertolucci Ŕ la Ŗgrande mano tesa a catturare il senso del tempoŗ della Camera da letto, secondo
la bella immagine usata da Roberto Galaverni – e delle sequenze di frammenti di Antonio Porta
dall'altro Ŕ i passi passaggi Ŕ; e infine si dispiega nei decenni successivi lungo le linee frastagliate
della nuova poesia italiana degli anni novanta, per riaprirsi, a testimonianza del fatto che si tratti di
un fenomeno di lunga durata e intergenerazionale, con le ultime prove di Majorino e Zanzotto negli
anni zero. I saggi di Lisa Gasparotto, Luca Lenzini, Antonio Loreto, Lisa Cadamuro, Gabriella Palli
Baroni, Andrea Gibellini, Roberto Galaverni, Gian Luca Picconi, Tommaso Di Dio, Giovanni
Turra, Biagio Cepollaro eLuca Stefanelli ci accompagnano così lungo un itinerario in cui dispositivi
poematici, nuclei lirici e strategie narrative si intersecano ed espandono nelle scritture di Pier Paolo
Pasolini, Vittorio Sereni, Amelia Rosselli, Giovanni Giudici, Attilio Bertolucci (con le sue
derivazioni in Alberto Bellocchio), Antonio Porta, Remo Pagnanelli, Giuliano Mesa, Mario
Benedetti, Luciano Cecchinel, Giancarlo Majorino e Andrea Zanzotto.
L'esigenza di condivisione metrica e di spazializzazione del discorso entro macrostrutture è forse
uno degli effetti di lungo corso del germe teorico inoculato dalla prospettiva eccentrica e
plurilinguistica di Amelia Rosselli. Il ready-made e la teoria degli spazi metrici di quest'ultima, alla
cui analisi è dedicato l'ampio affresco di Antonio Loreto, sono peraltro la premessa di una
ridefinizione dei confini tra i generi anche in un senso ulteriore. Nel Focus, infatti, l'eredità di
Rosselli viene rivisitata secondo una traiettoria che passa attraverso lo snodo, non a caso emerso
anch'esso negli anni ottanta, di un vero e proprio poema di montaggio quale i Fondamenti
dell'essere di Patrizia Vicinelli Ŕ cui sono dedicati i saggi di Matteo Di Meco e Renata Morresi. Di
qui l'esigenza, maturata nel corpo a corpo con le sperimentazioni dell'arte contemporanea e il
bisogno di poesia totale proveniente dalla poesia visiva, di ripensare la nostra tradizione in un'ottica
che Ŕ nella riflessione di Rosaria Lo Russo, in dialogo con Florinda Fusco Ŕ si riappropria del
genere del poema epico come del nucleo di una nuova forma di soggettivazione femminile del
canone poetico.
L'interesse per la forma lunga, nella poesia italiana, è anche l'effetto di una serie di escursioni in
altre tradizioni Ŕ in particolare nella poesia anglosassone Ŕ che a partire dagli anni quaranta e
cinquanta Ŕ si veda il caso, analizzato in apertura di numero da Lisa Gasparotto, dell'eredità di Eliot
nel poemetto di Pasolini L'italiano è ladro Ŕ fanno da sfondo ai percorsi italiani. Una prospettiva
comparatistica, nella sezione Fuochi teorici, guida così l'interrogazione di Niccolò Scaffai sul
rapporto tra crisi del soggetto e incroci macrotestuali tra lirica/epica/narrativa (da Montale a
Pagliarani sino all'ultimo Caproni), mentre Vincenzo Frungillo rintraccia nello snodo tra tempo
naturale, tempo storico e tempo biografico la faglia in cui, nel confronto con i modelli europei, si
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incunea la produzione poematica della poesia italiana più recente, secondo una direttiva post-storica
che sfugge alla tradizione ancora modernista del poema per frammenti, comportando un mutato
approccio alla totalità dell'esperienza. L'incidenza della forma poema nella scritture contemporanee
di autori di lingua tedesca, inglese e francese è quindi al centro della sezione Altri scenari, ove il
lavoro di Yves Bonnefoy, Durs Gruenbein, Alice Oswald, W.G. Sebald e Anthony Hech è
analizzata nei saggi di Enrico Capodaglio, Domenico Pinto, Francesca Matteoni, Raul Calzoni e
Joseph Harrison. Chiude la parte saggistica del numero la sezione Incursioni, in cui Giovanna
Frene, Marco Giovenale e Stefano Raimondi dipanano i fili poematici del proprio laboratorio di
scrittura.
Ai saggi si affianca, come al solito, una ricca scelta di testi di poeti contemporanei. La sezione
Letture accoglie questa volta Fabiano Alborghetti, Dina Basso, Francesco Fillia, Giuseppe Fonte,
Luca Minola, Luciano Neri, Gilda Policastro, Andrea Raos, Viviana Scarinci e Fabio Teti. Infine,
ne I tradotti, ospitiamo poesie di John Ashbery (tradotto da Damiano Abeni), Francis Catalano
(tradotto da Italo Testa), Kurt Drawert (radotto da Anna Maria Carpi), Santiago Elordi (tradotto da
Matteo Lefèvre), Charles Reznikoff (tradotto da Andrea Raos), Jacques Roubaud (tradotto da Italo
Testa), Vincent Tholomé (tradotto da Michele Zaffarano) e Nika Turbina (tradotta da Federico
Federici).
Italo Testa
3
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IL DIBATTITO
4
5
PERCORSI ITALIANI
5
6
La dissonanza del mondo tra passato e presente.
Eliot, Pasolini e la forma poema
These fragments I have shored against my ruins
T. S. Eliot, The waste Land
e puoi ascoltare come un diapason incantato
la vita veramente umana che sale.
P. P. Pasolini, L'italiano è ladro
La critica alla società del dopoguerra, la desolazione e lo sconforto di una civiltà rinunciataria
quanto a valori spirituali e disinteressata alla condizione umana; una rappresentazione poetica in cui
passato e presente si mescolano sullo stesso piano, riproducendo una catena isotopica di immagini
che ruotano attorno alla metafora centrale di una Ŗterra guastaŗ, in una congerie di sfiducia e
fallimento è quanto Eliot ci racconta nella sua The waste Land. Un rapsodo dalla straordinaria forza
intuitiva, che combina soluzioni metriche in bilico tra classicità e sperimentalismo, intertesti della
tradizione letteraria con lo sperimentalismo individuale, in una multitonalità sospesa tra ironia e
parodia, liricità e narratività, senza mai perdere di vista l'intenzione di fondo tesa alla
rappresentazione della realtà o forse meglio della vastità dell'esistenza e della sua aridità.
Erano gli anni Venti, anni di sperimentazione e innovazione. In quel brulichio (europeo) di
inizio secolo le costruzioni poetiche eliotiane si configurano come un coacervo di elementi mitici,
lirici e narrativi, senza tuttavia restituire un vero e proprio racconto in versi.
Ora, quel che preme rilevare, è che l'eredità eliotiana sembra venire accolta, a distanza di un
ventennio e sempre in un contesto storico post bellico, come quello del secondo dopoguerra, in un
esperimento poetico mai finito di Pier Paolo Pasolini, risalente al crocicchio tra la fine degli anni
Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta (la prima stesura risale infatti al 1948-1949): mi riferisco
all'Italiano è ladro, un testo pubblicato in stralcio su «Nuova Corrente» nel 1955 e uscito poi dal
laboratorio, in sede postuma, in una forma più estesa e comunque non-finita(1).
Se il materiale poetico di Eliot era stato attinto dagli sviluppi dell'antropologia inglese a
cavallo tra i due secoli (in specie Frazer e la sua scuola) ricavandone una serie di archetipi miticoantropologici, la rappresentazione del reale di Pasolini a cavallo tra i due decenni si fonda invece su
archetipi di tipo storico-politico e ideologico (secondo una base interpretativa fornita da Marx,
Croce e Gramsci ma anche dalla tradizione cristiana) approdando tuttavia, nel testo che qui si
discute, a soluzioni formali non dissimili da quelle eliotiane (quali la suddivisione in sezioni, il
malcerto e elusivo collegamento tra le personae di volta in volta introdotte nei vari episodi, la
variazione del punto di vista, la forma del monologo o del dialogo Ŕ quest'ultimo sempre riducibile,
in qualche modo, al primo Ŕ, gli intertesti della tradizione letteraria, e quindi una tessitura fatta di
citazioni e allusioni, il plurilinguismo e la presenza, sebbene meno incisiva, delle note), e a
un'unitarietà tematica (forse) più definita.
Eliot si era sforzato di negare che la situazione da lui descritta fosse (solo) quella del primo
dopoguerra: era piuttosto la crisi originata dalla percezione di una più generale aridità della
condizione umana a concretizzarsi nel tropo della Ŗterra desolataŗ. Si trattava dello sforzo di unire
due mondi, uno reale e contingente e l'altro incarnato nella tradizione (intesa in senso ampio) e nelle
divergenti sollecitazioni della storia e della coscienza, come spiega nel celebre saggio Tradition and
the Individual Talent, del 1919: «la tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente
ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige che si abbia,
anzitutto, un buon senso storico, cosa che è quasi indispensabile per chiunque voglia continuare a
fare il poeta dopo i venticinque anni; avere il senso storico significa essere consapevole non solo
che il passato è passato ma che è anche presente; il senso storico costringe a scrivere non solo con la
sensazione fisica presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione, ma anche con la
coscienza che tutta la letteratura europea da Omero in avanti, e all'interno di essa tutta la letteratura
del proprio paese, ha una sua esistenza simultanea e si struttura in un ordine simultaneo»(2). In
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7
sostanza, Eliot sostiene che in questa tensione dialogica tra passato e presente anche ogni
operazione artistica finisca con l'inscriversi necessariamente nella tradizione, modificandone a sua
volta senso e prospettiva: non può darsi pertanto nessun tentativo artistico di prescindere dalla
tradizione per fondare una nuova espressione e forma letteraria, se non in maniera illusoria. Tuttavia
The waste land sembra rappresentare una sintesi contraddittoria di questi enunciati: citazioni e note
si disseminano come detriti e frammenti del passato, segno evidente dell'impossibilità di un ritorno
compiuto alla tradizione o, peggio ancora, della mancanza di possesso delle sue strutture. Se,
dunque, per Eliot il senso della storia presume l'inserimento del passato nel presente con una
modalità quasi immanente, e la tradizione si caratterizza in modo acronico, secondo un'esistenza
sostanzialmente ideale, per Pasolini (che ha da poco Ŗscopertoŗ Marx(3)) la storia è invece
prevalentemente la storia della lotta di classe e quindi della contrapposizione tra due mondi (che poi
sono quello interiore e quello dell'alterità, quello della storia personale e quello della storia
collettiva, quello proletario e quello borghese, e, pour cause, quella della tradizione e quello della
modernità). Raccontare il rapporto tra passato e presente significa pertanto tendere alla
rappresentazione di un conflitto e, per Pasolini, andare incontro a una serie di contraddizioni dovute
alle dissonanze tra visione estetica, ideologia esplicita e ideologia profonda. In quel celebre
segmento di Poesia in forma di rosa Pasolini scrive: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella
Tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d'altare, da borghi /
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove son vissuti i fratelli»(4). E più tardi, in uno dei
dialoghi con i lettori su «Vie Nuove», troviamo un altro noto adagio (che riprende, non a caso, i
versi appena citati), in cui Pasolini si scaglia contro le aspirazioni di coloro i quali (e il riferimento è
sostanzialmente alla neoavanguardia) negano il passato, in contrapposizione al suo Ŗsogno di una
cosaŗ umanistico-marxista: «È un'idea sbagliata Ŕ dovuta come sempre alla mistificazione
giornalistica Ŕ quella che io sia un...Ŗmodernistaŗ. Anche i miei più fieri sperimentalismi non
prescindono mai da un determinante amore per la grande tradizione italiana e europea. Bisogna
strappare ai tradizionalisti il Monopolio della tradizione, non le pare? Solo la rivoluzione può
salvare la tradizione: solo i marxisti amano il passato: i borghesi non amano nulla, le loro
affermazioni retoriche di amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque,
nel migliore dei casi, tale amore è decorativo, o Ŗmonumentaleŗ, come diceva Schopenhauer, non
certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia. Mi lasci amare Masaccio e Bach, e detestare la
musica sperimentale e la pittura astratta»(5). In questo senso sembra quindi interessante verificare
come e se, in questo testo così confuso qual è L'italiano è ladro, sia vero che lo sperimentalismo
pasoliniano non prescinde dalla tradizione, e in cosa consiste dunque la tensione tra passato e
presente.
Nel diario del poema si trova condensata l'indefessa tensione di Pasolini alla ricerca di
chiarire, anzitutto a sé stesso, le proprie scelte poetiche, quindi formali, stilistiche e linguistiche, di
definire insomma i propri modelli e la direzione del progetto del suo lavoro. In uno dei passaggi più
significativi si legge: «nella sua Lettera a un giovane poeta (che mi doveva somigliare molto) la
Woolf consiglia che dopo un periodo d'avarizia, di reclusione nella propria cella interiore dove
vengono accumulati i tesori dell'esperienza mistica, irripetibile, conviene venire al balcone,
rivolgersi al mondo, e investire sui propri capitali linguistici. Nel '48-'49 io mi sono trovato
precocemente nel periodo in cui il Ŗgiovane poetaŗ apre le imposte. Mi è occorso però un pretesto;
un elemento che era x, e che si chiama comunismo. Mettete in questo comunismo Cristo, i mistici,
Croce, dell'umanitarismo, dell'esistenzialismo, la scienza (volgarizzata) e lo avrete umanizzato
abbastanza per capire come potesse essere attivo nella mia vita interiore. Così ho aperto le imposte.
Ma basta guardarlo, il mondo? Chi è il mondo? Il mio prossimo (Cristo) la mia storia (Croce), la
società (il comunismo): tutto questo insieme (il mio demone)»(6).
In quel torno di tempo (1949-1955) in cui decide di Ŗaprire le imposteŗ, Pasolini sta
lavorando anche alle poesie dell'Usignolo della Chiesa cattolica (1958), al romanzo d'ambiente
friulano Il sogno di una cosa (1948-1950), ai poemetti delle Ceneri di Gramsci (composti tra il
1951 e il 1956) e sono anche gli anni di Ragazzi di vita (1955) e di «Officina» (1955-1959), per
7
8
quanto riguarda la produzione saggistica, dell'antologia Poesia dialettale del Novecento (1952) e del
Canzoniere popolare (1955): tutte esperienze che si collocano notoriamente sulla stessa linea
stilistica, linguistica ma anche ideologica, che affonda le proprie radici nella «regressione
dellřautore nellřambiente descritto, fino ad assumerne il più intimo spirito linguistico»(7). È ancora
nel diario che si chiarisce la portata umana e quindi politica del concetto di Ŗregressoŗ: «è stato il
mondo esterno che ho Ŗcapitoŗ di cui mi sono fatto una competenza, che, un po' alla volta, come un
organismo parassita in un altro organismo, è entrata in me, trasformandomi, facendo di me un altro:
così mi sono trovato gomito a gomito coi miei coetanei poveri, dell'altra classe, ho sentito il loro
odio di classe (che è una cosa autentica, necessaria, provvidenziale), ho sentito le loro disperazioni,
il loro complesso d'inferiorità collettiva, il loro disprezzo di sé, e poi le loro allegrie accanite e
accoranti... E tutto così stranamente privo di letteratura; esperienza così desolatamente umana che
ne ho preso coscienza solo qualche anno più tardi, quando la Ŗcompetenzaŗ mi aveva già tutto
pervaso e modificato. Possedevo dunque, il mondo di cui parla la Woolf. Ne ero regredito e
riemerso […]. Adottata la formula: prestare la mia coscienza e la mia capacità di espressione,
magari squisita, a un mio coetaneo o comunque al mio compagno, dotato solo di un primo albore di
coscienza e infelice perché inespresso, potei compiere l'operazione che per me finì con l'essere una
riscoperta del non-io. Era bastato quello spostamento minimo dell'io, da me a un mio coetaneo
assimilato, perché il mondo mi comparisse in una luce evidenziante quasi facile!»(8). Non è un caso
che anche lřuso del dialetto (in chiave mimetica e coerentemente anche diegetica) parta da una
esperienza anzitutto antropologica e quasi sacra qual è lřesperienza dellřaltro, in una dimensione
preculturale, vissuta con un sentimento quasi nostalgico per un passato che si riflette nel presente.
Già nelle poesie della raccolta Dov'è la mia patria, composte tra il 1947 e il 1949(9), il Friuli non è
più rappresentato dal mondo mitico e edenico di Narciso (quello delle Poesie a Casarsa e degli
immediati dintorni, per intenderci(10)), ma è popolato dai giovani sfruttati dal potere. Una distanza
incolmabile si frappone dunque tra il poeta e quell'umanità amata e incompresa, una distanza
generata dalle differenze di estrazione che Pasolini sente fortemente, lui, borghese, lui così Ŗaltroŗ
di fronte ai contadini friulani (e poi anche di fronte ai borgatari romani). La sua classe lo divide dal
popolo, ma è anche l'unica possibilità che ha, attraverso la sua cultura, di avvicinarsi ad esso, di
renderlo oggetto di rappresentazione. La pratica regressiva è anzitutto un'azione cosciente,
ideologicamente mediata. È esattamente quanto Pasolini afferma ancora una volta nel diario del
poema: «Dino chiede al borghese di regredire: atto altamente fantastico, l'unico che autenticamente
trasporti da una classe evoluta a una meno evoluta. I dirigenti di partito non lo capiscono: lo
confondono forse con l'umanitarismo»(11). Una dichiarazione che viene ripresa, nel 1958, a
distanza di quasi un decennio, quando l'esigenza narrativa è già approdata a un genere più
codificato (nel 1955 esce Ragazzi di vita e nel 1959 esce Una vita violenta), a un forma forse ancora
più adatta a restituire il senso politico della stessa pratica regressiva: «nello scendere al livello di un
mondo storicamente e culturalmente inferiore al mio Ŕ almeno secondo una graduazione razionale,
ché, irrazionalmente, esso gli è poi assolutamente contemporaneo, per non dire più avanzato, nel
suo vitalismo puro in cui Ŗsi faŗ la storia Ŕ nellřimmergermi nel mondo dialettale e gergale […] io
porto con me una coscienza che giustifica la mia operazione né più né meno di quanto giustifichi,
ad esempio, lřoperazione di un dirigente di partito: il quale come me, appartiene alla classe
borghese, e da questa si allontana»(12). Bisogna poi dire che il regresso è fondamentalmente una
scelta poetica che diventa quindi anche una soluzione stilistico-formale, una strategia per parlare del
mondo rappresentato, per stabilire il proprio ruolo di scrittore-poeta in rapporto a quel mondo
nellřintento più profondo di legittimarlo. A ben vedere, il «sentimento del regresso» si configura
proprio come riflesso di quella evoluzione stilistica che consente a Pasolini di lasciarsi penetrare
dalle culture «sopravviventi», depositarie (nella sua particolare mitologizzazione) di valori ben
diversi da quelli della cultura borghese, fino ad accoglierne la loro lingua (il dialetto, appunto). Al
regresso «da una lingua a unřaltra Ŕ anteriore e infinitamente più pura» corrisponde infatti un
«regresso lungo i gradi dellřessere», nella ricerca di recupero, o comunque nel tentativo di non
dimenticare la primordiale felicità edenica (prenatale-prestorica e prelinguistica). E non è dunque
8
9
un caso che gli esiti della produzione in versi di Pasolini approdino a risultati di poesia narrativa, in
cui si definisce non tanto il sostrato ideologico che governa l'operazione regressiva, quanto le
modalità con cui il Ŗregressoŗ, sul piano stilistico e persino su quello sociolinguistico, si realizza, e
quindi le dinamiche attraverso le quali (nella poesia come poi accadrà nella narrativa) si esprime
l'intenzione pasoliniana di oggettivare la materia della rappresentazione in quanto riflesso
presuntamente autentico della Ŗrealtàŗ. Una posizione, peraltro, a cui Pasolini rimarrà fedele almeno
fino al 1957, quando, in quel noto saggio officinesco che è La libertà stilistica, una sorta di
dichiarazione a posteriori, si sofferma sulle proprie scelte formali: «La stessa passione che ci aveva
fatto adottare con violenza faziosa e ingenua le istituzioni stilistiche che imponevano libere
esperimentazioni inventive, ci fa ora adottare una problematica morale, per cui il mondo che era
stato, prima, pura fonte di sensazioni espresse attraverso una raziocinante e squisita irrazionalità, è
divenuto, ora, oggetto di conoscenza se non filosofica, ideologica: e impone dunque,
esperimentazioni stilistiche di tipo radicalmente nuovo»(13). La pratica regressiva si manifesta
dunque attraverso una nuova dimensione microstilistica, ma finisce anche con il prediligere
strutture più apertamente poematiche e (forse) non potrebbe essere altrimenti: c'è un conflitto da
raccontare, c'è soprattutto un mondo, quello del proletario, quello dell'altro, che deve potersi
esprimere e di cui prendere coscienza. A quell'istanza per definizione monologica della poesia lirica
si sostituisce (o si aggiunge) così la polifonia, l'intreccio di voci, anche se, a ben guardare, questo
non porta necessariamente a un vero e proprio aumento del tasso di narratività. Insomma, per
mettere in forma la rappresentazione del conflitto di classe è necessario un conflitto di voci: la
poesia deve poter mettere in atto processi di discorsività e veicolare così contenuti non solo lirici,
che nell'Italiano è ladro non coincidono ancora pienamente con una effettiva romanzizzazione. Ora,
senza scendere nel dettaglio di questioni formali che andrebbero discusse, a fondo e singolarmente,
anzitutto sul piano teorico(14), quello che mi preme rilevare è che nell'Italiano è ladro ci troviamo
di fronte a elementi di narratività piuttosto generici e altamente mescidati con forme
tradizionalmente monologiche della poesia. Regredire «lungo i gradi dell'essere», significa così
anche regredire lungo i gradi della storia e delle forme, guardare a generi più popolari, codificati e
autorevoli: e mi riferisco ad esempio alla tipologia della narrazione breve o brevissima che
corrisponde al genere della ballata (popolare o romantica, in un'accezione rispettivamente folklorica
e letteraria), di cui Pasolini può aver verosimilmente tenuto conto per il suo poema, nel tentativo di
coniugare appunto popolare e letterario, passato e presente, basso e alto, proletariato e borghesia. A
questo punto, esattamente come è accaduto per The waste Land, è evidente che anche per questo
testo pasoliniano esiste un problema di forma che induce anzitutto a interrogarsi sul come e
soprattutto sul dove sistemarlo in una classificazione dei generi. Si tratta di un poemetto narrativo,
di un poema epico concentrato, di un romanzo in versi, o di un mosaico disorganizzato di frammenti
di varia provenienza? e poi ancora, si può parlare di unità poetica e soprattutto formale per
L'italiano è ladro? Tutte questioni che, com'è noto, anche il poema di Eliot aveva sollevato
nell'acceso dibattito della critica eliotiana vecchia e nuova.
Ora, che Pasolini avesse in mente proprio Eliot per il suo poema è dato certo(15). In un
passaggio del diario si legge: «dal punto di vista formale: adattamento di brevetti eliottiani-joyciani,
magari di seconda mano (via per es. C. E. Gadda); ingresso del giornalismo in poesia, non senza
sfacciataggine; pastiche prosastico (si veda il principio poetico di Poe) per turgide tangenti liriche.
Contaminazione dřispirazione Ŗdi testaŗ, sconveniente, ingenua e dřispirazione Ŗdi pettoŗ sempre
però ingenua, quasi irritante nella sua ingenuità mescolata a unřeccessiva dimostrazione dřuna vita
prossima allřintelligentia dei più aggiornati.[…] Per il mio poema mi sono riletto Eliot e varie
antologie di poeti inglesi. Ho reimparato molte cose; prima di tutto a odiare il madrigalismo Ŕ che,
nelle ben confezionate audacie sintattiche e prosodiche, sa di quella letteratura italiana Ŗche non
sbaglia maiŗ; ho reimparato a detestare il gusto del limite, il senso della sconvenienza e della
opportunità. […] Ma dřaltra parte ho paura dellřapprossimativo, che è un gran pericolo della tecnica
adottata per ŖLřitaliano è ladroŗ; temo il prosastico, non tanto perché non mi renda conto che in un
lavoro simile la prosa è ineliminabile, è fatale, quanto perché sospetto la prosaicità proprio del
9
10
contenuto cioè la debolezza del pensiero, il gioco scoperto della tesi; e non tanto le cadute
sintattiche quanto i sintagmi da elzeviro, da prosa rondista […] Un articolo di Eliot su Milton mi ha
chiarito qualche idea. Il mio macheronico mi ha fatta nausea; ho tagliato interi sterpi di versi, ho
fuso insieme più strofe. […] Nell'insieme ho rinunciato a molto prosastico Ŕ e molto a malincuore,
poiché si tratta in questo senso, di un ennesimo fallimento Ŕ in favore del poetico»(16).
Il faticoso travaglio creativo, mai giunto a una forma definitiva, testimonia quella che
possiamo definire Ŗfunzione Eliotŗ nella pratica compositiva e di revisione dell'Italiano è ladro.
Eliot si era espresso su Milton, per la seconda volta nel 1947, e da quel saggio, in cui paiono
condensati i principi formali a cui Pasolini guarda per il suo poema, vale la pena di citare più
diffusamente: «nella letteratura, non più che in tutte le altre cose dell'esistenza, non si può vivere in
uno stato di rivoluzione permanente. Se ogni generazione di poeti si assumesse il compito di portare
il linguaggio poetico allo stesso grado d'attualità della lingua parlata, la poesia mancherebbe a uno
dei suoi doveri più importanti; in quanto essa deve aiutare non solo a raffinare la lingua dell'epoca,
ma a impedire che questa muti tropo rapidamente. Uno sviluppo troppo rapido della lingua
comporterebbe un progressivo deterioramento, e questo è attualmente il nostro pericolo. Se la futura
poesia di questo secolo seguirà quella linea di sviluppo che, riesaminando il cammino compiuto
nella poesia degli ultimi tre secoli, a me pare giusta, essa scoprirà nuove e più complesse
espressioni nell'ambito di un linguaggio ormai stabilito. In questa ricerca molto potrebbe imparare
dalla prolungata struttura del verso di Milton, potrebbe anche evitare il pericolo d'un asservimento
alla lingua parlata e al gergo corrente. Potrebbe imparare che la musica del verso è fortissima nella
poesia che ha un preciso significato espresso con parole appropriate. I poeti potrebbero essere
indotti ad ammettere che una conoscenza della propria letteratura, e insieme della letteratura e della
struttura grammaticale di altre lingue, è una parte preziosissima del corredo d'un poeta. E ho già
suggerito che potrebbero dedicare un certo studio a Milton, come al più grande maestro inglese,
fuori del teatro, di libertà entro la forma»(17). Per il suo poema Pasolini sembra accogliere anzitutto
il suggerimento di esclusività del codice, perfettamente inscrivibile nel classicismo modernista di
Eliot, senza tuttavia tenere conto del fatto che il «pericolo di asservimento» era senz'altro pertinente
nell'ambito della letteratura inglese, molto meno nel contesto di quella italiana dove, com'è noto, la
poesia non era ancora approdata a esiti di aderenza mimetica al parlato: forse un pretesto per tentare
di riassestare le proprie scelte in direzione, appunto, della lingua letteraria e di quella che nel diario
definisce «lingua-musica»(18).
Occorre quindi osservare la struttura del poema, tenendo conto di questa spia eliotiana per
verificare cosa è accaduto alla tessitura stilistica di questi versi, così provati da continui
rimaneggiamenti e ripensamenti. Lo sperimentalismo dellřItaliano è ladro è per certi aspetti
ecclettico. Sul piano formale, colpisce anzitutto lřadozione (specie nella Redazione Falqui) di quella
rarissima terzina lirica in novenari(19), che va a unirsi alle lasse di versi canonici di diversa misura
e di versi liberi di varia estensione non rimati di cui si compone il poema. Sul piano linguistico poi,
l'ampia geografia dialettale plurilingue si configura nella strana mescolanza di elementi popolari,
marcati diastraticamente, con lessemi appartenenti alla tradizione letteraria o comunque disusati,
con fonti lessicografiche e con veri e propri intertesti letterari, di cui peraltro Pasolini, talvolta, si
preoccupa di riportare in nota anche il riferimento bibliografico: da Euripide («ite, thoai Lyssas
kunes, / itřeis oros»), alle lettere di Santa Caterina, al Libro de li exempli, sulla base del quale
modella alcuni versi in veneziano antico («e le ysle si muove dal so logo il sole / si oscura e viene
negro de caligine»), ai versi in italiano antico che ricalcano una formula di una confessione umbra
dell'XI sec. («Alla prima alba / io me accuso de lo genitore et de la / genitrice mia, křilli / me
puosero in ista istoria hora»)(20). Da notare che, mentre The waste Land è fittamente abitata da
intertesti della grande tradizione europea, quasi a disegnare l'unità linguistica del Sacro Romano
Impero, vista la scelta di codici che appartengono, appunto, alla tradizione (quali il latino, l'italiano,
il tedesco, il francese, l'inglese), nell'Italiano è ladro la scelta intertestuale, ad eccezione del greco
di Euripide, riporta prevalentemente alla tradizione popolare e quindi all'utilizzo di codici marcati
diastraticamente (i dialetti della fascia settentrionale e l'italiano popolare). Per contro, per quanto
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riguarda le scelte metriche, la discontinuità introdotta dal verso libero, intervallata dalla terzina, fa
pensare a una sorta di volontà a saldare in un certo senso i conti con la tradizione, con il passato,
integrandolo nel presente. In questo, per lo meno da un punto di vista tecnico, Pasolini sembra
condividere fattivamente gli intenti eliotiani. Una volontà che spiegherebbe peraltro i numerosi
tentativi di coniugare, proprio e soprattutto nelle terzine, un lessico basso con una struttura e un
tono lirico («azzurri orizzonti che mute Lingue / svelano come un canto dřanime!», «E presso i neri
e gli azzurri / dei tunnel, dei bivii, le Lingue / segnavano Salvenach, Fiume, / su pontebbane dai
cigli azzurri») e di tematizzare la differenza tra lingua e dialetto («Lingua non dialetto è il cuore /
dei signori del lungomare, / alla messa di mezzogiorno», in questo senso esemplare è il verso in cui
il personaggio del ragazzo ricco è associato allřitaliano, lingua della burocrazia, ingranaggio che
stritola il povero, «Qui Brigadiere Scogna Salvatore / discorre in italiano e io non ci capisco
nulla»(21)). Questa contaminazione viene confermata inoltre dall'inserimento dell'elemento corale,
che si impone sulla scena alla maniera aristotelica, «come uno degli attori, [che] deve essere parte
del tutto e partecipare allřazione»(22) e va quindi a realizzare una sorta di pastiche di strutture della
modernità e di quelle della tradizione, in un andamento quasi musicale (per lo meno negli intenti
dell'autore). Scrive Pasolini nel Diario del poema: «particolarmente musicale la terza parte, in cui la
Madre si alterna alle Madri […] (con motivi musicali presi dal Settecento, dal Cinquecento, dal
Duecento e dalla musica religiosa gregoriana; e infine il disgregarsi della lingua-musica in
dissociazioni e balbettii carichi del dolore dell'impotenza e del primordiale»(23).
Chi parla, dunque, in questo testo dal piano compositivo apertamente diegetico? Per definire
il quadro enunciativo è essenziale precisare che L'italiano è ladro racconta la storia di due ragazzi
inizialmente cresciuti insieme, il figlio del contadino e il figlio del padrone. Il primo finisce per
emigrare e vive le lotte della propria classe, mentre il secondo si piega al proprio destino borghese.
La condizione di figliolanza dei due giovani è resa esplicita dalla presenza di una terza voce, quella
della madre del giovane contadino, cui si aggiunge il coro delle madri, indicativo di una condizione
che non è solo individuale ma collettiva e pertanto storicamente situata. Sono voci che, nelle varie
stesure del testo, appaiono e scompaiono di volta in volta a seconda dei tagli e delle aggiunte che
Pasolini compie. Il discorso poetico ruota principalmente attorno al personaggio di Dino, il giovane
contadino che è allo stesso tempo protagonista e dedicatario dellřopera, e soprattutto figura di tutti Ři
parlantiř che compaiono nelle poesie di Dov‟è la mia patria e quindi di tutta quella classe «di
ragazzi poveri e sfortunati» che con lui viene portata a un massimo di rappresentanza allegorica.
Osservando le marche pronominali, nellřopposizione incalzante tra lřio e il tu («io e il
bordelletto del signore», «Io e il figlio del padrone», «io e te si partiva», «tu reggevi la legnola, io la
vermena», «mio padre / crepava con tutta lřArgentina, il tuo / avanzava di grado»(24), ecc..) viene
esemplificata lřappartenenza dei personaggi (allocutore e allocutario) a due mondi contrapposti
ideologicamente («il tuo mondo non macellò mica il mio mondo», «il tuo mondo non scavò mica la
fossa al mio», «e non marcirono, no, i nostri due mondi», «i due mondi si sono scontrati», «i nostri
due mondi»(25)). Nell'istanza enunciativa è rilevante la presenza di una progressiva assunzione del
punto di vista del personaggio da parte dellřautore: Pasolini infatti, a un certo punto, si identifica
con il ragazzo povero, inserendo sé stesso nel contesto dellřazione descritta. Si ha uno spostamento
graduale da una terza persona («i signori e i poveri non si son mica; i signori non hanno») alla
seconda («voi non ci avete mica; tu e quelli come te; voi che nascete»). Dai generici due mondi («i
due mondi non si») si passa allřincalzante successione degli aggettivi possessivi tuo e mio («il tuo
mondo»; «il mio mondo»; «i nostri due mondi»). La continuità spazio-temporale di questa
opposizione è resa poi con il passaggio dalla prima persona singolare alla prima plurale e dalla
seconda persona singolare alla seconda plurale, dallřio al noi e dal tu al voi, che traduce una
progressiva coscienza del sé e della propria identità, segno di conquista di un sentimento comune, di
appartenenza sociale e di apertura alla storia collettiva («Oggi ci odiamo, domani ci
ammazzeremo», «Io condirò il mio pezzo di pane solo / col tuo sangue borghese, perché / i due
mondi non si inzuccavano mica sul Foro, non si sputarono mica addosso», «noi poveretti», «la
nostra cucina», «i padri giovinetti dei nostri bisnonni padani», «vi pensate», «noi poveri», «nostri
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cuori vergini»(26)). In altre parole la comunicazione passa da un io, che si tramuta in un noi, e da
un tu che diventa voi nel momento in cui il soggetto partecipa di una sorte comune agli uomini della
propria classe, con maggior forza nel finale. Si attua progressivamente una sorta di rovesciamento
che conferisce carattere di continuità sociale e garantisce lřevoluzione del senso della narrazione: il
noi assume da un certo momento in poi un significato di azione collettiva e lřallocutore è un tu che
sembra incarnarsi nella figura del lettore piccolo borghese. Anche la terza voce, che è quella madre
di Dino, nel passaggio dallřio al noi, diventa un coro che coinvolge, in un lamento collettivo, tutte le
madri di quei figli «poveri e sfortunati», accomunate da una condizione di sofferenza e povertà («Io
questo ŖGinoŗ o ŖPirùcŗ o ŖMilaneseŗ / lřho portato nella pancia chřera autunno», «Dino come suo
zio, / che era il più bello della contrada»(27)). Il coro delle «madri che bestemmiano nel dialetto
proletario / dellřOttocento, del Cinquecento, del Mille»(28) per la morte dei propri figli, è un pianto
collettivo. Non cřè più lingua per dire il dolore che ha attraversato i secoli, le regioni, i paesi, la
storia:
Noi madri medievali scorriamo
torrenti di lacrime nel tuo ventre silenzioso,
non ci sono più lingue per dar voce al dolore,
…madri?...chi piange mai?...Non foglia più
lřalbero genealogico, non cřè più Lingue…
Que farà eo?...Le madri veneziane
Piangono il loro pianto delle origini!(29)
Nelle battute finali lo scontro tra classi sociali antagoniste appare ancora più crudele, esasperato
dalla gestione dellřistanza enunciativa: lřautore si inserisce via via nelle voci sia del figlio del
popolo, sia del figlio della borghesia, sia della madre del ragazzo povero, ma anche dei cori che
partecipano alla scena. Spia dřingresso di questa presenza autoriale è in particolare un verso, in cui
questa rottura è resa esplicita: «sulla linea del mio cuore / i due mondi si sono scontrati»(30): è da
quel momento in poi che sulla scena sembra esserci anche lřautore. Si tratta di una
transindividualità che viene anche tematizzata. Si realizza così un passaggio nodale che consente di
stabilire come Dino non sia di fatto un personaggio, che si pone cioè al di là della presenza
dell'autore, ma come, ad un certo punto della storia, diventa una sorta di altro da sé. Questo
spostamento è confermato da una serie di strategie narrative tra le quali la più evidente è la presenza
di parole bivoche (in senso bachtiniano), ovvero di espressioni linguistiche che, nelle parti gestite
diegeticamente dal narratore, sono da mettersi in carico ideologico ai personaggi o addirittura ai
cori («Scendi giù mamma, scendi giù / nei regni della morte dov'è sceso Dino, / ah mamma, voltati
indietro, risali il fiume / dei secoli, al di là», «lui quasi Dio, parlante di un'isola platonica / che cosa
facevano in fondo all'albero / genealogico pieno di padri ignoti / le antenate umbre di Dino?» (31)).
Pasolini, in definitiva, presta la sua voce a Dino e con la sua voce lo fa parlare (lui e la
classe proletaria), adottando il procedimento regressivo: il poeta, piccolo borghese, esprime così
anche se stesso, presta la propria capacità espressiva al ragazzo povero. In questo modo anche
autobiografia e scrittura vanno a coincidere, come dimostrano i passaggi in cui sono fortemente
presenti alcuni elementi paesaggistici inconfondibilmente cari al poeta, mescolati a quelle tracce di
storia familiare che prendono forma nei significativi inserti di genealogia familiare, modalità tipica,
peraltro, della narrazione epica:
Quella volta la roggia passava ancora per la piazza
e i Miorin andavano allřelemosina
e la Teresa era la più sgualdrina della contrada
e i nostri cugini avevano ancora la distilleria
e dallřaltro secolo tremava ancora una canzone:
Xe morto Radeschi
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Xe messo in pignata
e lřAustria era fresca come una rosa,
e la nostra bisnonna fresca come una rosa
veniva giù dalla Polonia col soldato di Napoleone,
freschi come rose morivano i soldati di Osoppo,
fresco come una rosa il nonno
fece il soldato del Re, freschi come rose
sulla roggia che ancora passava per la piazza
freschi come rose cantavano i morti vespri e serenate(32).
A ben guardare, le parti del testo che corrispondono alla cosiddetta digressione epica si traducono,
appunto, nella genealogia familiare, che appare sganciata da una funzionalità specificamente
diegetica, ma che va a legare invece l'attualità dell'azione a un continuum storico, integrandola in un
flusso temporale senza interruzione alcuna. Sono passaggi che rispondono a un bisogno di
autorappresentazione coerente, senza fratture temporali. In questo senso, possiamo parlare di
modalità epica come simultanea integrazione del tempo e dello spazio. Le geneaologie pasoliniane
esprimono infatti il bisogno di radicamento in un passato, esprimono, in altre parole, il tentativo
dell'autore di spiegarsi, nel fluire del tempo e della storia, le cause della propria identità, il senso
della propria posizione nella storia, nella misura in cui, come accade nella modalità epica, si saldano
un passato (che è Ŗvalorosaŗ genealogia) e un presente. Non viene raccontata la storia di una
famiglia a introdurre la psicologia dell'eroe, com'è nel romanzo, ma la narrazione si configura come
interfaccia tra la micro-storia della famiglia e la grande storia nazionale, com'è tipico del modo
epico. Si chiarisce in questo modo anche il tentativo pasoliniano di dare voce a un eroe proletario e
quindi di uscire dalle strutture tipiche del romanzo borghese mediante l'inserimento di elementi
tipici del modo epico. Nonostante ci sia l'entrata in scena dell'altra classe e l'eroe sia di fatto un eroe
proletario, si tratta di un personaggio che, anche se è oggetto di un tensione di ancoramento a un
coro epico relativo alla grande storia, mantiene i tratti psicologici tipici dell'eroe borghese, che sono
un po' la traccia di una soggiacente identificazione dell'autore con il personaggio (autore che presta
la sua soggettività borghese al personaggio). Non c'è quindi un'incorporazione dell'altro,
tipicamente epica, ma un gioco di specchi, borghesemente romanzesco. La modalità epica si
inserisce così nella struttura romanzesca senza però scalfirne veramente i caratteri e senza davvero
metterne in discussione i presupposti ideologici. Significativa in questo senso anche la presenza di
una progressione del campo verbale, dai tempi narrativi ai tempi commentativi: lřimperfetto
narrativo diventa presente, in una proiezione che comprende anche il futuro, confermando
lřesistenza di una catena isotopica temporale (ma anche tematica e spaziale) che va a rafforzare
ulteriormente il carattere macrotestuale del testo. Un tempo passato («giocavamo gudulando»,
«mignoli di dodicřanni, che dřaccordo si faceva», «tu tenevi le palpebre chine»(32)), del ricordo
(«mi penso che si telava», «e gli uccelli, ricordi?», «non ti pensi?», «non ti ricordi?», «mi penso»,
«vi pensate compagni?»(34)) che si contrappone al presente («Adesso è padrone dellřaria», «vedi
che tutto è suo»). È il passaggio, peraltro coincidente con la vicenda autopoetografica dellřautore:
dalla giovinezza quasi a-storica («Ah luccicanti cucurriti dei galli! / io e te si partiva pel sentiero,
sui muschi / e i frondai molli di guazza, / imbarlumiti dallřalba, che gioia!», «nei dopocena tiepidi
sotto le stelle»(35)), alla dimensione della storia («Roosvelt ti sorrideva / i vescovi ti porsero
lřanello», «A Friburg ařn parlavi brisa il fransèis / a Lubiana non parlavo il sloveno, / e adès què in
Itèlia…è meglio che stia zitto, / se no puvàtt Crist e quella puttana della Madonna…»(36)), e quindi
alla ormai matura coscienza di classe («così splende in noi poveri lo Spirito», «lřumanità che balena
in chiari / frammenti ne buio delle nostre Lingue», «lřumanità fremente di passioni limpide / che
riluce fra le catene / della nostra esistenza schiva dřumiltà», «oh tu che questa umanità
intravedi»(37)).
Anche la scelta linguistica riproduce un intento fondamentalmente ideologico-politico: e non
è un caso che la mimesi della realtà sociale dei parlanti risulti scandita da una forte e marcata
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escursione linguistica del lessico basso in un crescendo che culmina con la bestemmia, unica
risposta alla crisi di legittimazione della parola, ed espressione essa stessa di uno stile(38). A
bestemmiare con lřautore è ora una intera classe sociale: quei poveri, con le loro madri («Sentite, ah
sentite, nel ventre dellřItalia / le madri che bestemmiano nel dialetto proletario»), ai quali il poeta
presta la propria voce, servendosi dei loro dialetti, nel tentativo quasi estremo di farsi riconoscere
come una sorta di maître a penser, di mettersi a loro disposizione, offrendo loro la lingua dei padri,
la lingua del potere, grazie alla quale anchřessi potranno avere piena coscienza di sé, della micro e
macro storia, e potranno emanciparsi rovesciando a loro volta quello stesso potere che li opprime.
Una conquista che muove la propria ragione dřessere dalla dottrina del cristianesimo e dal Ŗsogno di
una cosaŗ marxista. Lřeffetto di questa tecnica di straniamento è più incisivo nella progressione
conclusiva della storia raccontata, che si chiude con tre testi lirico-ragionativi che prendono forma
in un coro politico con un impianto di nobile retorica ideologica. Il finale, tuttavia, sembra
politicamente ambiguo: nellřinvocazione del ritorno della lingua di Dino, si realizza una sorta di
identificazione tra preistoria e speranza, regressio intrauterina e alba della presa di potere del
popolo, ideologicamente mediata:
lřumanità che balena in chiari
frammenti nel buio delle nostre Lingue,
balbettio, o, se vuoi, canto
dřallodola presa da un amore muto Ŕ
lřumanità fremente di passioni limpide
che riluce fra le catene
della nostra esistenza schiava dřumiltà,
nella bassezza dellřanimale,
oh tu che questa umanità intravedi
dietro stupende nostalgie,
e sai che lo spirito del secolo
ne depone nei ricchi solo una pallida schiuma,
che la ragione della classe
padrona dellřumano
(mentre ne è invece un palpito morente)
arresta il nostro cammino…
e puoi ascoltare come un diapason incantato
la vita veramente umana che sale
in spighe non mietute da un seme felice,
e compatire lřingenua malvagità
che balbetta come un ubriaco
nei nostri cuori vergini che tremano
davanti allřangelo dellřannunciazione,
e sai capire le cupe amarezze
che sognano sangue per allattare i figli
affamati Ŕ oh amico, oh fratello
ritorna con noi
porta tra noi la tua Lingua
donaci la tua Lingua che pianga il declinare
della razza sotto le valanghe brutali
e svisceri dal buio prenatali i rossori
dellřalba, e ci guidi come un canto
dřincudini lungo la strada
che ci darà il potere sullřumano(39).
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Così, dallo stridere di due mondi, l'uno incarnato in una dimensione esistenziale pregna di
valori che sembrano appartenere solo al passato e l'altro teso alle sollecitazioni del presente,
affiorano le contrapposte spinte della tradizione, imperfettamente e ampiamente intesa. Una
tradizione che è anche figura dell'autorità, da cui si scorge un'angoscia esistenziale e politica che
cerca una sua forma e finisce per organizzarsi in discorso poetico.
Come all'intellettuale che si aggirava tra le rovine della tradizione, quasi unica fonte di
speranza nella desolazione e nell'aridità del tempo e dello spazio, non restava che ammucchiarle per
arginare l'incombere della storia, a distanza di un ventennio all'intellettuale che urlava la propria
rabbia e impotenza di fronte alla sempiterna lotta di classe, non restava che puntellare le macerie
della propria esperienza poetica friulana con i frammenti dell'ideologia e percorrere quindi altri
sentieri più pervi per raccontare il mondo, interiore e storico. Pasolini ne era consapevole: «c'è un
cattivo gusto del dopoguerra a cui naturalmente non sarò riuscito a sfuggire del tutto: ma se in parte
l'ho fatto, lo devo alla sofferenza, all'insofferenza, alla rabbia, alla sfiducia cui sono stato preda
nello scrivere questi versi. Una tremenda voglia di fare e una tremenda voglia di non fare.
Impotenza e ispirazione»(40). E se Eliot ebbe al suo fianco Pound, pronto a estirpare con la cesoia
l'eccedente, e a portarlo a una forma (che comunque rimane non unitaria) in cui la tradizione si
integra con la modernità attraverso un evidente artificio metaletterario, Pasolini non riuscì
interamente a essere un «miglior fabbro» di sé stesso, non riuscì a risolvere il dissidio del conflitto
di classe e la distanza incolmabile tra i due mondi, non riuscì quindi a non perdere di vista un
materiale in continua espansione, un non-finito strutturale che nei «capoversi in ebollizione»(41)
dell'Italiano è ladro si traduce nell'incapacità di unire istanze di tipo poematico, con istanze di tipo
narrativo e con istanze di tipo tematico: in definitiva, un sostanziale fallimento, da cui deriva la
volontà di trovare altre vie per esprimere, appunto, la dissonanza del mondo.
Lisa Gasparotto
Note.
(1) P. P. Pasolini, Da “L‟italiano è ladro”, in «Nuova Corrente», I, n. 3, gennaio 1955, pp. 234-239. La redazione del
testo uscita in rivista, accompagnata da ulteriori frammenti, ha visto poi la luce in sede postuma in Id., Bestemmia. Tutte
le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, prefazione di G. Giudici, Milano, Garzanti, 1993, pp. 1648-1654; un'altra
redazione del testo (la cosiddetta Redazione Falqui) si legge ora in P. P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura e con uno
scritto di W. Siti, con un saggio introduttivo di F. Bandini, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 2003
(d'ora in avanti indicato con la sigla TP), II, pp. 793-798.
(2) T. S. Eliot, Tradizione e talento individuale (1919), in T. S. Eliot, Opere, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani,
1986, pp. 720-721.
(3) Si pensi ovviamente al testo La scoperta di Marx, nell'Usignolo della Chiesa cattolica, in TP, I, pp. 497-503. Si
tenga inoltre conto di quanto scrive Al lettore nuovo: «ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di
braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del Lodo De Gasperi doveva essere il titolo del
mio primo romanzo, pubblicato invece poi nel 1962 col titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx
e Gramsci. La trasformazione e la fusione […] dei miei due filoni poetici, lřanti-italiano in falsetto e lřitaliano eletto,
avviene sotto il segno del mio marxismo mai ortodosso. È lentamente che arrivo al Ŗpoema civileŗ», P. P. Pasolini, Al
lettore nuovo, ora in SLA, pp. 2517-2518.
(4) P. P. Pasolini, Poesia in forma di rosa, in TP, I, p. 1099.
(5) P. P. Pasolini, «...una forza del passato», in «Vie Nuove», 42, XVII, 18 ottobre 1962, poi in Id., Le belle bandiere.
Dialoghi 1960-1965, a cura di G. C. Ferretti, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 233-244.
(6) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), in TP, II, pp. 865-878; pp. 869-870. Cfr, inoltre
V. Woolf, Lettera a un giovane poeta, a cura di M. Premoli, Milano, Archinto, 2000. La Woolf si chiede perché mai la
poesia, dopo essersi «onestamente scrollata di dosso certe falsità», non dovrebbe «aprire gli occhi, guardare fuori dalla
finestra e scrivere delle altre persone». Per uscire ed entrare nel mondo degli altri il poeta dovrebbe a ogni buon conto
riuscire a «trovare il giusto rapporto […] tra il Ŗséŗ che conosce e il mondo esterno». «È un problema difficile», dice
sempre la Woolf, tanto difficile che «nessun poeta vivente lo ha ancora fatto». La scrittrice invita così lřamico John
Lehamann, a «scoprire il rapporto tra cose incompatibili mentre hanno unřaffinità misteriosa, assorbire ogni esperienza
che attraversa la […] strada, senza timore e saturarla completamente in modo che la […] poesia sia un insieme, non un
frammento; ripensare la vita umana in poesia onde darci di nuovo la tragedia e la commedia attraverso personaggi
concentrati e sintetizzati come fanno i poeti. […] Tutto quello che devi fare adesso è stare alla finestra e lasciare che il
tuo senso ritmico si apra e si chiuda, si apra e si chiuda, in modo audace e libero finché una cosa non si fonde in
unřaltra, finché i tassi non si mettono a ballare con i narcisi, finché da tutti questi frammenti separati non si viene
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formando un insieme. […] Poi lascia che il tuo senso ritmico si snodi tra gli uomini e le donne, tra gli omnibus, i passeri
Ŕ qualsiasi cosa si presenti lungo la strada Ŕ finché non li abbia legati in un tutto armonioso» (pp. 39-42).
(7) P. P. Pasolini, Il metodo di lavoro [1958], in Appendice a Ragazzi di vita, Torino, Einaudi, 1983, p. 210.
(8) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), in TP, II, pp. 870-871.
(9) La plaquette, illustrata con 13 disegni da Giuseppe Zigaina, è stata pubblicata in 500 copie numerate e non è mai
stata ristampata (P. P. Pasolini, Dov'è la mia patria, Casarsa, Edizioni dell'Academiuta, 1949). Alcuni componimenti
della raccolta si leggono anche nella seconda sezione (dal titolo Il testament Coràn) del canzoniere friulano La meglio
gioventù, sebbene con significative varianti di redazione; a questo proposito cfr. Note e notizie sui testi, a cura di W.
Siti, M. Careri, A. Comes e S. De Laude, in TP, I, pp. 1460-1494; in particolare le pp. 1488-1491; si veda inoltre
l'edizione critica e commentata P. P. Pasolini, La meglio gioventù, a cura di A. Arveda, Roma, Salerno, 1998.
(10) Oltre alla raccolta d'esordio (Poesie a Casarsa, Bologna, Libreria antiquaria Mario Landi, 1942), il riferimento è
anche ai successivi esiti poetici (Poesie, San Vito al Tagliamento, Stamperia Primon, 1945; Diarii, Casarsa,
Pubblicazioni dell'Academiuta, 1945, Ŕ ristampa anastatica del 1979, con una premessa di N. Naldini Ŕ; I pianti,
Casarsa, Pubblicazioni dell'Academiuta, 1946), che entrano in larga parte nella prima sezione del canzoniere friulano La
meglio gioventù. Poesie friulane, Firenze, Sansoni («Biblioteca di Paragone»), 1954, ora in TP, I, pp. 1460-1494.
(11) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), in TP, II, p. 876.
(12) P. P. Pasolini, Il metodo di lavoro [1958], in Appendice a Ragazzi di vita, Einaudi, Torino, 1983, p. 210.
(13) P. P. Pasolini, La libertà stilistica, in Passione e ideologia (1960), ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull'arte, a
cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 1999
(d'ora in avanti indicato con la sigla SLA), I, p. 1233.
(14) Nell'ambito degli studi sulla narratività nella poesia italiana si vedano almeno M. A. Bazzocchi, Poesia come
racconto, in M. A. Bazzocchi, F. Curi (a cura di), La poesia italiana del Novecento. Modi e tecniche, Bologna,
Pendragon, 2001, pp. 151-185; A. Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Torino,
Bollati Boringhieri, 1994; P. Giovannetti, Modi della poesia italiana contemporanea. Forme e tecniche dal 1950 a oggi,
Roma, Carocci, 2005; L. Lenzini, Interazioni. Tra poesia e romanzo: Gozzano, Giudici, Sereni, Bassani, Bertolucci,
Trento, Temi, 1998; R. de Rooy, Il narrativo nella poesia moderna. Proposte, teoriche & esercizi di lettura, Firenze,
Cesati, 1997; E. Testa, Il libro di poesia. Tipologie e analisi macrotestuali, Genova, Il Melangolo, 1983, Id., Per
interposta persona. Lingua e poesia del secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999, Id., L'esigenza del libro, in M. A.
Bazzocchi, F. Curi (a cura di), La poesia italiana del Novecento, cit., pp. 97-119, Id., Lingua e poesia negli anni
Sessanta, in S. Giovannuzzi (a cura di), Gli anni '60 e '70 in Italia. Due decenni di ricerca poetica, Genova, San Marco
dei Giustiniani, 2003, pp. 21-43; P. Zublena, Narratività (o dialogicità?). Un addio al romanzo familiare, in S.
Giovannuzzi (a cura di), Gli anni '60 e '70 in Italia, cit., pp. 45-85, Id., Frammenti di un romanzo inesistente. La
narratività nella poesia italiana recente, in G. Langella, E. Elli (a cura di), Il canto strozzato. Poesia italiana del
Novecento. Saggi critici e antologia, Novara, Interlinea, 2004, pp. 255-266.
(15) Si tenga inoltre presente che Pasolini è stato anche traduttore di Eliot e proprio negli immediati dintorni della
stesura dell'Italiano è ladro: nel 1947 esce in una rivista friulana (cfr. «Ce fastu?», nn. 5-6, 1947) la traduzione in
friulano della quarta sezione di The waste Land, Death by water (Muart ta l'aga), ora in TP, II, pp. 1462-1463.
(16) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), in TP, II, pp. 872-873.
(17) Si tratta di un testo che Eliot scrive per la conferenza annuale per l'ŖHenrietta Hertz Trustŗ alla British Academy di
Londra nel 1947; fu pubblicato come volume XXXIII della serie, London, G. Cumberlege, 1947; ripubblicato in
Sewanee Rewiew, LVI, 2 aprile-giugno 1948, quindi inserito come Milton II nella raccolta di saggi On Poetry and
Poets del 1957, ora in T. S. Eliot, Opere. 1939-1962, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani, 2003, pp. 497-515; p. 514515.
(18) Si legge nel diario: «e infine il disgregarsi della lingua-musica in dissociazioni e balbettii carichi del dolore
dell'impotenza e del primordiale», P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), TP, II, p. 876877.
(19) La terzina lirica in novenari risulta testimoniata in specie in pochi testi quattrocenteschi (con tre terzine giocate su
tre parole-rima, chiuse da un verso isolato finale che riprende la parola-rima del primo verso); si veda S. Carrai, Un
esperimento metrico quattrocentesco (la terzina lirica) e una poesia dell‟Alberti, «Interpres», V, 1983-1984, pp. 34-45.
Pasolini aveva già utilizzato questa stessa terzina in novenari nelle poesie della sua ultima raccolta friulana, Dov'è la
mia patria; sulle strutture metriche pasoliniane, cfr. F. Brugnolo, La metrica delle poesie friulane di Pasolini, in G.
Santato (a cura di), Pier Paolo Pasolini: l'opera e il suo tempo, Padova, Cleup, 1983, pp. 21-65.
(20) Per quanto riguarda la formula adattata dal greco, in nota si legge la traduzione in italiano e tra parentesi il
riferimento alla fonte letteraria secondo questo procedimento: «Andate, come i cani di Lissa, andate contro il monte (dal
greco di Euripide)»; per quanto riguarda le lettere di Santa Caterina, in nota vengono indicati i passi adattati allřitaliano
e lřindicazione: «italiano ispirato a quello delle lettere di Santa Caterina»; nelle note relative alle fonti da cui derivano i
versi in veneziano antico e quelli ricalcati sulla confessione umbra si legge, nel primo caso «italiano ispirato al
veneziano antico del ŖLibro de li exempliŗ (a cura di G. Ulrich, Bologna, 1891)» e nel secondo caso «dallřitaliano di
una formula di confessione umbra del sec. XI»; P. P. Pasolini, L‟Italiano è ladro (Redazione Falqui), TP, II, pp. 844845; 849; 850.
(21) Ivi, p. 823.
(22) Aristotele, Poetica, trad.it. di G. Padano, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 41.
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(23) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), TP, II, p. 877.
(24) P. P. Pasolini, L‟italiano è ladro (Redazione Falqui), TP, II, pp. 809, 811, 812, 815.
(25) Ivi, p. 819.
(26) Ivi, pp. 819-820, 849, 850.
(27) Ivi, pp. 838-839.
(28) Ivi, p. 847.
(29) Ivi, p. 850.
(30) Ivi, p. 819.
(31) Ivi, p. 844, 848.
(32) Ivi, p. 841.
(33) Ivi, pp. 809-811.
(34) Ivi, pp. 810-813.
(35) Ivi, p. 812.
(36) Ivi, pp. 817 e 821.
(37) Ivi, pp. 861-862.
(38) Nelle teorizzazioni officinesche Pasolini aveva avuto modo di esprimere quanto «i primi effetti del dopoguerra
[fossero] stati appunto l'anti-retorica e la mescolanza degli stili; o, insomma, la riscoperta di quello che gli stilisti
chiamano il concreto-sensibile. Nella fattispecie questo concreto-sensibile è stata l'Italia, vivente e parlante, che per un
ventennio era sparita. Il neorealismo ha instaurato subito alcuni stilemi, sia pure approssimativi, a rappresentare ai sensi
questa realtà» (P. P. Pasolini, La confusione degli stili, ora in SLA, I, p. 1080).
(39) P. P. Pasolini, L‟italiano è ladro (Redazione Falqui), cit., p. 826.
(40) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), TP, II, p. 878.
(41) Ivi, p. 868.
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Sereni dal libro all‟opera. Appunti e ipotesi
per Max
Di Vittorio Sereni tra il 1998 e il 2010 la casa editrice Einaudi ha riproposto, nella collana di poesia
ŖBiancaŗ, Diario d‟Algeria (1998), Il musicante di Saint-Merry (2001) e Stella variabile (2010).
Solo Frontiera e Gli strumenti umani (libro peraltro accolto nella stessa collana nel 1975, a dieci
anni dalla prima edizione) mancano allřappello, per chi non avesse a disposizione le Poesie
nellředizione critica approntata da Dante Isella per i ŖMeridianiŗ Mondadori (1995), o Tutte le
poesie curate da Maria Teresa Sereni (Mondadori, ŖI poeti dello Specchioŗ) apparse nel 1986, a tre
anni di distanza dalla morte del poeta. Si può pertanto dire che, una volta acquisita lřopera in versi
nel suo assetto ne varietur, accompagnata dal ricchissimo apparato filologico e documentario del
Meridiano Isella, e le due antologie fornite di ampio commento del 1990 (Il grande amico, Rizzoli)
e ř93 (Poesie, Einaudi), entrambe riedite di recente, la serie di ristampe Einaudi, di larga
accessibilità, segna il passaggio ad una nuova fase nella vicenda editoriale - e critica: si vedano le
introduzioni ai volumi, firmate rispettivamente da Raboni, Mengaldo e Pusterla - del lavoro di
questo poeta, il cui lascito è di fondamentale rilievo nel quadro novecentesco, non solo italiano. La
rilettura delle singole opere, in tale cornice (pur in progress, come si spera), fornisce inoltre
lřoccasione per qualche appunto di ordine molto generale: lo sviluppo della poesia sereniana, infatti,
dagli esordi allřultimo libro, è stato assai bene illuminato dalla critica, grazie a interpreti
dřeccezione e comunque ad unřattenzione costante, ma vi sono aspetti dellřopera, presa nel suo
insieme e sotto il profilo della struttura interna, che meritano qualche ulteriore riflessione.
Il punto di partenza, al riguardo, non può che essere la puntualissima prefazione di Isella (La lingua
poetica di Sereni) a Tutte le poesie. Questa prende avvio dalla «riorganizzazione a posteriori» che
tra il 1965 e il ř66, allřaltezza cioè della pubblicazione degli Strumenti umani, Sereni compie «di
tutto il suo esiguo ma ben investito patrimonio di poesia» [p. XI]: non una semplice introduzione di
varianti, annota Isella, bensì un ripensamento che investe la stessa struttura delle raccolte precedenti
(Frontiera, 1941, e Diario d‟Algeria, 1947), fatto «dal punto a cui era arrivato il suo lavoro,
consapevolmente tanto più alto rispetto al giro dřorizzonte dellřesperienza passata.» [ibid.]
Lřannotazione tocca una questione di grande importanza. Il solo fatto di concepire il proprio
«patrimonio» non come alcunché di dato e storicizzato, ma come un insieme da riordinare a partire
da un «punto di vista» considerato superiore o comunque privilegiato, basterebbe già a differenziare
il modo di operare di Sereni da quello di molti altri autori; ma si tratta, evidentemente, della
conseguenza di unřattitudine distintiva che investe la nozione stessa di poesia, nel quadro del più
ampio rapporto tra io e mondo. Su questřultimo aspetto il poeta, pur alieno da dichiarazioni teoriche
e diffidente per natura verso le Ŗpoeticheŗ, non ha mancato di esprimersi con chiarezza. Ma è
ancora Isella, nella breve Prefazione a Poesie, a cogliere con lucidità la portata culturale ed i riflessi
di quellřattitudine sul concreto farsi della poesia:
Una posizione gnoseologica come la sua comporta, con la sospensione del giudizio, un incessante
confronto tra lřesperienza in atto e i dati già acquisiti, suscettibili sulla base dei nuovi apporti di
essere continuamente richiamati in circolo, messi in discussione, arricchiti, mutati, in un fervido
andirivieni tra passato e presente e tra presente e passato. [p. 12]
Da sottolineare, in questa calibrata sintesi, sia il richiamo alla gnoseologia sia quello, concomitante,
allřesperienza, in sintonia con i termini della stessa formazione di Sereni; ma si tenga altresì conto
dellřaltrettanto significativa precisazione del poeta, riportata da Isella in entrambe le sue prefazioni,
in merito alle doppie datazioni spesso apposte a singole poesie: la distanza di tempo tra le date (di
Ŗpartenzaŗ e di Ŗarrivoŗ), osservava Sereni nella Nota agli Strumenti umani, non rinvia ad una
«incontentabilità» o ad un «rigore» considerati «dal punto di vista strettamente stilistico», bensì ad
«una serie di modifiche e aggiunte, di deviazioni o articolazioni successive, dilatazioni e rarefazioni
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offerte o suggerite, quando non importa, dallřesistenza, dal caso, dalla disposizione dellřora» [pp.
XII-XII].
Quanto nella Nota citata è affermato da Sereni in riferimento alle singole liriche vale in generale: le
modifiche nellřordinamento e nella compagine delle raccolte non hanno un movente di ordine
esclusivamente o prevalentemente stilistico, ma si collocano nella cornice di quanto Isella, sulla
scorta del corpus dei manoscritti, si spinge a definire «una visione fluida del mondo, che nella sua
incessante deformazione (in senso etimologico) ha più lo statuto del sogno che della realtà» [p.
XIII]. Non cřè dubbio che una concezione del genere abbia a che fare con il complesso dellřopera,
quale si configura a Sereni (incluse le incursioni nella prosa) nel suo farsi e sedimentarsi nel tempo;
opera la cui «incubazione», per sfruttare il termine del critico, trova un punto di svolta, si è detto, tra
ř65 e ř66. Diamo a questo punto unřocchiata, allora, alle «deformazioni» che Sereni opera sulle
raccolte che precedevano Gli strumenti umani, senza soffermarsi sui singoli episodi ma cercando di
mettere a fuoco la logica che vi presiede.
Per quanto concerne Frontiera, osserva Isella che il poeta punta a redistribuirne le «tessere
compositive» a partire da «un evidente disegno diacronico che conferisce anche alla prima raccolta
un esplicito carattere di diario (e, diario nel diario, le nove poesie legate alla topografia sentimentale
di Luino stanno in una sezione a sé, di identica, parallela scansione)» [p. XI]; inoltre Sereni opera
nel senso dellřarricchimento del libro dřesordio, ricorrendo al recupero di testi dispersi e creando ex
novo una intera sezione (Versi a Proserpina). Analogamente, sul versante del Diario d‟Algeria si ha
lřaggiunta di una intera sezione, lřultima: Il male d‟Africa; mentre in parallelo vige «il passaggio [di
poesie], come tra vasi comunicanti, dallřuno allřaltro libro»: il che non si limita ai primi due libri
(nei Versi a Proserpina confluivano due poesie del Diario), si noti bene, ma include il travaso di
versi da Diario d‟Algeria a Gli strumenti umani (il caso esemplare è Via Scarlatti, che dal Diario
passa a testo di apertura degli Strumenti).
Sono fenomeni di cui anche il lettore di Sereni meno attento alle vicende editoriali ed alle
ricostruzioni filologiche si è accorto, ma che lřesposizione di Isella ha il merito di collocare entro un
quadro dřinsieme. A grandi linee, ne viene evidenziato un doppio movimento, che fa capo a ragioni
di spazio/tempo. Da una parte, la disposizione «diacronica» situa sullřascissa temporale la sequenza
diaristica; dallřaltra, la collocazione dei testi tiene presente, come criterio operativo, il riferimento
topografico. Spazio e tempo come linee-guida, insomma: come si conviene a chi, sul piano
dellřopera, intervenga in chiave narrativa, lavorando sulle categorie prime dellřesperienza. E visione
fluida, certo; ma entro un alveo che per lřessere di amplissimo respiro non per questo è senza precisi
argini e collegamenti. Così la serie di Luino precede e prepara a distanza la serie dei ritorni che
formano unřarchitrave degli Strumenti; mentre Milano, lřambito metropolitano, a partire da Via
Scarlatti, si definisce liminarmente come lřorizzonte elettivo dellřio, in senso esistenziale e sociale,
dopo lřAfrica (e la guerra): soglia di una nuova vicenda che approderà infine alla Spiaggia, testo
conclusivo della raccolta del Ř65.
In entrambe le raccolte, si sarà notato, unřattenzione particolare è dedicata alle sezioni conclusive
(che come tali sono appunto concepite): per lřesser collegati tra loro, mediante gli interventi
Ŗpostumiŗ, i singoli libri non perdono la loro autonomia, una scansione che ne circoscriva il
perimetro - tuttřaltro. Quanto allřAlgeria, il diario vero e proprio è costituito dalla seconda sezione,
ed è anchřesso una suite incardinata in un ambito topografico preciso (con tanto di date e luoghi in
calce ai testi: quelli della prigionia), che in effetti può leggersi come una sorta di controcanto della
sezione Frontiera del libro omonimo. Ma di particolare interesse è appunto lřoperazione compiuta
con lřaggiunta del Male d‟Africa in chiusa al Diario. Qui Sereni non recupera testi dispersi, ma ne
aggiunge di nuovi e si muove con inedita libertà tra versi e prosa: troviamo infatti in apertura di
sezione i Frammenti di una sconfitta, che alterna due composizioni poetiche a due brevi prose;
quindi Il male d‟Africa, poemetto che espone in epigrafe la data del 1958; seguono gli Appunti da
un sogno, il pezzo in prosa più lungo, e infine i versi di L‟otto settembre, con le date «ř43/ř63».
In altra sede ho insistito sul ruolo cruciale di questa sezione nel percorso poetico di Sereni; qui mi
limito a poche osservazioni, sul filo del ragionamento perseguito a partire dalle note di Isella. Prima
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di tutto, va messo però in forte rilievo lřarco temporale del Diario d‟Algeria: che va dal 1940, data
riportata nel titolo di Periferia, testo iniziale di Ragazza d‟Atene, al 1963 dellřora citato Otto
settembre. Ventitre anni, quindi; dato che offre già qualche concreta indicazione sullřintenzione del
libro, non riconducibile alla sola funzione diaristica (come non lo era, globalmente, Frontiera) ma
che, soprattutto, si estende fino al presente, gli anni ř60, dove si situa il punto di vista dellřautore del
nuovo libro. In tale contesto, il ventennale dellřOtto settembre stabilisce un traguardo la cui valenza
è inequivoca: la memoria va ad un crinale storico ed esistenziale ben preciso («Sale macaroni piove
sulla memoria / lo scalpore della solfa ingiuriosa»), di umiliazione e oltraggio, che coincide con un
passaggio traumatico della storia nazionale. È a quel punto che si chiude il libro apertosi nel nome
della «giovinezza» e nellřappello alla vita ed al futuro («E tu mia vita salvati se puoi / serba te
stessa al futuro / passante …»). In modo analogo, i versi del Male d‟Africa portano la data del 1958:
riferimento a sua volta non meramente soggettivo, ma che evoca la guerra di liberazione in corso in
quel paese (richiamata allřinterno della poesia).
La dilatazione della cornice temporale muta in profondità la struttura del secondo libro, agendo in
più direzioni: da una parte, ha una funzione distanziante e oggettivante (rispetto alle zone
pregresse), dallřaltra (e contemporaneamente) di collegamento tra passato e presente. Le «tessere»
sono disposte lungo un asse prolungato, la cui zona estrema è a contatto con un universo
completamente mutato da quello iniziale; ed infatti, qui è la stessa poesia ad essere sensibilmente
diversa, morfologicamente trasformata dalla contaminazione con lřambito romanzesco, nel suo
versante psicologico-soggettivo. Il passaggio è decisivo anche sul piano stilistico-testuale, e
lřinserimento di parti in prosa ne è solo il segno più lampante: fin dai primi versi nel Male d‟Africa,
infatti, al momento memoriale si accompagna un eloquente diramarsi di piani espressivi, e la
presenza di un filtro ironico Ŕ di per sé in attrito con lřimpianto lirico tradizionale - rivela un
distacco che rende palpabile lo sfasamento tra lřio-soldato e lo sguardo che a lui si volge, dopo
molti anni, ben consapevole dellřinsufficiente cognizione degli avvenimenti storici nel momento in
cui essi lo avevano coinvolto. La verità soggettiva dellřesperienza della prigionia non ne è inficiata,
ma è ricompresa in un più vasto contesto, che ha metabolizzato una vicenda collettiva (lřofficina
delle prose narrative, nel dopoguerra, è la sede privilegiata della rivisitazione della propria storia
nella guerra); e non bisogna dimenticare, del resto, che quellřio-soldato dei Frammenti, che viene
meno «sotto il peso delle armi», non è (ancora) il prigioniero dřAfrica: se la sezione si conclude
sullřOtto settembre, nella prima parte del Male le circostanze a cui tornano i ricordi sono quelle che
immediatamente precedono la cattura sul fronte siciliano del 1943. Si tratta insomma di flash-back
che, anche qui con spiccato accento romanzesco, acquistano un significato peculiare proprio per
lřesser posti in serie contigua al finale ignominioso della guerra fascista, con un montaggio che
costituisce una precisa modalità di costruzione del senso, tanto più in quanto esclude il ritorno a
Milano (Via Scarlatti) che dovrà essere, nel libro nuovo, una ripartenza e non un arrivo.
Ma di nuovo va notato, a conferma di un far poesia intimamente complesso, irriducibile tanto a
schemi Ŗideologiciŗ che a generi prestabiliti, che nel Male d‟Africa lřistanza ironica non si svolge
sul piano espressivo secondo una strategia delegittimante o freddamente storicizzante: anche qui ha
luogo una dialettica resa possibile dal nuovo stile di Sereni, ibrido e disponibile a più livelli
discorsivi. La scelta del Ŗframmentoŗ sřinserisce in questo quadro, mosso e articolato, che consente
una pluralità di registri e di affiancare sempre di più alla voce dellřio, non più soggetto univoco ma
anche oggetto di violenza da parte della storia, lřeco di un «noi» formatosi nella comune esperienza
di una guerra vissuta Ŗdal bassoŗ («siamo appiattiti corpi / volti protesi allřalto senza onore»), in
una condizione dřimpotenza e inermità sconosciuta ai «generali» evocati nei Frammenti
(«Dicevano i generali…»). Non per caso il libro si conclude sullřimmagine di «noialtri in cenci»
(L‟otto settembre); ma la stessa dimensione del Ŗnoiŗ, per poter diventare tramite di senso, è
assoggettata ad un confronto con la storia in atto rappresentato nellřunico modo concepibile per
Sereni, cioè tutto calato nellřinteriorità individuale, in strati per definizione soggettivi come il
preconscio ed il sogno. Solo su questo piano può aver luogo la diagnosi del Male: dunque una
rêvérie apre i Frammenti («Ed ecco stranamente simultanee / le ragazze dřun tempo…»), uno stato
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di risveglio ed emersione dal sogno li conclude («Accadeva come dopo certi sogni…»), nellřultima
prosa; e infine tocca agli Appunti da un sogno, il penultimo testo della sezione, appena prima
dellřOtto settembre, caricare la resa del Ř43 («Sento che è finita…») di una valenza allegoricoprofetica, rovesciando di segno Ŕ e si potrebbe dire archiviando - lřappello iniziale alla giovinezza
(«Quanti dispiaceri la gioventù (degli altri) ci darà dřora in poi.») e facendo dello spazio
dellřinteriorità il luogo labirintico, ma anche imprescindibile, di ogni rivelazione. Non solo: tanto
nei versi iniziali dei Frammenti che nel brano in prosa che li chiude a fare da filo conduttore è il
motivo erotico, secondo i tempi di una specie di cavalleresca contesa (e di un sofferto congedodisincanto) che nello spazio psicologico, con i relativi moti di gelosia, tradimento e abbandono,
ricostruisce e interpreta, esemplarmente, la parabola della sconfitta e della cattura, in modo da
permearla di vissuto e sottrarla alle ipoteche dellřastrattezza.
Il passaggio del Male d‟Africa ha valore paradigmatico per intendere come lř«andirivieni» tra
passato e presente di Sereni sia funzionale ad un tentativo di organizzare il senso Ŕ di qui
lřattenzione privilegiata per le parti conclusive - che esige tanto la presenza della ragione che
lřapertura di varchi trasversali (se occorre, manifestamente anacronistici) nellřassetto spaziotemporale implicato nellřopera: un lavoro che travalica naturalmente il singolo libro per ascoltare i
battiti della storia dentro lřorganismo vivente della poesia, aperto alle rivelazioni, agli anticipi ed
alle illuminazioni retroattive dellřesperienza, alle discontinuità, riprese e incrostazioni
dellřesistenza. Non era scontato che lřautore di Frontiera arrivasse a orchestrare una impresa così
vasta, e potesse con piena legittimità dare ad un suo libro il titolo Gli strumenti umani, il cui
richiamo alla concretezza, allřuniverso dellřempiria, si accompagna ad un orizzonte estensivo e
totalizzante. Non era scontato; ma in qualche modo un carattere di scommessa è inerente a questa
poesia, che si concepisce come ricerca ed ha come polo magnetico il campo del possibile:
immaginazione e comprensione vanno per questo di pari passo e per questo, anche, dopo la caduta
impietosamente registrata nel secondo libro, è il finale della Spiaggia il punto alto da cui lřautore
guarda al suo «patrimonio», riorganizzandone la struttura. Lřinclusività, la porosità e la capacità
Ŗpolifonicaŗ degli Strumenti rispecchiano lřampiezza del territorio attraversato, il suo spessore
sociale, collettivo, storico; un viaggio non lineare né omogeneo nel suo sviluppo, ma scandito per
fasi, in cui tra ritorni e stalli, aperto e interno, visioni e scoperte, apparizioni e incontri si dà un
orientamento, un apprendistato ed un riscatto: un moto affermativo e finalizzato, che investe le zone
ammutolite, tradite e irrealizzate, tanto della storia individuale che di quella plurale. Le «toppe
dřinesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce» della Spiaggia riarticolano
fulmineamente, per ellissi, lřitinerario dellřio, nel suo confronto con il passato ed il presente,
ripetendo con lřaccento proprio dellřutopia lřeredità del futuro («parleranno») da conquistare ogni
volta, generazione dopo generazione.
Quel punto conquistato è anche il luogo in cui la poesia ritrova la propria funzione, lřincarico
dimenticato e ora, una volta per tutte, riconosciuto. Ma se il movimento utopico Ŕ immediatamente
rilevato da Franco Fortini Ŕ che informa la struttura degli Strumenti e si riflette su quanto li precede,
è quanto si rivela (impone, vorrei dire) negli Strumenti, qual è la allora posizione di Stella variabile,
lřultima raccolta di Sereni, nellřorganismo che lřaccoglie, ovvero nellřopera che nel corso dei
decenni è venuta assumendo la propria forma? E non è quello della Spiaggia un punto di nonritorno, irrevocabile? E ancora, anzi: proprio in virtù del momento utopico che investe lřopera nel
suo insieme, non sarà che di quella conquista non si dà soltanto un effetto retrospettivo, ma anche Ŕ
come per una sua forza intrinseca - un riverbero su ciò che viene dopo, sulla poesia in via di crescita
non solo nei versi ma anche nelle prose che li affiancano e intersecano? In base ad unřaccezione
ampia del lavoro dellřautore, si può infatti ipotizzare che dellřopera in questione vada considerata
parte integrante la produzione in prosa, da Gli immediati dintorni a Il sabato tedesco fino ai progetti
interrotti dalla morte; e non è casuale, sotto questo profilo, che una prima edizione non commerciale
(1980) di Stella variabile comprendesse la (stupenda) prosa Ventisei. Non sono pochi gli indizi che
fanno pensare allřultima zona dellřopera sereniana come ad un cantiere aperto.
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Ma resta da specificare, comunque, il contributo dellřultima raccolta, in cui taluno ha ravvisato un
ritorno alla prima maniera, tra Frontiera e Diario, altri invece hanno visto il prevalere di un fondo
nichilistico (in questo senso, a correzione o smentita del messaggio degli Strumenti), mentre altri
ancora, come Fortini, hanno parlato di «tropismo verso la metafisica», incentivato dalla scomparsa
dei «significati» che «fondavano» la poesia della precedente raccolta. Ebbene, si può discutere sul
momento nichilista allřinterno della poesia sereniana, come di un suo «tropismo» che supera il
piano del reale per sporgersi oltre (ma sempre con una base molto terrena, fondata sullřErlebnis); in
ogni caso, i tratti di continuità tra Strumenti umani e Stella variabile sono indubbi, e la critica non
ha mancato di rilevarli. Ma intanto, è guardando alla struttura interna del libro che si può fare
qualche rilievo allřingrosso: salta subito agli occhi, per esempio, che le cinque sezioni, a differenza
di quanto avviene in tutte le altre raccolte nella versione definitiva, non usufruiscono di titoli atti a
tematizzare o circoscriverne i testi. Solo una scarna progressione numerica - la primissima edizione
di Frontiera è lřunico caso analogo - fornisce la scansione; il che si può leggere in rapporto con
quanto osservava, in unřintervista del 1980, lo stesso Sereni, annunciando che Stella variabile
«sarà, credo, un libro privo di unřorganizzazione consapevole, di una struttura interna avvertibile.
Un libro, come Il sabato tedesco, che non si può riassumere o raccontare» [p. 664, apparato Isella].
Un libro che non si può raccontare; senza una organizzazione consapevole. Le due indicazioni
vanno considerate insieme, e quanto si è fin qui annotato, se ha un fondamento, sta ad attestarlo, per
così dire, e contrario. Forse Stella variabile, allora, era ancora in cerca di un suo assetto stabile, o
segnava il ritorno ad un modello tradizionale di album lirico come raccolta di episodi? Questřultimo
caso ritengo sia da scartare, proprio per quella visione insieme fluida e organica ben evidenziata da
Isella; piuttosto, cřè da osservare che nel libro senza avvertibile struttura interna, si dà però un
centro, la terza sezione che include Un posto di vacanza, Niccolò e Fissità. Senza addentrarci nel
complesso impianto del Posto, possiamo notare che tanto il poemetto quanto gli altri due testi (che
poi in stesure provvisorie ne facevano parte) hanno in comune lo scenario di Bocca di Magra (e
dintorni); ed a sua volta, questo scenario, assieme al tema capitale dei morti, propone un
collegamento diretto con La spiaggia. È dunque a partire da questo centro che va misurata la
distanza di Stella variabile dagli Strumenti umani; ed è a dir poco arduo sostenere che vi sia una
sensibile discontinuità tra i testi in questione. Del resto, un primo frammento del Posto fu
pubblicato nel 1966 (appena un anno dopo gli Strumenti), e del 1971 è lřapparizione
nellř«Almanacco dello Specchio»: insomma è nel poemetto che Sereni riprende e sviluppa,
esplicitamente e consapevolmente, il discorso della Spiaggia, in parte ripercorrendo lřitinerario
interiore di memoria, sogno, agnizione, interferenza passato/presente degli Strumenti, in parte
portandone a convalida e compimento il disegno, o meglio conferendogli Ŕ nuova scommessa Ŕ una
trasparenza che valga a futura memoria: del proprio lavoro, della mite e intransigente, tenacissima e
limpida utopia che lo informa, del suo sconfinamento in una dimensione che è solo sua, di Sereni, e
nessun altro. La verticalità sur place del Posto di vacanza fa da approfondimento, commento e
variazione al viaggio degli Strumenti, ed è proprio in questo movimento verticale e interiore, di
ricapitolazione e al tempo stesso di rilancio - tanto più necessario e coraggioso: il «progetto /
sempre in divenire sempre / Ŗin fieriŗ di cui essere parte / per una volta senza umiltà né orgoglio» di
VI, 21-24 - che va colto lřelemento storico, corrispondente ad una situazione di regressione e
chiusura sul piano sociale, di cui lřautore intravide la lunga ipoteca.
Da cosřaltro, infine, se non da questa sua assoluta verticalità, intrisa di elementi di ordine narrativo
fatti fluttuare nella discrezionalità del monologo interiore, nella relativizzazione del tempo e nel
riflesso onirico, nasce la non-raccontabilità del Posto? Ma cřè altro, per chi sappia ascoltarne la
musica ultima, e questo vale per il libro intero. Il campo del possibile, è ancora il mare a dirlo (III,
30), è sempre aperto, la «recidiva speranza» di Autostrada della Cisa (chiusura ideale del libro) può
parlare tra un tunnel e lřaltro; lo stesso itinerario del poeta, di valico in valico e di fronte al «vuoto»
ed alla fine, è una parabola offerta per chi verrà dopo, in un nuovo ciclo a cui forse allude il
rapporto di luce/ombra che è la stessa Stella, nella sua mobile lontananza e intermittenza, a evocare.
In questo senso, anche la struttura del libro è il rispecchiamento di una tale opzione, ed in fondo
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23
nellřintervista del 1980 Sereni lřaveva pur detto, precisando che Stella variabile «… dovrebbe
esprimere quella compresenza di impotenza e potenzialità, la mia difficoltà a capire il mondo in cui
viviamo e al tempo stesso lřimpulso a cercarvi nuovi e nascosti significati, la coscienza di una vita
diversa, tanto vaga e sfuggente oggi quanto pronta a riproporsi ogni volta che se ne sappiano
cogliere gli indizi e le tracce umane. »
Luca Lenzini
Nota bibliografica
Per i testi e la storia delle raccolte di V.S., come per le citazioni dalla Prefazione del curatore, si rimanda a Vittorio
Sereni, Poesie, edizione critica di Dante Isella, Milano, Mondadori, 1995, nel cui apparato è anche riportata (pp. 663664) lřintervista di Giancarlo Ferretti a Sereni (da «Rinascita», a.37, 42, 24 ottobre 1980) qui citata. Per le
interpretazioni delle poesie e per lřinquadramento dellřopera si tengano presenti i commenti delle due antologie
reperibili in commercio, citate in apertura: Vittorio Sereni, Il grande amico. Poesie 1935-1981, introduzione di Gilberto
Lonardi, commento di L.Lenzini, Milano, Rizzoli, 2010 (1990 1); Vittorio Sereni, Poesie, a cura di Dante Isella con la
collaborazione di Clelia Martignoni, Torino, Einaudi, 2005. Per i riferimenti ai saggi di Franco Fortini vedi F.Fortini, Di
Sereni, in Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di L.Lenzini e uno scritto di R.Rossanda, Milano,
Mondadori, 2003; Id., Ancora per Vittorio Sereni, in Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987; per lřAlgeria il
rinvio è a L.Lenzini, Verso la trasparenza, «Poetiche», 3, 1999, mentre per gli aspetti legati al romanzo v. Giovanna
Cordibella, Di fronte al romanzo. Contaminazioni nella poesia di Vittorio Sereni, Bologna, Pendragon, 2004. Ometto
per brevità altri rinvii, che il lettore può reperire nel Meridiano Isella, comprensivo di una accurata Antologia critica
(pp. IX-XCVIII).
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Forma poetica come ready-made. Lo “spazio metrico” di Amelia Rosselli
1. Allřinizio del Novecento le arti visive, in certi ambienti, sembrano voler prescindere dalle abilità
tecniche specifiche, o almeno volerle declassare da principali a secondari parametri di valore. Il
quid dellřopera si pretende che stia nel gioco di assemblaggio di elementi secondo unřidea
progettuale che diventa catalizzatrice dellřinteresse del fruitore molto più delle qualità sensibilicorporee. Il primo a operare in questa direzione è, si sa, Marcel Duchamp, che con i suoi readymade non lavora più per addizione o sottrazione di materia comřè nelle arti visive tradizionalmente
intese, ma combina un oggetto già fatto con altri oggetti (Roue de bicyclette, 1913) o con un nome
(Fountain, 1917), nellřambito di una ricontestualizzazione che, di per sé e almeno una volta nella
storia dellřarte, basta ad ottenere lřopera, come dimostra Egouttoir (1914-1916): ad uno
scolabottiglie si aggiunge una breve iscrizione con firma (neppure autentica, essendo stata apposta
dalla sorella Suzanne su indicazione dellřartista che ormai, nel 1916, si trova oltreoceano) e lřopera
è fatta. Al pari di un ŖSan Giovanninoŗ di Michelangelo Merisi, lo Scolabottiglie significa se stesso,
ma al significato tautologico dellřoggetto si sovrappone quello dellřoperazione compiuta, in parte e
forse del tutto traducibile in un concetto (del tipo Ŗlřartisticità non è una proprietà intrinseca
dellřoggetto ma può risiedere nellřoperazione, anche immateriale come quella della scelta, che
qualcuno compie su di essoŗ), ed è in questo concetto che risiede il valore Ŕ o diciamo più
prudentemente: il significato Ŕ artistico. È unřopera che Ŗdice qualcosaŗ, nel senso meno metaforico
dellřespressione, tantřè che se ne può fare esperienza anche indirettamente, tramite una pura e
semplice descrizione (è una condizione che mi pare compresa pienamente a partire da Magritte).
Ciò trova conferma in un dato. Più di un ready-made è stato replicato dallřautore mostrando
una particolare e nuova indifferenza estetica allřunicità materiale dellřopera(1), che evidentemente
non appartiene ad un Caravaggio che dipinge due San Giovannini Ŗugualiŗ. Di questi si può
effettuare uno studio comparativo, descrivere differenze e particolarità, mentre per un ready-made
non si fa e non avrebbe senso farlo. Inoltre, tra il 1935 e il 1941, Duchamp realizza Boîte-en-valise,
sorta di kit da viaggio che consente di avere con sé alcune famose opere dellřartista: una scatola di
cartone che contiene riproduzioni miniaturizzate di Fountain, Traveller Folding Item, Nu
descendent un escalier e di altri. La valigia è prodotta in trecento esemplari: trecento copie di copie,
tutte rigorosamente autentiche.
La cosa si può giustificare, e con essa gran parte dei nuovi procedimenti proposti da Duchamp,
se ci si riferisce alla teoria della notazione Ŕ e quindi alla distinzione tra sistemi densi e sistemi
articolati Ŕ che Franco Brioschi ha discusso nel saggio Un mondo di individui, riprendendola (così
come il titolo) da Nelson Goodman(2). Riassumo i concetti che qui interessano: un sistema è denso
se non prevede procedure per stabilire conclusivamente lřidentità di due, o più, individui, che
pertanto risultano sempre in rapporto di opposizione e non potranno avere mai copie effettive;
viceversa il sistema è articolato se tale procedura è prevista e permette di decidere se due oggetti
sono in rapporto di equivalenza o di opposizione, cioè se sono copie lřuno dellřaltro oppure no. Da
queste proprietà consegue quella di non essere, nel primo caso, o di essere, nel secondo, sistema
utilizzabile come linguaggio in senso proprio.
Quello pittorico si configura tradizionalmente come sistema denso (grazie a ciò ha senso il
concetto di autentico) e per questo i due dipinti di Caravaggio non possono che essere considerati
due opere diverse. Il ready-made di Duchamp è invece foriero di una lettura propria di un sistema
articolato, essendo la ruota di bicicletta, con il relativo sgabello, potenzialmente sostituibile con una
ruota uguale, o addirittura solamente simile, come di fatto è la ruota di bicicletta che ha sostituito
lřopera Ŗoriginaleŗ dispersa, e come suggerisce Boîte-en-valise. Quasi che lřarte visiva abbia voluto
diventare una disciplina linguistica.
Non a caso in Fountain lřoperazione si effettua su elementi del linguaggio verbale: il titolo e la
firma. Il titolo consiste nella ridenominazione dellřoggetto, con cui si va a toccare la gerarchia delle
sue proprietà facendo balzare in primo piano lřacquaticità e la ceramicità, a tutto discapito della sua
proprietà convenzionalmente più importante che è legata allřespulsione urinaria dellřuomo. Con una
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tale modificazione gerarchica si pratica lřaccostamento e quindi la sostituzione (sintatticamente
legittima in un sistema articolato) dellřorinatoio con un altro simbolo che abbia quelle medesime
proprietà evidenziate (e che risponda alle intenzioni ironiche, critiche, ecc. dellřautore): ecco la
fontana, che poi con la firma si dichiara «oeuvre dřart authentique et véritable» (così direbbe Piero
Manzoni) e ottiene la museificazione, sempre in accordo Ŕ questo è chiaro Ŕ con quelle proprietà
che lřoggetto intrinsecamente possiede e che ne hanno permesso tale particolare utilizzo,
concedendo meno rispetto allřEgouttoir (o addirittura non concedendo nulla) a quellřarbitrarietà che
in campo artistico, ma non solo, non è generalmente vista di buon occhio.
Il preteso Ŗstraniamentoŗ o la pretesa Ŗricontestualizzazioneŗ conducono precisamente ad una
articolazione del sistema dellřarte visiva e di lì ad una riflessione sulla natura convenzionale della
lettura dellřopera. Inoltre, allřarticolazione è del tutto congruente lřoperare secondo un metodo
puramente combinatorio di elementi preesistenti, ché sarebbe uno sforzo non necessario quello della
creazione. Sfruttando ancora il saggio di Brioschi, con un passo indietro bisognerà chiarire la
nozione di simbolo, inteso nello stesso senso generico di Goodman(3), cioè come unità sintattica di
un qualsiasi linguaggio:
Non basta che lřoggetto possieda le proprietà che possiede [...] perché valga come questo o
quel simbolo: occorre anche che sia stabilita una gerarchia di pertinenza fra tali proprietà. Il
punto è che tale gerarchia [..] non la troviamo iscritta nellřoggetto stesso, come un Řdatoř
preesistente. Siamo noi a istituirla, nel momento in cui facciamo riferimento alle sue
proprietà secondo questa o quella regola. Contrariamente allřopinione comune, la nozione di
riferimento riveste pertanto unřimportanza fondamentale nella sintassi di un sistema
simbolico, prima ancora che nella semantica. (4)
Brioschi, da buon nominalista, non crede allřindipendenza ontologica dei codici linguistici e
rivendica lřesistenza di quellřhors-texte che Derrida aveva negato, rivendicando con esso il carattere
estensionale della sintassi (oltre che della semantica) di qualsiasi codice comunicativo, sia in fase di
produzione che di ricezione del messaggio. Infatti un oggetto è simbolo di un determinato codice
nella misura in cui esemplifica quelle proprietà che sono richieste dal gioco cooperativo dello
scambio linguistico, e che il produttore e il ricettore, convenzionalmente, vi riconoscono.
Considerando lřopera dřarte come sistema di simboli e come simbolo essa stessa, dobbiamo vederne
le proprietà immanenti passibili di essere organizzate, di volta in volta, in una determinata gerarchia
di pertinenza. Lřoperazione che Duchamp compie sullřorinatoio (firma, ridenominazione,
ricollocazione) genera esattamente una riorganizzazione delle proprietà esemplificate dallřoggetto.
Ciò che andrebbe messo maggiormente in evidenza è il fatto che un oggetto, per forza di
consuetudine, può indurre a non dimenticare le proprietà esemplificate in altri contesti, in altri
giochi cooperativi: se su una scacchiera le pedine sono persone (la scacchiera sarà la
pavimentazione di una piazza) e in particolare la regina bianca è una bella ragazza dotata di insegne
regali, il fatto di essere il giocatore nero, cioè di vedere esemplificate nella ragazza le proprietà della
regina avversaria e in base a ciò di dovermi da lei difendere, non mi impedirà di infatuarmene. La
sovrapposizione delle gerarchie, la compresenza di proprietà richieste da giochi cooperativi diversi
è ciò che conferisce la giustificazione di una scacchiera umana, come anche di un ready-made. Per
forza di consuetudine lřorinatoio ci induce a tener presente la sua proprietà principale esemplificata
abitualmente, pur allřinterno di una convenzione che non la richiede. Il gioco cooperativo dellřarte
finisce così per dover fare i conti con i propri simboli, uscendone non completamente intoccato. Ed
è precisamente questo che ottiene la fontana di Duchamp: ecco perché egli, al posto dellřorinatoio,
non avrebbe potuto usare un oggetto diverso anche se in qualche modo affine (come ad esempio una
vasca da bagno) se non al prezzo di produrre unřopera diversa, e magari non altrettanto riuscita.
Tuttavia, anche se non così permissiva, lřarticolazione del sistema sembra salva poiché Duchamp
avrebbe potuto usare un qualunque altro orinatoio e nulla sarebbe cambiato.
Ma cosřè che impedisce Ŕ perché dopotutto e nonostante lřazione di Duchamp così stanno le
cose Ŕ lřeffettiva replicabilità dellřopera o la sostituibilità dellřoggetto che la costituisce (nella sua
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totalità o in una sua parte) con un altro oggetto non dico simile ma del tutto identico? Contando
lřesemplificazione delle proprietà, lřoggetto deve essere in linea di principio sostituibile con un altro
che esemplifichi le stesse proprietà, che cioè sia sintatticamente equivalente nel sistema di
riferimento attuale ed in quello (o in quelli) che eventualmente trascina con sé, ed una copia
identica dellřoggetto soddisfa abbondantemente questa condizione. Il fatto che di una stessa opera
lřautore realizzi diverse copie e addirittura riproduzioni miniaturizzate, mostrerebbe la
consapevolezza di questa sostituibilità. In realtà, esiste una proprietà che il mondo dell‟arte (è il
caso di dirla con A.C. Danto(5)) richiede (o impone?) a qualsiasi oggetto faccia irruzione nel suo
sistema (e solo una volta che vi abbia fatto irruzione, cioè a opera completata) e che non ammette
equivalenza sintattica, ripristinando, di fatto, quello che è un carattere tipico dei sistemi densi:
lřautenticità.
Lřarticolazione o la densità sintattica di un sistema derivano da una convenzione e non
dipendono direttamente dalla natura degli individui, cosicché Ŕ secondo quanto spiega Brioschi(6) Ŕ
possiamo imporre a un sistema denso una qualche forma di articolazione. Allo stesso modo
possiamo prendere un sistema che consideriamo abitualmente articolato, come quello della
produzione in serie di scolabottiglie, e decidere ad esempio che la proprietà Ŗfirmato e collocato da
Marcel Duchamp il tal giorno nel tal luogoŗ è pertinente nel definire i rapporti di opposizioneequivalenza (dinamicamente pertinente, se ad un certo punto si scopre che la firma è di Suzanne
Duchamp e lřautenticità dellřopera pare non risentirne). Ecco perché nelle monografie e nei
cataloghi duchampiani si può leggere, di certi ready-made, «originale disperso».
A questo punto non è facile dire se il sistema in cui è inserito un ready-made è denso o
articolato, se lřopera è autografica o allografica(7), e vediamo piuttosto ricrearsi una
sovrapposizione tra le due tipologie. Diciamo che si è reso articolato il codice che lřautore utilizza
in fase di produzione, mentre rimane denso il sistema che accoglie il prodotto una volta che sia stato
concluso, cioè quello del mercato dellřarte o, meno prosaicamente, del valore dellřarte. Ciò non
deve sorprendere: anche in un sistema articolato come quello della scrittura letteraria un
manoscritto autentico ha il suo fascino, e il suo prezzo. La densità, per consuetudine, resiste, e
resiste in qualsiasi arte. Si tratta forse, per noi, di distinguere il mercante e il collezionista dal mero
fruitore: i primi saranno sempre a caccia del pezzo originale, di un dattiloscritto o di un cimelio; il
secondo saggiamente si accontenterà, in alcuni casi dopo aver opportunamente visitato gli originali,
delle repliche sotto forma di libri, cataloghi, stampe o contraffazioni dichiarate (in Cina esiste una
catena di manovali della pittura che copia in serie le opere più famose dellřarte occidentale). La
densità resiste anche al di fuori delle arti (nella insostituibilità dellřautografo di Zico o del coltellino
di mio nonno), e più che per consuetudine, può darsi che sia per lřumano bisogno di sacro (solo
qualche volta scompagnato dalla pecunia; ma del resto, il sapere un oggetto valutato diversi milioni
di dollari o euro non aggiunge qualcosa a ciò che sappiamo di lui e che ci strabilia? non è unřaltra
delle sue proprietà magari non oggettuale, ma certamente oggettiva?), è per lřumano bisogno di
sacro, dicevo, che lřautentico avrà sempre il suo bel valore, anche se si tratta di un volgare orinatoio
da pubblica toilette.
Ritornando a problemi strettamente testuali, la consuetudine è evidentemente un punto
fondamentale dellřattività linguistica, in quanto convenzione che tende ad assumere le sembianze di
qualcosa di naturale (con un guadagno in termini di efficienza ma anche con alcune note
implicazioni ideologiche) e che quindi non necessita di essere concordata ad ogni scambio
comunicativo. Ora, invece della posizione che vuole lřavanguardia genericamente operante contro
la consuetudine, possiamo sostenerne una opposta, secondo cui è chiaro come essa consideri e
sfrutti i meccanismi consueti della fruizione artistica e dellřattività comunicativa in generale.
Legando il discorso alla natura trascendentale della gerarchia di pertinenza delle proprietà degli
oggetti simbolici, come è stato fatto sopra, si comprende che essa gerarchia, quando non sia frutto
di consuetudine o quando non sia comunque attingibile in maniera immediata, richiede di essere
definita esplicitamente per permettere al ricettore di potervi fare riferimento, e questo spiega in
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parte quel fiorire di istruzioni e modes d‟emploi che è frequente fenomeno delle avanguardie.
Comprendiamo, insomma, il ruolo dellřhors-texte, che si esplicita diventando paratesto.
Ho sottolineato a proposito dellřorinatoio di Duchamp come il processo di articolazione del
sistema dellřarte visiva fosse passato, sintomaticamente, attraverso il linguaggio per antonomasia,
quello verbale. Ciò è coerente con il fatto che la visione dellřopera possa essere surrogata dalla
lettura di una sua descrizione, e mostra come la parte principale del lavoro sia affidata ad un
elemento esterno al codice proprio dellřarte visiva. Se il titolo di una Crocifissione di Antonello da
Messina, ammesso che provenga dallřautore, non è evidentemente in cima alla gerarchia di
pertinenza delle proprietà dellřopera, lo stesso non si può dire per la fontana dadaista. A questo
proposito si legga dal Marcel Duchamp di Arturo Schwarz:
Le déplacement du contexte logique ordinaire est obtenu en rebaptisant lřobjet. Le nouveau
titre nřa alors plus aucun relation évidente avec celui-ci quřon le considère habituellement
[...].
[Le ready-made] devait en outre comporter un sous-titre qui, au lieu de décrire lřobjet comme
le fait un titre, «était destiné à conduire les pensées des spectateurs vers dřautres domaines,
plus verbaux» (8)
correggendo lřaffermazione secondo cui il nuovo titolo è privo di rapporti evidenti con lřoggetto
considerato abitualmente perché, come già è stato visto, ciò non è necessariamente vero, ed è bene
che non lo sia.
In ogni caso notiamo che il titolo, la firma (per quanto appartenente ad un fantomatico R.
Mutt), non sono più oggetti extra-estetici ma partecipano direttamente alla costituzione dellřopera.
Alcuni elementi apparentemente paratestuali possono essere inscindibili dal testo e farne infine
parte; o perché sono costitutivi dellřesteticità del prodotto, o perché forniscono Ŕ secondo una
possibilità e anzi una necessità Ŕ indicazioni anche di natura pratica senza le quali lřopera sarebbe
fruita in maniera non adeguata, comunicativamente scorretta, analfabetica. Della firma,
provocatoriamente e polemicamente, allřinizio degli anni Sessanta, Piero Manzoni riaffermerà il
ruolo museificante con le 90 scatolette di Merda d‟artista o con le Cartes d‟authenticité, ritornando
sulla nozione Ŕ quella di autenticità Ŕ che più ha subito stravolgimenti (e chiarificazioni) nellřarte
contemporanea, sia per lřavvento della riproducibilità tecnica sia per lo sviluppo dellřanalisi dei
linguaggi, momenti dopotutto storicamente non disgiunti.
La crescente importanza degli elementi paratestuali in generale e, nelle arti visive,
dellřelemento verbale, è confermata sia nellřambito dellřarte concettuale (da Joseph Kosuth Ŕ e il
gruppo di ŖArt-Languageŗ Ŕ a Jenny Holzer) sia in esperienze di altro indirizzo, come quelle di Ben
Vautier o di ŖSamoŗ Basquiat, ottenendo un completo assorbimento del paratesto, ormai
indistinguibile dal testo.
Tornando al primo Novecento, non bisogna tralasciare i papiers collés di Picasso, Braque e
Gris, ma è opportuno ricordare soprattutto René Magritte. La sua opera, anche quando non è
figurativo-verbale come La trahison des images (Ceci n‟est pas une pipe), o La clef des songes,
oppure L‟usage de la parole Ŕ tutti dipinti di cui esistono diverse realizzazioni, e la cosa non deve
passare inosservata Ŕ, sembra puntare più alla ricerca concettuale che non a quella pittorica, come
conferma unřintervista rilasciata a Pierre du Bois nel 1966:
Il mio modo di dipingere è del tutto banale, accademico. Ciò che è importante, nella mia
pittura, è ciò che essa mostra. [...] Io non vedo la ragione di esprimere dei sentimenti, anche
ammesso che ciò sia possibile. Il mistero è evidentemente qualcosa di inconoscibile, privo
perciò di rappresentazione, né figurata né simbolica. Non è dunque una rappresentazione del
mistero quella che io cerco, bensì immagini del mondo visibile unite in un ordine che evochi
il mistero. (9)
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Al di là dellřelemento arcano, la dichiarazione di Magritte non poteva essere maggiormente utile.
Egli lavora non tanto sul codice pittorico (che comunque, ovviamente, utilizza) e cioè sulla fattura
delle immagini che dipinge, quanto sulla loro combinazione, sulla loro sintassi, muovendosi (come)
in un sistema articolato. Del concetto di sistema articolato Magritte dimostra del resto di avere una
buona padronanza:
Non ci sono due cose, o due atti, che possano essere riconosciuti come identici. Ogni atto è
unřinvenzione. Eppure lřintera organizzazione del pensiero e del linguaggio smentisce questa
semplice affermazione di non-identità. Possiamo cogliere lřuniverso solo semplificandolo
con idee di identità per classi, tipi e categorie, e riordinando lřinfinita continuazione di eventi
non-identici in un sistema finito di somiglianze. È nella natura dellřessere che nessun evento
mai si ripeta, ma è nella natura del pensiero che comprendiamo gli eventi solo per le identità
che immaginiamo tra di essi. (10)
Nelle opere del surrealista belga ritorna il rapporto già duchampiano tra rappresentazione e titolo,
che A.M. Hammacher rammenta, pur con una clamorosa amnesia riguardo al celebre precedente:
Magritte fissava di frequente regole nuove a cui i titoli dovevano conformarsi. Si basavano
sulla sua concezione della natura e della funzione del quadro, e sono quindi importanti. I
titoli inoltre, sebbene evocati nei dipinti, sembrano poter esistere separatamente, in modo
parallelo ai dipinti stessi. Il loro carattere, talora provocatorio, consiste in uno strano legame
con lřimmagine dipinta. Lřinteresse profondo di Magritte per i titoli, e soprattutto per il
cambiamento della loro funzione, è, per quanto io sappia, unico. (11)
In tale ambito lřapporto originale di Magritte consiste nel giocare questa relazione anche allřinterno
dellřopera: in alcuni casi le parole si pongono come contenuto figurativo di macchie informi, in altri
come didascalia incongrua di immagini definite. Tutti rapporti di natura logico-linguistica, e non a
caso lřopera di Magritte ha fatto pensare agli studi di Wittgenstein(12).
Per mostrare che tanto la rappresentazione (lřimmagine) di un oggetto quanto la sua
descrizione (il suo nome) non sono lřoggetto ma suoi rimandi referenziali, Magritte non esita Ŕ
forzando qualunque tradizione ekphrastica Ŕ a sostituire la prima con la seconda sulla superficie del
quadro. Quello che ne risulta è un secondo grado di applicazione della lezione di Duchamp: anche
allřinterno del suo sistema la rappresentazione può essere sostituita dalla descrizione. Allo stesso
scopo mostra lřapparente incongruenza tra la rappresentazione realistica di una pipa e la didascalia
«ceci nřest pas une pipe».
Non si deve trascurare il fatto che queste operazioni non siano contenute in un saggio di
filosofia del linguaggio Ŕ e che quando lo sono, come nel caso di Les mots et les images, esso venga
custodito alla Courtesy Gallery Isy Brachot Ŕ ma facciano parte di dipinti, cioè di oggetti estetici. Di
nuovo elementi estranei al codice specifico della disciplina, in questo caso al codice pittorico,
partecipano dellřesteticità dellřopera. Di nuovo ciò che convenzionalmente è, in un dato ambito,
ritenuto extra-estetico assume un valore estetico. Lřestetico va assorbendo in sé la componente
logica, o meglio esibisce la consapevolezza della sua componente logica accanto a quella
intuitiva(13), e a quella sensibile che le è associata.
2. Se dalle circostanze dellřostensione di un oggetto consegue unřaffermazione circa lřidentità di
tale oggetto(14) (tanto Ŗquesto èŗ quanto Ŗquesto non èŗ), tale affermazione deve essere in qualche
modo plausibile e non del tutto arbitraria, come non deve essere arbitraria la ricezione: accettiamo
lřoperazione fatta da Duchamp sullřorinatoio perché alcuni elementi, sřè visto, giustificano, rendono
plausibile e infine credibile tale operazione. Un esempio abbastanza istruttivo intorno alla questione
della plausibilità credo possa venire dalla Prose du Transsibérien et de la petite Jeanne de France
di Blaise Cendrars (1913). Il testo, per quanto sia intitolato Prose e per quanto sia dotato di strutture
tipiche della narrazione, non contiene elementi sufficienti a contrastare la scrittura in versi e in
28
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sostanza a fornire la plausibilità del genere Ŗprosaŗ (del resto i propositi di Cendrars erano di
tuttřaltro tipo, se nel suo poema mescola il codice verbale con quello pittorico e se lo definisce
«Primo libro simultaneo»). Plausibilità a parte, con buona pace di chi si attarda nella ricerca della
notoria ma ignota differentia specifica, nel Novecento lřarte mostra tutta la contingenza del suo
valore e della sua costituzione; si possono magari avere, nel corso della storia, contingenze di lunga
durata (ed è per questo che possono dare lřillusione della necessità), ma non per questo dovremo
smettere di ritenerle contingenze.
Il problema ha toccato, e non solo tangenzialmente, la teoria del testo poetico e della
versificazione; studiosi e poeti si sono impegnati in discussioni preziose e in indicative resistenze
normative, e il carattere specifico della poesia è stato di volta in volta individuato nel ritmo, nel
verso, nel lessico, giungendo solo a tratti a ipotizzare che lřunico elemento comune ai testi poetici di
vario tipo stia nellřessere percepiti e letti Ŕ identificati Ŕ come poesia, rimanendo vero che i segni
che orientano lřidentificazione sono diversi e che non è detto agiscano tutti insieme; anzi è piuttosto
detto il contrario. È quanto sostiene Edoardo Esposito, convinto «che la ricerca di un unico e
universale indice di metricità sia non solo vana, ma scientificamente ingiustificata»; e di seguito:
«le scienze umane si caratterizzano [...] per la molteplicità e magari la ridondanza dei tratti che ne
distinguono gli oggetti più che per lřinequivocabilità delle loro manifestazioni»(15). Bisogna
precisare che è una volta innescata lřidentificazione che noi saremo, certamente, indotti a leggere
nel testo il metro e ciò che lo produce, il verso, perché sul metro e più ancora sul verso si fonda il
concetto comune e condiviso di poesia, almeno da un punto di vista formale, e dunque se il verso è
veramente elemento specifico della poesia ciò è vero in un senso più percettivo che costitutivo.
Ad offrire un concreto spunto di riflessione intorno a questi argomenti, con unřinvenzione
distante dalle possibilità contemplate tra i professionisti delle lettere e anche per questo densa di
fascino, è Amelia Rosselli, che per mezzo dei suoi spazi metrici compie unřoperazione inversa
rispetto a quella di Cendrars, scrivendo in forma prosastica (lo si vedrà) testi che poi chiama poetici:
in questo caso si tratta di un nomino pienamente plausibile e di fatto largamente accettato da critici
e lettori.
Il libro dřesordio di Rosselli, Variazioni belliche, esce nellřaprile 1964 articolato in tre parti
distinte: Poesie (1959) e Variazioni (1960-61) che insieme formano il testo poetico, e, ad esso
allegato per suggerimento di Pier Paolo Pasolini (sponsor della poetessa presso Garzanti), il saggio
Spazi metrici (1962), che espone alcune riflessioni di prassi scrittoria risolte nella teorizzazione
della nuova forma poetica Ŕ lo spazio metrico, appunto Ŕ applicato nella seconda sezione. Oltre alla
netta differenza formale, vi è una forte sproporzione quantitativa tra Poesie e Variazioni (32 testi
contro 137), che lřallegato sembra giustificare alludendo alle prime come ad una raccolta di
exempla di una poesia superata in quanto scritta in verso libero.
Per entrare nel merito della questione propongo il pezzo che conclude Poesie e quello che dà
inizio a Variazioni(16):
5
o dio che ciangelli
e la tua porta si fracassi - come unř
auto che varca il roso cancello, passa la tua
severa ordinanza, ma io non posso! seguirti!
tu troppo ti nascondi troppo premi il tuo pistone da pericolo.
Tu non hai dolcezza? Tu non distribuisci caldamente le
Felicità?, come un puro flauto dal becco sì sottile è
la tua ostilità - tu attiri
per poi ripulsare le gioie barbare.
(VP194)
Se nella notte sorgeva un dubbio su dellřessenza del mio
cristianesimo, esso svaniva con la lacrima della canzonetta
29
30
5
10
15
del bar vicino. Se dalla notte sorgeva il dubbio dello
etmisfero cangiante e sproporzionato, allora richiedevo
aiuto. Se nellřinferno delle ore notturne richiamo a me
gli angioli e le protettrici che salpavano per sponde
molto più dirette delle mie, se dalle lacrime che sgorgavano
diramavo missili e pedate inconscie agli amici che mal
tenevano le loro parti di soldati amorosi, se dalle finezze
del mio spirito nascevano battaglie e contraddizioni, allora moriva in me la noia, scombinava lřallegria il mio
malanno insoddisfatto; continuava lřaria fine e le canzoni
attorno attorno svolgevano attività febbrili, cantonate
disperse, ultime lacrime di cristo che non si muoveva per
sì picciol cosa, piccola parte della notte nella mia prigionia.
(VV197)
Nel passaggio da una sezione allřaltra la metrica subisce un mutamento in direzione della chiusura,
dunque. Ci si accorge presto che, insieme, ciò che caratterizza Variazioni è un andamento logicosintattico che Poesie non conosce, e che ne rende i testi più vicini a quelli realizzati in altri periodi
(stando alle date apposte dallřautrice(17)), come La libellula (1958), e più vicini alla parallela
produzione di testi «privati»(18), diversi almeno nellřintenzione. Rinvio altrove per un tentativo di
interpretazione complessiva dei dispositivi formali di Variazioni(19), limitandomi qui a dire che mi
pare esservi una precisa convergenza fra il periodo rosselliano più tipico, esemplificato in VV197, e
lo spazio metrico, teorizzato richiamando quali ideali formali la prosa e il sonetto(20), in maniera
ambigua ma non del tutto incongrua se lřuna è luogo dellřorganizzazione razionale del reale e
lřaltro è caratterizzato, per tradizione e per struttura, da una inclinazione sillogistica. Convergenza
che profila la strumentazione di un soggetto, mnesticamente incapace(21), alle prese con la
ricostruzione della propria storia personale (e con essa della propria identità) per via appunto logica,
oscillando fra narrazione e ipotesi(22), e finendo ad armeggiare con paralogismi.
Rimanendo alla chiusura metrica, una simile tendenza non era certo una novità tra gli anni
Cinquanta e lřinizio degli anni Sessanta. Amelia Rosselli poteva in tal senso essere incoraggiata da
illustri esempi come quelli di Raymond Queneau, di Sylvia Plath e, in Italia, del Pasolini delle
Ceneri di Gramsci, per dire. E anche laddove venivano puntate le accuse di dérèglement si
manifestava lřinclinazione verso una forma poetica regolare o per lo meno allusiva di una certa
regolarità: Giuliani, Porta, Balestrini impiegano volentieri distici, terzine, quartine o sestine. Una
volontà di recuperare qualche elemento di ordine logico sembra spingere su questa strada, cercando
di maneggiare un materiale che si offre, almeno a prima vista, in regime di disordine. La soluzione
in questi casi non è solamente isostichica, ma intende operare anche allřinterno del singolo verso
sostituendo lřormai obsoleto vers libre con la cosiddetta metrica colica(23). Amelia Rosselli
penserà ad una regolamentazione la cui estraneità risulta palese, ma la ricerca di una forma chiusa
che Ŗtengaŗ un materiale poetico dalla tendenza informale, è di fatto qualcosa che accomuna le
diverse esperienze di ricerca poetica del periodo.
Si legge in Spazi metrici:
Nello scrivere sino ad allora la mia complessità o completezza riguardo alla realtà era stata
soggettivamente limitata: la realtà era mia, non anche degli altri: scrivevo versi liberi.
In effetti nellřinterrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi parola, io isolavo la frase,
rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendole la sua idealità, ma scindevo
il mio corso di pensiero in strati ineguali e in significati sconnessi. Lřidea non era più nel
poema intero [...], ma si straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o da
nessuna parte. Lřaspetto grafico del poema influenzava lřimpressione logica più che non il
mezzo o veicolo del mio pensiero cioè la parola o la frase o il periodo.
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31
Quanto alla metrica poi, essendo libera essa variava gentilmente a seconda dellřassociazione
o del mio piacere. Insofferente di disegni prestabiliti, prorompente da essi, si adattava ad un
tempo strettamente psicologico musicale ed istintivo.
(SM339)
In via di principio, lřallegato a Variazioni belliche pone un problema sia di irregimentazione della
prassi versificatoria sia di unificazione della percezione da parte del fruitore, mostrando una
Rosselli insoddisfatta del vers libre che fino a quel momento aveva impiegato. La soluzione trovata
è quella di produrre una «forma-cubo»(24) che contenga il testo. Stando a quanto dirà in
unřintervista del 1992, lřidea risale ad unřesperienza fatta negli anni ř53-ř54 con una cinepresa
noleggiata, in cui lřinquadratura valeva come «non fotografica ma mentale»(25). Il seguito di Spazi
metrici spiega in cosa essa consista:
Nello stendere il primo rigo del poema fissavo definitivamente la larghezza del quadro
insieme spaziale e temporale; i versi susseguenti dovevano adattarsi ad egual misura, a
identica formulazione.
Scrivendo passavo da verso a verso senza badare ad una qualsiasi priorità di significato
nelle parole poste in fin di riga come per caso. [...] vřera sempre quel punto nascosto del
limite destro del mio quadro, e su di esso poteva cadere, perciò chiudendo il rigo, o la parola
intera, o un qualsiasi nesso ortografico anchřesso significante in quanto realmente tempo
dř«attesa» sia nel parlare che nel pensare.
(SM340)
In ambito strettamente letterario, sottolineare (esasperandola) la dimensione visiva della scrittura
non è una novità almeno dai tempi di Teocrito (si veda il manoscritto della Siringa); passando per il
metafisico George Herbert (con poesie come The Altar o Easter Wings) e per la coda di topo di
Alice‟s Adventures in Wonderland si arriva fino al caso celeberrimo e ben più complesso del
Mallarmé di Un coup de dés jamais n‟abolira le hasard, in cui si promuove a semanticamente
pertinente il dato grafico del testo senza limitarsi a imitare la forma del soggetto. Su questa stessa
linea si incontrano, varcata la soglia che introduce al Novecento, i vari Marinetti, Govoni,
Apollinaire, Tzara, Breton, fino a Dylan Thomas, Pasolini, Balestrini(26) (e fino, volendo, alle
opere di poesia visiva di Lamberto Pignotti o di Roberto Sanesi).
Si tratta certamente di indirizzi diversi: quello che lavora con i caratteri del testo e con la
disposizione delle parole sulla pagina (ma se, per dirla tutta, la dimensione visuale doveva
consistere nel giocare con i caratteri, nellřagire «contro la così detta armonia tipografica della
pagina»(27), ci aveva già pensato Carlo Lorenzini, in arte Collodi, nel capitolo XXXIII di
Pinocchio); quello che ambisce alla dignità di arte visiva (tanto da ricorrere a volte alla
collaborazione di pittori, come Pignotti ricorre a quella di Roberto Malquori); infine quello che si
limita a sagomare i brani secondo forme geometriche. Rosselli appartiene evidentemente a
questřultimo genere di Ŗvisivitàŗ, che produce conseguenze sul piano mensurale, metrico. È
naturalmente in gioco un tipo diverso di metro, costruito graficamente e non acusticamente Ŕ
Esposito avverte che lo spazio metrico è «più che una metrica, una Ŗgraficaŗ»(28) Ŕ , però è
innegabile che delle misure siano definite.
Due elementi distinguono in maniera sostanziale il lavoro di Amelia Rosselli da quello dei suoi
colleghi: da un lato lřinsistenza sul significato metrico della forma grafica; dallřaltro una certa
Ŗdiscrezioneŗ: le losanghe e le ali di Thomas, o le rose e le croci di Pasolini(29) sono
sufficientemente clamorose da pretendere di essere tenute in gran conto, salvo poi verificare che si
tratta della letteratura più tradizionale, quella cioè in cui il primato di significazione appartiene pur
sempre al verbum.
La «forma-cubo» di Amelia Rosselli è piuttosto Ŗdiscretaŗ, dunque, tanto che senza la
pubblicazione dellřallegato a Variazioni belliche sarebbe scambiata per una generica versificazione
libera e dal passo lungo (si noti, dopo ciò che è stato detto sopra, il ruolo del paratesto). La
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32
discrezione è condizione necessaria perché la sagoma del testo produca una «impressione logica»
che sia la meno eclatante possibile e che quindi agisca in profondità piuttosto che diventare, come
in altri casi, una sollecitazione estemporanea dellřocchio del lettore. È inoltre, la discrezione,
esigenza esplicitamente dichiarata laddove Rosselli dice che lřaspetto grafico del verso libero
influenza lřimpressione logica più della parola frase o periodo, veicoli del suo pensiero. Ma non si
pensi che sotto ci sia la ricerca della neutralizzazione della forma metrica, di una sorta di epoché:
nella lettera del 28 ottobre 1986 di Amelia Rosselli ad Antonio Porta si parla di «immagine della
forma»(30), non di un suo preteso annullamento o neutralizzazione, e di quellřimmagine si
sottolinea con forza lřimportanza.
È presumibile che, sulla base delle indicazioni fornite, lo spazio metrico insinui diversi dubbi
riguardo alla sua reale capacità metrica. In effetti, si dovrà riconoscere che lřirregimentazione, che è
uno degli scopi dichiarati, viene ad essere nei fatti elusa e la norma costruttiva è piuttosto una figura
logico-visiva che ha un ruolo al momento della lettura e non invece nella stesura del testo. Una
prova di quanto si dice, e la si può ritenere decisiva, proviene dalla comparazione, proposta da
Stefano Giovannuzzi(31), di due distinte pubblicazioni in rivista del poemetto La libellula,
esplicitamente indicato come prima applicazione di quel «nuovo geometrismo»(32) che Amelia
Rosselli ricercava da tempo e che infine trova nello spazio metrico.
La prima uscita consiste in un «frammento», come dice lřintestazione, corrispondente a quella
che nel testo definitivo sarà la lassa «Fluisce tra me e te nel subacqueo un chiarore» (vv. 470-521),
ed appare nel fascicolo del giugno 1963 de Ŗil verriŗ(33). Alcune porzioni di questo testo verranno
brutalmente tagliate per la pubblicazione del 1966 in ŖNuovi Argomentiŗ(34). Le asportazioni
intervengono allřinterno dei versi provocando, nella preoccupazione fondamentalmente volta al
rispetto dello spazio metrico, contestuali slittamenti allřindietro del materiale residuo. E ciò avviene
senza badare, ad esempio, a una delle questioni poetiche per eccellenza quale la clausola di verso
(lo dice la stessa Rosselli nel brano riportato sopra), che rientra in quella che Jurij Tynjanov
chiamava «legge di evidenziazione semantica della fine di una serie»(35). In generale, siamo di
fronte ad una incontestabile indifferenza allřistituto metrico in quanto elemento costruttivo del
verso: la funzione dello spazio metrico è solo superficiale nella prassi di scrittura, è il semplice
andare a capo ad un punto prestabilito. Dřaltronde molto spesso il testo è disseminato di misure
della tradizione metrica, mostrando, una volta di più, che davvero Rosselli non ha pensato i suoi
versi come segmenti unitari, ma ha accostato stringhe che prescindono dalla misura dello spazio
metrico, stese una di seguito allřaltra correndo fino al margine impostato sulla macchina da scrivere
e proseguendo oltre con lřunica preoccupazione di non tagliare le parole. Vorrebbe dire grosso
modo che ha scritto poemi in prosa, ma vedremo che le cose non stanno propriamente così. In ogni
caso non si vuole affermare che lřinvenzione stessa dello spazio metrico sia un trucco; la si ritiene
anzi una preziosa intuizione proprio nel suo essere un gesto banale, meccanico, solo
superficialmente costrittivo (e costruttivo) e nello stesso tempo gravido di conseguenze sul piano
percettivo e fruitivo (se vogliamo credere alla questione dellř«impressione logica», come credo si
debba fare, anche ricordando le pagine di Boris Tomaševskij sulla «forma grafica»(36)), al modo di
ciò che avviene in certa arte dřavanguardia.
Non è del resto alla sola avanguardia che rimanda questo tipo di versificazione. Nella poesia
popolare delle origini il canto riempie un cadre rythmique(37) che gli preesiste, con moduli se non
rigidi per lo meno ricorrenti con un grado di variazione ridottissimo. Con lo spazio metrico si attua
una sorta di ripresa moderna di questo modello: essendosi la trasmissione orale pressoché estinta a
favore degli scripta e sopravvivendo al limite come lettura ad alta voce, evidentemente la funzione
mnemonica è potuta decadere, e quindi anche la schematicità acustica, per ambire ad una unità di
«impressione logica» (non è unřimpressione logica di unità, del resto, ciò che la regolarità acustica
produce?) tramite la compattezza del quadro visivo, trasformando così il riempimento da ritmico a
grafico. Il verso rosselliano può rimandare, in secondo luogo, alla battuta musicale che, nella sua
durata prestabilita, accoglie un numero variabile di suoni (e pause) la cui somma resta fissa; e
ricordiamo infine quanto si è detto dellřesperienza con la cinepresa che Rosselli compie nella prima
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metà degli anni Cinquanta. Dove che stia lřorigine dello spazio metrico e quale che sia il suo grado
di sincreticità Ŕ è evidentemente riduttivo cercarla, come si suole(38), nel solo ambito musicale, e
dopotutto gli stessi obiettivi che vi conducono attengono ad un orizzonte ben più ampio(39) Ŕ il
problema rimane più complesso della forma che lo produce.
Se è in entrambi i momenti della produzione e della fruizione che, solitamente, un principio
costruttivo agisce (la terza rima pone a un Dante Alighieri dei precisi vincoli di scrittura e ad un
Antonio Loreto scandisce la lettura, e lo stesso avviene nel sistema tonale che condiziona la
composizione da una parte e lřascolto dallřaltra), nella musica dodecafonica esiste un rigoroso
principio compositivo che però non ha ruolo evidente nella ricezione e tende a non essere avvertito
dal fruitore, salvo informare opportunamente questřultimo dei presupposti teorico-metodologici in
gioco. Unřasimmetria si può rilevare anche nel modello dello spazio metrico, seppure i termini della
questione vadano rovesciati: la metrica attiva nellřimporre un certo tipo di lettura (e il tipo di lettura
è un punto che Spazi metrici affronta esplicitamente, certo con qualche contraddizione) non ha
presieduto alla creazione del verso, che neanche come verso è stato creato. Rovesciamento che, si
perdoni il gioco, non è simmetrico: lřasimmetria dodecafonica è colmabile con lřesercizio della
percezione (che è conseguenza della fruizione, quando non sia occasionale), mentre nel caso dello
spazio metrico lřesercizio della percezione porta ad un ulteriore divaricamento tra essa e la
produzione del testo. Lřallegato dřaltronde è abbastanza contraddittorio da non consentire di
abbandonare la fruizione convenzionale della forma istituzionale del verso: così lo spazio metrico
sarà sempre più decisamente percepito, con lřesercizio, come forma versale, mentre rimarrà
prodotto senza nessuno schema costruttivo che possa essere detto metrico, neppure in senso lato.
Amelia Rosselli non rinuncia comunque a lasciar intendere (ma forse a intendere essa stessa)
lo spazio metrico anche come principio costruttivo:
[…] come unità metrica e spaziale la parola e il nesso ortografico, e come forma contenente
lo spazio o tempo grafico, questřultimo steso però non in maniera meccanica o del tutto
visuale, ma presupposto nello scandire, e agente nello scrivere e nel pensare.
(SM341)
A dire il vero, anche a proposito della lettura la situazione non è delle più chiare, se Rosselli afferma
che «la frase era da enunciarsi tutta dřun fiato e senza silenzi ed interruzioni» (SM340). Una
indicazione del genere esautora lřistituto poetico del verso anche nellřambito della fruizione, oltre
che della produzione, a favore dellřunità «frase», che è propria della forma prosastica. In quel «tutta
dřun fiato» si riconosce lřunità versificatoria (si fa per dire) di Amelia Rosselli, che sembrerebbe
voler così omologare il più possibile la modalità di lettura a quella di scrittura. Qui sto cercando
invece, propriamente, di mostrare una singolare discrepanza in questo senso, dovuta allřimpiego di
una metrica attiva nella lettura e passiva nella scrittura, perché è mantenendo consapevolezza di
questa Ŗdoppia personalitàŗ dello spazio metrico, forte col lettore e debole con lřautore, che si
sarebbe evitato di incorrere in contraddizioni come quella che manifesta unřaltra prescrizione
dellřallegato:
Anche nel caso che un verso avesse contenuto più parole sillabe lettere e punteggiature che
non un altro, il tempo complessivo della lettura di ciascun verso doveva rimanere per quanto
possibile identico.
(SM341)
Il problema sta nel fatto che, inibita la possibilità di segnare nella lettura la fine del verso per
privilegiare una fruizione frasale, è inverosimile che si riesca a percepirne la durata e a riproporla
per i versi seguenti. Di questo avviso pare che sia anche Franco Fortini il quale, trascurando più o
meno avvedutamente lřindicazione «la frase era da enunciarsi tutta dřun fiato», raccomanda: «come
la stessa autrice ha scritto, la struttura metrica esige una lettura per la quale ogni verso abbia una
durata identica o ogni altro; e quindi la cesura finale va fortemente scandita»(40). La peculiarità
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della metrica rosselliana sta dunque nellřimporre due diverse gerarchie di pertinenza delle proprietà
del testo, il quale viene scritto per frasi e viene letto per versi. Se si scremano gli elementi di
confusione e di contraddizione dellřallegato sembra che lo spazio metrico debba essere inteso in
questo modo.
Ho detto sopra che nei tagli al frammento originario della Libellula ci si è preoccupati di
rispettare lo spazio metrico; infatti, se le modificazioni non lo hanno intaccato vuol dire che esse
avevano scopo e pertinenza di altra natura, sintattica o ritmica o semantica, ed erano invece
indipendenti dallo spazio metrico. Cřè un passo di Roman Jakobson che spiega chiaramente il
rapporto tra variante e pertinenza: «È in particolare quando si confrontano le varianti esistenti di un
poema che ci si può rendere conto della pertinenza, per lřautore, del quadro fonematico,
morfologico e sintattico»(41). In questo caso si vede come la «forma-cubo» abbia scarsa pertinenza
per Amelia Rosselli nella sua funzione di autore, secondo lřinciso di Jakobson, mentre è
fondamentale per Amelia Rosselli nella sua funzione di lettore di sé, svelando un metodo poetico
che quantřaltri mai gioca con le gerarchie, non solo stravolgendole comřè proprio delle opere
dřavanguardia in generale, ma anche differenziandole nelle due fasi della produzione e della
ricezione, come è proprio solo di alcune esperienze dřavanguardia.
Il fatto che la misura metrica sia definita in conseguenza di una misura che è solamente grafica
e che risulta da unřoperazione meccanica, mostra che la costruzione dello spazio metrico non
richiede alcuna abilità poetica, nemmeno quella che tradizionalmente è ritenuta lřabilità elementare
di un poeta: quella di scrivere versi corretti. Al di là dellřemancipazione dallřabilità tecnica che le
arti visive hanno conosciuto nel secolo scorso, già lřOttocento dovrebbe aver stabilito col verso
libero che la ragioneria sillabica è qualcosa di tuttřaltro che consustanziale alla poesia (almeno a
quella moderna); Amelia Rosselli, rispetto al verso libero (a cui del resto va cercando
unřalternativa), pone qualche problema ulteriore, utile per una riflessione teorica che già nel
momento in cui appariva lo spazio metrico aveva bisogno di fenomeni nuovi su cui provarsi, e che
ancora oggi non ha colto lřopportunità di un confronto proficuo.
3. Il dibattito cui mi riferivo sopra, intorno al vers libre e più in generale alla specificità della poesia
(ché lì conduce la liberazione del verso), può essere sintetizzato nei due fronti fondamentali di chi,
come Jean Cohen, ritiene che lřa capo sia «il solo criterio per il quale il verso libero si distingue
dalla prosa»(42) o, come Beltrami, addirittura vi vede «lřunico tratto universalmente valido di
metricità»(43), e di chi, dallřaltra parte, lo chiama «indice semiologico» (Pazzaglia(44)) o, come fa
Esposito Ŕ che riepiloga e prosegue il dibattito Ŕ , afferma che lřa capo «non ha funzioni ritmiche,
[...] non crea né determina la metricità; esso la segnala semplicemente [...]», attribuendogli
conseguentemente lo statuto di «segno» e negandogli quello di «fattore di metricità»(45).
Di questřultima posizione non posso per principio condividere lřidea che, in un contesto
linguistico o genericamente comunicativo, un segno non sia di per sé fattore, un produttore di
significato (in questo caso di significato metrico); anche perché un simile concetto di segno, che
semplicemente «avverte»(46) di una data proprietà senza concorrere a produrla, implica che essa gli
preesista, idea che lřorizzonte nominalista del mio discorso non può accogliere. Una distinzione tra
fattore e segno si trova anche in Tynjanov, ma egli tende ad assegnare al secondo le stesse
potenzialità costruttive del primo:
[...] il materiale può essere cambiato fino a quel limite che costituisce il minimo
necessario per un segno del principio costruttivo. Come nel teatro medievale per la scena
che rappresentasse un bosco era sufficiente un cartello con la scritta «bosco», così in
poesia può bastare, in luogo di un qualsiasi elemento, la semplice indicazione del
medesimo: per strofa si intende magari anche il suo solo numero dřordine (47), che dal
punto di vista costruttivo è uguale Ŕ come si è osservato Ŕ alla strofa stessa. (48)
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35
Così Tynjanov risolve il problema del vers libre, in cui «il metro è dato come segno»(49), ma
evidentemente come un segno che produce. La distinzione non è in ogni caso accettabile
pacificamente, poiché non sempre un segno è un equivalente (il termine è ancora di Tynjanov) di
qualcosa dřaltro, e può invece valere per se stesso, come lřa capo nel sistema del verso libero, e non
solo lì. Già lřendecasillabo sciolto, come anche lřendecasillabo considerato fuori sistema, ha
qualche esigenza di affidarsi al découpage per farsi individuare. Naturalmente è vero che un
endecasillabo è tale anche se mimetizzato in una stringa testuale di una trentina di sillabe, ma fino a
quando non lo si consideri metricamente, fino a quando non si venga avvertiti che è un
endecasillabo o comunque non lo si individui come tale, questo suo essere non vale metricamente:
non si tratta dunque di un endecasillabo.
Certo, nella metrica canonica la disposizione grafica è del tutto ridondante e, qui sì, si può
parlare di avvertimento nel senso proposto da Esposito, perché altri segni già producono lřeffetto
che il taglio rimarcherebbe soltanto, con la funzione tuttřal più di facilitare la lettura; tuttavia si
tenga presente che nellřestetica poetica dellřultimo secolo e mezzo lřa capo conserva anche nei
confronti della metrica canonica un grande potenziale distruttivo-costruttivo nella minaccia di non
assecondare lo schema metrico cui si applica e di disfarlo creandone immediatamente uno diverso,
per quanto derivato dal primo. Possiamo al limite parlare di segni superflui e di segni necessari, ma
la loro superfluità o necessità non sarà una questione ontologica bensì di contesto, di sistema. È
chiaro che nel caso di un fragmentum di Petrarca, di un sonetto per esempio, il découpage non è
coessenziale al testo, e anche scritto senza i famosi a capo si è indotti a leggerlo in endecasillabi
organizzati in due quartine e due terzine. Ma i sonetti e più in generale le forme regolari non
esauriscono evidentemente la storia della poesia: esiste una vasta produzione di testi poetici che
richiedono altri segni specifici, che si costruiscono cioè su altri fattori. Una poesia che sia composta
interamente di parole omoteleutiche non potrà fare di uno schema rimico la sua strutturazione
metrica, che sarà invece generata da un certo disegno sintattico, o sillabico, o accentuale, o
latamente fonologico, o lessicale, o tipografico (non vedo perché debba essere escluso). Un caso
destinato a diventare classico è quello del Sanguineti degli anni Ottanta:
a quella Reginella ridarella, a quella raganella griderella, la bella sopranella
in sottanella, a quella stella bianca, stella nana, unica mia sovrana disumana,
alla sua bianca mano, al piede bianco e stanco, e storto, e morto, a quel suo buco
nero, buco vero, dunque io parlo, e così parlando dico:
felice la tua faccia
di vinaccia, felici le tue braccia di focaccia, principessina di uvaspina,
manducabile inconfutabile, amabile potabile: felice, mia selvaggia, chi ti assaggia,
candeggiante albeggiante, sola, tra due lenzuola: felice il tuo sensibile cannibale,
felice chi ti inghiotte in una notte, chi ti concuoce veloce, e ti digerisce
e smaltisce, e ti chilifica e chimifica: felice chi ti dice, e ti nientifica: (50)
Su una struttura che si mostra rigorosa e si articola su molteplici livelli, lo schema metrico è al
contrario molto flessibile e del tutto irriducibile alla metrica tradizionale, pur facendone ampio
utilizzo. È chiaramente avvertibile la presenza dei tre endecasillabi a majore incipitari, rimarcati dal
parallelismo accentuale 2-6-10 in -ella; il quarto endecasillabo, mentre sposta la seconda e la terza
terminazione in -ella rispettivamente in 4a e 8a sede, privandole così dellřictus che si era consolidato
come loro proprio, e mentre presenta una forte cesura tra primo e secondo emistichio, con la
complicità dellřenjambement metrico «sopranella | in sottanella» (metrico nel senso che spezza
lřendecasillabo che ci si attendeva) comincia a decretare la fusione dellřendecasillabo in un tessuto
metrico più complesso: lřultima resistenza la fa «unica mia sovrana disumana», che però già muta la
distribuzione degli accenti in 1-6-10, dopodiché si percepiscono limpidamente le misure del
settenario e del quadrisillabo o del quinario (sempre, va detto, con la possibilità della sinalefe per
poter essere compreso in un endecasillabo), ma niente ci dice che debbano comporsi
35
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necessariamente in endecasillabi, e neppure in che altro modo debbano comporsi, del resto. La
lettura dei versi 3 e 4 «alla sua bianca mano, al piede bianco e stanco, e storto, e morto, a quel suo
buco | nero, buco vero, dunque io parlo, e così parlando dico», per le sue molte pause sintattiche che
vanno a cadere nei punti di cesura tipici della tradizione, prevede una tale quantità di soluzioni (da
11+11+7+11+11 a 7+11+11+11+11 a 7+7+5+7+4+4+8), che non si vede Ŕ ragionando sempre in
termini di misure tradizionali Ŕ come se ne possa privilegiare una.
Lřampiezza dei versi rende la loro percezione unitaria piuttosto difficile, e richiede una
frammentazione che viene sostenuta dalla natura sintattica del testo. Perciò si impone una
misurazione a più livelli, e le osservazioni di Antonio Pinchera a proposito della metrica dei
Novissimi sembrano assolutamente adatte a questo scopo: egli individua una versificazione colica,
cioè una versificazione in cui «gruppi semplici semantici [...] hanno assunto lřimportanza che aveva
un tempo la sillaba; sono essi la radice del ritmo»(51). La ripartizione in cola costituirà allora il
primo livello metrico, mentre il secondo livello sarà dato dalle misure di ciascun colon, poiché è
banale constatare che lřunità colon rappresenta un elemento complesso e grandemente variabile per
assolvere, da solo, proprio alla funzione di unità. Solo la combinazioni delle due misurazioni dà il
senso metrico del verso e descrive la sua effettiva lettura.
Detto questo, diamo uno sguardo ai primi due versi della poesia di Sanguineti:
a quella Reginella ridarella, a quella raganella griderella, la bella sopranella
in sottanella, a quella stella bianca, stella nana, unica mia sovrana disumana
[...]
Secondo la metrica appena descritta e secondo lřassunto per il quale la metricità è proprietà
posseduta dal testo a prescindere dal découpage, che si limita dřaltra parte a segnalarla, dovremmo
dire che la suddivisione Ŗnaturaleŗ dei due versi sia «[...] in sottanella | a quella stella bianca [...]».
Così avremmo tre cola nel primo e tre cola nel secondo, con una buona coerenza delle misure
interne: tre endecasillabi a majore; un settenario e un quadrisillabo, che eventualmente possono
radunarsi in un endecasillabo anchřesso a majore, e infine un altro endecasillabo a majore. Ma il
criterio di suddivisione di Sanguineti non è evidentemente, qui, quello della regolarità colica né
sillabica, per quanto sia vero ciò che abbiamo detto della metrica a due livelli. Sembra piuttosto
chiaro che «in sottanella» non possa appartenere al v. 1 dove domina il gruppo r-g/d-ella, e debba
invece stare al v. 2 per introdurre la serie del gruppo s-t-ella che, nella cerniera quadrisillabica
«stella nana», si accoppia e cede il testimone alla terminazione -ana.
Questa è la logica dellřorganizzazione metrica del testo, e mi pare una buona organizzazione
sia dal punto di vista della rigorosità costruttiva, sia da quello della godibilità della fruizione
(insomma, sono due versi Ŗbelliŗ). Ma ciò per cui a me qui importa tanto di questi versi, è anzitutto
il fatto che essi mostrano come le plausibili possibilità di organizzazione metrica siano più dřuna, e
ciò basta perché una individuazione che faccia a meno dellřa capo sia in questi casi impossibile. In
secondo luogo tali possibilità metriche, come si vede, possono benissimo dipendere da fattori
tuttřaltro che metrici, almeno nel senso comunemente inteso. Allora dobbiamo dire che è illegittimo
parlare della metricità come di una proprietà del testo che può prescindere da qualche segno che ci
avverta di essa; e possiamo ribadire che per avere una determinazione metrica anche un segno
grafico (e in generale non-metrico) può essere sufficiente.
Segni saranno, per il sonetto, le terminazioni rimiche secondo quegli schemi che sono possibili
per i canoni del genere, e saremo in maggioranza disposti a chiamarli fattori. Segni saranno, in una
poesia come Soldati, gli a capo, e dovremmo rassegnarci a chiamarli, comunque, fattori:
Si sta
Come dřautunno
Sugli alberi
Le foglie
Si sta come
Dřautunno
Sugli alberi
Le foglie
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Queste sono due poesie dalla metrica profondamente diversa (affermare il contrario sarebbe
quantomeno ingeneroso nei confronti del lavoro di Ungaretti), e il fattore che subendo una
modificazione ha modificato ipso facto la metrica della poesia è lřa capo.
Un oggetto possiede tutte le proprietà che possiede (cito a memoria una espressione ricorrente
di Brioschi), ma finché non le organizzo in una certa gerarchia esso non è nulla, o meglio: è sempre
qualcosa perché sempre, nel momento in cui lo percepisco, organizzo quelle proprietà che di esso
ho percepito in un certo modo. Lřorientamento della percezione dipende, oltre che dallřoggetto
medesimo, da indicazioni esterne allřoggetto che si configurano tramite consuetudine, tramite
istruzioni esplicite, tramite suggerimento allusivo, e insomma pragmaticamente; ecco allora che
bisogna fare attenzione: la gerarchia di proprietà non è a sua volta una proprietà dellřoggetto, e
quindi neppure lřorganizzazione metrica di un testo lo è, come già si è detto.
Nella comunicazione è ben falso che non ci sia nulla al di fuori del testo, ma è anche vero che
lřhors-texte cřè solamente se cřè il texte, cioè il segno (che naturalmente può essere anche assenza
di segno là dove ce lo si aspetta e quindi ha pertinenza nel gioco comunicativo: si pensi a John Cage
e al suo 4‟33‟‟, anno 1952, o alle cancellature di Emilio Isgrò, una dozzina di anni dopo). Nel caso
in cui il segno indichi come si deve leggere un altro segno o un insieme di segni, poi, la questione
sembra traducibile nella seguente similitudine: distinguere fattore e segno è come dire Ŕ e forse è
dire Ŕ che linguaggio-oggetto e metalinguaggio sono due cose distinte (come anche Roland Barthes,
seppur con altre mire, vorrebbe(52)), mentre nella lingua naturale, che è la lingua della letteratura,
non lo sono affatto. Il linguaggio dicendo fa, mostrando produce, avvertendo crea, e non credo si
possa uscire da questa, peraltro felice, condizione.
4. Il concetto di avvertimento, così inteso, è riconducibile alla quiniana ostensione, e riporta a quegli
episodi della storia dellřarte cui si è fatto ampio riferimento. Se essi ci hanno indicato come alcune
di quelle che riteniamo proprietà appartenenti ad un oggetto (lřesteticità o la metricità, ad esempio)
non siano affatto proprietà, bensì un tipo di organizzazione gerarchica delle proprietà, dobbiamo
riflettere sul fatto che lřorganizzazione in uno si definisce e si mostra, così come accade per i nomi
delle cose (ed è a questo che inizialmente Quine si riferisce con il suo discorso qui richiamato):
indico e nomino, e, se la mia operazione possiede delle condizioni di persuasività o almeno di
plausibilità, è tutto lì.
Avvertire, ostendere, segnalare, non sono operazioni neutre e improduttive, sono piuttosto
strumenti di individuazione, nel duplice senso del riconoscere e del rendere individuo: tra le molte,
se non infinite, possibili gerarchie di proprietà di un oggetto ci si riferisce ad una sola di esse.
Avvertire della proprietà endecasillabica di una stringa di testo Ŕ ciò che avviene solitamente, nella
poesia moderna, tramite il segno grafico dellřa capo Ŕ attualizza una certa gerarchia di proprietà che
le rende una sua esistenza metrica, una sua metricità; così come avvertire della divisibilità di un
testo in endecasillabi è attualizzare una tra varie possibilità metriche. Una metrica cřè sempre, anche
nei poèmes en prose, anche nella prosa tout court, per lo stesso motivo per cui un endecasillabo è
sempre tale. Ma finché qualcosa non ne pone in risalto le proprietà che siamo soliti chiamare
metriche (misura sillabica o accentuativa, ritmo, rime, ecc.) si tratta di una esistenza non metrica, il
che per la poesia è un problema.
Semplicemente, nella prosa la misura dei segmenti testuali non è proprietà pertinente, a meno
che le misure si ripetano e che le ripetizioni siano percepibili: in quel caso ci deve venire a sospetto
che anche alla misura, alla metrica, sarà bene prestare attenzione. La differenza, ingannevole, tra le
misure della poesia e le misure della prosa sta solamente nel fatto che in prosa la metrica viene
promossa allřattenzione del lettore a patto di alcuni accorgimenti (determinazioni) sintatticomensurali, mentre in poesia ciò avviene automaticamente e meccanicamente e, se si vuole, dato
lřinflazionamento della pratica del découpage, con minore consapevolezza (è un inflazionamento
cui bisogna porre rimedio, come intuisce Amelia Rosselli, così come il vers libre aveva posto
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rimedio allřautomatizzazione dei versi metricamente canonici), bastando il solo taglio a dire «qui
poesia»(53).
Quanto detto finora dovrebbe aver indicato che anche il fronte Cohen-Beltrami, che appare
rispondente allřesigenza di ritenere significante Ŕ cioè produttore di significato, in questo caso di
significato metrico Ŕ qualunque segno che abbia pertinenza nel sistema linguistico in cui viene letto,
risulta incappare in qualche problema: il segno che avverte della metricità e che nello stesso tempo
concorre a produrla non deve necessariamente essere lřa capo.
Non è un caso che questa concezione vada in crisi davanti allo spazio metrico. Esso si
riconosce meno nella definizione di découpage e meglio in una di anti-découpage o pre-découpage,
poiché, più che segmentare un testo, Amelia Rosselli riempie le sue forme non preoccupandosi
affatto dellřa capo, o preoccupandosene una volta per tutte allřinizio del lavoro, e quindi in modo
del tutto astratto e slegato dalla costruzione di ogni singolo verso, come non vorrebbe il galateo
poetico.
Quello che fa Rosselli è andare a capo esattamente come in questo momento sto facendo io
che scrivo, inequivocabilmente, prosa. Alla lettura, i versi di Variazioni non si identificano come
tali né per una regolarità sillabica o accentuale, né per quegli spazi bianchi che lřa capo produce. Lo
spazio metrico, impostando allřinizio della poesia il layout della macchina da scrivere (come si fa
nella prosa; mentre un versoliberista Ŕ in linea di principio Ŕ medita ogni suo verso, pur con criteri
altri da quello sillabico), radicalizza il découpage, rende ancora più automatica e meccanica
lřoperazione di taglio fino a farle perdere di fatto la sua funzione costruttiva; inoltre Rosselli,
parallelamente, si è accennato, lavora ad una metrica intraversale che sfrutta quegli accorgimenti
peculiari della prosa quando vuole avere, e vuole averla evidente, una sua pertinenza metrica.
Ho detto che nello spazio metrico, ancor più che nel metodo dodecafonico, cřè unřasimmetria,
unřimposizione di due diverse gerarchie di pertinenza delle proprietà del testo per cui righi scritti
come non-versi vengono proposti, stampati e letti come versi, piuttosto che come prosa più o meno
poetica. Che cosa generi questa differenziazione tra produzione e ricezione, che cosa la legittimi e la
renda plausibile è il nostro problema.
Siano considerati i due brani qui di seguito:
[…] coloro li quali me hanno reputato crudele e iniquo e bestiale conoscano
che ciò che io faceva a antiveduto fine operava, volendoti insegnar dřesser
moglie e a loro di saperla tenere, e a me partorire perpetua quiete mentre teco
a vivere avessi: il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che
non mřintervenisse, e per ciò, per prova pigliarne, in quanti modi tu sai ti
punsi e trafissi.
(G. Boccaccio, Decameron X, 10, 61)
Sebbene fosse in me il travaglio più rapido che non la
conoscenza: stendevo erbe ai piedi dei grandi (col nome
dorato) e finivo anchřio nella cassapanca dei bevitori.
(VV309)
A seconda delle diverse impostazioni tipografiche di ciascuna edizione, i righi di Boccaccio
termineranno con «bestiale», «volendoti», «perpetua», «moglie» oppure no, indifferentemente.
Quelli di Rosselli verranno invece tagliati sempre su «la», «nome», «bevitori.», che siano stampati
sul volume Garzanti o sulle pagine di unřantologia Mondadori, Einaudi o Feltrinelli, e se lo spazio a
disposizione non dovesse bastare aprendo una parentesi quadra si ribadirebbe che si tratta
assolutamente di versi. Per quanto abbiamo detto sopra e per quanto abbiamo letto in Spazi metrici,
quellř«indifferentemente» con cui si offre prosa vale anche per Amelia Rosselli nellřatto di stendere
i suoi testi, ma non vale per lředitore e per il lettore, il cui atteggiamento nei confronti di un testo
che si presenta come poetico rimane necessariamente quello codificato, che consiste nel rispetto per
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quellřistituzione fondamentale che è il verso.
Convochiamo Fortini con il saggio da cui sopra è stato estrapolato il «qui poesia», Su alcuni
paradossi della metrica moderna:
Ma quando, al rifiuto dei Ŗvecchi metriŗ si aggiunse, da noi, il rifiuto della metrica; quando
cioè fu tolto ogni fondamento alla norma metrica in nome della identità forma-contenuto; e
questa nozione costituì il fondo comune della Ŗavanguardiaŗ e del ŖNovecentoŗ, i residui, o
irriducibili, elementi metrici assunsero (e mantengono fino ad oggi) una eccezionale
rilevanza: vendetta della oggettività respinta dalla soggettività ritmica, lřossequio alla
legislazione metrica si trasferì e mascherò nellřossequio al «genere».
[...] quanto più la poesia si vuole autonoma e Ŗpuraŗ tanto più, al limite, ha bisogno di
qualcosa che la connoti come Ŗpoesiaŗ: lřossequio alla legislazione metrica si trasferisce e si
maschera Ŕ come sopra detto Ŕ nellřossequio al «genere». [...] E questo è forse il significato
del celebre Ŗbiancoŗ che avvolge tanta poesia moderna: lřeffetto di Ŗstraniamentoŗ è ottenuto
anche prima dellřeffato, con un tacito Ŗfavete linguisŗ, tracciando unřorma immaginaria
intorno al testo (a un testo qualsiasi), non diversamente da quanto fecero i protodadaisti con
gli oggetti readymade, che assumevano il loro significato solo se Ŗspaesatiŗ in una sala
dřesposizione. Questřorma o cerchio è la nozione stessa di poesia moderna come soggettività
(o oggettività assoluta), nozione della quale partecipano tanto lřautore quanto i suoi
presumibili lettori e ad evocar la quale bastano alcuni semplici artifici convenzionali come la
disposizione tipografica, il tipo di volume, ecc. Si accendono dei Ŗfuochi di posizioneŗ: Ŗqui
poesiaŗ. (54)
Fortini accosta del tutto opportunamente la forma della poesia moderna al ready-made. Ma da tale
accostamento non trae le dovute conseguenze che riguardano la poesia e lřarte anche di periodi
precedenti oppure refrattari alla modernità. Non coglie la lezione storica che il ready-made può
vantare come suo merito principale e che, prendendo punto per punto i problemi posti nel passo
citato, possiamo tradurre così: la poesia ha sempre bisogno di essere connotata (ostensa diremmo
altrimenti) come tale; lřossequio alla legislazione metrica è solo un particolare ossequio al genere;
anche la metrica è un favete linguis; anche la metrica è un (più o meno semplice) artificio
convenzionale, esattamente come la disposizione tipografica, il tipo di volume, eccetera. Insomma,
non nello spaesamento si può cercare il principio del ready-made, bensì nella prepotenza poietica di
creare nominando, nello sfruttamento del metodo dellřostensione, che è lo stesso metodo utilizzato
da Amelia Rosselli.
Si accetti che le forme letterarie e in generale i segni devono essere (plausibilmente) esibiti
come tali per essere tali, e allora non costituiranno più eresia né lo spazio bianco né lo spazio
metrico. Detto questo è bene non imparentare troppo lřuno con lřaltro, poiché tra i due esiste una
profonda differenza che si può misurare giusto sul principio del ready-made, il quale, se si accosta
con qualche ragione al verso libero, più propriamente è modello del verso rosselliano. Questřultimo
non tenta di imitare una forma metrica (e imitando in effetti sarebbe una forma metrica), ma si
limita ad affermare si esserlo. Rosselli, sia chiaro, non rientra nel bersaglio di Fortini anzitutto per
ragioni banalmente cronologiche (quando il critico scrive la poetessa non è ancora stata pubblicata),
e comunque dello spazio metrico non si sarebbe potuto dire che miri allřossequio del genere poesia,
proprio perché questo viene piegato a soluzioni personali e, piuttosto che tracciare unřorma
immaginaria, si cerca di annullarla in nome di unřidea del tutto diversa e originale. Lo spazio
bianco, nella misura in cui è davvero ciò che da Tynjanov ad Esposito viene chiamato segno, è
segno della metrica intesa in senso tradizionale, potremmo dire che è segno della versificazione; lo
spazio metrico è al contrario segno della prosa; e che alla prosa Rosselli stia pensando lo si è letto:
la parola o la frase o il periodo sono il mezzo o veicolo del suo pensiero; scrivendo a mano
dovrebbe scrivere prosa(55).
Per forma Rosselli sembra intendere non tanto una «funzione materiale» alla Reyes(56)
quanto unřorganizzazione spaziale estrinseca, applicabile a posteriori su materiale verbale già
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creato (e le due edizioni del brano della Libellula riportate più sopra lo dimostrano senza eventualità
di equivoco), e per prosa, conseguentemente, non la scrittura caratterizzata da «un principio lineare
e continuo, regolato in senso logico e sintattico» Ŕ opposta alla poesia che ha principio «ritmico e
circolare»(57) e che già Hopkins definiva come «discorso che ripete totalmente o parzialmente la
stessa figura fonica» Ŕ bensì lřimpostazione tipografica in cui essa tradizionalmente si presenta. È
sintomatico che Alfonso Berardinelli segnali la difficoltà di distinguere le prose di Rosselli dalle sue
poesie(58) (addirittura Stefano Agosti definisce «testo in prosa»(59) il poemetto La libellula) ed è
chiaro come ciò dipenda dalla concezione in primo luogo grafica che ella ha della forma.
Tynjanov lamentava a suo tempo che a ricercare lo specifico della poesia Ŕ vi ho già accennato
Ŕ in «un particolare, scelto, lessico poetico, [in] procedimenti di raggruppamento sintattico
particolari dellřuso poetico, e così via»(60) erano (e vi erano costretti) i fautori della dizione
fraseggiante: evidentemente il problema della dizione è legata ad una determinata concezione della
poesia che, eliminando la componente metrica, si deve affidare a «fattori di serie diversa» da quella
poetica per conservare qualche tipo di specificità. Ciò porta a cancellare «ogni linea di
demarcazione tra il verso e la prosa dřarte», come avverte lo stesso Tynjanov, ma si dovrebbe dire
tra il verso e la prosa tout court, perché altrimenti si persevera nel tentativo di definire e distinguere
le forme (in questo caso prosa e prosa d‟arte) attraverso la lingua, cioè attraverso una serie diversa.
I testi di Amelia Rosselli esemplificano perfettamente la definizione hopkinsiana di poesia e
quelle che da essa discendono, come quella di Lotman, che vede nella tendenza alla ripetizione il
principio costruttivo del verso e, dallřaltra parte, nella tendenza allřunificazione e alla metafora (in
un senso che non è quello strettamente retorico e si riferisce al livello sintagmatico) il principio
costruttivo della prosa(61). Ma ciò non significa nulla dal punto di vista teorico e mostra piuttosto la
capacità descrittiva di quella formula. Rimane in Rosselli una precisa coscienza della forma in
quanto serie autonoma (almeno inizialmente), al punto tale da usarla come contenitore restando ad
aspettare che essa reagisca, che si costituisca in sistema (e che quindi perda la sua autonomia, ma
solo a questo punto) con il materiale verbale che vi viene versato dentro(62). Il fatto stupefacente è
che la forma usata sia quella della prosa; del resto lo stesso Lotman, aprendo a una concezione non
solo costruttiva ma anche fruitiva, e quindi considerando il complesso convenzionale che regola il
funzionamento dellřarte, scrive:
in quanto la regolarità poetica si presenta dal punto di vista linguistico comune come non
regolarità, sorge (nella definizione del testo come artistico) la tendenza ad esaminare
qualsiasi non regolarità del testo come regolarità di un tipo particolare. (63)
Il che vuol dire, tornando al rapporto tra poesia e prosa (interno al problema del «testo artistico»),
che il principio della ripetizione e quello della linearità (o della metafora nella concezione dello
stesso Lotman) non vanno considerati esclusivamente da un punto di vista costruttivo, bensì anche
ricettivo, in un sistema convenzionale complessivo che si gioca su entrambe queste dimensioni, con
una libertà di azione che può dare luogo ad esiti come dicevo stupefacenti. Ma allora è necessario
ritenere il problema del découpage solo parziale nellřeconomia del testo poetico (ed è una
conclusione cui già eravamo giunti per altra via), e dissentire da Jean Cohen laddove afferma che
«la Ŗsuddivisioneŗ del discorso versificato è in grado di fornirci il carattere specifico in
questione»(64).
Viene il sospetto che qualsiasi tentativo di teorizzazione della forma poetica possa essere
messo in crisi, magari dolosamente, da produzioni concrete: la poesia lirica italiana per secoli è
stata (ed è stata teorizzata come) sonetto canzone o sestina, poi Leopardi si è preso la libertà di
utilizzare lřendecasillabo sciolto come verso lirico e il concetto di forma lirica si è ampliato, come
si è ampliato quando il verso è diventato libero o quando è nato il poème en prose. Un ulteriore
ampliamento proviene dallřinvenzione di Amelia Rosselli, che, discendendo pur sempre dalla prassi
del vers libre, elimina lřultima presunta differentia della scrittura poetica che in essa è implicita.
Non viene invece eliminata, ma anzi sfruttata in tutta la sua potenzialità, quella che Tynjanov
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chiama «la cosa più semplice e fondamentale» per la costituzione di un sistema metrico, cioè «la
designazione di un qualsiasi gruppo metrico come unità [...], anticipazione dinamica di un gruppo
seguente e analogo»(65). Rileggiamo:
Nello stendere il primo rigo del poema fissavo definitivamente la larghezza del quadro
insieme spaziale e temporale; i versi susseguenti dovevano adattarsi ad egual misura, a
identica formulazione.
(SM340)
Evidentemente il gruppo che Amelia Rosselli designa come unità è metrico in un senso del tutto
inconsueto essendo «insieme spaziale e temporale», cosa che potrebbe apparire superficiale se non
tenessimo conto di due punti della lezione di Tynjanov: e cioè, da un lato, che il verso non può
essere concepito come entità solamente acustica ma si devono considerare altre dimensioni quale
quella grafica (lezione chiaramente appresa da Rosselli), ed è in questo senso che il formalista parla
di segni e di equivalenti(66); dallřaltro lato, che il meccanismo di funzionamento del metro sta
nellřanticipazione conclusa, nel caso della metrica regolare, oppure nellřanticipazione non
conclusa, nel caso del verso libero. Allora, ciò che fa lo spazio metrico è sintetizzare la conclusione
spaziale con la non-conclusione temporale, il metro come sistema metrico con il metro come
impulso metrico, la stabilità con lřinstabilità, in una dinamizzazione che eleva al quadrato la
capacità dinamica attribuita da Tynjanov al verso libero, o che forse solamente restituisce alla
poesia un principio dinamico che lřuso e il consumo di tale verso, come accade ogni volta che
lřirregolarità diviene regola, aveva ottuso.
5. Tutto questo serve a giustificare e valorizzare la dimensione teorica della ricerca poetica
rosselliana, la quale non smette per questo di fondarsi su di una prassi di scrittura prosastica.
Riconoscere questo fatto senza imbarazzi di sorta ha peraltro il vantaggio di permettere lřaccesso ad
altre implicazioni non prive di interesse: qui, come davanti allřorinatoio di Duchamp, il problema
rimane più complesso Ŕ lo ripeto Ŕ della forma che lo produce.
Naturalmente non si voleva trascurare la differenza enorme tra il nomino di Duchamp Ŕ con il
quale si fa lřopera dřarte in senso pienamente estetico Ŕ e quello di Rosselli Ŕ con cui invece non si
fa la poesia se non in senso vuotamente formale Ŕ quando si è proposto tale accostamento. Il valore
estetico è questione più complessa laddove il codice è complesso, verbale o figurativo che sia. La
distinzione tra forma e valore tende ad essere superata negli ambiti in cui la complessità del codice
cede ad un ampliamento e ad una maggiore disponibilità verso innesti che lo aggiornino e che, in
definitiva, lo creino nello stesso momento della creazione dellřopera. Così, se Fountain ha
immediato valore estetico, è perché si pone già fuori del codice figurativo della scultura (e dentro di
esso non avrebbe addirittura senso) per collocarsi in un ambiente-codice del tipo descritto.
Sia la forma che il valore passano attraverso il riconoscimento, ma mentre la prima può
avvalersi dellřostensione, il secondo evidentemente no. Bene, con la convergenza tra forma e
valore, questřultimo diventa anchřesso funzione dellřatto dellřostendere, e gli esempi in questo
senso non mancherebbero. Niente di male, ovviamente. Ma lřidea di centomila miliardi di sonetti
componibili a partire da dieci sonetti base, o lřidea di una poesia formata da elaboratori elettronici Ŕ
proponendosi allřinterno del sistema letterario e anzi in quello ancora più stretto della poesia Ŕ
risultano essere idee letterariamente povere se non indagano lo specifico della poesia, che se cřè (e
in un certo senso che abbiamo discusso cřè) è il metro, e il verso che lo determina. Perché si
arricchiscano di significato estetico dovremmo collocarle in un contesto più ampio, in cui le opere
vogliono tendere a non essere più appartenenti ad una disciplina artistica particolare bensì ad un
concetto generale di arte, in cui il codice di riferimento è meno articolato e più accogliente. È
successo più volte che lřarte abbia ambito allřinterdisciplinarità, ma quello cui si punta in questi casi
non è tanto lřintegrazione di più discipline quanto la dissoluzione delle discipline stesse, la
trasformazione dellřopera dřarte in evento, in esperienza estetica il cui codice si scrive con lřevento
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stesso mediante la mescita di codici artistici tradizionali e comportamenti o elementi artisticamente
non codificati.
Con gli spazi metrici, è chiaro, per quanto lřautrice mostri un atteggiamento di libera
ispirazione nei confronti delle conquiste estetiche delle altre arti, siamo al di qua di simili ricerche,
ancora ben dentro il giardino della letteratura e dei suoi codici complessi, dove la distinzione tra
forma e valore è tuttřaltro che superata, per quanto entrambi siano in continua evoluzione, o
modificazione, se si preferisce. In effetti Amelia Rosselli non si limita a sfruttare la lezione
duchampiana, ma la integra con quanto è specifico della versificazione, ed è grazie a questo tipo di
lavoro che la sua innovazione non appare pretestuosa e che la sua forma appare Ŕ ancorché
contraddittoriamente Ŕ persuasivamente poetica.
Contradditoriamente, certo: Rosselli ci sta dicendo che la sua prassi di scrittura è in tutto
identica alla scrittura di prosa; allo stesso tempo dice: Ŗquesti sono versiŗ. Io non so se, e riguardo a
quale punto, bisogna crederle. Se non fosse stato scritto Spazi metrici non vi sarebbe il benché
minimo dubbio sulla natura di quei righi tipografici, anche perché essi giocano astutamente con un
profilo destro che anche se in misura ridottissima rimane irregolare, che continua ad alludere alle
composizioni tipografiche cosiddette «a bandiera». Ma contemporaneamente allude alle
composizioni tipografiche della prosa, con tutta lřambiguità possibile. È a questa ambiguità che
bisogna credere, il che equivale a non credere fino in fondo.
In faccende simili noi non siamo invitati a Ŗsospendere lřincredulitàŗ, come succede per la
buona cooperazione finzionale fra opera e lettore, ma semmai siamo invitati a fare il contrario, a
Ŗsospendere la credulitàŗ. La credulità, dico, nei confronti di un sistema in cui una affermazione
risulta vera oppure falsa (senza che si dia un terzo, e senza che sia possibile derogare al principio di
non contraddizione, appunto Ŕ mentre il sistema logico, o meglio paralogico, di Rosselli prevede
questa possibilità, e anzi vi conferisce carattere di necessità); nei confronti di unřontologia dellřarte
che pretende si realizzino opere in suo ossequio, che pretende di essere continuamente e
tautologicamente confermato, ipostatizzato, naturalizzato. Invece Ŕ e lo insegna Amelia Rosselli
come già Marcel Duchamp Ŕ possiamo tentare ogni volta di rivedere la definizione di verso grazie a
ciò che non è verso, di arte grazie a ciò che non è arte. Poi saremo sempre di nuovo tentati di dire
che cosa è verso, che cosa è arte; tentati di dire, in definitiva, che cosa è mondo, e che cosa è verità,
anche a proposito della propria storia personale. A quel punto bisognerà ricominciare a fare nuove
affermazioni che abbiano tutta lřaria di essere falsità.
Antonio Loreto
Note.
(1) Caso non considerato da Walter Benjamin nel suo Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen
Reproduzierbarkeit (1936), ma degno di nota come situazione intermedia tra lřirripetibilità e la riproducibilità tecnica
dellřopera. Si tratta di una riproducibilità solo potenziale, che la mano dellřartista può tradurre in atto conferendole
valore museale, e commerciale.
(2) Cfr. N. Goodman, I linguaggi dell‟arte [1968], a cura di F. Brioschi, il Saggiatore, Milano 1976 (pp. 111 sgg.), per
la teoria della notazione; cfr. Id., Un mondo di individui [1947], in La filosofia della matematica, a cura di C. Cellucci,
Laterza, Roma-Bari 1967, per il titolo.
(3) Cfr. N. Goodman, I linguaggi dell‟arte, cit., p. 3.
(4) F. Brioschi, Un mondo di individui, Unicopli, Milano 1999, pp. 48-49.
(5) Lřarticolo The Art World (pubblicato nel 1964 in ŖThe Journal of Philosophyŗ, vol. LXI, n. 19) fornisce lo spunto a
studiosi come George Dickie che prendono a lavorare a una teoria istituzionale dellřarte (da cui per la verità Danto
prenderà le distanze: cfr. lřintroduzione di Stefano Velotti a A.C. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia
dell‟arte [1981], Laterza, Roma-Bari 2008, p. XI).
(6) Cfr. F. Brioschi, Un mondo di individui, cit., pp. 33-34.
(7) Cfr. N. Goodman, I linguaggi dell‟arte, cit., p. 100.
(8) A. Schwarz, Marcel Duchamp, Hacette-Fabbri, Milano 1969, pp. 29 e 31.
(9) R. Magritte, Tutti gli scritti [1979], a cura di A. Blavier, Feltrinelli, Milano 1979, p. 566. In chiusura di una lettera a
Michel Foucault del maggio dello stesso 1966, Magritte scrive: «Mi permetto di sottoporre alla sua attenzione le
riproduzioni, qui allegate, di quadri che ho dipinto senza preoccuparmi di una ricerca pittorica originale». Tra le
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riproduzioni, annota lo stesso Foucault, cřera Ceci n‟est pas une pipe (cfr. M. Foucault, Questo non è una pipa [1973],
trad. di R. Rossi, SE, Milano 1988, pp. 90-91).
(10) Cito da S. Gablik, Magritte [1985], Rusconi, Milano 1988, pp. 139-142.
(11) A.M. Hammacher, Magritte [1973], Garzanti, Milano 1981, p. 24.
(12) Cfr. S. Gablik, Magritte, cit., p. 124.
(13) Cfr. G. Della Volpe, Critica del gusto [1960], Feltrinelli, Milano 19764, pp. 2-3 e pp. 46 sgg.
(14) Cfr. W.V.O. Quine, Identità, ostensione, ipostasi [1950], in Id., Da un punto di vista logico. Saggi logico-filosofici
[1953], a cura di P. Valore, Cortina, Milano 2004.
(15) E. Esposito, Il verso. Forme e teoria, Carocci, Roma 2003, pp. 19-20. Cfr. anche E. Esposito, Metrica e poesia del
Novecento, FrancoAngeli, Milano 1992, che indica nel verso lo «specifico elemento costitutivo» della poesia (p. 38).
(16) Mi riferisco ai testi di Variazioni belliche come segue: VP: sezione Poesie; VV: sezione Variazioni; SM: allegato
Spazi metrici. Il numero rimanda alla paginazione del citato A. Rosselli, Le poesie, a cura di E. Tandello, pref. di G.
Giudici, Garzanti, Milano 1997.
Si utilizza qui un carattere monospazio, quello della macchina da scrivere, comřera nelle richieste di Amelia Rosselli
presso i propri editori, per le ragioni spiegate in Spazi metrici: «Nello scrivere a mano invece che a macchina non
potevo […] stabilire spazi perfetti e lunghezze di versi almeno in formula eguali perfettamente, aventi lřidea o parola o
nesso ortografico come unità funzionali e grafiche […]. Scrivendo a mano normalmente, potevo soltanto tentare di
carpire istintivamente lo spazio-tempo prestabilito nella formazione del primo verso, e forse più tardi e artificiosamente,
ridurre il tentativo ad una sua forma approssimata, riportata tramite stampa meccanica» (SM341). Fu soltanto Il
Saggiatore (editore di Serie ospedaliera, 1969) a soddisfare le richieste dellřautrice, mentre Garzanti e Studio Editoriale
(La libellula, 1985) non ritennero di dover intervenire sullřaspetto tipografico dei testi. Ancora nel complessivo e
postumo Le poesie curato da Emmanuela Tandello (1997), Garzanti trascura la questione Ŕ come lamenta Edoardo
Esposito nella sua recensione al volume (Diario in versi d‟un destino tragico. Processo creativo e tensioni linguistiche
d‟una poetessa per pochi, ŖLřIndiceŗ, n. 6, giugno 1998) Ŕ rimandandola «semmai» ad una futura edizione critica (che
pare ormai essere in cantiere, affidata da Renata Colorni alla stessa Tandello e a Stefano Giovannuzzi per i ŖMeridianiŗ
Mondadori).
(17) Per le datazioni dřautore, da sempre problematiche in particolare per La libellula ma anche per Variazioni belliche,
cfr. S. Giovannuzzi, Amelia Rosselli e la funzione Campana, ŖTrasparenzeŗ, n. 17-19 monografico a cura di E. Tandello
e G. Devoto, 2003, p. 154; Id., Come lavorava Amelia Rosselli, in A. Cortellessa (a cura di), La furia dei venti contrari.
Variazioni Amelia Rosselli, con testi inediti e dispersi, Le Lettere, Firenze 2007.
(18) «I testi di Sleep li ho riuniti nel ř66, per mostrarli agli amici. Li considero assolutamente privati», intervista di M.
Caporali a Rosselli contenuta in ŖPoesiaŗ, n. 28, aprile 1990. Tali testi saranno parzialmente pubblicati in Sonno-Sleep,
versione italiana di A. Porta, Rossi & Spera, Roma 1989, e poi, in misura più larga, in Sleep. Poesie in inglese, versione
italiana di E. Tandello, Garzanti, Milano 1992. Appartenenti al lungo periodo che va dal 1953 al 1966, nella seconda
fase risentono della stessa evoluzione formale che caratterizza i testi Ŗnon privatiŗ.
(19) Cfr. A. Loreto, L‟anti-oracolo di “Variazioni belliche”, in La furia dei venti contrari, cit., pp. 204-212.
(20) «Ma scrivendo a macchina posso per un poco seguire un pensiero più veloce della luce. Scrivendo a mano forse
dovrei scrivere prosa, per non tornare a forme libere: la prosa è forse infatti la più reale di tutte le forme, e non pretende
definire le forme. Ma ritentare lřequilibrio del sonetto trecentesco è anchřesso un ideale reale» (SM342). Lřinteresse per
la prosa è peraltro duraturo se Rosselli nel 1990 ancora scrive, a proposito di Diario ottuso: «lo sperimentare in prosa è
ciò che mřattira: ugualmente vero e probabile è che si dica di più in prosa che non in poesia, spesso manieristica o
decorativa» (A. Rosselli, Esperimenti narrativi, in Ead., Diario ottuso 1954-1968, Istituto Bibliografico Napoleone,
Roma 1990, p. 48).
(21) Una simile lettura è stata in seguito biograficamente confortata dalla corrispondenza di Rosselli a Pasolini, resa
pubblica da Giovannuzzi in qualità di curatore di A. Rosselli, Lettere a Pasolini. 1962-1969, San Marco dei Giustiniani,
Genova 2008: «Per fortuna sono stata curata bene e ora non posso lamentare inceppi o accidenti salvo e soprattutto
lřaver perso del tutto la memoria dřogni mio atto o incontro degli ultimi tre mesi» (29 ottobre 1962, dalla clinica Villa
Santa Rita in Roma, p. 41). Bisogna dire Ŕ ma ciò attiene di nuovo ai problemi di datazione Ŕ che Rosselli dà per
concluso il testo poetico di Variazioni belliche entro il 1961.
(22) Chissà se Uwe Johnson, con il suo romanzo congetturale (Mutmassungen über Jakob appare nel 1959 e viene
tradotto in Italia nel 1961; Rosselli in quegli anni frequenta i Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt, entrando in
stretto contatto con la cultura tedesca), abbia in qualche modo suggerito questa possibilità.
(23) Cfr. A. Pinchera, La metrica dei “novissimi” (estratto dallřomonimo saggio originariamente apparso in ŖRitmicaŗ,
n. 4, 1990), in Materiali critici per lo studio del verso libero in Italia, a cura di A. Pietropaoli, ESI, Napoli 1994.
(24) Intervista di Giacinto Spagnoletti allřautrice, in A. Rosselli, Antologia poetica, Garzanti, Milano 1987, p. 156.
(25) Intervista su Roma [1992], a cura di M. De Angelis e I. Vincentini, in A. Rosselli, Una scrittura plurale, a cura di
F. Caputo, Interlinea, Novara 2004, p. 312.
(26) Si vedano rispettivamente Zang Tumb Tumb (1914), Rarefazioni e parole in libertà (1915), Calligrammes. Poèmes
de la Paix et de la Guerre (1918), Vision and prayer (in Deaths and Entrances, 1946), Nuova poesia in forma di rosa e
Il libro delle croci (in Poesia in forma di rosa, 1964), Ma noi facciamone un‟altra (1968).
(27) F.T. Marinetti, Distruzione della sintassi Immaginazione senza fili Parole in libertà [1913], in Id., Teoria e
invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano 1966, p. 67.
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(28) E. Esposito, recensione a A. Rosselli, Antologia poetica cit., ŖLingua e letteraturaŗ, n. 12, maggio 1989.
(29) La prima edizione di Poesia in forma di rosa, per Garzanti, è dellřaprile 1964 (in quella immediatamente
successiva Ŕ giugno ř64 Ŕ la sezione Il libro delle croci sarà espunta), in perfetta coincidenza con lřuscita delle
Variazioni belliche di Amelia Rosselli. Nelle Note e notizie sui testi del ŖMeridianoŗ curato da Walter Siti (Tutte le
poesie, Mondadori, Milano 2003) si legge che Pasolini ha montato in forma di croce testi scritti «normalmente» (vol. I,
p. 1075): questo metodo non è molto distante da quello di Amelia Rosselli, poiché in entrambi i casi il verso risulta
essere un residuo grafico e non unřunità costruttiva del testo.
(30) In A. Rosselli, Sonno-Sleep (1953-1966), versione italiana di A. Porta, San Marco dei Giustiniani, Genova 2003 2,
p. 72. Il fatto di utilizzare una lettera degli anni Ottanta per sostenere la mia interpretazione di un fenomeno di oltre
ventřanni prima dovrebbe essere reso lecito dalla immutata convinzione di Rosselli rispetto alla validità della sua
«sistematica metrica» (cfr. A. Rosselli, Introduzione a «Spazi metrici», inedito datato 4 febbraio 1993 e pubblicato
postumo in ŖTrasparenzeŗ, n. 17-19, cit.; ora anche in Ead., Una scrittura plurale, cit.).
(31) Cfr. S. Giovannuzzi, Come lavorava Amelia Rosselli, cit., p. 27. Paolo Giovannetti riprende la collazione Ŕ mentre
prova a fare ordine nella congerie di interpretazioni dello Ŗspazio metricoŗ avanzate dagli studiosi Ŕ nel capitolo ŖIl
verso liberoŗ del recente P. Giovannetti - G. Lavezzi, La metrica italiana contemporanea, Carocci, Roma 2010, pp.
265-266.
(32) A. Rosselli, Introduzione a «Spazi metrici», in Ead., Una scrittura plurale, cit., p. 60.
(33) La libellula (frammento), Ŗil verriŗ, n. 8, 1963, pp. 93-95.
(34) La libellula (1958), ŖNuovi Argomentiŗ, n. 1, 1966, pp. 147-165. Si tratta non più di un frammento ma dellřintero
poemetto nella versione pressoché definitiva; qualche lieve ritocco si avrà ancora nellředizione in volume del 1969
presso Il Saggiatore, ma si parla di interventi topici che non modificano il testo nella sua sostanza.
(35) Ju. Tynjanov, Il problema del linguaggio poetico [1924], trad. di G. Giudici e L. Kortikova, il Saggiatore, Milano
1968, p. 87. Una certa attenzione viene invece posta da Rosselli nella conclusione dei componimenti o delle lasse: in
particolare segnalo una frequente marca mensurale che consiste nel dimezzamento della lunghezza dellřultimo verso
rispetto ai precedenti, quasi a rendere la figura visiva della strofa saffica.
(36) Cfr. B. Tomaševskij, Teoria della letteratura [1928], trad. di M. Di Salvo, il Mulino, Bologna 1978, p. 105 sgg.
(37) Cfr. P. Zumthor, Lingua e tecniche poetiche nell‟età romanica (secoli XI-XIII) [1963], trad. di M. Maddalena, il
Mulino, Bologna 1973.
(38) Cfr. ad esempio M. Venturini, Alla luce della critica: la poesia di Amelia Rosselli, ŖTrasparenzeŗ, n. 17-19, cit., p.
117.
(39) «Da circa dieci anni mi rompevo la testa nel tentare varie possibili formulazioni metriche [...] da potersi
considerare come Ŗsistemiŗ non solo metrici ma anche o quasi filosofico-scientifici e storicamente Ŗnecessariŗ,
inevitabili» (intervista di G. Spagnoletti allřautrice, in A. Rosselli, Antologia poetica, cit., p. 157).
(40) F. Fortini, I poeti del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 208n-209n.
(41) R. Jakobson, Strutture linguistiche subliminali in poesia [1971], trad. parziale in La metrica, a cura di R. Cremante
e M. Pazzaglia, il Mulino, Bologna 1972.
(42) J. Cohen, Struttura del linguaggio poetico [1966], trad. di M. Grandi, il Mulino, Bologna 1974, p. 92.
(43) P. Beltrami, La metrica italiana, il Mulino, Bologna 1991, p. 204.
(44) M. Pazzaglia, Introduzione a Teoria metrica, prima parte di La metrica, a cura di R. Cremante e Id., cit., p. 17.
(45) E. Esposito, Il verso, cit., p. 21. Tale posizione è affermata sin da Id., Metrica e poesia del Novecento, cit. (cfr. p.
37).
(46) Ibidem.
(47) Lřautore cita come esempio Puškin.
(48) Ju. Tynjanov, Il problema del linguaggio poetico, cit., p. 33.
(49) Ivi, p. 29.
(50) E. Sanguineti, L‟ultima passeggiata. Omaggio a Pascoli, 7, in Id., Il gatto lupesco. Poesie (1982-2001), Feltrinelli,
Milano 2004, p. 77 (già in Giovanni Pascoli. Poesia e poetica, Atti del Convegno di studi pascoliani, San Mauro 1-2-3
aprile 1982, Maggioli, Rimini 1984).
(51) A. Pinchera, La metrica dei “novissimi”, cit.
(52) Cfr. R. Barthes, Miti d‟oggi [1957], trad. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 19942, pp. 226-229, dove si stabilisce in
maniera rigida e pressoché dogmatica che il linguaggio-oggetto ha capacità trasformante ed è patrimonio del
proletariato, dellřoppresso e della Rivoluzione, e che il metalinguaggio al contrario ha ruolo conservativo ed è
prerogativa assoluta dellřoppressore. Un minor schematismo sarebbe richiesto quantomeno dal fatto che la distinzione
tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio è data effettivamente soltanto nelle lingue formalizzate, mentre in una lingua
naturale esse coincidono in quanto codice e si possono distinguere semmai in quanto funzione, cioè uso.
(53) Lřespressione è di Franco Fortini. Il brano in cui compare è citato estesamente nel seguito.
(54) F. Fortini, Su alcuni paradossi della metrica moderna [1958], in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini,
Mondadori, Milano 2003, pp. 811-812, 815.
(55) Cfr. SM339 e SM342.
(56) Cfr. C. Guillén, L‟uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata [1985], trad. di A. Gargano, il
Mulino, Bologna 1992, p. 192. Il saggio di Alfonso Reyes (Las “funciones formales” de la literatura en general) è del
1963.
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(57) E. Esposito, Il verso, cit., pp. 16 e 11 rispettivamente.
(58) Cfr. A. Berardinelli, Prefazione ad A. Rosselli, Diario ottuso 1954-1968, cit., p. 6.
(59) S. Agosti, La competenza associativa di Amelia Rosselli [1978], in Id., Poesia italiana contemporanea, Bompiani,
Milano 1995, p. 133.
(60) Ju. Tynjanov, Il problema del linguaggio poetico, cit., p. 25.
(61) Cfr. Ju.M. Lotman, La struttura del testo poetico [1970], a cura di E. Bazzarelli, Mursia, Milano 1972, pp. 101102.
(62) Per lřidea della forma come Ŗcontenitoreŗ si legga in chiusura di Spazi metrici: «La realtà è così pesante che la
mano si stanca, e nessuna forma la può contenere» (SM 342).
(63) Lotman 1970, p. 116.
(64) J. Cohen, Struttura del linguaggio poetico, cit., p. 78.
(65) Ju. Tynjanov, Il problema del linguaggio poetico, cit., p. 35.
(66) Cfr. ivi, pp. 26-33.
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Fortezza di Giovanni Giudici: appunti sulla genesi di una sequenza
Nella poesia di Giudici la propensione alla poematicità si rivela molto precocemente. Una breve
scorsa allřindice generale dellřopera in versi è sufficiente a rivelare la sua tendenza a procedere per
aggregazioni testuali piuttosto che per singole unità(1). Nelle prime opere il grado di ordinamento è
minimo, con testi perlopiù raggruppati in sezioni prive di titolo e titolati singolarmente(2); da Il
ristorante dei morti, invece, appaiono i titoli delle sequenze e, spesso, i numeri ordinali di serie dei
singoli componimenti. Se questa tipologia è quella che ritorna anche negli ultimi libri, un inciso
apertamente poematico è costituito da Salutz e da Fortezza, in cui le sezioni hanno un titolo proprio
(nel caso di Salutz la sezione è unica e coincide con il libro) e i testi sono numerati ma non titolati
singolarmente. Nei due casi si ha a che fare quindi con vere e proprie sequenze, in cui il discorso
poetico, attraverso una composizione seriale ordinata e chiusa, si orienta alla narratività(3).
Per quanto riguarda Salutz, il libro è «rigorosamente costruito»(4): si articola in sette sezioni,
ciascuna costituita da dieci componimenti di quattordici versi; in chiusura, lřisolato Lais porta a
mille i versi del libro. La forma di Salutz è quella tipica del macrotesto(5): vi è unità semantica e
metrica, continuità spazio-temporale, omogeneità del soggetto (lřio locutore) e della persona cui
egli sřindirizza (Minne/Midons); sono in atto molti dispositivi di coerenza del testo(6).
Diverso il discorso per Fortezza. Il libro è diviso in tre sezioni: Memoria (con componimenti
titolati singolarmente e scarsa, o quasi nulla, coerenza poematica interna), Fortezza e Frate
Tommaso; soltanto per le ultime due sezioni, che contengono componimenti numerati e molto coesi,
si può parlare di sequenze. Lřanalisi delle carte relative al libro(7) conferma lřisolamento della
prima sezione: se il materiale ascrivibile a Fortezza, con la sola eccezione di due dattiloscritti, è
contenuto in una sola cartella (mentre del tutto assente è la documentazione relativa a Frate
Tommaso), i componimenti destinati a Memoria sono conservati in due cartelle, alternati a molto
materiale extravagante. Memoria, che unisce sotto un unico titolo poesie eterogenee, è stata
probabilmente pensata in seguito, a completamento delle due sequenze: le poesie di Memoria Ŕ
scrive lřautore Ŕ sono «note di un preludio o sondaggi in qualche misura collegabili a mie
precedenti esperienze»(8).
La meticolosa registrazione della data in calce ai componimenti di Fortezza potrebbe,
genericamente, essere indicativa della genesi della sezione. Lřordine progressivo coincide con
quello cronologico, dalla poesia più antica alla più recente. Anche dove apparentemente si danno
dei salti Ŕ e ciò accade soprattutto nei casi in cui a essere specificato è lřintervallo di composizione
e non una data puntuale Ŕ si nota che almeno una delle due indicazioni continua la linea
cronologica. Da questřordine sfuggono soltanto due componimenti: Fortezza-9 e Fortezza-44(9).
Manca, al momento, qualsiasi documentazione riguardo alla seconda poesia, scritta in extremis a
meno di un mese dalla pubblicazione del libro (la data indicata in calce è «8-14 febbraio 1990», la
pubblicazione del marzo 1990), mentre molte delle stesure che testimoniano la genesi di F-9 sono
datate al settembre del 1988, e consentono così di riallineare il componimento agli altri della
sequenza. Una di queste redazioni è introdotta da unřimportante annotazione a penna: il titolo
Tordesillas. Anche altre carte del fascicolo ascrivibile a Fortezza lo ripetono, seguito o meno
dallřordinale di serie: la futura F-5 sřintitola nei dattiloscritti Tordesillas, F-6 è Tordesillas (2) e F-7
è Tordesillas (3). Nellřottobre del 1988 è pubblicata su «Poesia» «Mia solezza – mia», F-6(10); non
è indicato il titolo del componimento, ma la dicitura Da Tordesillas, come se si trattasse di una
parte estrapolata da una sequenza almeno in parte composta. Da questo momento in poi Ŕ ma in
realtà già nelle carte delle poesie scritte nel mese di settembre 1988 Ŕ qualunque riferimento a
Tordesillas scompare:
Mi trovai alcuni anni più tardi a scrivere un libro, Fortezza, la cui sequenza centrale era stata
messa in movimento anche dalla lettura di un libro su Juana la Loja, Giovanna la Pazza, figlia di
Isabella di Castiglia e di Ferdinando dřAragona e madre dellřimperatore Carlo V, segregata per
quasi cinquantřanni a Tordesillas, in una sorta di residenza coatta. Il libro sřintitolava Un enigma
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47
della storia, e ne era stato autore verso la fine del secolo scorso Karl Hillebrand; ma esso non ha
molto a che vedere con i miei versi. (11)
A partire, quindi, dal saggio sulla prigionia di Giovanna la Pazza, Giudici aveva probabilmente
concepito una sequenza dal titolo Tordesillas: in seguito, con lřesaurirsi della spinta data dal libro di
Hillebrand, il titolo si è trasformato in Fortezza.
Il comparire di Tordesillas soltanto da quella che diventerà F-5 ha unřaltra conseguenza di una
certa importanza sul piano critico: indica che il progetto di sequenza ha avuto inizio in quel punto, e
che i componimenti da F-1 a F-4 sono stati concepiti al di fuori di essa e aggiunti in una fase
posteriore. Questo spiega la ragione dello iato tra i primi componimenti e il resto della sequenza: «i
primi quattro testi (le cui datazioni li collocano tra il terzultimo e il penultimo testo di Memoria, e
che hanno la stessa misura ottastica) appaiono come rapide inquadrature apparentemente irrelate
con quanto si svolgerà sulla scena principale: alla quale forniscono invece […] come i frammenti di
una premessa di potente suggestione»(12). È anche una nuova conferma, se ve ne fosse bisogno,
che «la raccolta di poesia è […], oltre al libro di racconti, lřunica forma letteraria che può ricevere a
posteriori (cioè in una fase successiva a quella del concepimento e della stesura dei singoli
elementi) un senso per così dire immanente, attraverso la distribuzione dei testi»(13).
Nonostante la genesi disgiunta della sequenza, non cřè alcun dubbio sulla sua natura
macrotestuale. Il motivo-guida è il racconto, quasi diaristico, di una vicenda di prigionia, che
«potrebbe stare nei domini asburgici del XVI-XVII secolo (Spagna o Austria o Boemia o Paesi
Bassi o Italia), ma anche nellřItalia bizantina dellřalto medioevo […], o in una provincia Ŗkafkianaŗ
del già ricordato impero asburgico o del terzo Reich […] (tutto, in fondo, potrebbe svolgersi in una
clinica psichiatrica, o anche solo dentro unřanima affannata)»(14). Al protagonista-carcerato
appartiene soltanto una delle voci recitanti: vi è un «vorticoso alternarsi delle persone, dallřio
monologante a un lui da referto giudiziario o romanzesco, da un noi che sembra scaturire da un coro
di testimoni-secondini al Lei sinistramente cerimoniale delle suppliche»(15). Si è già detto qualcosa
sui segnali dřinizio ricordando la funzione di premessa dei primi quattro componimenti. Il testo poi,
nonostante sia ripartito internamente in quarantuno episodi poetici, si sviluppa con continuità.
Segnali di coerenza sono i pronomi dimostrativi (questa prigione, queste ore), i deittici di spazio
(qui a graffiarmi, entri là, starsene lì) e di tempo (arrivata oggi, stanotte visione dei gatti), ma
anche le aperture con congiunzione coordinativa («E certe notti un pensiero», F-9; «E con un
malizioso sventolìo», F-18; «E lui di essa sia primo architetto Ŕ», F-25; «Anche da Lei vorremmo
trarre consiglio Ŕ», F-36) o avversativa («Però una stradina», F-30). Tutti questi segnali
contribuiscono a una progressione di senso: ogni frammento, anche quando paia emergere da un
substrato che rimane inconoscibile, consente di accrescere la comprensione dellřinsieme.
Anche la natura di alcune varianti può diventare indizio di macrotestualità. Talvolta, infatti,
modifiche e correzioni si possono giustificare solo alla luce di una concezione sistemica della
sequenza. Lřanalisi delle carte permette di individuare una casistica che si può schematizzare in
questo modo: I. parole o frasi soppresse perché già presenti nella sequenza; II. spostamenti di parole
o frasi allřinterno della sequenza. Pertanto, si può affermare che le isotopie riscontrabili nel libro
siano ricercate da Giudici non attraverso riprese precise e ripetizioni puntuali, bensì con unřinsistita
variatio. Di seguito se ne darà qualche esempio.
I. In una delle redazioni di F-7, si leggono i versi:
Mi sentono nel notturno vibrare?
Il mio sonno il mio sognare
La tenuissima riga
Confine estremo del vegliare Ŕ
O lřimmenso intermedio
Questa specie di giorno nella quale
Mi nascondo resisto al tristo assedio?(16)
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I primi quattro componimenti dovevano essere a questřaltezza già inclusi nella sequenza, se Giudici
elimina il riferimento allřassedio, che era ai vv. 1-4 di F-2:
Non così Ŕ più probabile
Sia invece che stanchi di studiare tormenti
Tentino amiche foschìe per uscirne
Assediati assedianti Ŕ;(17)
e la locuzione Ŗuna specie di giornoŗ, già ai vv. 4-8 di F-4:
Un forse voler scrivere da dove sta
esiliato da mesi e noi
Senza speranza più nel ritorno
Che a volte ci domandiamo se là
È notte o una specie di giorno.
Una motivazione non dissimile potrebbe essere allřorigine della soppressione del primo verso
«Duplice aldilà del mio straziarmi a te»(18) nella stesura di F-21, già presenti in F-5 i versi
«Stupida bestia a sfidare | Lřaltro Sé dello specchio nel chiaro aldilà | Altrove del cuore di lei Ŕ»
(vv. 10-12). A venire meno non è il riferimento allřaldilà (i versi definitivi recitano: «Da insonnia al
sonno e un aldilà del vero»), ma il legame dellřaldilà con lřaltra persona. Prima della soppressione
dellřintero verso, si legge la variante: «Duplice aldilà delle mie spine a te»(19); il riferimento alle
spine(20) diventa significativo nellřassegnazione di quel pronome te alla donna cui costantemente
va il pensiero dellřio nellřintera sequenza.
Lřelaborazione di F-21 conta più di sessanta redazioni: poiché il tema del sogno, e soprattutto
del delicato passaggio dalla veglia al sonno, è già di altri componimenti, (21) è naturale che si
riaffaccino parole già usate. Unřaltra versione del già citato primo verso è contenuta nella redazione
che segue:
Due versanti ha il dormire
Tenue crinale Ŕ
Da uno è la salita
A un non pensiero a un sopore
Alla raggiunta pace
Di quel che muore per resuscitare
A un aldiquà di freddo e di calore
Risveglio alle sue spine e al suo grigiore. (22)
Probabilmente, allřorigine della riscrittura successiva stanno questi versi, già di F-9 (vv. 5-12):
Mio tra crescermi e dormienza
Pulviscolo dřonnipresenza Ŕ
Non nato imprendibile spacco
Tra esserci ancora e mai più:
Di crinale in crinale
Estranei regni a un minimo volare
Bruciare alla speranza
Breve lume, nuda stanza.
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II. Il secondo caso, lo spostamento di parole o frasi allřinterno della sequenza, è altrettanto
frequente. Tra le stesure complete o interrotte di F-7 si leggono alcuni tentativi di modificare
lřincipit: «Insetto, notturno tremare», oppure «Insetto del notturno tremare»(23). Il riferimento è
subito abbandonato, ma in F-27 ricompare nella forma Ŗkafkianaŗ «blatta sul pavimento» (vv. 8-9):
Blatta sul pavimento scappo qua e là
Aspetto lo scricchiare delle mie costole.
Ancora tra le versioni che precedono la definitiva F-7, si leggono questi versi (vv.1-4):
Tremore mio compagno fin dentro il dormire
E di là nel sognare antipode alla veglia
Regno e regno impalpabili scernendo
Bave di seta e ragnatele di confini Ŕ(24)
Il condannato percepisce, nella propria dimensione onirica, che la sua mente è infestata da «bave» e
«ragnatele». I carcerieri ne otterranno la stessa impressione (F-36, vv. 5-11):
Ai miei ho ordinato di stargli addosso
Non con mani e catene
Ma giorno e notte nei pensieri suoi fare nido
Che svuotato si arrenda:
Fotografargli dentro la testa
Abbiamo provato Ŕ era tutto
Fili di ragno e foresta.
Lo spostamento interno alla sequenza può riguardare anche le spinte neologistiche: in una prova
per F-21 Giudici introduce il composto «senzapeso»,(25) che si svilupperà compiutamente in una
delle stesure di F-28 «senzafondo senzatempo»(26) e troverà sistemazione definitiva nella forma
«senzaterra senzatempo».
Lřanalisi delle varianti permette, in ultimo, di ampliare i confini del macrotesto alla sequenza
Frate Tommaso. Una semplice scorsa alla data di composizione mantenuta in calce alla serie («5
marzo 1989») consente di collocare la sequenza tra F-28 («22 ottobre 1988 Ŕ 12 febbraio 1989») e
F-29 («30 marzo 1989»). Le ultime due composizioni prima dellřinterruzione lasciano il segno sul
quarto componimento di Frate Tommaso:
Sùbito è uno squittìo
Implumi da qualche nido
Ma poi tonfi di topi sui legni del soppalco
Sperando che smettano almeno per questa notte;(27)
(F-27, vv. 3-6)
E dove posa gli occhi, che cosa scopre
Nelle croste dei muri
O quelle trine dřaria, gli umori.
(F-28, vv. 8-10)
Non è difficile ritrovare in questi versi la genesi di «Ma non aveste voi paura dei topi | E il puzzo
e il gocciare dei muri». Si tratta di un fatto di una certa importanza, perché autorizza a cercare
segnali macrotestuali al di fuori del macrotesto considerato, nellřipotesi di individuare una stretta
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correlazione tra le forme poematiche simili allřinterno dellřopera del poeta; un filo, insomma, che
leghi Fortezza a Salutz e a Frate Tommaso.
Lisa Cadamuro
Note.
(1) Sulle tipologie di strutturazione testuale in Giudici si veda R. ZUCCO, Teatro del perdono. Per Giudici, „L‟amore
che mia madre‟, Belluno, Agorà Libreria Editrice, 2008, alle pp. 16-21.
(2) La regola presenta, naturalmente delle eccezioni: L‟educazione cattolica è una sezione de La vita in versi, e contiene
poesie numerate, o numerate e titolate, singolarmente. La Bovary c‟est moi è il titolo di una sezione di Autobiologia che
conta sei componimenti numerati. Inoltre, Autobiologia e O beatrice includono quelle che Zucco (nel saggio appena
citato, a p. 24) definisce sequenze aperte, testi disseminati in vari punti delle due raccolte in cui la ripetizione del titolo
è accompagnata da un ordinale di serie tra parentesi tonde.
(3) Cfr. E. TESTA, Aspetti linguistici della poesia italiana dell‟ultimo Novecento, in ID., Per interposta persona. Lingua
e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 135-157.
(4) Cfr. M. FORTI, Tempi della poesia. Il secondo Novecento da Montale a Porta, Milano, Mondadori, 1999, a p. 316.
(5) Ci si riferisce, in questo e nei casi che seguiranno, al macrotesto secondo la definizione di E. TESTA, Il libro di
poesia, Genova, Il melangolo, 1983.
(6) Lřanalisi macrotestuale di Salutz è in G. COLELLA, 'Salutz' di Giovanni Giudici. Note sulla lingua e lo stile, Roma,
Aracne, 2007, alle pp. 34-60.
(7) Le carte, custodite in tre cartelle, sono conservate nellřarchivio di Rodolfo Zucco e sono al momento oggetto di un
approfondito studio critico da parte di chi scrive. Benché al loro interno presentino materiali eterogenei, la costituzione
Ŗdřautoreŗ dei tre fascicoli ha fatto propendere per la scelta di mantenere intatte le suddivisioni interne e lřordine delle
carte.
(8) Epigrafe dřautore a G. GIUDICI, Fortezza, Milano, Mondadori, 1990.
(9) Da questo momento in poi i componimenti della sequenza saranno individuati dalla sigla F seguita dallřordinale di
serie (F-1, F-2 etc.).
(10) Cfr. A lezione da Giovanni Giudici, «Poesia», I, 10, ottobre 1988, a p. 17.
(11) Cfr. G. GIUDICI, Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, Roma, e/o, 1992, a p. 37.
(12) Cfr. R. ZUCCO, Apparato critico in G. GIUDICI, I versi della vita, a cura di R. ZUCCO, con un saggio introduttivo di
C. OSSOLA, cronologia a cura di C. DI ALESIO, Milano, Mondadori, 2008, a p. 1669.
(13) Cfr. N. SCAFFAI, Montale e il libro di poesia (Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro), Lucca, Maria Pacini
Fazzi, 2002, a p. 12.
(14) C. DI ALESIO, Parlare „in linguis‟: per una lettura di Fortezza di Giovanni Giudici, in «Hortus», 18, II semestre
1995, pp. 82-89, a p. 83.
(15) G. RABONI, Giudici sosia di se stesso, in ID., La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano.
1959-2004, a cura di A. CORTELLESSA, Milano, Garzanti, 2005, pp. 318-329, a p. 329. Sulla polifonia di Fortezza, e per
unřanalisi più approfondita dellřalternanza dei turni di parola, si veda anche R. ZUCCO, Teatro del perdono, cit., alle pp.
37-38.
(16) Si tratta dei vv. 1-7 della settima stesura di carta 7r/I. Nellřindicazione di questa e delle altre carte cui si fa
riferimento si indicherà il numero del foglio seguito dallřindicazione della cartella di afferenza nellřarchivio Zucco.
(17) In questo e nei casi che seguono, la punteggiatura in chiusura di componimento non è di Giudici, ma di chi scrive.
(18) Cfr. la prima stesura di c. 164r/I.
(19) Cfr. la terza stesura di c. 164r/I.
(20) Sulla centralità della metafora della spina in Salutz cfr. R. ZUCCO, Apparato critico, cit., alle pp. 1585-86.
(21) Cfr.: «Intanto che la mente si prepara al distacco | Sogni monatti la scortano», F-6; «Tra veglia e sonno esile strada
al tremare», F-7; «Mio tra crescermi e dormienza | Pulviscolo dřonnipresenza Ŕ», F-9; «Steso su un fianco si sporge |
Dal chiuso dellřarduo sonno Ŕ», F-12; «E spiavo i rigagnoli del sonno», F-16.
(22) Cfr. la prima stesura di c. 166r/I.
(23) Cfr. c. 8r/I.
(24) Cfr. c. 10r/I.
(25) Cfr. la prima stesura di c. 177r/I.
(26) Cfr. c. 187r/I.
(27) Cfr. la prima stesura di c. 186r/I.
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Sulla via del romazo in versi: Attilio Bertolucci e Alberto Bellocchio(1)
Fu Sereni in Lettera d‟anteguerra(2) a riconoscere ad Attilio Bertolucci il pregio di saper
restituire fedelmente « il dono dellřaria e delle ore», la verità della vita quotidiana, sfiorata
dallřombra della morte, e i colori del paesaggio domestico della campagna e della città. Fu ancora
lui in lettere private(3) a sottolineare nel Viaggio d‟inverno(4) e nella Camera da letto la conquista
di un paesaggio, storico, sociale, geografico, persino topografico definito e riconoscibile e di aver
«ai vertici» unito le emozioni e i bagliori della memoria involontaria e dellřevocazione e le forme
del racconto, coniugando poesia e romanzo, fino a trasformare i luoghi conosciuti in «patria
poetica», di cui essere, dopo un lungo doloroso itinerario, il «sovrano».
Ma fu Pasolini (Sereni non amò essere ristretto nella «linea lombarda», così definita da
Luciano Anceschi(5), consapevole dei confini più vasti cui deve obbedire la poesia) a tracciare per
primo, intorno al nome di Attilio Bertolucci, una linea poetica «parmigiana» allřinterno della più
vasta linea «emiliana», che da Pascoli e da Serra scendeva a Bassani, agli Arcangeli, a Rinaldi, a
Giovanelli e ai più giovani Roversi e Leonetti. Pasolini indicava in particolare, facendo perno sulla
poesia Emilia di Fuochi in novembre, la raccolta del 1934(6), una perfetta aderenza dei versi alla
figura ambientale e geografica della regione, interpretata geologicamente e fisicamente, coi
torrenti, LřEnza e il Cinghio, le campagne, i monti dellřAppennino. Evidenziava anche una
tendenza realistica e prosastica coerente a una ideologia conservatrice e illuministica, che solo il
distacco avrebbe potuto incrinare, modificando il rapporto del poeta con i luoghi e con le figure
della sua poesia - città, campagna e famiglia-(7).
Fu quanto in verità avvenne. Finché visse in Emilia, a Baccanelli e a Parma, il poeta, con
sensibilità fortemente sensitiva e percettiva, aveva illuminato di «luce vera» le immagini, tanto da
conservare loro lřemozione dello sguardo e dellřanimo e da trasformarle, con Keats, in «visione» tra
realtà, immaginazione e sogno(8); aveva saputo accogliere, come confessò nel diario del 1958(9), lo
«strazio» e la gioia di «cose già pronte per la poesia, già bellře fatte col simbolo dietro come lřalone
che ha la luna». Quando decise di lasciare la sua terra per Roma, « città troppo grande e bella e non
mia»(10), ansia e dolore, un sentimento di nostalgia e di esclusione, un cammino di malattia e di
«cose durissime senza alone» entrarono nella sua opera, dando nuova sostanza di verità
allřuniverso abbandonato, chřegli sentiva perduto. E se da un lato furono composti i versi
drammatici di Viaggio d‟inverno, dallřaltro ecco il compenso, la chiarificazione e la soluzione dei
propri traumi nel grande itinerario verso le radici testimoniato dalla Camera da letto.
Più recentemente, in un articolo sullř«Espresso» del 3 marzo 2005, salutando il Libro della
famiglia di Alberto Bellocchio e versi inediti di Bertolucci raccolti sotto il titolo Il viaggio di
nozze(11), Enzo Siciliano ha evidenziato un orizzonte geografico e morale, quello della bassa del
Po, da Parma verso il piacentino e lřAppennino, quale legame tra il più giovane poeta e Attilio
Bertolucci in una continuità di rappresentazione fisica, etica e poetica dellřuniverso emiliano.
Soprattutto Siciliano ha sottolineato, pur nelle forti differenze dřintonazione e di linguaggio,
la scelta di Bellocchio di misurarsi con il «romanzo in versi» di Bertolucci raccontando, con uno
sguardo alle origini lontane, il romanzo della propria famiglia attraverso alcune generazioni, dei
nonni, dei genitori e la propria.
Il genere fu, come sappiamo, reinventato da Attilio Bertolucci, che, appassionato lettore fin
dalla prima giovinezza della Recherche e assai vicino al metodo lirico-narrativo della Woolf di Mrs.
Dalloway e di To the lighhouse, volle coniugare poesia e romanzo, immettendosi nella tradizione
dei poeti inglesi, da Browning a Derek Walcott. Anche per Siciliano sono la «resa trasparente della
realtà» e il «calore della vita» che percorre i versi e investe il rapporto del poeta con il suo
paesaggio a caratterizzare lřarte somma di Bertolucci.
Quando Attilio Bertolucci avviò la sua Camera da letto, si mostrò consapevole dř aver
scelto di comporre unřopera fragile e rischiosa, antica e nuova, «fatale» e necessaria.
Poe in The philosophy of composition aveva giudicato oramai impossibile il poema e le
lunghe composizioni in versi. Bertolucci volle portare la sua sfida alla grammatica della poesia
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pura e del simbolismo, dellřermetismo novecentesco, coniugando lirica e narrazione, convinto che,
per non girare a vuoto, si dovesse «cadere nella prosa» per rinnovare la poesia, privilegiando il
«verso sfiorante la prosa («mais avec les ailes», secondo Sainte Beuve)». Se la dimensione narrativa
entra già nella Capanna indiana del 1951, fu la Camera da letto tuttavia a rivelare pienamente la
novità della poetica bertolucciana, novità felicemente raccolta da Bellocchio nelle sue
caratteristiche più innovative.
Mantenendosi non sulle strade alte del romanticismo di Wordsworth, poeta da lui molto
amato e tradotto, ma, seguendo Puskin sulle vie della quotidianità, Bertolucci, dopo aver percorso il
tempo antico ed epico della fondazione della casa degli avi maremmani a Casarola, aveva scavato
nella propria storia, famigliare e personale, sino al trasferimento a Roma negli anni cinquanta.
Componendo la propria autobiografia, ma romanzescamente «autobiografia in uno specchio
mobile», come la definì in un breve appunto di sapore stendhaliano, aveva cercato di interpretare e
svelare il segreto della propria esistenza e di compensarne i traumi: il distacco dalla madre, la
prigionia in collegio, la perdita dei luoghi amati, la fragilità di una lunga adolescenza. Li
compensava con la bellezza e la forza di un amore tenace e profondo, condiviso (si legga per
cogliere il senso di questa esperienza tra poesia e vita reale Ninetta la bella di Lella Ravasi
Bellocchio)(12) e con il miracolo della poesia, «Flauti per cercare un ritmo che duri tutta la
vita…»(13); della poesia che salva dallřassenza e ridona il tempo, con Proust, «allo stato puro».
Bertolucci, traducendo in versi i materiali domestici, crea un romanzo esistenziale che parla
del mistero della vita e del mistero della morte, della felicità privata come antidoto alle crudeltà
della storia. Crea un romanzo che, partendo da una topografia documentabile dei luoghi e delle
attività umane e da vicende veramente accadute al protagonista «A.», allřamata «N.» e agli altri
personaggi, i nonni, i genitori, la sorellina Elsa, gli amici, i figli, Bernardo e Giuseppe, gli zii e le
domestiche, li restituisce «fantasticati» al modo di Stendhal, rinnovati nella luce della memoria
involontaria. Crea un romanzo che ridona tempo fisico e fisicità, costumi e usi di una borghesia di
montagna, di pianura e di città, conservando le caratteristiche geografiche, storiche e sociali che
individuano il paesaggio e i modi del vivere del secolo trascorso. Crea un romanzo infine, interiore,
che si regge sui pilastri del Tempo e nel Tempo trova la sua unità e che, pur privilegiando
lřandamento della prosa, il suo basso continuo, la naturalezza dello svolgersi del quotidiano, la
concretezza della vita pratica, procede sul ritmo poeticissimo dellřevocazione e della variazione di
motivi e immagini «incantevolmente ritornanti», come li diceva il poeta, di respiri elegiaci o
impennate liriche.
Piace che Alberto Bellocchio abbia raccolto la sfida di Bertolucci e abbia composto, dopo le
prime prove in versi, che, ispirate da dati della vita reale (si pensi in particolare a Sirena operaia,
che porta come sottotitolo «un racconto in versi», ma anche alla plaquette Il gioco dei quattro
cantoni)(14), già si muovono in direzione narrativa, il romanzo Il libro della famiglia.
Il titolo subito segnala, come dřaltra parte il titolo molto domestico di Bertolucci La camera
da letto, il desiderio dellřautore di raccontare, con Bachtin, non il mondo altrui nel tempo
dellřavventura, ma il mondo proprio nel tempo della quotidianità(15).
Attilio Bertolucci aveva raccontato di un «libro di famiglia», (effettivamente presente nel
suo archivio), Memorie dei fatti straordinari(16) accaduti ai Bertolucci durante un lungo numero
dřanni e annotati da un antenato. Se da un lato giustificava la presenza, nel più vasto orizzonte
della storia (uno dei fatti registrati fu lřannessione della provincia al «liberale» Regno dřItalia) di
quei particolari eventi riferiti alla campagna, alla società agricola, allřeconomia di una borghesia
agraria, proprietaria di case e terreni, dallřaltro, proprio nellřaccezione «straordinari» suggeriva il
valore della memoria famigliare, lřeccezione nellřordine della natura e, pensiamo, lřintervento e la
libertà dellřinvenzione:
Tutte le cose della Camera da letto, salvo il primo capitolo che è fantasticheria, sono inventate,
inventatissime.(17)
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I materiali delle mie poesie sono stati da me raccolti quasi esclusivamente in famiglia, quella da
cui provengo, lřaltra che chissà come, …ho, naturalmente in felice collaborazione, formato. Senza
di esse non avrei proprio saputo di che scrivere. Non avrei di conseguenza saputo vivere .(18)
La famiglia è dunque al centro dellřopera , tema arduo, se è vero, - lo ricorda lo stesso
Bertolucci nelle pagine di Aritmie appena citate Ŕ che dalla scandalosa frase di Gide: «Io vi odio
famiglie» a quella, non meno sorprendente, di James Joyce: «Io non ho amato altro al mondo che le
mia famiglia» a Freud(19), la famiglia è nodo fondamentale dei rapporti umani, con Virgilio,
semina flammae: ragione dřansia, di «tensioni, buchi neri, nidi di vespe pungenti e persino di
vipere», ma anche «supremo bene-rifugio».
La felicità
privata è la sola protezione
che ci sia concessa contro lřangoscia della storia
abbiamo letto nel Viaggio di nozze, dove il tema dellř «intima stanza protettrice», luogo simbolo
dellřesistenza umana, risuona intensamente, riannodandosi ai sensi che la tastiera della Camera da
letto ci propone continuamente.
La famiglia è anche al centro dellřopera di Alberto Bellocchio, che ne riconosce il valore
nel suo essere il segno della continuità. È lo stesso forte legame chřegli rivendica nellřepigrafe(20)
del capitolo del Libro della famiglia intitolato Barbara e gli altri, vera e propria dichiarazione di
poetica: la trama che affiora dalle poche carte rimaste «prende colore» a poco a poco; ma come
penetrare nel segreto degli animi e della vita?
tracce ho trovato dentro me stesso:
pagliuzze d‟oro a volta
e più spesso fili di ferro,
turbamenti, voglia di perdersi
e una stella polare ferma
inchiodata a capo del letto.
Lampi e intermittenze, dunque, bagliori e legami profondi, forse dolorosi, spesso inquietanti; e
infine la poesia della memoria, «stella polare ferma/ inchiodata», che raccoglie il passato e la storia
familiare, la trasmette e la perpetua.
Bellocchio, sulla strada aperta da Bertolucci, verso cui riconosce il proprio debito, sceglie
così lo strumento del romanzo in versi per la sua storia. Sceglie di raccontarla in versi liberi,
raccolti in sequenze di diversa misura, e di suddividere la sequenze in capitoli, ora lunghi ora brevi,
che raccoglie in quattro parti assai variate, corrispondenti a quattro tempi della vicenda. Ma più
esposta è da subito lřangolazione, laica e razionale, critica, che si avvale di scansioni e formule
veloci, senza la rêverie («la mappa rivelatasi in sogno») o le divagazioni sapientissime e le forme
diramate e ampie di Bertolucci. Dapprima epicamente, per scorci che riflettono il procedere
convulso della storia che «scavalla come unřombrosa bestia»; sempre con un realismo lucido, che
descrive, rappresenta, tiene il passo della prosa, ma sřincrina, sřinnalza, si modula e si ritma nella
poesia, Alberto Bellocchio rifonda, al pari di Bertolucci, una propria «patria poetica», che
abbraccia due spazi, diversi simbolicamente e visivamente, ma uniti dal sentimento e dallo sguardo
che li ripensano.
È la storia di una città, Bobbio, dalla sua fondazione fino al primo piano delle vicende della
famiglia dei Bellocchio. È la storia di una città nobile e antica e austera, petrosa e chiusa, che
sřintreccia, attraverso il matrimonio di Bruno con una fanciulla della pianura, Dora(21), alla storia
di unřaltra città, anchřessa nobile e antica, ma di costumi più dolci, «di una terra | e di unřacqua
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ricca di suggestioni, di lasciarsi vivere…», città risplendente del colore giallo del tufo e che, aerea,
«inalbera torri sottili»: CastellřArquato.
Le vicende dei luoghi e delle genti, della borghesia cui appartiene la famiglia, dellřascesa
economica e del declino, scorre dunque sotto lo sguardo partecipe, ironico e acuto del poeta, che
valuta alla luce di salde idee di uguaglianza e di giustizia e che si rivela attento alla vita pubblica e
sociale anche nella lingua, forte e moderna, concreta e incisiva. Qualche specimen: nel capitolo
Benestanti e borghesi una notazione sul potere, «il potere si distribuisce. Stanno col nuovo o col
vecchio?»; o ancora, un trycolon che potrebbe rimandare a uno stilema costante in Proust e in
Bertolucci, ma con ben diversa valenza, «tra i campi assolati infeudati accaparrati» ; o la esemplare
sequenza sulla «caccia» del borghese, sequenza simbolica di quella «riserva di caccia» che è il
censo, riserva di nobili, preti e borghesi.
Bellocchio sa bene che un libro di famiglia, libro di annotazioni, di acquisti di terre e case,
di passaggi di proprietà di beni, di piccoli fatti dellřeconomia della casa, porta con sé qualcosa
dřaltro; se opportunamente indagato e «fantasticato», direbbe Bertolucci, porta con sé lřesistenza e
il destino, porta con sé anche la storia più vasta degli uomini, creando sofferenze e rimpianti,
speranze e slanci verso il futuro.
Per questo quel vento dal «soffio lontano» dellřepigrafe in corsivo, che incontriamo in
limine alla prima parte, Gli antecedenti, è lřimmagine potente e consapevole che ci guida lungo il
destino degli uomini e il destino della famiglia.
Ė un vento di vita e di morte, di rivolgimenti e mutamenti; ora soffia incalzante ora è brezza
più lieve, pausa nel lento snodarsi e svolgersi di generazioni, per rinforzarsi impetuoso, rinnovare e
travolgere e di nuovo placarsi in un volo lieve dřali dřAngelo. Entra nei versi, anima il ritmo di un
narrare agile, vario e mai statico, appoggiato comřè su verbi dřazione e su rari aggettivi o participi
o voci verbali, che si presentano nellřoriginale scansione di coppia separata da una barra obliqua,
che sostituisce la congiunzione e crea una disposizione spazio-temporale mossa e accelerata:
«sřavverte/fluisce»; «frettoloso/lontano»; «isolato/ accerchiato»; «sopravvivere/ crescere»;
«crudo/esigente»; «incupito/sbiancato»; «viziati/svagati»; «landa brulla/gelata»; «aprire/ allargarmi
la strada»(22). Aggiungi a questo le enumerazioni e le immagini nominali che rappresentano e
incalzano, come nella bellissima sequenza «La piazza. Comřè diversa di voci e di umori»(23),
mentre le diverse voci, appoggiate a una sapiente plurivocalità, escono sulla scena, la ricolmano,
modulano e ritmano ora il lento svolgersi dei giorni, ora la violenza degli eventi esterni, delineano
caratteri e atti, facendo affiorare pieghe dellřanimo, umori, malinconie di donne volontariamente
sacrificate (Carolina o Laura, ad esempio o la stessa Dora, la madre), tensioni di uomini attivi e
capaci, intrecci stretti con la tradizione o fughe in avanti verso il nuovo o verso il miglioramento
economico e il possesso.
Ė un vento infine che, nel farsi alito soccorrevole o «orma» lieve può accompagnare,
elegiacamente nella sottile malinconia della parola che si fa tenera e carezzevole, la fine di una vita,
del padre e della madre, di un fratello, Emilio, fragile e perdente(24):
Pareva che il vento spazzasse assieme alle foglie
la luce, la linfa preziosa.
È un breve viaggio. Il tempo
dřun colpo leggero di vento tra i noccioli
sulle colline tra le foglie dřalloro
nellřorto, che lřallodola batta due volte
le ali…
Lasciando un piccolo segno, lřorma
leggera di una carezza, il profilo dřun fiore
infilato tra i fogli dřun libro. Una traccia
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al tavolo dove tu lentamente leggevi il tuo gioco
nella partita di poker, per ricordare
quel giocatore cui toccarono in mano
non favorevoli carte.
Alla fermata della corriera
una vecchia avvolta di nero.
Come in posa tra le erbe dellřorto
una bambina senza memoria
vestita di bianco e di rosa. È la Dora
che vola e che torna.
Le piace abitare le stanze dellřaria
migrare.
Su tutte, la voce del Narratore, voce di storyteller, che si segnala come personaggio nella
seconda parte, dove la partitura è assai composita, anche musicalmente e stilisticamente, poiché
allřinterno di capitoli fondati su monologhi sřinserisce un vero e proprio racconto epistolare. Basti
ricordare lřincipit ripetuto della Terra promessa «Lřinizio fu magistrale […] Lřinizio fu magistrale
e si è detto»; o le sprezzature rapide che introducono modi popolari, ora conclusivi («riassumendo»)
ora proverbiali: «Amen»; «Ci siamo»; «È meglio che vada in America!»; «Non si vive dřaria | alla
fine!»; « un infarto secco e addio!» «Basta! che giudicare è il mestiere di Dio!»; «la testa sta tutto
lì!…in quanto, per sua stessa natura, | la testa si fa pane e vino, e lo moltiplica!»)(25) per coglierne
la voce antica (anche anagraficamente se Carolina lo interpella «vecchio»)(26) e nuova nel guidare
le vicende, costruire la rappresentazione, animare la scena.
Mentre Bertolucci aveva scelto di narrare prevalentemente in terza persona, ricorrendo
poche volte a una figura di «annalista», «testimone-cronista» o «copista di giornate», e affidando
momenti epifanici e intimi alla prima persona in seguenze virgolettate; Bellocchio, che usa la prima
persona nella prima parte e nellřultima, diviene figura autonoma nella seconda e terza, alternando
la sua voce a quella dei suoi personaggi che via via porta in primo piano. Così la plurivocalità
diviene azione teatrale, rappresentazione, dialogo, improvvisazione e animazione. Si veda come
talora il Narratore si ponga proprio come attore («Eccoti qua, Barburin…vieni avanti»), ordisca la
trama dei giorni, dia il volto e lřanimo dei suoi comprimari. Ma si veda anche come il Narratore si
ritragga quando è lřintimità dellřaltro a dover essere indagata e a dover emergere.
Diceva Bassani, scrivendo della scelta del punto di vista, dřaver privilegiato componendo le
Cinque storie ferraresi la terza persona, tenendosi «celato tra gli schemi tra patetici e ironici della
sintassi e della retorica»(27); aggiungeva tuttavia che potevano affacciarsi «difficoltà anche morali»
che impedivano allřautore di penetrare nel cuore del suo personaggio. Allora si doveva abbandonare
il realismo affidato alla scelta della terza persona per apparire sulla scena e osar «dire finalmente
Ŗioŗ». È quanto Bellocchio confessa quando si avvicina al padre («Comunque in lui non è facile
entrare…Ce lo dica lui- allora- dove vuole veramente arrivare»), introducendo uno dei monologhi
interiori che costituiscono, con la forma epistolare di cui si è detto, la struttura fondamentale
dellřopera.
Ma prima o terza persona che sia, alla sua voce di cantastorie è affidato il significato
profondo di questa «storia di famiglia», che si rivela passo passo, ma soprattutto negli ultimi
capitoli dellřultima parte, Il libro di Dora. Ė qui che si realizza e si scopre la ragione del romanzo e
il segno della sua unità narrativa e poetica , che è riscatto e compenso dal trauma filiale di
unřesistenza «bloccata», segnata dalla «privazione», divisa tra due mondi dissimili, quello paterno e
quello materno, tra il compito di far crescere lřalbero della famiglia di Bruno (si veda il bellissimo
L‟albero dei talenti della seconda parte La pietra dei talenti) e la creatività inaridita di Dora, il suo
isolarsi e allontanarsi. Ma dopo la malattia dolorosa e la morte del padre, intransigente e costrittivo
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nella difesa del patrimonio e di unředucazione rigida e tradizionale(28), avviene la sua riscoperta
proprio attraverso la madre. Dora dapprima «respira, ritorna la musica/ il canto», ritrova «il tempo
dei veli leggeri/ e dei senza pensieri….lo stupidario felice/ dřunřetà che di nuovo le danza intorno».
Poi è lei, la madre, a spostarsi
[…] al centro del gioco,
e attraverso il suo nutrimento recuperiamo…
riaffiora quel genus paterno Ŕmorto e sepoltoche avevamo sdegnato di assumere in quanto
Assoluto Bellocchio. Lasciamo filtrare beviamo
dalle due fonti. Quella paterna, fin troppo presente
ossessiva dalla quale ci siamo difesi; ma ora la pietra
riprende a parlare…Quella materna, non percepita,
da prima, durante lřinterminabile attesa nellřastanteria
della giovinezza, ma presente in profondo,
venuta alla fine alla superficie…fragile, lieve
ma ispirativa, ci attraversa ci permea…
con nostra sorpresa. Ha un sapore intrigante,
come il rabarbaro delle sue caramelle.
Allora le dolcezze materne si coniugano con lřautorevolezza paterna. Allora può avvenire la
diaspora dei figli e, mentre giacciono a terra, nellředen fiorito della casa «lance spezzate, cavalieri |
disarcionati e morti e feriti tra i fanti | tra quelli più esposti più fragili| scesi in campo con un
armamento leggero», ciascuno cerca la propria «verità» e «tutti dicono addio a tutti». Allora nasce
la commozione e la pietà.
Ed ecco che anche i luoghi, per un aggettivo ora più affettuoso ora più lieve ora più
visionario, riacquistano quella «grazia» che riesce a rivestire anche la sofferenza e lřorrore ed è
propria della tradizione pittorica e poetica emiliana del Correggio, del Parmigianino, di Bertolucci.
La rivolta irrazionalistica contro la norma e la chiusura del vivere borghese famigliare dei
Pugni in tasca di Marco Bellocchio lascia spazio in questo romanzo in versi a una profonda pietas:
criticando dallřinterno, alla luce della ragione e del sentimento, quel mondo famigliare e borghese,
paterno e materno, raccogliendone la storia dalle radici, attraverso i passaggi del tempo e del
destino, attraverso i luoghi, la pietrosa Bobbio, CastellřArquato della fanciullezza ritrovata («terra
feconda che ha uve amabili e perfino | i salami sono gentili, acque salse e zolle | e colline di rosso e
di oro»), Alberto Bellocchio ha saputo rappresentare anche la verità di dolore, di sconfitta, di
speranza, dřillusione e di delusione , di nevrosi e dřansia di libertà che la famiglia aveva racchiuso
nel suo seno. Così, ricolmando di vita lřassenza, lřio narrante si svela, non rallenta la spinta
narrativa e prosastica, ma la innerva con le ragioni del cuore, per risalire lungo i sentieri di una
liricità che accoglie le pieghe della tenerezza, della malinconia, della leggerezza, della fedeltà.
Gabriella Palli Baroni
Note.
(1) Il presente intervento è stato anticipatamente pubblicato su ŖNuovi Argomentiŗ, n.32, Quinta serie, ottobre-dicembre
2005, pp. 348-362 col titolo Libri di famiglia nel paradiso emiliano: da Attilio Bertolucci a Alberto Bellocchio.
(2) La Lettera porta la data «Parma, maggio 1938». Pubblicata in «La luna sul Parma», Almanacco per il 1946-47,
Tipografia cooperativa «Gazzetta di Parma», 1946, col titolo Per un amico; successivamente in Gli immediati dintorni,
il Saggiatore, Milano 1962 e in Gli immediati dintorni primi e secondi, il Saggiatore, Milano 1983, si legge ora in
Vittorio Sereni, La tentazione della prosa, a cura di Giulia Raboni, Introduzione di Giovanni Raboni, Mondadori,
Milano 1998, pp.9-10.
(3) Si rimanda al carteggio: Attilio Bertolucci Vittorio Sereni, Una lunga amicizia.Lettere 1938-1982, a cura di
Gabriella Palli Baroni, Prefazione di Giovanni Raboni, Garzanti, Milano 1994. Si ricordano in particolare le lettere del
17 settembre 1971 e del 12 gennaio 1980.
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(4) Di Viaggio d‟inverno (Garzanti, Milano 1971) Sereni scrisse nella lettere del 24 maggio e del 17 settembre 1971.
Della Camera da letto (Garzanti, Milano 1984 e 1988) il poeta conobbe i primi capitoli del poema, ma attraverso la
corridpondenza con Bertolucci aveva accompagnato lřitinerario compositivo del grande romanzo lirico. Le Opere di
Attilio Bertolucci si leggono ora nel Meridiano Mondadori, a cura di Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni, Milano
1997.
(5) Si veda in Una lunga amicizia, cit., quanto scrive a Bertolucci il 22 aprile 1965. La definizione risale a Linea
Lombarda- Sei poeti, a cura di Luciano Anceschi, Magenta, Varese 1952; poi in Del Barocco e altre prove, Vallecchi,
Firenze 1953.
(6) Attilio Bertolucci, Fuochi in novembre, Alessandro Minardi , Parma 1934; lřopera è stata ristampata nel 2004, a
cura della scrivente, nelle Edizioni San Marco dei Giustiniani di Genova. Per la storia della raccolta si rimanda
allřEdizione critica in Attilio Bertolucci, Opere, cit.
(7) Si vedano i saggi Bertolucci e Officina parmigiana , rispettivamente del 1956 e del 1957, presenti in Passione e
ideologia (Garzanti, Milano 1960); si leggono ora in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull‟arte, a cura di
Walter Siti e Silvia De Laude con un saggio di Cesare Segre, Cronologia a cura di Nico Naldini, I Meridiani, Arnoldo
Mondadori, Milano 1999, pp. 1149-1160.
(8) Si segnala lřinfluenza di Keats particolarmente nei Fuochi in novembre (cfr. la Prefazione allř edizione San Marco
dei Giustiniani, cit.).
(9) Il diario, conservato presso lřArchivio di Stato di Parma, è parzialmente inedito, se si eccettuano alcuni passi
pubblicati nella Cronologia del Meridiano Opere.
(10) È un leit motiv nelle lettere di Bertolucci ad alcuni corrispondenti.
(11) Attilio Bertolucci, Il viaggio di nozze, Versi inediti a cura di Gabriella Palli Baroni con Disegni e acquerelli di
Carlo Mattioli, Università degli Studi di Parma, Facoltà di Architettura, MUP, Parma 2004.
(12) Il saggio si legge in «Rivista di Psicologia Analitica», n.62, A. 2000.
(13) Il verso appartiene alla prima sequenza del cap. XXXVIII, Metamorfosi del corpo di N.
(14) Il gioco dei quattro cantoni ( Lietocollelibri, Como 1997) anticipa figure e temi dellřopera maggiore; Sirena
operaia fu pubblicata dal Saggiatore, Milano 2000.
(15) A. Cicchetti- R. Mordenti, La scrittura dei libri di famiglia, in Letteratura italiana, Einaudi, vol.III, p. 1118.
(16) Il titolo del manoscritto è Memorie dei fatti straordinari successi alla Casa Bertolucci ed altri degni di memoria
nelli anni 1837 e negli altri progressivi.
(17) Così confida Bertolucci a Paolo Lagazzi in All‟improvviso ricordando. Conversazioni, Guanda, Parma 1997.
(18) Cfr. In nome della sacra camera da letto, Aritmie, in Opere, cit., p. 980.
(19) Bertolucci lesse con vivo interesse la Storia famigliare di un nevrotico. I casi clinici descritti da Freud sono
ricordati nel cap.XXVII Le sorelle della Camera proprio per lřaspetto romanzesco : «[…] e ancora il dottor Freud
descrive casi clinici | prolungando il romanzo, moribondo genere della sua classe in via dřimmolarsi;».|
(20) Il poeta fa precedere la prima e la terza parte e alcuni capitoli da «dediche introduttive» in corsivo, cui affida il
senso delle vicende. Nella loro forma metrica richiamano gli Epitaffi di In rima e senza di Giorgio Bassani.
(21) Si ricorda che anche nella Camera pianura e montagna sřincontrano nel matrimonio del giovane Bernardo con
Maria Rossetti.
(22) Questi esempi tra i molti dello stilema si incontrano alle pp.13; 25; 31; 32; 69; 73; 119; 125.
(23) La sequenza si legge a p. 61 del capitolo I turbamenti di Antonio della II parte.
(24) Le citazioni si leggono alle pp. 72; 185; 271; 277.
(25) Le citazioni portate ad esempio sřincontrano alle pp. 62-69.
(26) Il verso si legge a p. 74.
(27) Giorgio Bassani, Laggiù, in fondo al corridoio, in Opere, cit., pp. 942-943.
(28) Si colga peraltro, nella sequenza commossa che chiude il capitolo La canzone del salice, la poesia della fine e
della memoria: «Il paradiso terrestre |interpretato in questo inizio dřottobre |che sempreverdi miscela e alberi spogli |
foglie che volano e frotte di passeri | e il sole caldo del mezzogiorno li fonde | in una perfetta armonia. La montagna | gli
corrisponde, ai nostri occhi | esibisce i rossi cespugli della rosabella…| Non farti scrupolo, prendi metti più luce | che
puoi nel tuo cuore, affrettati | che il pomeriggio è precoce…| in un momento la collina è scomparsa | non vedi che
nebbie».
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Rigenerazione a Kassel:
Il giardiniere contro il becchino di Antonio Porta
1
Una delle utopie possibili è quella di condurre l'origine della poesia dal concetto primario di
costruzione linguistica a una forza liberatoria che possa fluire nel poema. La scansione lunga del
testo poetico, con il suo portato di intenzionalità e giustificazione stilistica, è una delle prove
estreme a cui il poeta può essere sottoposto. La poesia dichiarata nella singola verità dell'emergenza
poetica può trovare destinazione in alcune sequenze poetiche che hanno fatto riflettere alcuni poeti
sul concetto di allargamento dell'immagine della poesia. La poesia come valore di suono di tempo
di immagine prismatici non soltanto attraversata da un tipo di intenzionalità speculativa di stampo
narrativo. Qui si vuole descrivere non tanto l'effetto di una storia su di una singola poesia ma come
questa possa indurre il poeta a creare una situazione stilistica invocante l'accesso a una percezione
ulteriore dalla poesia al poema. La camera da letto di Attilio Bertolucci, con il passo della natura tra
i sentieri e i boschi di Casarola, scritto per sfida al precetto stilistico di Edgar Allan Poe nella sua
Filosofia della composizione sulla non riuscita del poema a causa di una perdita di intensità
stilistica nel corso del tempo della poesia (e di attenzione creativa da parte del lettore), è un poema
orientato a coinvolgere in uno spazio temporale, come la Recerche del suo amatissimo Marcel
Proust, i segni precisi di una vita in formazione dall'adolescenza alla maturità del giovane poeta.
Bertolucci non comprime la materia nel restringimento di immagini di verità, focalizzando
l'emergenza della poesia, ma la rivitalizza nella memoria lunga del poema. A Bertolucci paiono
estranei effetti transitori che preparano a una compattezza poematica; il suo sistema poetico tende al
poema, è il poema. Invece quelli di Vittorio Sereni Un posto di vacanza, di Antonio Porta La lotta e
la vittoria del giardiniere contro il becchino, Airone, di Zanzotto Galateo in bosco, di Pasolini con
Le ceneri di Gramsci, di Giovanni Giudici La vita in versi, di Mario Luzi Viaggio terrestre e celeste
di Simone Martini, di Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhũller per giungere a Il disperso di
Maurizio Cucchi, si spostano (e alcuni a strappi, a lampi lirici coinvolgendo un lacerto di tessuto
narrativo) dalla poesia alla frammentazione poematica. Dall'informale decretare uno stato non
confuso, una legislazione della poesia, è il fondamento (forse testamentario avrebbe sottolineato
Montale) della rincorsa della poesia verso il fine ultimo del poema. Ma può esistere una legge della
poesia che da una singolarità di un verso possa ottenere una garanzia futura come richiede
l'escursione verso il poema? Se scalare una vetta poetica è un Himalaya, perché si trovano nel
proprio percorso residui altrui immettendoli nella concezione stilistica (nella voce della poesia),
scalare la vetta del poema significa arrampicarsi su tutti gli ottomila del pianeta; e non essendoci più
una forma acquisita può darsi che Sereni e Porta si siano trovati di fronte allo stesso problema:
come codificare un'esperienza di poesia nella lunga sequenza poetica senza sprofondare nella
ripetizione patetica della poesia rinvigorendo quella forza che l'ha fatta scaturire.
2
Sia a Vittorio Sereni che a Antonio Porta nel comporre le loro opere-poema non può apparire
estraneo un vortice di espressioni artistiche rompenti con il figurativo trapassando l'elemento
visibile della natura poetica. La Natura osservata subisce un impatto esistenziale da parte di artisti
come Jackson Pollock o Ennio Morlotti. La loro pittura è una pittura drammatica, spacca l'oltranza
spaziale rendendo autonomo un dato emozionale. Francesco Arcangeli in Dal romanticismo
all'informale ha scritto pagine mirabili sull'argomento. Come ci interessa, inoltre, marginalmente
l'uscita del poema inteso come accadimento della storia (è il caso di Roberto Roversi con Dopo
Campoformio). Ci interessa, piuttosto, la ridefinizione di una storia personale, filamento continuo
che intreccia situazioni con suggestioni molto vicine ad una idea di pulsazioni elementari quasi
primordiali. E come da queste ultime nascano altri filamenti creativi ancora sempre in progress,
sempre definiti-indefiniti. Mi interessa la cultura nomade della scrittura. Porta parla di nomadismo
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della scrittura poetica. Paul Celan presentando una scelta di poesie di Osip Mandel'štam in lingua
tedesca scrive di un luogo che può essere percepito e raggiunto mediante la lingua, questo luogo è
un centro da cui si ricava forma e verità. Credo che la lotta del poeta contemporaneo si svolga nel
ritrovare (nel ricercare) il centro del poema, il suo spirito generativo. La lotta è sempre la stessa.
Spiega Paul Celan: il poema cerca, credo, anche questo luogo. Il concetto di poema, più che mai
nella nostra epoca sfrangiata e veloce, sta nella definizione di un luogo irripetibile (una ripetizione
dell'esistere sonda pulsante di verità in Sereni), sapendo però che la definizione di questo luogo
della poesia non può mai essere stabilito per legge irrevocabile. Il luogo definisce il poema, ne capta
le sue possibilità d'emergenza e d'espressione, come il poema definisce il luogo, il precetto di una
dimora sacra. Questi due elementi, il poema e il luogo, sono due sponde di verità esistenziale, sono
due modi equivalenti di rispondere a una medesima domanda, a una medesima interrogazione.
Scrive Celan: qualcosa accade. E' nell'ambivalenza simmetrica, spaziale, di un pensiero ossessivo
(forsennato nel tempo) come una premonizione che si può svolgere la voce della poesia divenendo
dilatazione sintattica d'immagini nell'esecuzione del poema. E' il disegno informale, per meglio
dettagliare una stratigrafia esecutiva, che si muove sotto la luce del poema, nella penombra
semilucente di un'altra realtà. Quando Antonio Porta spiega la nascita (celebra la nascita) di una sua
poesia osserviamo nelle sue parole l'eccezionalità dell'accadimento-evento. La forma prende
coscienza: nelle sue parole-lingua si formano stratificazioni geologiche dall'immenso potere
elettivo. Nel giovane Porta, in una delle sue prime letture catapulta verso il futuro del poema, c'è la
poesia lirico concettuale del romantico tedesco Novalis. Una poesia, quella di Novalis, intessuta di
valori simbolici in cui la natura assume un ruolo di rispecchiamento esistenziale nella mente del
poeta. La poesia lirico-filosofica delle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke non è estranea al Porta
novissimo. Possiamo intravedere nel progetto di poesia si Antonio Porta una tensione verso la
poesia-poema, una fertile materia in movimento, con continue accelerazioni di instabilità lirica. E
con una certa naturalezza e istinto la poesia di Porta rompe il filo della fossilizzazione terrestre della
poesia, la sua compiutezza formale con inclinazioni neoclassiche (il vero spettro della poesia
poematica italiana).
3
Nell'Assia settentrionale ogni cinque anni si svolge la più importante mostra d'arte contemporanea
in un piccolo paese della provincia tedesca: Kassel. S'intitola «Documenta» e dal 1955, anno della
sua inaugurazione, richiama da tutto il mondo i migliori artisti di arte sperimentale e, in particolare,
di quegli artisti che con la Natura hanno creato percorsi artistici, opere d'arte. Per LAND ART
s'intendono (cercando una possibile definizione) quelle composizione materiche fatte elaborando
paesaggi naturali, territori, boschi, corsi d'acqua, utilizzando la casualità della natura per eseguire
tragitti sperimentali dove l'uomo sia come assorbito dalla primordialità di un luogo. Un proverbio
indiano dice: gli specchi d'acqua sono gli occhi della terra. Vicino alle cascate del Niagara Nancy
Holt crea una installazione di sei vasche di calcestruzzo, che attigui al corso d'acqua plasmano una
componente armonica di specchi d'acqua artificiali al cospetto di nuvole transitanti nel cielo. Questa
installazione s'intitola Hydra's head. Il termine installazione richiama crediamo bene gli ultimi
progetti infiniti di Antonio Porta. In particolare due poemi: La lotta e la vittoria del giardiniere
contro il becchino e Airone contenuti nell'ultimo libro pubblicato nel marzo del 1988 da Porta
proprio con il titolo Il giardiniere contro il Becchino. All'interno del volume questi due poemetti
(che aprono e chiudono la raccolta) sono divisi da altre lunghe sequenze poetiche che hanno
un'origine poematica e teatrale come si ravvisa dal testo Fuochi incrociati. Quando nella primavera
del 1988 Porta fu invitato a parlare del suo nuovo libro all'Università di Bologna disse alcune cose a
presentazione del poemetto Il giardiniere contro il becchino: Porta cita Anselm Kiefer visto in una
recente «Documenta» di Kassel; poi prosegue il suo discorso parlando del maestro di Kiefer Joseph
Beuys:
un artista che, come tutti gli artisti di Kassel, come tutti gli artisti di adesso, credo, va al di là di
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un semplice progetto artistico, caricando il linguaggio di significati anche politici. Di qui, per
esempio, il progetto delle settemila querce: nei «Documenta» del 1982 Beuys infatti non ha
portato opere ma ha piantato alberi. In quest'ultimo «Documenta» invece aveva approntato una
sala stupenda con un grande cervo sacrificato con le feci disposte sul pavimento, che io descrivo
nella mia poesia. Il viaggio che mi ha portato a Kassel attraverso la Germania, gli otto/nove
giorni in cui, in macchina con mia moglie, ho percorso questa terra, mi ha consentito di
confrontarmi con le percezioni del viaggio medesimo, ma soprattutto con quelle che ho raccolto
guardando le opere esposte alla mostra, opere quindi già filtrate, che filtravano un sistema di
percezione: mi sono messo così a prendere appunti e a scrivere, ho descritto quadri, stati
d'animo, situazioni, portando avanti il progetto di poesia lunga. Cosa significa scrivere una
poesia lunga? Significa non potersi fermare al momento lirico, continuare il discorso e
svilupparlo, perché questo fa il linguaggio della poesia così come l'ho concepito in questo libro.
(da «il Verri», n. 1-2, 1990, Poesia e Percezione, a cura di Niva Lorenzini).
Porta continua a riflettere sulla propria concezione di poesia lunga dicendo: io ho inteso portare
avanti la poesia lunga come un viaggio, ridefinendo una propria poetica come quella di una poesia
in fieri, sempre in viaggio, accentuatamente diaristica. Una definizione della poesia sempre più
come necessario esperimento esistenziale. Porta insegue dei vasi comunicanti con il pubblico
attraverso un esercizio verbale diretto libero da linguaggi troppo in penombra (oscuri). E' un poeta
che scopre la luce del linguaggio. Porta predilige una contaminazione del suo fare poetico, una rete
quasi nervosa e sotterranea di elementi istintuali, percettivi. La poesia lunga può essere un poema.
Versi come: Aprile è il più crudele dei mesi, genera/ Lillà fuori dalla terra morta, mischiando/
Memoria e desiderio, risvegliando/ radici sopite con la pioggia di primavera; origine della Waste
land di T.S. Eliot (una lettura forte per Porta e per la sua generazione anche per un poeta da lui assai
diverso come Giovanni Raboni), è la fiamma illimitata, l'immagine feconda, che alimenta l'inizio e
lo svolgimento del poema. La parola inglese stirring contenuta nel poema di Eliot è tradotta (da
Roberto Sanesi e con molta efficacia evocativa) come risvegliando. Pensando alla poesia di Porta si
può anche unire al risveglio l'eccitazione del risveglio e scrivere: Memoria e desiderio, eccitando/
radici sopite con la pioggia di primavera. L'intrico delle immagini a scalare eliotiane; una certa
laconicità del dettato; la poesia diventa essa stessa documento, referto esistenziale. Forse Porta
voleva, in fondo, dichiarare una certa estraneità della sua poesia rispetto a un tipo di poesia lirica, di
sintesi da stagione petrarchesca. La sua scommessa verso un tipo di poesia sperimentalmente lunga,
asintattica, metamorfica, di forte spessore intellettuale, non narcisistica e documentaria.
4
Nell'aula 3 semideserta Antonio Porta cominciò a leggere La lotta e la vittoria del giardiniere
contro il becchino. C'era molto silenzio.
Davanti alla vetrata il tumulo
carbonizzato, travi e cenere,
al di qua della vetrata
la stanza del museo tomba di se stessa
ma il giardiniere tranquillo
comincia a piantare la prima
di 7000 querce in programma
proprio davanti alla porta d'ingresso
dopo averla ostruita con pietre
e tronchi e terriccio e muschio
in memoria del re dei pastori,
del cervo folgorato,
delle feci sparse nel prato.
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La sua figura si stagliava contro l'ombra di una lavagna nera che gli dava le spalle. Si sentiva che
era un eccellente lettore delle proprie poesie. Sapeva essere ironico. Mentre leggeva questa poesia
lunga (o possiamo adesso parlare di poema?) sapeva quando fermarsi, accennare a un sorriso, uscire
dal poema, dire qualcosa, per poi tornare a leggere con indomita freschezza i propri versi. Parlò
anche di New York, disse qualcosa su quella città. Tornano alla mente (siamo negli anni settanta) le
poesie orfiche e poematiche nella costruzione di un personaggio alter ego di John Berryman, e i
notebooks, le poesie cadute sull'istante del sonetto come pagina di diario, evento del quotidiano, di
Robert Lowell. L'immagine che intuivo di Antonio Porta era quella di un poeta non esoterico. Il
poema ultimo di Porta (e lo si nota in Airone) è il poema in sequenze di un poeta che cerca altre
modalità dalle consuete espressioni liriche. La stessa figura allegorica dell'airone vuole inaugurare
nuove percezioni e scoperte per la poesia di Porta. Molti appunti riguardanti Airone sono stati presi
in aereo, nella percezione del paesaggio da lassù attraversato. La poesia di questo ultimo Porta ha
un atteggiamento verso il linguaggio molto visivo. Nelle immagini coagula una intenzionalità della
poesia che fuoriesce nel discorso sociale e dunque non solamente nella introspezione linguistica.
Penso che in fondo Porta combattesse contro una sperimentazione oscura della poesia. Ci sono
voluti anni a Porta per scrivere questi due poemi contenuti nel suo libro finale. La poesia deve dire
non solo la poesia, ma dichiarare una diversa socialità dello scrittore in versi, un disadattamento
come genetico nei confronti della società. Mettere in pratica queste parole. Il poema di Porta
diventa un poema della natura, una Poetry Land Art. Sapeva essere ironico Porta. Conosceva, e lo si
percepiva, il gioco splendido e putrido della poesia. Nel mentre leggeva alzò gli occhi e si fermò.
Disse con un lieve sorriso come una smorfia addolcita sulle labbra che aveva sbagliato a leggere un
verso ma che è così non ci si può far nulla perché la poesia è sempre in costruzione. Quindi riprese
la lettura quasi con maggiore sicurezza, come se la poesia, proprio come quegli alberi piantati da
Beuys, fosse continua primordialità espressiva, rigenerazione.
Andrea Gibellini
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passi passaggi (e paesaggi)
tutto sembra muoversi ma in fondo tutto è fermo
Remo Pagnanelli
Lřidea della forma-poema o comunque di una struttura in qualche misura poematica ritorna con
molta frequenza nella poesia italiana degli ultimi decenni. Nei suoi scritti critici Remo Pagnanelli vi
era tornato sopra più volte, facendola collidere da un lato col progetto del romanzo in versi,
dallřaltro col miraggio autoriale del grande libro unico. Pensando subito allřepisodio più eclatante e
anomalo, La camera da letto di Bertolucci, si direbbe che la poesia in vario modo sia stata il tramite
di una ricerca di coesione e dřidentità, psicologica ed esistenziale, ma anche, più profondamente,
naturale o biologica, di contro a una pressione della realtà che andava invece verso il
disorientamento e la dispersione. Lřunità del personaggio e dellřopera, dunque; da intendersi questa
non tanto come alternativa formale, estetica, quanto come possibilità di una conoscenza non
episodica, di una diversa formulazione del tempo, se non come aspirazione a un affrancamento dalla
storia e dalla più superficiale temporalità cronologica. Sulla falsariga, comřè noto, della memoria
proustiana, nel caso di Bertolucci il poema alla lettera fa centro su ripetizione, identità,
intermittenza, circolarità, a contraddire o piuttosto a irreggimentare il corso narrativo del Ŗromanzoŗ
propriamente detto. «Linea e circolo riassumono due figuralità», scriveva Pagnanelli riguardo alla
Camera da letto, «non conciliabili. Dentro il romanzo, malgrado la progressione dei capitoli, isole e
picchi di senso, avverto nel protagonista un identico comportamento psichico». Ecco allora che «il
tempo della Natura, antinomico a quello della Storia, nasconde la concordanza fondante (risultato
del viaggio bertolucciano) con il non-tempo dellřEs». «Un tendere indifferente e coatto a ripetere
verso la stasi atemporale», così anche definirà il movimento profondo del poema, richiamandosi
subito a Freud di Al di là del principio del piacere.
Pagnanelli, che peraltro è un critico notevole, è un cacciatore dřinvarianti psichiche, di archetipi
antropologici, di costanti poetiche. E questo se per un verso rende le sue interpretazioni oltremodo
suggestive, in quanto sempre riportate a questioni assolutamente radicali (è una critica catartica la
sua: febbricitante, necessaria, ultimativa), per lřaltro porta almeno tendenzialmente a una sorta di
reductio ad unum degli autori considerati. La sua attenzione ha battuto ossessivamente e insieme
consapevolmente sempre sullo stesso, identico nucleo metaforico e creativo, al punto che nella sua
pratica critico-poetica passione e ideologia non risultano divergenti, come in Pasolini (chřè
comunque un suo riferimento importante), ma si sovrappongono fino a coincidere perfettamente.
Nel caso del poema di Bertolucci, ad esempio, questo lo ha forse portato a sottovalutare la ricerca,
da parte del poeta, di un accordo non con la Storia, certo, ma col Tempo della vita in quanto tale, il
tracciato di un destino che tenta di definirsi non contro ma nel tempo, con il tempo, assecondandolo
e insieme impadronendosene, come a trovare un punto dřaccordo tra il battito della vita e quello del
proprio cuore. Nellřalternanza anomala, irregolare, aritmica Ŕ ricordando ovviamente la poetica
dell‟extrasistole Ŕ di sistole e diastole, il poema, per quanto composto in modo spesso sussultorio,
rappresenta anche il momento della distensione, della percezione e dellřimmissione nel fiume del
cosiddetto tempo lungo, della possibilità di un senso narrato. Apprendere la disciplina del tempo per
meglio possederla. Piuttosto che un fuga o una sottrazione, i capitoli della Camera da letto sono
come una grande mano tesa a catturare il senso del tempo. Desiderio, egoismo, anche terapeutico
(giusta la leggenda bertolucciana) da un lato, e magnanimità e condiscendenza dallřaltro, almeno
nellřintenzione sembrano corrispondersi. Bertolucci apre le braccia per catturare di più e riportarlo
tutto a sé. Per accentrare deve aprire la diga. Il grande epos famigliare onnicomprensivo è proprio
questo, del resto: qualcosa come lřaspirazione a una comprensione, forse meglio a una saggezza del
tempo, anche se ovviamente mai del tutto pacificata, perché per un poeta a sangue caldo,
esemplarmente nevrotico come Bertolucci, lřatarassia resta comunque lontana, estranea, come una
specie di poco umana ibernazione.
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Proprio per questo, pur con tutte le sue sfilacciature e oscillazioni di presa, si può prendere La
camera da letto come lřopera di riferimento in cui il tracciato storico-esistenziale del personaggio e
lřorganizzazione narrativa appaiono più forti, più strutturati e unitari. Per quel poco che valgono le
periodizzazioni, è vero infatti che a partire dalla fine degli anni settanta, e poi più marcatamente nei
due decenni successivi, istanze e soluzioni espressive che, come ho detto allřinizio, si possono
definire in senso lato poematiche, hanno percorso una strada diversa, molto meno unitaria e
conchiusa di quella di Bertolucci, anche se poi innegabili necessità, avvertimenti e percezioni
comuni, prima fra tutte quella di unřalterità-alternativa tra tempo storico-cronologico e tempo
naturale, non possono essere considerate qualcosa di soltanto episodico o accidentale. È stato
riconosciuto piuttosto concordemente che Passi passaggi, uscito nel 1980, rappresenta una rottura
nello svolgimento della poesia di Antonio Porta e lřapertura di una stagione nuova: allontanamento
dalle coordinate della neoavanguardia, nuova attenzione per lřistanza comunicativa, rapporto più
frontale e disponibile con la realtà, tensione verso nuovi orizzonti insieme esistenziali ed espressivi.
Porta, che prima parlava di aprire ora parla di passare (prima si trattava di fare esplodere un
sistema, ora di trovarne un altro). Togliendosi di dosso gran parte della rigidità e degli schematismi
linguistici per partito preso che ne avevano limitato il cammino precedente, Porta comincia da qui a
scrivere sempre più marcatamente per sequenze brevi o medio-brevi, a volte anche brevissime,
dando un nuovo impulso energetico e soprattutto una nuova prensilità e mobilità alla sua lingua
poetica, che a questo punto diventa al contempo più materica e più elastica. Forzando un poř la
contrapposizione, Passi passaggi segna lo spartiacque tra un poeta del linguaggio e uno della
lingua, tra un poeta prevalentemente passivo rispetto allřimmagine ed uno tutto desiderio e
penetrazione, o ancora tra un poeta che vede la lingua della poesia, che per questo gli rimane in gran
parte estranea, come uno schermo immobile davanti a sé, ed uno che quella lingua è capace di
toccarla, di ascoltarla, in un senso quasi esclusivamente fisico di Ŗsentirlaŗ, facendone allora
qualcosa di suo. Corporeità, plasticità e dinamismo, scorrevolezza, capacità di respiro, sono le
principali qualità che alla sua poesia si sono in genere riconosciute.
Comunque sia, ho fatto riferimento a Porta in quanto mi sembra che questo suo titolo, Passi
passaggi, definisca con precisione non solo il fare poesia dello stesso Porta, ma anche un
atteggiamento poetico trasversale alle generazioni poetiche e piuttosto diffuso dalla fine degli
settanta lungo almeno i due decenni successivi, teso non a un accentramento biografico o
memoriale, ma al contrario ad una inevitabilmente discontinua, oscillante immissione-immersione
nella corrente del tempo, come a cavalcare lřenergia delle cose. Sono in molti in quegli anni a
scrivere per passi passaggi, intendendo con questa formula (vado per le generali, ne sono
consapevole) sia un certo modo dellřespressione Ŕ la sequenza, la successione di frammenti o
riprese, un durata coincidente col singolo sguardo, boccata, presa o, più in genere, appercezione di
realtà Ŕ, sia il senso dellřattraversamento, del trascorrimento o appunto del passo passaggio, ora
traguardato su di un orizzonte storico-epocale, ora invece, di solito più profondamente, riferito al
continuum della natura, al farsi e disfarsi del mondo, allřenergia della vita e della nuda materia. Il
frammento-sequenza allude allora a un ingresso provvisorio nel Ŗtuttoŗ, a una sintonia momentanea
con la durata, con il flusso della vita e la sua capacità ininterrotta di metamorfosi e rigenerazione. È
in questo senso che ho parlato di disposizione poematica. Si tratta infatti di un procedimento
sostanzialmente rapsodico Ŕ non lontano da una sorta di poema musicale e, per quanto riguarda la
visibilità, da talune possibilità suggerite dalla tecnica cinematografica Ŕ che punta
sullřimmediatezza, sul cortocircuito con la situazione contingente, con le risorse, anzitutto fisiconaturali, disponibili e bruciate nella contatto diretto con la singola situazione di riferimento, che con
la sua evidenza e necessità intrinseca finisce per imporsi, quando vi siano, anche sulle coordinate
ideologiche e sulla predeterminazione conoscitiva dellřautore. Di conseguenza ci si trova in
presenza dřimmagini fortemente dinamiche, volte a cogliere e ad assecondare, quasi veleggiassero
sulla sua corrente, il trascorrere delle cose. Non è un caso che in genere queste scritture risultino
orientate a un allentamento dei legami e delle gerarchie sintattiche, a una prevalere dei gesti e delle
percezioni, a una fluidità che si vuole tuttřuno col movimento, con la successione e il non finito.
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Solo qualche esempio. Si va da Ceni, col suo poema visionario e naturalistico costruito dalla
seconda metà degli anni ottanta come una successione dichiarata, appunto, di passaggi, oppure dal
Piersanti di Passaggio di sequenza (1986), il suo libro più ricco dřimmediatezza sensoriale
(significativamente, questi sono per lui anche gli anni dei film-poemi), fino alla forma poematica
aperta, strutturata per frammenti come una specie di work in progress, che Riccardi ha cominciato a
ad assemblare (o a raccontare) con Il profitto domestico (1996). Ma si possono pure ricordare certe
riuscite di Conte, tra L‟ultimo aprile bianco e L‟Oceano e il Ragazzo (del resto, non si dà Ceni
senza Conte), ma anche i fotogrammi poetici del pur diversissimo Benzoni, che accompagnava il
suo Fedi nuziali (1991) con lřindicazione: «Questo libro si può considerare un lungo pianosequenza (dico con il cinema) di tre anni. In pratica un diario senza montaggio». Peraltro anche
L‟Italia sepolta sotto la neve di Roversi, con uno sguardo stavolta tutto portato sulla storia
(costretto alla storia dallřemergenza dei tempi), è composto per sequenze narrative di durata
variabile.
Ma è comunque a Pagnanelli che voglio tornare, perché credo che nella sua poesia, e in particolar
modo nel suo libro più alto e maturo, Preparativi per la villeggiatura (scritto tra il 1985 e il 1987, è
uscito postumo nel 1988), la formula dei passi passaggi si sia definita in modo estremamente
originale e complesso, attraverso una configurazione dellřimmagine e un orientamento del discorso
poetico che, se si torna a pensare a Porta, risultano molto diversi se non addirittura opposti.
Pagnanelli è infatti un poeta testamentario, stanziale in senso etimologico, caustrofilico. A
differenza del prometeico Porta, il vento o meglio, visto la presenza onnipervasiva dellřelemento
fluido, la corrente della trasformazione non è legata in Pagnanelli al potenziamento dellřenergia
vitale, allřunione-accoppiamento con la forza anche molecolare o linfatica del bìos. Al contrario,
qui il transito-passaggio costituisce un progressivo assottigliarsi della vitalità, dello spessore e del
respiro delle immagini; un procedere verso il silenzio e lřazzeramento, come si dice in cimitero di
guerra.
Preparativi per la villeggiatura è un libro eccezionalmente rapsodico, concepito come lo
svolgimento di pochi essenziali motivi riconducibili tutti allřunico grande tema di tutto Pagnanelli:
lřabbandono della vita Ŕ vere e proprie linee melodiche (Pagnanelli raggiunge senza dubbio
lřeccellenza quanto ad orecchio e qualità del suono) di un flusso poetico unitario che sřimpone sulle
singole unità testuali. Anche qui ci sono ovviamente testi Ŕ poesie e prose poetiche Ŕ più o meno
organici e compiuti, ma il singolo componimento non viene chiamato a rappresentare di per sé la
totalità del sistema espressivo del poeta. La corrente, il passaggio (appunto), la sequenza di
attraversamenti possiede comunque un rilievo maggiore delle tappe particolari. Semmai in ogni
poesia si ripete Ŕ la formula sereniana della ripetizione dell‟esistere Pagnanelli lřaveva fatta ben
sua, fino a condurla allřestremo e come al di là di se stessa Ŕ la stessa meccanica di definizione e
negazione, di disegno e cancellazione. Si potrebbe forse parlare di variazioni sul tema, se non fosse
che un progressione quieta, sicura di sé e, davvero lo si può dire, implacabile, percorre il libro
dallřinizio alla fine, letteralmente bruciando dietro di sé il terreno, passo dopo passo, passaggio
dopo passaggio, paesaggio dopo paesaggio. Del resto, lo stesso titolo del libro, memore della
vacanza sereniana, rimanda sì a una sospensione del mero tempo cronologico che potrebbe
coincidere col tempo della poesia, ma insieme Ŕ con unřironia che viene dritto dritto da Leopardi,
filtrata soltanto dallřultima stagione poetica di Montale Ŕ allo scavalcamento di quella soglia che
costituisce il limite del tempo della vita, verso quello che fin dallřinizio della sua vicenda di poeta
Pagnanelli ha designato anzitutto come dopo.
Ma è vero poi Ŕ ecco subito il paradosso e la singolare natura di questa poesia Ŕ che il discorso
poetico nella sua interezza è orientato verso lřimmobilità, lřinvarianza, verso quella condizione che
Pagnanelli, lo abbiamo visto, ha definito come non-tempo, come stasi atemporale. Anche senza
bisogno di pescare nella sua terminologia poetica e critica (assai nutrita, comřè noto, di letture
psicoanalitiche e antropologiche), è questa una tensione che si può rilevare a tutta prima dai titoli
delle sue raccolte poetiche, divisi anchřessi tra spostamento e chiusura: Dopo, Musica da viaggio,
Preparativi per la villeggiatura, da una parte, Atelier d‟inverno, Orto botanico, dallřaltra. È proprio
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su questa particolare, forse irripetibile sovrapposizione di movimento e fissità in Preparativi per la
villeggiatura che intendo fare qualche considerazione. E dunque: sul flusso narrativo o poematico,
ma insieme sul funzionamento intrinseco dellřimmagine. Sono convinto infatti che tanto il discorso
poetico quanto le singole immagini siano governati qui da una particolare regola inversa. Pagnanelli
si affida al tempo-movimento per negarlo (questa è la sola speranza di cui si può parlare per la sua
poesia), ma reciprocamente staziona nellřimmagine per scavalcarla. Interroga i paesaggi come
fossero specchi, chiedendo loro di parlare del dopo, per il dopo. In una poesia dove tutto, a
cominciare dalla voce di chi parla, appare incredibilmente calmo, misurato, gentile, non esiste da
questo punto di vista alcuna ortodossia (la naturalezza della perversione, la routine dellřabnormità:
Pagnanelli sembra avere imparato da Kafka a svegliarsi un mattino coleottero e a non
meravigliarsene affatto). La Ŗdiritturaŗ consueta del procedimento di significazione viene
strumentalizzata e violata. Pagnanelli è un eretico della grammatica del senso poetico, che adotta,
riconosce e fa completamente sua anzitutto per desautorarla e liberarsene. È un eretico, dunque,
perché si dà una regola e una disciplina, perché fa riferimento a una pratica codificata, a un sistema
espressivo e simbolico ben determinato, a quello che per lui era a tutti gli effetti il grande codice
della poesia, il suo codice (alludo alla lingua, ai moduli espressivi, alle configurazioni tematiche del
Novecento poetico, e anzitutto dei suoi maestri elettivi: Montale, Sereni, Bertolucci, Giudici), che
però intrepidamente utilizza manomettendolo, sovvertendolo, cioè deviandone o appunto
pervertendone Ŗmodoŗ e significato. Lřequivoco in cui sono incorsi vari lettori anche attenti di
Pagnanelli è stato quello di pensare ai suoi tanti paesaggi, corsi e specchi dřacqua, ai giardini-elisi,
alle vacanze e sospensioni semi-oniriche, alle sue musiche sottili sottili e insinuanti, come a una
specie di significante positivo, di miraggio accarezzato, di sotto-realtà o oltre-realtà o contro-realtà
testimoniata e ambita dal poeta. Come una specie di visione o di ultrasuono paradisiaco. Non è così.
Portando anche qui al capolinea una serie di situazioni tipiche della poesia del Novecento inoltrato
Ŕ il dormiveglia, il mezzo sonno, il mezzosogno, la distrazione, lřintravedere, il trasognamento, la
vacanza, ecc., Ŕ questo scrittore dai modi poetici, lo ripeto, gentilissimi, strappa una dopo lřaltra
tutte le carte e le rappresentazioni. Nessun paesaggio-illusione, nessun incontro vale ad arrestarlo, a
trattenerlo, ma solo talora a rallentarlo un poco Ŕ ecco il senso del suo viaggio. Tutte le immagini,
tutte le musiche vengono svelate come pure e semplici contraffazioni, nientřaltro che inganni, come
viene dichiarato sempre in cimitero di guerra, lo splendido poème en prose che si trova quasi al
termine dei Preparativi e a cui di recente ho dedicato un ampio commento. Più si avanza nel libro,
più le immagini sřassottigliano e le musiche entrano in sordina, facendosi al contempo per il poeta
più accattivanti e lusinghiere, più perfette (lřaggettivo è suo), poiché sempre più approssimate alla
condizione-silenzio sperata. Ma, alla lettera, non se ne salva una. Nessuna passa la prova. Figlio
dellřultimo Leopardi e di Kafka, Pagnanelli non è certo uno scrittore negativo (se pure mai tra i veri
scrittori ne sono esistiti), ma uno scrittore della negazione.
Vediamo allora solo qualche esempio di queste immagini e definizioni, sempre ricordando come
lřorientamento di Preparativi per la villeggiatura sia estremamente coerente e unitario, il rigore del
suo dispositivo di significazione inflessibile. Non una stazione, non un paesaggio-passaggio, se non
come consapevole e momentanea eccezione-illusione, si sottrae alla legge della processione
dellřimmagine dal e verso lřoblio, la cecità e il silenzio, che costituiscono poi i terminali a cui tutto
viene commisurato, il polo a cui tende lřago magnetico della bussola di Pagnanelli. Al che non può
non risultare paradossale, se non perfino contro-natura, una significazione che ha come parametri
del senso dei non-significanti: «ambirebbe le acque inarrivabili, / nonostante la bassezza, e del tutto
incoscienti, / inconsce per opacità, per esilio cromatico» (la bocca antiquaria non sillabante). E
dunque: perdita della memoria: «la beanza della dimenticanza» (Nord), lřauspicio di passare la
«porta» oltre cui «si può dimenticare e essere dimenticati» (cimitero di guerra); una perdita che
riguarda direttamente la letteratura, che anche e tanto più per Pagnanelli proprio della memoria è la
depositaria principale: «(i detti memorabili lřinghiotte il sonno, le acque della destinazione non ci
sono state destinate)», scrive al termine nellřultimo dei (quattro motivi) numerati però in ordine
decrescente, come un conto alla rovescia che procede verso lo zero. Lř«acqua che ha memoria»,
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così anche la si definisce in come suggerite dall‟acqua, un breve testo giocato di sponda con la
sereniana Giardini, una poesia degli Strumenti umani. Se questa meta non solo non è data ma si
riconosce come inesistente, il senso del viaggio Ŕ come direzione e come significato Ŕ viene
letteralmente a mancare, il movimento non conduce da nessuna parte. In Preparativi per la
villeggiatura Pagnanelli sfoglia via via tutti i suoi principali sogni e trasognamenti, le sue
costellazioni simboliche e i suoi paesaggi dřelezione, ma, come detto, i diversi luoghi e figure
edeniche vengono evocati per essere abbandonati e dissolti, attraversati e consumati, uno di seguito
allřaltro. Volta la carta e, ricordando Sereni, un altro paesaggio gira e passa. Per sempre. Tutto
viene scritto per essere cancellato (E tu che sol per cancellare scrivi, si potrebbe dire ricordando
Dante). Tuttavia, è proprio questa ultimativa chiamata a raccolta a rendere il libro così denso per
mobilità e fertilità dřimmaginazione, anche se integralmente disposta in chiave di sconfessione, di
palinodia. I Preparativi, in sostanza, sono ricchi e complessi, vividi dřattenzione e ingegnosi, ma,
soprattutto, sempre straordinariamente presenti a se stessi.
Lo stesso si può dire del fondamentale motivo musicale. In Preparativi per la villeggiatura
Pagnanelli suona musiche sommesse e dolcissime, modula come forse non aveva mai fatto il suo
strumento espressivo, la sua lingua lenta e umida, quasi fosse fatta vibrare dentro a un acquario, per
testimoniare anzitutto a se stesso che ogni musica, e così ogni lingua, ogni scrittura, anche la più
sommessa e silenziosa, non è che unřillusione consolatoria, un inganno da scribi per compensare il
disincantamento del mondo Ŕ il disincantamento, alla lettera: gli uccelli-dei (anatre, cigni, oche,
«uccelli di specie lontana») che, in alcuni tra i passaggi più belli dei Preparativi, se ne vanno
portando con sé, non a caso, la memoria (della gioia, verrebbe da dire con Sereni). Un passaggio per
tutti, ricordando soltanto che è Pagnanelli stesso a parlare più volte di passaggio (il «passaggio / dei
limpidi cigni che tingono le acque malinconiche»):
il cielo che le anatre portano con sé,
quando sono la memoria della torba
sporgente a fili sulle labbra
della primavera
quando imbucano le solitudini del mare
e il senso posseggono di essere esilî privilegiati
resti del corpo naturale
figlie tutte dellřorfanità
Dicevo però del motivo musicale: «Ma il silenzio non sapevo / che era lřoro delle vere bocche»,
in A se stesso (contro); oppure, nel modo più netto e definitivo: «la musica silenziosa è una
riduzione della lingua, non il suo azzeramento. La morte sta nellřeliminazione di ogni suono e
residuo linguistico», ancora in cimitero di guerra. Siamo ormai nei pressi della fine della traversata
e ogni attrattiva, ogni possibile attaccamento è stato come svuotato dal di dentro. Anche la musica
più prossima al grado zero (della morte) non è comunque attendibile, affidabile, proprio come non
lo erano le tante musichette, più o meno perfette, più o meno incantate e appaganti, che il
protagonista dei Preparativi ha incontrato e salutato lungo il cammino. Il pifferaio magico a cui
ubbidisce questa scrittura non manda alcun suono o rumore, proprio come il suo paesaggio è un
paesaggio cieco, un paesaggio senza paesaggio: «La musica dei fiati, anche, si dilegua presto. / La
natura ritorna nella pianura» (quando s‟allietano purpurei); o ancora: «Siepi e stagni hanno affilato
le geometrie invernali. Vřè chi passa indenne tra paraste spogliate e nemmeno sospetta la musica
mortale». Che è poi, ancora una volta, una musica senza suono, una musica senza musica, proprio
come quella che già Spontini, nella poesia a lui dedicata (lo stilus tragicus non appartiene al genere
della villeggiatura), era stato capace di suonare, nella consapevolezza Ŕ comico-farseca,
propriamente Ŕ della vanità del viaggio.
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Prima di concludere, voglio tornare sulla natura integralmente antifrastica di questa poesia, che
riguarda anche, se non anzitutto, la pratica stessa della scrittura poetica. Alcune delle poesie più
riuscite dei Preparativi Ŕ come bè, non ardono di nessuna giovinezza (gli invisibili), oppure figlia
d‟una luce increata, imitazione dell‟amore (se, come mi sembra, i versi sono rivolti alla poesia, a
una poesia la cui esistenza coincide significativamente con quella della vita stessa), o cimitero di
guerra Ŕ mandano la loro strana, ma irrecusabile luce, proprio dallřattrito con il loro stesso
procedimento, e processo, di auto-negazione. Anche qui basta soltanto la conclusione della prima:
«nessuno che non sia colpevole, pensa alla trovata della poesia». Del resto, è la poesia di Pagnanelli
in quanto tale ad essere impostata sullřantinomia e sulla reciprocità inversa tra mito dello specchio
(la situazione-specchio) e mito dřacheronte (la condizione acherontica), cioè tra paesaggio e
passaggio, pozza e fiume (anche, insistentemente, nella forma del sangue rappreso e
dellřemorragia), tra geometria e scorrevolezza, rigore e fluidità, narcisismo e rifiuto di sé,
compiacimento e severità, dormiveglia e attenzione, posto del riposo e attraversamento, e così via.
Una poesia di porte che non sono porte e dřimmagini che non hanno un centro; una poesia di
epigrafi incredibilmente morbide, umide, come scritte nellřacqua. È proprio questo, del resto, a
colpire di più. Mi riferisco a come Pagnanelli abbia risolto questa sua ambivalenza e potremmo dire
questo suo equivoco costitutivo (e consapevole) in una fusione stilistica che, se ha innumerevoli e
dichiarati debiti, risulta senzřaltro unica. Tutti gli elementi della contrapposizione binaria che ho
elencato prima, trovano infatti un equivalente espressivo molto preciso, come dichiarato a tutta
prima nelle auto-definizioni poetiche, tante volte formidabili: «eppure lacrime (di coccodrillo?)
correvano, come su fogli di vetro» (sono le sue nugae, queste: liquide eppure di ghiaccio); oppure:
«lo stilus tragicus non appartiene al genere della villeggiatura, buoni forse gli appunti sulla spinetta
negli scossoni nei sobbalzi del viaggio. Lo stanziamento, anche provvisorio, ha virtualità comicofarsesche. La commedia è lřansa che ci contiene»; o ancora: «le carte arrotolate / di un passatempo
scambiato per valore, / segni (per essere giusti) di un rigore / insanguinato», che è poi, almeno da
questo punto di vista, lo stigma di Pagnanelli forse più noto e citato.
Credo allora che con Preparativi per la villeggiatura Pagnanelli abbia inteso scrivere qualcosa
come un suo poema totale, dove lřaggettivo non si riferisce allřampiezza del raggio dřazione
poetica, ma alla particolare qualità espressiva, alla lingua di queste poesie e prose poetiche, chřè
insieme, come detto, fluida e ferma (lřinverno come stagione stilistica su cui più di tutti Pagnanelli
ha insistito), mobile come lřimmaginazione e rigorosa come la legge (la Legge, ancora con Kafka).
Totale, dunque, nel senso di una indistinzione tra prosa e poesia. Viene in mente quanto aveva
scritto nei versi iniziali di un testo dřAtelier d‟inverno: «rubricato in un blocco bianco lřappunto
sottile / graficamente delle fine desiderata degli stili / (Pasolini, forse Passione e ideologia…)» (il
saggio di Pasolini a cui si fa riferimento credo sia La confusione degli stili); oppure la riflessione
critica sullřoscillazione tra tonalismo e atonalismo nella poesia di alcuni grandi antecedenti,
Bertolucci e Sereni, ad esempio; a ancora, sempre riguardo a Sereni poeta e prosatore (o meglio, a
questo punto, poeta-prosatore), le tante osservazioni sul tentativo appunto di una poesia-prosa
totale, tra Stella variabile e Il sabato tedesco. «Il probante esempio di una indistinzione, nel nome
della poesia, tra lirica o romanzo o prosa de Il sabato tedesco»…; «la lingua» che in Stella variabile
«sorpassa la medietà del quotidiano e insegue la lontana perfezione di una prosa da romanzo totale e
conclusivo»…; «le distinzioni di genere scompaiono»… Bene, qualcosa di simile Pagnanelli lřha
perseguito e, con i suoi mezzi, con quello che era, lřha sicuramente ottenuto, fondendo tutte quante
le sue istanze e pressioni, dalle più crudamente esistenziali a quelle letterarie e culturali (che non
erano poche), in un discorso poetico curvo, flessibile, in cui tutto passa come al rallentatore, e in
una lingua liquida, che procede senza strappi, un poř colloidale, ma che improvvisamente può farsi
tagliente come il ghiaccio. Del resto, Pagnanelli Ŕ questo almeno è il mio parere Ŕ è stato lřautore
delle ultime generazioni, diciamo delle generazioni seguite ai grandi maestri del secondo
Novecento, che sia riuscito a unire più efficacemente, con maggiore consapevolezza e qualità di
risultati, la poesia della piccola-grande ironia quotidiana e metafisica (il tardo Montale, Giudici; più
tardi, ma ormai dopo Pagnanelli, arriverà anche lřultimissimo Caproni) a quella ancora votata se
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non al grande stile, allřoscillazione o al contrasto appunto tra tonalismo e atonalismo (Sereni e
Bertolucci, come detto). La poesia di Pagnanelli in fondo è proprio questo: un luogo indecidibile tra
interno ed esterno, tra distacco e passione, tra stanzetta e apertura cosmica, o appunto, ancora una
volta, tra passaggio e paesaggio.
Roberto Galaverni
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“Non vorrà venirmi a dire che Tiresia è Lei?”. Tiresia, narratività e tragico
Le coordinate estreme della riflessione poetica di Mesa e, di conseguenza, della sua prassi
artistica sono state fissate da Mesa stesso nelle righe che seguono: «ci si imbatte in una questione
cruciale della letteratura occidentale: il conflitto tra volontà-desiderio di autoannullamento, o di
scomparsa, o di socializzazione della creatività Ŕ di Ŗmorte dell'arteŗ, per così dire Ŗguidataŗ […] o
di implicita vocazione al Ŗmonumentoŗ, per antonomasia statuario e statuale»(1). Poco oltre: «se
nell'abbandono dell'arte (reale, non Ŗpoetizzatoŗ, non Ŗestetizzatoŗ) si annida un demone
teleologico, nell'accettazione del Ŗcontinuare a direŗ può sempre insinuarsi Ŕ ed è forse inevitabile Ŕ
la sindrome (tipica soprattutto del poeta, il produttore letterario più emarginato dal mercato) da
ambizione […] al monumento»(2).
Proprio all'interno di questa dialettica (senza soluzione) tra volontà di autoannullamento e
vocazione al monumento si muove dunque l'intera opera dell'autore, sia nel suo complesso, sia nei
suoi singoli episodi. L'opera di Mesa, e in particolare l'opera poetica(3), costituita da una serie di
fondamentali Ŗlibri di poesiaŗ(4), incorpora così sia la coscienza dell'impossibilità di un'assoluta
compiutezza, sia una determinazione alla perfezione e alla compiutezza Ŗmonumentaleŗ (detto in
altri termini, a una perfetta chiusura formale). Da subito questa scissione è inquadrata da Mesa entro
i confini della categoria, storica al massimo grado, di Ŗletteratura occidentaleŗ: così da dimostrare
come una simile problematica non sia un universale ma riguardi una particolare episteme
storicamente determinata, la stessa che ospita le riflessioni di Mesa. E proprio questa paradossale
autoinclusione (in una sorta di prigione fatta a forma di mise-en-abyme) è la principale causa di una
simile dialettica tra compiutezza e incompiutezza. È una dialettica tragica: la letteratura cui si
riferisce Mesa ha senz'altro il suo culmine cronologico nell'epoca del modernismo, in cui anche
Mesa problematicamente sente di situarsi; e gli autori che più volte ha indicato come canonici per il
suo modernismo sono tragici, come Celan, o annullano la distinzione tra comico e tragico facendo
in modo che il tragico sussuma il comico (Beckett) (5).
Lo sforzo di autocoscienza dell'autore dimostra che è in gioco, in questa dialettica, un problema
di Ŗverità eticaŗ, da Mesa così definita, attraverso Wittgenstein: ŖL'estremo rigore linguistico di
Wittgenstein è rigore etico, verso conoscenze possibili, e un possibile bene. Un linguaggio dove le
parole, non potendo attingere alla verità, cercano la precisione, la sincerità: verità eticaŗ (6). La
verità etica è dunque un volontario arretramento rispetto all'idea di una verità ontologica, ritenuta
ormai praticamente, empiricamente inattingibile. Si tratta, naturalmente, di una inattingibilità
storicamente determinata, tale da sfociare, ancora una volta, in forme di ineludibile incompiutezza,
cui corrisponde lo sforzo di pervenire a un minimo di senso condiviso: uno sforzo, Mesa lo sa bene,
necessario e destinato al fallimento.
Nella configurazione storica dell'epoca in cui si situa Mesa, ciò che soprattutto è in gioco è la
necessità e l'impossibilità di essere all'altezza dei propri tempi, determinata dalla dimensione poststorica in cui versano le estetiche contemporanee. Come scrive Arthur C. Danto: Ŗsi è aperto un
periodo definito dall'assenza di unità stilistica, o almeno di un'unità da elevare a criterio e da
prendere come punto di partenza per acquisire una facoltà di riconoscimento; vengono meno quindi
le condizioni per un indirizzo narrativo. Per questo motivo preferisco parlare di arte poststorica.
Qualunque forma di arte sia stata prodotta nella storia, potrebbe essere emulata e rappresentare un
esempio di arte poststorica. […] Da un certo punto di vista, quello contemporaneo è quindi un
periodo di disordine informativo, una condizione di entropia estetica totale. È però allo stesso tempo
una fase di libertà praticamente assoluta. Oggi non si può più parlare di arte che ricade al di fuori
della storia; tutto è permessoŗ (7). Anche Mesa ha sentito questa problematica: Ŗè ipotizzabile una
scrittura che esca dalle secche endoletterarie e che possa, senza scadere in un neorealismo
massmediatico, rimotivare la «produzione di senso» proprio nel disincagliarla dalla «produzione di
nuovo»?ŗ(8). Tuttavia, la risposta di Mesa è proprio quella di mettere in questione il Ŗtutto è
permessoŗ (così simile all'utopia éluardiana del pouvoir tout dire, ma trasposta in un fallimentare
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anarchismo al soldo dell'economia di mercato) rilevato da Danto. Lo scrittore deve avvalersi degli
Ŗstili di volta in volta ritenuti più consoniŗ (9), cosciente del fatto che ŖL'agnizione, il ri-conoscere,
riguarda il rapporto tra verità e linguaggio. Riguarda le forme. […] Ogni parola deve essere
ripronunciata, riconnotata. Gli scrittori lo hanno sempre fatto. Devono farlo, […] sapendo che non
basta riconnotare, che occorre anche […] legare: cercare forme...ŗ (10). La ricerca di forme, lo si
vede bene, per Mesa è tutt'altro che libera: è necessitata e vincolata dall'esigenza della verità etica e
dalle risorse del proprio mezzo espressivo. Se molta arte contemporanea sembra volere in qualche
modo non essere interpretata, ma semplicemente rimandare a sé stessa, lo statuto dell'arte del
modernismo e in particolare delle opere di Mesa è quello, ancora, di opere che richiedono di essere
interpretate, decifrate; non rimandano esclusivamente a sé stesse, ma hanno un valore metaforico;
non sono indici, come si vorrebbero moltissime opere contemporanee, ma simboli. E questo anche e
soprattutto perché Mesa ha un rapporto critico con la propria stessa contemporaneità, che mette già
in conto l'imperfezione statutaria dell'opera d'arte.
La letteratura deve dunque prendere sul serio la particolare congiuntura in cui ci si trova, da un
lato, e dall'altro incamerare al proprio interno gli elementi stessi della discussione della propria
insufficienza, della propria falsificabilità, della propria palinodia: la denuncia stessa della propria
insufficienza a esperire e confrontarsi, anche agonisticamente, con i propri tempi. Già la scrittura
neoavanguardistica ha perduto la capacità di dialogare con il passo dei tempi: ŖQuello che hanno
fatto le cosiddette neoavanguardie, è stato in parte possibile perché esistevano delle «tecniche» di
potere, comprese quelle fondamentali dell'occultamento e della falsificazione, abbastanza perspicue,
nelle loro forme linguistiche e ideologiche, da consentire il «disvelamento» e la critica della «falsa
coscienza»ŗ(11). Oggi, evidentemente, sostiene Mesa, la critica della falsa coscienza non è più
possibile.
Se un libro come La condizione postmoderna, da Mesa attentamente preso in considerazione,
anche in modo critico(12), ha potuto raccontare che l'epoca attuale è quella di una caduta delle
grandi narrazioni, e quindi, in ultima analisi, post-storica, difficilmente può sfuggire il fatto che la
poesia di Mesa, a fronte di un'impossibilità di composizione del senso della storia, ormai
frammentata in mille piccole narrazioni prive di ratio apparente e forse situate su livelli di
temporalità differenti e disarticolati, ha sempre di più accentuato la componente macrotestuale dei
suoi libri di poesia, contestando così in corpore vili la dimensione della frammentazione del senso.
Del resto, elementi di narratività, magari sparsa e deflagrata, sono reperibili a più livelli all'interno
degli opera omnia di Mesa: a cominciare, è evidente, da un testo come Poesie per un romanzo
d'avventura, per continuare con personaggi finzionali come il Fredo di Poema provvisorio. E,
ovviamente il Tiresia del poemetto eponimo(13).
Questi macrotesti contengono al loro interno anche il principio opposto, quello della
frammentazione: ma è come se si sforzassero di imprigionarlo e sussumerlo proprio attraverso la
costruzione di una totalità (che sia però anche autocritica). Mesa è stato, insomma, un grande
inventore di macrotesti; il che lo ha portato appunto a sperimentare all'interno della sua opera una
produzione quanto mai vitale di forme e anche di forme di narratività. Da questo punto di vista, il
Tiresia è forse il suo testo più esemplare: un libro che rappresenta perfettamente la presenza di
istanze dialetticamente contrapposte, quella verso una radicale organizzazione macrotestuale, e
quella a negarla, a distruggerla, a porla in questione.
Tiresia(14) (titolo perfetto per una tragedia classica), nato e pensato come opera per poesia e
musica elettronica (realizzata da Agostino Di Scipio) è in effetti ricchissimo di elementi che
testimoniano uno sforzo di organizzazione macrotestuale estremamente autoconsapevole. A
cominciare dal titolo: che intraprende uno organizzazione del senso del testo a livello della
dimensione intertestuale, pour cause evocando, in absentia, una serie di intertesti tragici, tra cui
spiccano Edipo Re e Antigone, e insieme, proietta sull'opera la presenza di protagonista finzionale
univoco che, imponendo all'opera, pragmaticamente, un certo gradiente di narratività, funge da
organizzatore macrotestuale. Al titolo segue pure un'indicazione cronologica molto precisa: Ŗ22
luglio 2000 Ŕ 24 gennaio 2001ŗ (P, 343), mentre normalmente, in P, i libri raccolti recano la
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semplice indicazione delle annate di redazione (anche per il successivo Nun). Ora, per un autore che
ha collaborato a un volume come Scrivere dal fronte occidentale(15), sottolineare che la redazione
di Tiresia è avvenuta prima dell'11 settembre vale a sottoscrivere, per il testo, una petizione di
appartenenza a un'epoca storica distinta dalla attuale, o per lo meno a criticare l'idea che l'11
settembre abbia costituito un reale momento di cesura storica. Resta che l'esperienza dell'intero
libro va inquadrata necessariamente nell'ambito di una lettura critica della storia contemporanea e
del presente che sfoci in una definizione critica dell'idea di contemporaneità.
Il titolo del libro, inoltre, è bipartito, presentando quello che con ogni evidenza si può definire un
sottotitolo: Oracoli e riflessi. Quella del sottotitolo dei libri di poesia è una storia tutta
novecentesca, in parte ancora da scrivere; ma si può tuttavia dire che ogni volta che troviamo in un
testo poetico un sottotitolo, questo testimonia di un tentativo di organizzazione macrotestuale che
attinge a modello altri generi testuali, spesso quello narrativo, talvolta il genere saggistico. Il
sottotitolo del Tiresia non rimanda a una designazione metaforica, così come avverrebbe se fosse,
poniamo, Romanzo. Con Oracoli e riflessi Mesa fa riferimento a due tipologie testuali
perfettamente riconoscibili: due forme che intervengono a strutturare l'opera; due ulteriori
organizzatori macrotestuali(16). (Ovviamente Oracoli è anche termine tematicamente connesso con
lo statuto del protagonista del testo, cioè l'indovino Tiresia, il che è ovvia e ulteriore testimonianza
di una volontà di organizzazione macrotestuale serratissima. Più difficile è invece determinare il
senso di un termine come Riflessi).
Gli Oracoli sono individuati da un titolo, preceduto da un numero romano, e chiusi da un verso
in corsivo; quanto ai Riflessi, si tratta di testi privi di titolo, caratterizzati da una numerazione in
numeri arabi: sicché, nell'economia del testo, è evidente che il ruolo di maggior importanza lo
espletano i primi. Gli Oracoli sono tutti costituiti da strofe di 22 versi, seguite da un monostico
finale in corsivo; mentre la misura strofica dei Riflessi è più irregolare. I versi degli Oracoli
eccedono spesso, anche di molto, la misura endecasillabica, raggiungendo con facilità le 16 sillabe,
e superando spessissimo le 12 sillabe (ma scendendo anche fino a 9 sillabe), mentre quelli dei
Riflessi sono di misura molto più breve, spesso veri e propri versicoli. Il macrotesto presenta,
nell'ordine, due Oracoli, tre Riflessi, due Oracoli, tre Riflessi, un ultimo Oracolo infine seguito da
un testo in corsivo che riprende i corsivi dei monostici isolati che chiudono gli Oracoli. La ricerca
di regolarità è evidentissima.
Come si diceva, gli Oracoli sono costituiti da stanze di 23 versi. Ma queste stanze sono
caratterizzate da ulteriori segnali di regolarità: presentano infatti partizioni interne molto simili tra
di loro, e numerosi effetti di simmetria. Per esempio, i primi tre Oracoli presentano una pausa
sintattica forte (punto fermo) in punta del sesto verso, mentre gli ultimi due la presentano alla fine
dell'ottavo. Inoltre, i primi due Oracoli mostrano una struttura versale che aumenta di sillabe fino al
terzo verso, per poi decrescere fino al sesto, con quello che sbrigativamente definirò novenario
sdrucciolo (se così si può chiamare questa misura versale) e un settenario (17). Allo stesso modo, a
questo primo raggruppamento di sei versi fa seguito un secondo raggruppamento di otto versi, e un
terzo, giocoforza, di otto, senza contare il monostico finale in corsivo separato da un bianco
tipografico. Così avviene anche nel terzo degli Oracoli. Per quanto riguarda gli ultimi due, la
partizione sintattica del testo fa individuare, come rotture sintattiche condivise da entrambi i testi,
una pausa al termine dell'ottavo verso e una al termine del quattordicesimo (trascurando un'altra
pausa forte posta al termine del settimo verso; mentre il quinto oracolo ha troppe pause forti per
poter essere ricondotto in modo univoco al tipo del quarto, ma ha pause forti dal punto di vista
sintattico in tutte le stesse sedi del quarto oracolo).
Ulteriori effetti di simmetria avvengono sia a livello di significante (ripetizione in posizione
tonica di medesime sillabe), sia a livello sintattico (anafore, riprese lessicali o simmetrie orchestrate
sugli aspetti semantici). Un esempio evidente fin dai primi due Oracoli: la collocazione, in 1.
ornitomanzia, in principio di primo e settimo verso, di verba sentiendi alla seconda persona
singolare dell'imperativo (vedi / senti), cui corrisponde, nel secondo Oracolo, nelle stesse sedi, la
ripresa del lessema fumo (qualcosa che impedisce la visione), in un testo in cui la dimensione della
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vista è immediatamente soggetta a una sorta di accecamento (Ŗbruciano le mandorle degli occhiŗ).
Anche tra Oracoli e Riflessi notiamo poi simili tipi di legature macrotestuali; un semplice esempio:
se il secondo Oracolo si chiude su un verso come «Tu se sai dire, dillo, dillo a qualcuno», il primo
dei Riflessi si apre, con un espediente che ricorda quasi le coblas capfinidas, su «a ridirti che
cosa?», sfruttando a fondo l'annominatio del verbo dire anche nei versi seguenti. Ma gli esempi
potrebbero essere davvero molti di più.
Una simile organizzazione formale del testo (sia a livello di figure del significante, sia a livello
di figure di sintassi, sia a livello di figure di significato) testimonia di una tale ricerca di accuratezza
linguistico-formale da indurre a sostenere, nonostante il lessico appaia antisublime, che lo stile di
Tiresia è uno stile sublime. Uno stile sublime che sostituisce al lessico alto tradizionale della
tragedia un lessico corporale o organico (quasi a richiamare i materiali oggi impiegati nell'arte
contemporanea più tesa e drammatica). E, se si aggiunge che la nota di chiusura rimanda a referenti
extratestuali di tipo luttuoso, la testualità di Tiresia può senz'altro definirsi, anche se in modo sui
generis, una testualità di tipo tragico.
Gli Oracoli svolgono una narrazione latente, dislocata attraverso una serie di eventi storicizzabili
e storicamente determinati, puntualmente evidenziati nella nota di chiusura: cosicché il testo trova
un'ulteriore elemento di inquadramento macrotestuale negli effetti di soglia (Epigrafe iniziale e
Nota). L'epigrafe sembra suggerire dunque un Tiresia unico protagonista (eterno, sottratto alle
catene del tempo) che accede alla visione di una serie di eventi luttuosi attraverso la storia, mentre
la nota esplica quali siano gli eventi, solo allusi ma altrimenti inattingibili all'esperienza del lettore.
Di questi eventi Mesa ha sottolineato che sono Ŗveri, realmente accadutiŗ (18). Dal momento che
l'epigrafe si dimostra, se letta con il testo a fronte della nota di chiusura, anche un modo di
interrogazione sull'essenza del male, storico e non, che Tiresia attraversa, è proprio questa epigrafe
a caricare di significazione tragica tutto il testo (19).
Il tu adottato da Mesa nell'epigrafe induce a interrogarsi anche sulla situazione di enunciazione
del testo (altro elemento di organizzazione macrotestuale): in quanto questo tu pare esulare, come
modalità di funzionamento, dalle tante seconde persone della tradizione poetica italiana (poniamo,
Montale), e deludere le attese del lettore di ritrovare, come soggetto d'enunciazione del poemetto,
proprio quel Tiresia che viene eletto a protagonista dal titolo del libro(20). L'apparente continuità del
riferimento alla seconda persona singolare potrebbe far pensare a una unica voce di personaggio
locutore, mentre, in realtà, la scena d'enunciazione è del tutto, ma coerentemente, frammentata tra
più voci. Inoltre, il tu, nel testo lirico al contempo finzione primordiale di autointerpellazione e
istituto tradizionale di interpellazione dell'altro (sia esso semblable come l'ipocrita lettore
baudelairiano, sia un interlocutore immediato convocato nel teatro d'enunciazione della poesia), è
adottato come modalità di comunicazione anche all'interno dei Riflessi, che tuttavia, con un
continuo passaggio di verbi da una seconda persona a infiniti nominali a terze persone singolari
impersonali, tende a trasformare il dispositivo di enunciazione in qualcosa di spersonalizzato e
plurale, decisamente più simile rispetto allo stile enunciativo della restante poesia di Mesa, da cui
Tiresia complessivamente si allontana.
In ogni caso, diversamente da come ci si potrebbe attendere, a parlare non è, propriamente,
Tiresia: il testo per tutto il tempo mette in scena una voce e un soggetto d'enunciazione (anzi, per
essere più precisi, più voci e più soggetti d'enunciazione) che si rivolgono direttamente a Tiresia.
Chi sia il locutore che indirizza le proprie parole al protagonista del poemetto, sarebbe difficilissimo
dirlo, ma la trascrizione di una lezione tenuta dall'autore in una scuola genovese ci consente di
identificare con certa coerenza i soggetti parlanti nel testo. Mesa infatti afferma, riguardo al secondo
degli Oracoli:
Allora io Ŕ Tiresia Ŕ ho pensato dřimmaginare che cosa succedeva nella mente di questa bambina
costretta a lavorare per costruire bambole, desiderando magari di giocare con le bambole, e
trovarsi dřimprovviso dentro questo rogo e ... per me non è stato facile cercare di... . […] sarebbe
stato facile descrivere il fatto così come lo avevano raccontato, molto più difficile cercare di
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immedesimarsi in una persona concreta e immaginare di essere una bambina come te, essere lì,
costretta a fare quella vita; allřimprovviso la tua vita viene davvero bruciata a tutti gli effetti; già
lo era, perché non era una vita piacevole Ŕ sicuramente Ŕ per di più viene sacrificata in questo
modo soltanto per i profitti di alcuni (Interazioni).
Mesa fornisce anche la razo vera e propria della poesia: un incendio avvenuto a Bangkok, in una
fabbrica di bambole, caratterizzata dallo sfruttamento del lavoro infantile, uccide le operaie
bambine della fabbrica: ŖNel marzo 1993, a Nakhon Pathom, in Thailandia, si incendia e crolla una
fabbrica di bambole. Cinquecento delle quattromila operaie, tutte ragazze, molte minorenni, che vi
lavoravano in condizioni quasi schiavistiche, muoiono nel rogoŗ (P, 358). Ciò che colpisce
maggiormente Mesa è che Ŗlřunica cosa che viene detta dai dirigenti della fabbrica in quel momento
è rivolta agli azionistiŗ, e consiste nell'invito a Ŗnon preoccuparsi perché i loro soldi erano garantitiŗ
(Interazioni). La poesia mima dunque la voce di una delle vittime di questo olocausto anonimo, che
si rivolge direttamente a Tiresia; ma possiamo ulteriormente inferire che sia la voce di Tiresia che
riproduce a sua volta, medianicamente, o meglio, attraverso pratiche divinatorie (in questo caso la
piromanzia), la voce della bambina, insegnandoci con questo a vedere meglio il nostro passato: ŖLa
caratteristica di questo Tiresia era che a volte le sue predizioni Ŕ i suoi vaticini Ŕ non riguardavano
tanto il futuro quanto il passatoŗ (Interazioni). In questa struttura a scatole cinesi, in questa tensione
a inquadrare metatestualmente ogni elemento del testo (addirittura la voce della bambina risuona
attraverso quella di Tiresia, che a sua volta buca lo schermo finzionale per risuonare attraverso
quella dell'autore empirico), è possibile ravvisare uno degli elementi di maggior interesse del libro,
assieme al tentativo di svolgere una riflessione, figurata, sull'essenza della temporalità. Del resto è
evidente che la tensione metatestuale e l'interrogazione sulla temporalità sono intimamente
connesse: la creazione di cornici metatestuali (quasi concentriche) serve a inquadrare e rilevare
diversi livelli di temporalità e storicità all'interno del testo, spesso irrelati gli uni rispetto agli altri.
È ragionevole estendere una simile situazione di enunciazione a tutti gli Oracoli, identificando,
di volta in volta, con una vittima l'enunciatore di ciascuno dei testi (per l'individuazione delle
occasioni si rimanda ovviamente alla nota di P, 358): la vittima si rivolgerebbe dunque direttamente
a Tiresia. C'è poi un'identificazione ulteriore che emerge dall'autocommento di Mesa poc'anzi
citato: Mesa stesso si identificherebbe con Tiresia. Ma è certo necessario valutare con estrema
attenzione una simile dichiarazione.
La voce di soglia (ŖDevi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo discapitoŗ), racchiusa tra apici e
rimandante quindi a una situazione di enunciazione differente da quella del resto del testo, adotta
apparentemente lo stesso piano d'enunciazione in seconda persona degli Oracoli, e per di più è in
corsivo, come i versi che chiudono ognuno degli Oracoli stessi. Proprio questo tipo di
organizzazione macrotestuale induce il lettore a disporre su un unico piano le tante voci che si
manifestano nel testo; e ad aprire in un certo qual modo le virgolette su tutta la testualità del Tiresia.
In questo senso, il corsivo serve a inquadrare l'uscita dal lirico verso il metatestuale: serve a
inquadrare metatestualmente ciò che appare unicamente lirico, e a problematizzare le frontiere, a
questo punto, tra finzionale e reale-referenziale; rivelando ancora una volta questa struttura a scatole
cinesi cui si è fatto cenno prima, e fornendo al lettore delle pinze attraverso cui disporsi a
maneggiare con cautela la testualità di Tiresia.
Tiresia è insomma un testo in cui emerge una dimensione finzionale forte, ma connotata da
figure continue di mise-en-abyme vòlte a operare uno scarto continuo di significato, nel leggere e
accostarsi al senso dei minimi enunciati. Lo scarto operato serve, ovviamente, a mostrare anche
come e quanto difficile sia, per la poesia, scardinare la dimensione finzionale che vela ogni testo:
non a caso lo stesso statuto dell'enunciazione riproduce una finzione di voce che si rivolge a una
finzione di personaggio.
A voler ricostruire ed esplicitare la finzione narrativa presupposta da Tiresia, dovremmo dire che
nel libro l'indovino, un personaggio, di finzione, e di una finzione antica, lontana nel tempo e nello
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spazio dai casi descritti, muovendosi attraverso il tempo, compie una serie di vaticinii riguardo a
fatti emblematici e rimossi della nostra contemporaneità. Ora, tutto ciò, come si diceva, avviene in
una seconda persona che vanifica ogni tentativo di identificazione immediata: Mesa è Tiresia, ma
per bocca di Tiresia parla una bambina bruciata in un rogo a Bangkok; e del resto, la voce di Mesa
si rivolge a sé stesso, cioè Tiresia, in una seconda persona(21) che da subito marca una forma di
scissione riflessiva tra autore empirico e suo portaparola nel testo.
Tutto questo induce a mettere in questione un'identificazione, benché autoriale, troppo diretta tra
Mesa e Tiresia. Inoltre, la compresenza sul medesimo piano temporale di un personaggio del mito
greco classico, con fatti di cronaca rigorosamente documentabili e documentati, ma posti in una
relazione del tutto anacronica con quel mito, rende la narrazione implicita del testo del tutto
implausibile, realisticamente parlando, con l'effetto di spostarne il senso su di un piano ulteriore,
allegorico, che induce immediatamente a operare l'identificazione Tiresia/Poeta, più che non
l'identificazione Mesa/Tiresia(22).
Infatti, se è vero che nel Novecento esistono svariati tipi di rimando allegorico (uno tradizionale,
uno benjaminiano, e uno metatestuale, in cui la costruzione finzionale rinvia alla struttura formale
dell'opera(23)), il tipo di rimando allegorico attivo in questa opera è certo quello metatestuale, con
l'ovvio effetto di decostruire e rendere problematica l'identificazione Mesa/Tiresia. Ciò avviene da
un lato perché la divinazione di Tiresia rinvia alla poesia in generale e al suo compito nella nostra
società; dall'altro perché la complessa struttura di finzioni, finzioni di finzioni e verità racchiuse
all'interno di finzioni, che anima il poemetto vuole essere una critica stessa della dimensione
finzionale del testo poetico, nel suo legame con il problema della ricerca della verità etica (una
verità di metodo, in effetti)(24); questa identificazione è quindi una tra le finzioni del testo, che deve
essere soggetta a critica.
L'aspetto finzionale (la narrazione implicita che soggiace al testo, e che è presupposta dal suo
stesso piano d'enunciazione), cruciale nel fungere da organizzatore macrotestuale, e quindi nel
conferire all'opera una patina di (in)compiuta monumentalità, è sempre sul punto di ribaltarsi nel
proprio opposto, e cioè in un fattore di disintegrazione del testo.
La presenza di elementi narrativi (personaggi, fatti, discorsi diretti) fa pensare immediatamente a
quelli che barthesianamente potremmo chiamare effetti di realtà; ma quegli stessi effetti valgono a
ricordare che ci si trova, a leggere il testo, all'interno di una finzione poetica. Sono dunque, a pieno
titolo, anche effetti di irrealtà, che disarticolano e rendono impossibile il progetto di dicibilità
poetica dei fatti, più che descritti, allusi, all'interno del poemetto. Gli effetti di finzione non rendono
solo evidente la necessità di una lettura allegorica del testo: fanno sì che il testo poematico rischi di
non avere senso (ed è proprio questo, direbbe Derrida, il senso di ogni testo poetico). Sicché, se
volessimo cercare di rimotivare allegoricamente, per esempio, il senso della cecità di Tiresia
all'interno del poemetto, dovremmo dire che la cecità di Tiresia, in tanto in quanto forma di
separatezza dal mondo, è allegoria della separatezza dal mondo indotta dalla dimensione finzionale
dell'opera.
Per di più, altri elementi del testo, dal canto loro, si rivelano parodici, o per lo meno ironici.
L'insistenza, sempre a inizio di verso, su verbi che indicano la visione o comunque verba sentiendi,
lasciano pensare a un'apostrofe a Tiresia da intendersi ironicamente. Come potrebbe, il cieco
Tiresia, vedere? Si tratta allora probabilmente di una disperata e sarcastica allusione all'impossibilità
della poesia di cogliere e affrontare davvero il racconto, la testimonianza di quanto successo presso
il Sitio Pangako, una ovvia allusione all'insufficienza e alla velleità del poeta, la cui parola profetica
resta del tutto inibita a risolversi positivamente. Questa stessa insufficienza viene poi in effetti
ribadita nel successivo oracolo, con il verso ŖTu, se sai dire, dillo, dillo a qualcunoŗ, dove
l'impennata patemica della reduplicazione dell'imperativo non ha solo valore ritmico, ma tradisce
come, in qualche modo, sia anche l'indignazione (di fronte alla velleitarietà della poesia) a fare il
verso. Sicché, il testimone della tragedia si rivolge, medianicamente, a Tiresia, non solo per
raccontargli l'avvenuto, ma anche e soprattutto per interpellarlo circa l'insufficienza della poesia.
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Solo questa modalità metatestualmente autocritica riscatta dunque il poeta dalla colpa,
wittgensteinianamente parlando, di non tacere su ciò di cui non si è in grado di parlare.
Va ricordato che Tiresia è stato spesso figura di una capacità di visione ulteriore e superiore
rispetto alla vista fisica(25): l'idea del poeta come veggente, che per Ŗvedere meglioŗ, rinuncia alla
visione oculare, e dell'occhio del poeta come oculus subsanguineus, dispone di una tradizione
antichissima ma già dotata di propaggini novecentesche (fino a Zanzotto) ormai assurte alla
classicità. Questo riferimento è certo presente, in modo perspicuo, nel Tiresia mesiano, ma in una
sua modalità decostruita dall'interno. In un'ottica macrotestuale, infatti, è evidente come tutti i versi
di chiusura degli Oracoli abbiano una valenza fortemente critica e negativa, nei confronti della
velleitaria missione di Tiresia.
Solo la costruzione di una serie di paraventi finzionali, corrispondenti a una serie di inibizioni, e
la critica serrata dei presupposti e degli intenti stessi, sia pur nobili, su cui si basa la poesia,
consente di mettere in scena la tragedia. Insomma, la finzionalità dell'opera di Mesa è
contemporaneamente il correlativo, la testualizzazione dell'inibizione a raccontare (un'inibizione di
carattere morale) e il suo superamento, grazie alla sua orchestrazione in una totalità autocritica.
In questo senso, i riferimenti alla divinazione antica mostrano che gli Oracoli di Tiresia non sono
che parodie degli oracoli e delle forme di divinazione dell'antichità (26), di cui, ogni volta, il verso
corsivo in coda svela l'insufficienza, contemporaneamente mettendo in questione la capacità
testimoniale di Tiresia. A vederli in sequenza, il primo di questi versi (prova a guardare, prova a
coprirti gli occhi) sembra alludere ironicamente alla cecità di Tiresia attribuendogli un significato
tuttavia allegorico e nel contempo dichiarando l'impossibilità, da parte di questa figura del poeta, di
conoscere, comprendere, esperire simili eventi luttuosi, al tempo stesso che questi risultano
incancellabile ferita. Allo stesso modo, solo ironicamente può essere intesa la frase Ŗprendi questo
regalo e vattene, ora, ora che saiŗ: giacché il regalo consiste nella conoscenza e contemplazione del
luttuoso, del terribile. È pure frase che denota una sorta di esclusione Ŗla luce, questa luce, non sarà
mai la tuaŗ, ancora allusione alla cecità di Tiresia, ma insieme riferimento alle luci di sala
operatoria in cui Tiresia mai si troverà a subire l'asportazione della retina. Quanto a Ŗancora non hai
còlto il tuo narciso e il croco già fiorisceŗ, risulta inevitabile peraltro pensare, di fronte a un fiore
sacro a Persefone come il croco, che l'immagine qui evocata non alluda al fatto che mentre il poeta
è dedito a coltivare, attraverso l'esercizio narcisistico della poesia, una sorta di tentativo di
monumentalizzazione mortuaria, il luttuoso si è già saldamente assestato sulla scena della vita e
della poesia al contempo, pronto a rovesciarsi in nuova vita (27). Ancora parodica è pure l'epigrafe
greca di Oniromanzia, da Callimaco: Ŗe la notte prese gli occhi del fanciulloŗ, si trasforma, appunto,
nell'allusione all'espianto degli organi, in una forma selvaggiamente demistificante del poetico, al
limite dell'autolesionismo.
In questo senso, il protagonista del libro è anche un protagonista parodico, che mette sotto accusa
il lavoro poetico di Mesa in particolare (ma questa autocritica è l'unico modo di assurgere a una
compiuta dimensione di verità etica all'interno e all'esterno del testo), e la poesia modernista in
generale. Infatti, se a un primo livello i locutori che si rivolgono a Tiresia negli Oracoli riproducono
la voce di vittime degli accadimenti luttuosi, a un livello ulteriore non possono che rappresentare
una scissione all'interno della voce stessa dell'autore empirico. Questa scissione vale a sottolineare
dunque, come in ogni palinodia che si rispetti, una presa di distanza dalla poesia, attraverso la
poesia stessa.
Lo stesso spazio in cui l'opera è racchiusa, tra epigrafe e il testo di chiusura, entrambi in corsivo,
mette in scena una sottile dialettica. Se ŖDevi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo discapitoŗ pare
rinviare a una necessità testimoniale di un Tiresia condannato all'eternità, il testo finale, che ricalca
la struttura ciclica di tutto il libro aprendosi e chiudendosi sulle parole ŖTi lascio quiŗ sembra
suggerire una sorta di congedo (circolare, e quindi forse protratto all'infinito) da Tiresia e da Tiresia.
Mentre, infatti, tutti i versi in corsivo in calce ai singoli Oracoli adottano una modalità di
enunciazione in seconda persona, rivolta a Tiresia, il testo corsivo di chiusura adotta una
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enunciazione in prima persona (ŖTi lascio quiŗ: che presenta però anche una marca pronominale di
seconda persona), che sembra quasi ridare voce, finalmente, al poeta stesso. Così, tra corsivo e
prima persona, il testo finale è caratterizzato da un procedimento metafinzionale e metatestuale al
massimo grado, l'ennesimo esempio di mise-en-abyme, attraverso il quale l'autore prende congedo
da questa controfigura della poesia che è Tiresia, operando (ancora una volta finzionalmente) una
sorta di uscita dal testo, pour cause, per altro, attraverso la soglia di un testo liminare. Nel farlo,
ovviamente, la voce che più direttamente sembra rimandare a quella dell'autore, si autoinclude,
incripta, seppellisce in quel mondo di macerie che è la testualità del poemetto assieme a quel Tiresia
da cui egli stesso tentava di prendere congedo. La funzione del deittico qui, è, con ogni evidenza,
quella di un deittico testuale. È forse allora l'autore empirico, in questo ultimo testo, che prende
congedo metafinzionalmente e metatestualmente dal suo allegorico protagonista-controfigura. Mesa
prende forse congedo, testamentariamente e allegoricamente, dall'insufficienza della poesia,
consapevole tuttavia che c'è un momento nella poesia, prima che questa si trasformi in qualcosa di
consolatorio, in cui la poesia genera una qualche minima presa di coscienza (sappiamo):
lasciare, lasciare intatto
questo momento prima del dolore,
quando il dolore
è diventato nenia di conforto
e poi silenzio,
questo silenzio che sentiamo insieme,
adesso – è adesso che sappiamo,
in questo momento che divide
Un Ŗmomento che divideŗ: l'immagine di un tempo in bilico e giunto in un arresto, l'immagine
dialettica (di una temporalità dialettica) e forse in questo modo liberatoria è l'unica flebile, anzi,
disperata speranza di questo testo, e l'unica possibilità che lo schermo problematico della
rappresentazione poetica ha, di dire una qualche forma di verità poetica. Il momento che divide è
certamente il momento che divide la poesia dalla realtà, sia in direzione dei fatti raccontati, sia in
direzione della realtà dell'autore, sia in direzione infine della realtà del lettore; un momento cruciale
tra realtà e finzione, ma in cui risultano in ballo forme differenti di temporalità.
Uno dei problemi cruciali che pone Tiresia è dunque il problema del tempo: nell'abbandono di
Tiresia in Ŗquesto momento che ci divideŗ, figura del congedo dell'autore empirico dal suo testo, va
visto anche l'abbandono della specifica temporalità di Tiresia: una temporalità eterna, e come tale,
astorica, cui fanno da contraltare singoli momenti Ŗstoricizzabiliŗ, nei quali il tempo è sul punto di
prendere una delle sue molteplici direzioni. La poesia è per Mesa una riserva di immagini
dialettiche. In Tiresia, come abbiamo visto, un indovino (uno cioè che dovrebbe essere in grado di
essere in anticipo sui propri tempi) si trova a vaticinare tragedie e inferni già avvenuti, in un tempo
che risulta futuro rispetto all'epoca da cui proviene, ma già passato rispetto a noi. La
problematizzazione della temporalità (e per conseguenza della storicità) è quindi il tema più o meno
vistosamente centrale all'interno del testo, e il motore del nucleo fondante del libro. Come scrive
altrove Giuliano Mesa: Ŗ(il tempo passa anche così, senza rigore di forma, / né vero né apparente Ŕ
non siamo, certo, / gli ultimi a ripeterlo)ŗ (P, 285).
Del resto, parecchi degli istituti formali che percorrono questo testo acquistano senso al di fuori
della possibilità di un nuovo estetismo solo come correlativo formale di dimensioni diverse di
temporalità convocate nel testo. Così è, per esempio, per i numerosi effetti di ripetizione lessicale e
paronomastici, che rinviano a una temporalità eterna, che slitta continuamente dentro sé stessa; così
pure avviene per i tempi verbali stessi, tra cui troviamo presenti, futuri e imperativi, ma mai passati.
La gestione della morfologia verbale, insomma, finisce per eliminare ogni possibilità di scalarità
cronologica, alludendo certo alla temporalità di Tiresia, eterna e non finita. Questo racconto privo di
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scalarità cronologica, dunque, tipico delle competenze di lingua dei bambini, non a caso
protagonisti di più d'uno degli oracoli, rimanda anche a un confronto agonistico con la tematica
lyotardiana della caduta delle grandi narrazioni (28). Tra le modalità narrative che il nostro tempo
risulta incapace di svolgere c'è di certo anche il tragico (29). Mesa, in un rapporto antagonistico con
la contemporaneità, ci dimostra che la dissoluzione postmoderna del tragico nell'epoca della caduta
delle grandi narrazioni non è un problema di natura epistemologica (incapacità a identificare e
raccontare il tragico in quanto mancano gli strumenti per farlo), ma ideologica (assenza di volontà
di identificare e raccontare il tragico).
Come dice Agamben, tra i vari modi di essere contemporaneo, uno dei più rilevanti è la petizione
di principio della inattualità(30). Mesa, pertanto, per il suo racconto, che, nella disperata necessità di
essere all'altezza dei propri tempi, di prendere sul serio la propria epoca, deve essere tragico, è
costretto a spostare lo sguardo verso un altrove del tempo, e a rievocare un personaggio del mondo
della tragedia intento a guardare l'epoca attuale. Ancora una volta, il tempo, perché il tragico possa
essere rappresentato, deve essere out of joint. Di fronte al tempo eterno che è di Tiresia, sta un
tempo fatto di attimi e immagini dialettiche, in cui dialetticamente si consuma la storia. La struttura
del tempo che viene fuori da questo libro è dunque duplice: quella di una temporalità incompiuta,
circolare, interminata e interminabile (Tiresia), di contro a una temporalità sempre finita e perfetta
(le vittime).
Ora, la rappresentazione di questa duplice temporalità, che impiega giocoforza forme narrative,
non inscena in fondo, sub specie allegorica, la dialettica stessa, (e chi è Tiresia, se non la figura
della non-contemporaneità del poeta) tra la pulsione alla monumentalità e quella
all'autoannullamento, cui si faceva cenno all'inizio? Si tratta, del resto, di due pulsioni strettamente
connesse con lo scorrere del tempo e della storia, per il corpo del poeta. Una dialettica tragica, dove
il tragico è legato a doppio filo all'economia della temporalità all'interno dell'opera.
Contemporaneità e inattualità, eternità e attimo: tra questi estremi dialettici si consuma il senso
tragico della sua scrittura, a dimostrare che, anche quando si rilevi o tenti di rilevare un nucleo
eterno e immutabile della dimensione tragica del senso, il suo esplicarsi è sempre storico, oltre che
storicamente determinato. C'è davvero, all'interno della nostra società attuale, una domanda di
tragico come possibilità di senso e di appercezione della realtà: ma Mesa sceglie un personaggio nei
confronti del quale i tentativi di identificazione risultano fallimentari, data la presa di distanza
operata nel finale; tuttavia, se la tragedia di Tiresia non conosce catarsi, la catarsi è la possibilità
stessa di poter ancora individuare il tragico.
Secondo Szondi, Ŗla tragicità del destino, peculiare dell'antichità, si trasforma in ambito cristiano
nella tragicità dell'individualità e della coscienzaŗ (31). E nel mondo di Mesa, quello in cui Ŗil tempo
passa anche così, senza rigore di formaŗ, quale tragicità ci troviamo di fronte? Pare di poter dire, la
totale assenza di una ratio. L'impossibilità minima di additare una ratio del tragico che emerge nello
sguardo impossibile di Tiresia, dimostra che la tragicità odierna sta nella surdeterminazione: nel
riposare del tragico rispetto al restante mondo su livelli di temporalità e storicità discontinui e
distinti, irriducibili gli uni agli altri e a un principio dinamico regolatore. Spicca, in ogni caso,
l'assenza di una causalità trascendente come motore di costruzione della testualità tragica attuale.
Proprio questo fatto, unitamente alla constatazione che la ratio attuale falsifica a proprio uso e
consumo le condizioni del tragico (Mesa cita la reazione al tragico incidente di Bangkok da parte
dei dirigenti della fabbrica) consente di dire che alla base del testo di Tiresia c'è un vero e proprio
trauma: ŖAllora, nel 1995, vicino a Bangkok è successa una cosa che allora mi colpì molto, mi colpì
il fatto e mi colpì altrettanto che non se ne sia parlato: è stato subito dimenticato...ŗ (Interazioni) . Il
fatto lo colpì molto, in altre parole fu per Mesa traumatico: un trauma certo irrisolvibile, anche nella
misura in cui Tiresia resta oggetto da cui il poeta, alla fine del testo, si distanzia. Anche il trauma,
del resto è un Ŗmomento che divideŗ.
È forse opportuno, prima di esaurire il discorso sulla temporalità e sul trauma, soffermarsi
brevemente sulla questione della testualità tragica. Se, nell'epoca attuale, tragico e tragedia si sono
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entro certi limiti dissociati, quali sono gli elementi formali del Nachleben del tragico nei testi non
drammaturgici in cui oggi questo può sopravvivere? In primo luogo, il testo tragico dovrà contenere
un certo sviluppo narrativo, e un adeguato grado di coesione macrotestuale, due caratteristiche che
contrassegnano marcatamente il Tiresia. A questo si dovrà associare la presenza di uno stile
sublime: e certo la poesia colta e difficile di Mesa, il suo trobar ric, a livello lessicale, e non solo,
presenta l'apparenza di una lingua antisublime; tuttavia mai come in questo caso l'antisublime è
pronto a trasformarsi nel suo contrario. Bisogna infatti rilevare che Mesa ha sempre scritto poesia in
versi (il che produce già un certo grado di nobilitazione di genere), e una poesia difficile, dotata di
una complessissima gestione della figuralità e di una attentissima organizzazione retorica del testo.
Questa scrittura da subito ha inteso essere iscritta nell'ambito della letteratura Ŗaltaŗ; d'altronde, le
sfere semantiche e i campi lessicali evocati nel testo, che si riferiscono alla dimensione
dell'organico, rimandano a un universo di dolore e lutto e di minaccia corporea che crea, attorno
all'opera, immediatamente, il richiamo a un contesto espressivo tragico.
Proprio questo stile sublime, per quanto in modo nascosto, evita il rischio che la testualità di
Mesa stemperi la sua tensione in una dimensione elegiaca. Oltre a ciò, quello che di certo separa la
testualità di Tiresia da una testualità a pieno titolo elegiaca è proprio l'aspetto di scrittura traumatica
del poemetto. In effetti, se l'elegia si confronta con il male e il lutto parlandone a posteriori,
rievocandolo nella memoria, a cose fatte, e nell'ambito di un lavoro del lutto già in qualche modo
concluso, Tiresia è un testo che ci mostra il male, finzionalmente, proprio nel momento stesso in cui
sta avvenendo (non è un caso che il tempo dell'elegia sia, tradizionalmente, l'imperfetto, mentre qui
i tempi più evidenti sono il presente e l'imperativo); anche se, poiché il trauma è il nonsimbolizzabile, la scena stessa, la visione traumatica, si sfalda in un coacervo di sensazioni
difficilmente collegabile all'evento traumatico descritto. Anche questa impossibilità di rappresentare
il trauma è in fondo un altro dei significati allegorici della cecità di Tiresia.
L'evocazione della categoria di trauma non può non riportare alla mente un libro oggi al centro di
molte discussioni: Senza trauma, di Daniele Giglioli(32). La fenomenologia delle scritture descritte
da Giglioli è appunto quella di una serie di testualità che, senza in alcun modo originare da una
dimensione traumatica reale, tendono a fornire una rappresentazione traumatica della realtà. Si tratta
in effetti del contrario di quanto avviene nel testo di Mesa: dove a un trauma reale (e morale)
corrisponde una scrittura sublimata, ricca e difficile ma poco incline a indugiare parossisticamente
in un realismo di rappresentazione dell'orrido, cui pure si riferisce. Insomma, si fronteggiano qui il
trauma della rappresentazione e la rappresentazione del trauma (un trauma mai esistito).
Scrive Giglioli: ŖAristotele diceva che è virtù propria della mimesis artistica far percepire come
belle anche cose che nella realtà ci procurerebbero paura o ripugnanza, come una fiera o un
cadavere. Come sarebbe possibile altrimenti la tragedia? Ma qui si aspira a provocare lo stesso
effetto del cadavere, a far collassare la cosa e il suo ritratto. Il folle, il serial killer, il cannibale […],
il disgustoso, l'abietto si sforzano di non essere più soltanto oggetti di rappresentazione, tentando di
generare la stessa reazione che scaturirebbe dalla cosa rappresentata. […] Il segno aspira allo stesso
statuto della cosaŗ(33). Proprio il riferimento alla tragedia operato da Giglioli induce a porsi una
domanda: non è forse possibile asserire che queste scritture tendono a tentare di occupare,
nell'economia delle arti, quello stesso luogo occupato dal tragico? Non esprimono, questi testi, una
intenzionalità tragica frustrata? Ora, è noto che gli elementi fondamentali della tragedia sono tre:
anàgke, ethos dell'eroe, pathos(34). Non c'è dubbio in questo senso che molte delle opere che
Giglioli cita, che dobbiamo ascrivere all'ambito della letteratura di consumo, e che si situano su un
piano, sociologicamente parlando, distantissimo da quello del Tiresia di Mesa, presentino uno
studio su questi tre elementi. Del resto, anche in Mesa è presente un impegno a interrogarsi su
questi tre elementi, come da buona tradizione del tragico. Ma, ovviamente, a fare la differenza tra i
due tipi di scrittura, quello traumatico ma senza estremi di tipo espressionistico di Mesa e quello
Ŗsenza traumaŗ delle scritture dell'estremo individuate da Giglioli sta ancora il discrimine della
funzione del testo: surrogato del tragico, nel secondo caso, assunzione metatestuale e critica del
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tragico nel primo. La funzione prima ancora della questione stilistica: potrà forse sorprendere, ma
tra le figure retoriche che Giglioli cita come più frequenti nelle scritture di genere (35), ci sono figure
di ripetizione lessicale, forse le più comuni e individuanti, dal punto di vista stilistico, di tutto il
Tiresia.
Ora, non bisogna per forza attribuire alla letteratura di consumo una funzione e un ruolo negativi,
ma bisogna ammettere che questa letteratura opera su un piano spesso totalmente differente rispetto
alla letteratura alta. In questo senso, tra la letteratura del trauma costituita da Tiresia, e quella
ŖSenza traumaŗ, credo si configurino due modalità estremamente differenti di produzione di senso.
Infatti, a occhieggiare la lista degli autori di Giglioli, non si può non notare che molti di questi, e
segnatamente soprattutto quelli che si possono ascrivere al côté della letteratura di consumo o
midcult (escluderei pertanto autori come Aldo Nove, Tommaso Pincio, Tiziano Scarpa, Antonio
Moresco, per cui il discorso è diverso e più difficile), sono connotati da appartenenze geografiche
ben precise: da De Cataldo a Lucarelli, per esempio, non saremmo in grado di scindere la nostra
esperienza di lettura da un'esperienza del luogo in cui le vicende narrate sono ambientate: che
magari si traduce in un rimando allegorico a un'identità locale più ampia, come quella italiana. La
scrittura dell'estremo si situa in una territorialità ben precisa, e sarebbe forse impensabile senza
questa dimensione di localizzazione territoriale.
Nel caso di Tiresia, invece, questo si muove in uno spazio totalmente deterritorializzato: tra le
Filippine, gli Stati Uniti, Bangkok, da un altrove del tempo. Anzi, fulcro del libro è proprio la
problematizzazione del concetto di tempo. L'ipotesi è allora questa: che la letteratura di consumo,
oggi, a livello di produzione di senso, lavori soprattutto a un movimento di produzione di località,
mentre la letteratura alta, e in particolare il Tiresia, lavori soprattutto a una dimensione di
produzione di temporalità(36).
Basti pensare a Saviano, e alla collocazione geografica e spaziale del tutto priva di qualsiasi
minimo tentativo di deterritorializzazione: un libro come Gomorra produce soprattutto
identificazioni e identità a partire dalla rappresentazione dei luoghi descritti. Al contrario, Mesa
lavora a una intensa deterritorializzazione (ad esempio, saltando da luoghi e geografie molto diverse
ad altre) e inscena correnti di tempo e di storia in dislivello, irriducibili le une alle altre, spingendo il
lettore a riflettere sulla dimensione del tempo, a risignificarla, a riconcettualizzarla. A fronte di uno
spazio unico, cui può fare seguito solo una dimensione monologica della voce, la testimonianza del
male dataci da Tiresia rappresenta e inscena una temporalità plurale (in cui è implicata la
temporalità della rappresentazione stessa), caratterizzata da strati e livelli di tempo di cui risalta la
mancanza di relazioni degli uni rispetto agli altri: una mancanza di relazione che mima
perfettamente la nostra mancanza di reazione rispetto a quante evenienze tragiche occorrono in
strati e livelli di temporalità cui noi, da dietro uno dei tanti nostri schermi, assistiamo come
spettatori inebetiti di un macrotesto tragico.
Gian Luca Picconi
Note.
(1) Giuliano Mesa, Il lavoro letterario, in ŖAltri Luoghiŗ, 10, Nuova Serie, ottobre-dicembre 1992, p. 4.
(2) Ibidem.
(3) Le opere poetiche di Mesa sono state raccolte nel seguente volume: Giuliano Mesa, Poesie 1973-2008, Roma, La
Camera Verde 2010 ('d'ora in avanti indicato con P seguito dal semplice numero di pagina).
(4) Sul concetto di ŖLibro di poesiaŗ si veda Enrico Testa, L‟esigenza del libro, in La poesia italiana del Novecento.
Modi e tecniche, Pendragon, 2003, pp. 97-119.
(5) Sul tragico in Mesa si veda l'importante testo di Alessandro Baldacci, Il disprezzo del rimedio: (ri)pensare il tragico,
in Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia
Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublena,
Roma, Luca Sossella Editore, 2006, p. 297-306. Anche Paolo Zublena, in Il suono della fine, testo pubblicato su
ŖAlfalibriŗ 5, 7 ottobre 2011, p. 11, ha insistito su questa collocazione e sulla scelta di questo orizzonte di senso per
Mesa.
(6) Giuliano Mesa, “Ad esempio”. La scoperta della poesia, in La scoperta della poesia, a cura di Massimo Rizzante e
Carla Gubert, Pesaro, Metauro, 2008.
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(7) Arthur C. Danto, Dopo la fine dell'arte. L'arte contemporanea e la fine della storia, Milano, Bruno Mondandori,
2008, p. 12.
(8) Giuliano Mesa, Il lavoro letterario, cit., p.5.
(9) Giuliano Mesa, [Intervento], in 1o Quaderno di Invarianti, a cura di Giorgio Patrizi, Roma, Antonio Pellicani, 1989,
p. 118.
(10) Giuliano Mesa, “Dire il vero”. Appunti, in Scrivere sul fronte occidentale, a cura di Antonio Moresco e Dario
Voltolini, Milano Feltrinelli, 2002, p. 140-141.
(11) Ivi, p. 138.
(12) Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981. Mesa si occupa di questo libro in
svariate occasioni; ade esempio ne già citato Il lavoro letterario.
(13) Tiresia. Oracoli e riflessi, si può leggere in P, 343-358.
(14) Il testo di Tiresia si legge in P, 343-358, ma è possibile anche, per chi voglia, leggerlo nella sua integralità, sia pure
con qualche difformità nell'uso dei corsivi, presso questo sito: http://rebstein.wordpress.com/2007/08/11/tiresia-digiuliano-mesa/. Su http://gammm.org/index.php/2008/05/18/da-tiresia-giuliano-mesa/ se ne leggono invece alcune
traduzioni. Data la non soverchia lunghezza del testo ometterò per lo più le indicazioni di pagina relative alle citazioni
effettuate.
(15) Si tratta del già citato Dire il vero, comparso appunto nel volume Scrivere sul fronte occidentale, volume dedicato a
una discussione critica dell'evento Ŗ11 settembreŗ e al suo effetto sulla percezione storica attuale.
(16) Per una descrizione più puntuale e precisa (soprattutto dal punto di vista ritmico, aspetto davvero cruciale del
testo), che i dati qui presenti vorrebbero unicamente integrare, si rimanda a Florinda Fusco, Tiresia: il viaggio negli
inferi della contemporaneità, in ŖAtelierŗ, XVI, 61, marzo 2011, pp. 71-79.
(17) Va però sottolineato che Mesa non compie una ricerca metrica sulle misure versali consuete nella tradizione
italiana (dove gli ŖEndecasillabiŗ risultano essere ormai, con parola d'autore, Reperti); la ricerca metrica di Mesa, in
questo senso più difficile da analizzare, riguarda l'aspetto ritmico del testo, come ha dimostrato il già citato articolo di
Florinda Fusco. Così si esprime l'autore riguardo a Tiresia: ŖLa forma di questo Oracolo è uguale a quella dei due che
avete già ascoltato, cioè i versi hanno lo stesso tipo di ordine, ogni verso ha lo stesso numero di accenti rispetto
allřOracolo precedente, ecceteraŗ. Questa dichiarazione è stata rilasciata nella trascrizione di un intervento di Mesa
presso una classe della Scuola Media ŖCenturioneŗ di Genova, effettuato nel 2002 e quindi a Tiresia ancora inedito,
scaricabile, in pdf, al seguente indirizzo internet: http://rebstein.wordpress.com/2011/08/20/non-predire-il-futuro-ma-ilpassato/. Il testo è presente, con corredo di foto anche sulla seguente rivista genovese: ŖCantarenaŗ, VI, 22, giugno
2003, pp. 4-22. Si farà riferimento a questo testo con la semplice indicazione Interazioni.
(18) ŖQuesta poesia io lřho scritta (non ricordo dove lřho scritta) pensando ad un fatto realmente accadutoŗ.
(Interazioni).
(19) Zublena ha scritto: ŖTragedia dolorosa della dialettica, tragedia del soccombente: «Tragico è soltanto quel
soccombere che deriva dallřunità degli opposti, dal ribaltamento di una cosa nel suo contrario, dallřautoscissione. Ma
tragico è anche soltanto il soccombere di qualcosa cui perire non è consentito, dopo il cui allontanarsi la ferita non si
chiude». Così Szondi nel Saggio sul tragico, e allo stesso modo il Tiresia di Mesa: «devi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo
discapito»ŗ (L'ultimo dei modernisti, in ŖAlfalibriŗ, cit., p. 10).
(20) Sulla questione del Tu lirico si veda Joëlle de Sermet, L'adresse lyrique, in Figures du sujet lyrique, a cura di
Dominique Rabaté, Paris, Puf, 1996, pp. 81-97.
(21) Il tu resta presente anche nei Riflessi, ma in modo molto più sfumato e irregolare. La testualità dei Riflessi, benché
convochi, come già detto, strategie anche forti di coesione macrotestuale, è molto più vicina, rispetto agli Oracoli, a
quella di altri esiti di Mesa, quasi rimandasse, intertestualmente, agli altri libri di poesia dell'autore, e ne convocasse la
figura entro il testo.
(22) In La chiave a stella (Torino, Einaudi, 1978, pp. 45-52) Primo Levi operava, in un capitolo centrale dal titolo
Tiresia l'identificazione dell'indovino come figura dell'autorialità stessa.
(23) Si veda in merito Slavoj Žižek, L‟universo di Hitchcock, a cura di Damiano Cantone, Milano, Mimesis, 2008, pp.
27 e seguenti.
(24) Ecco quanto scrive ancora Mesa sul tema della «Verità etica. Ne ho già scritto (rimando a ŖFrasi dal finimondoŗ,
nel volume Akusma, e a ŖDire il veroŗ, in Scrivere sul fronte occidentale). ŖVerità eticaŗ è un sintagma forse un poř
troppo austero, o addirittura pomposo. Si potrebbe anche dire: Ŗsinceritàŗ. Lřostacolo principale al dialogo non è la
diversità di opinioni ma il Ŗcomportamentoŗ (lřetica, appunto). Non può esserci dialogo con chi parla sempre e soltanto
avendo in mente certi suoi fini (secondi, che poi sono primi), che agisce sempre secondo tattiche e strategie, opportunità
e convenienze Ŕ mentendo, sempre. Sembra che tutti parlino con tutti sapendo, tutti, di avere dei Ŗsecondi finiŗ (che
sono i primi). Alla Ŗspudoratezzaŗ del dire chiaramente quale sia il fine vero, ancora non si arriva (e ci si era quasi
arrivati, al tempo della prima guerra del Golfo Persico). Gli scopi e i Ŗvaloriŗ dichiarati devono ancora essere: libertà,
giustizia, democrazia, verità, onestà, solidarietà ecc.. Ciò che accade nellřàmbito dei poteri economici e politici e
mediatici, accade anche in quello della cultura, e in quello della poesia: sempre più spesso, con sempre maggiore
spudoratezza nel mentire» (Tre lemmi, in ŖPer una critica futuraŗ, 3, aprile 2007, a cura di Andrea Inglese, pp. 67-68).
(25) In questo senso Tiresia è stato letto da Marco Giovenale, Visione, voce, dovere. Il “Tiresia” di Giuliano Mesa,
leggibile su «punto critico» al seguente indirizzo internet: http://puntocritico.eu/?p=1213.
(26) Infatti, l'ornitomanzia si riferisce al volo degli uccelli che si posano su di una discarica che franerà seppellendo
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Sitio Pangako, la piromanzia si riferisce al rogo di una fabbrica, la iatromanzia all'espianto degli organi, e così via. Si
noti, tra l'altro, che gli uccelli di 01. ornitomanzia sono folaghe, e corrispondono quindi a uno dei significanti
ornitologici più famosi della poesia italiana novecentesca, nella fattispecie montaliana: e il sospetto che aleggi sul testo
un riferimento, magari critico, comunque problematico, al vento che chiude Voce giunta con le folaghe e al concetto di
memoria che da questo testo esce non è poi forse così privo di senso.
(27) Una decisiva analisi di questa stanza del poemetto in Fusco, Tiresia: il viaggio agli inferi della contemporaneità,
cit., pp. 74-75.
(28) Su questa questione si veda il libro di Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo
Auschwitz, Macerata, Quodlibet, 2006, in particolare pp. 53-73. Proprio secondo Moroncini, peraltro, la delegettimazione dei metaracconti inaugura Ŗil tempo dell'eticaŗ (p. 73).
(29) Il riferimento va ovviamente al libro di Steiner, La morte della tragedia, Milano, Garzanti, 1999.
(30) Si veda in merito Giorgio Agamben, Che cos'è il contemporaneo, in Nudità, Roma, nottetempo, 2009, pp. 19.-20
(31) Peter Szondi, Saggio sul tragico, Torino, Einaudi, 1996, p. 92.
(32) Daniele Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell'estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet, 2011.
(33) Ivi, p. 19.
(34) Si veda in merito Annamaria Cascetta, La tragedia nel teatro del Novecento. Coscienza del tragico e
rappresentazione in un secolo al limite, Roma-Bari, Laterza, 2009.
(35) Daniele Giglioli, Senza trauma, cit., p. 32-33.
(36) Desumo l'idea di Ŗproduzione di localitàŗ da Arjun Appaduraj, mentre quella di Ŗproduzione di temporalitàŗ
rielaborando suggestioni di Toni Negri e Deleuze.
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Dal mito al museo.
struttura e significato in Pitture nere su carta di Mario Benedetti
Le parole hanno fatto il loro corso
M. Benedetti
1.Presupposti: forma, cadavere di un libro e mito
Il problema della forma poematica di Pitture nere su carta(1) ci appare fondamentale per
cercare di comprendere il senso ultimo di quest'opera. Tale problema richiama alla mente subito una
più vasta serie di questioni, ineludibili se ci si voglia soffermare su un'opera di poesia che tenti una
più vasta organizzazione la quale dica di più di quanto possano fare i singoli componimenti. E
sebbene la produzione poetica dell'ultimo secolo sia costellata da tentativi poematici - dal
Canzoniere di Saba al Conte di Kevenhüller di Caproni - e sebbene mai si siano interrotti anche in
anni più recenti, bisogna pur ammettere che il confronto fra queste opere e l'opera di Mario
Benedetti non trovi per lo più che dati negativi, differenze piuttosto che somiglianze. L'originalità
della macrostruttura di Pitture nere è forse da ricercarsi proprio al centro della sua ispirazione,
nell'accanito problema che soggiace alla scrittura di quel delicato e dannato pronome ŖIoŗ, il quale
mai è dato per scontato fra questi versi, il cui problema è anzi tematizzato e offerto costantemente
alla propria crisi come alla propria salvezza. Una scrittura, la quale fondi la propria possibilità di
esistenza sulla indecidibilità di questo pronome, immediatamente mette in crisi la ragione stessa di
esistere e lo statuto del genere a cui appartiene, il genere lirico, che proprio sulla possibilità di dire
ŖIoŗ trova il proprio sostentamento. L'analisi del valore formale, della struttura di questo singolare
libro di poesie, allora non potrà prescindere dal richiamo a valori che esulano dalla forma, che
sconfinano in quell'aperto mondo dell'esperienza che la precede e che la segue: essi soltanto
sembrano i soli a poter giustificare pienamente la struttura che Benedetti ha dato a quei
componimenti raccolti sotto il titolo di Pitture nere su carta.
La forma è un dato storico. Ciò che è delimitato è riconoscibile soltanto entro un certo gruppo
che vidima tale limite e si riconosce limitato da esso. Le forme mutano, si diffondono, scompaiono,
sono catacretiche ovvero invisibili sopravvivenze, forme morte; mesmerizzate, semmai, solo da chi
saprà farle risplendere nell'attimo del pericolo(2). Il problema della forma è acutamente sentito da
qualunque poeta; potremmo quasi dire che laddove non ci sia riflessione formale non vi è poeta.
Egli sente su di sé la forma come un dovere. La posta su cui ogni poeta lirico - a maggior ragione
dall'avvento del vers libre - mette in gioco la propria impresa creativa è quella che una forma sia
ancora possibile, a patto che questa sia intesa all'interno di un contratto a tre: l'esigenza interiore, il
mondo esterno, la tradizione letteraria. Dire che il poeta senta su di sé la forma come un dovere, non
vuol dire nient'altro che egli dovrà farsi garante della possibilità di una forma per la parola umana.
Guido Mazzoni, proseguendo un discorso che fu d'altra soluzione in Fortini, ha sottolineato in un
suo recente saggio quanto la catena sociale della parola poetica si sia interrotta, quanto essa non
abbia più un vasto pubblico né il prestigio collettivo che, un tempo, ebbe(3). Ma il ruolo che la
parola poetica ha nei confronti del mondo esterno non può essere valutato soltanto nei termini di
Ŗsuccesso socialeŗ: esso è solo una parte Ŕ e marginale Ŕ del legame triadico su cui la poesia fonda
il proprio dover essere. L'esigenza interiore e la tradizione sono lì, ancora, a sorreggere pienamente
l'esperienza della parola poetica; e se oggigiorno il legame sociale appare più lasco, o sembri come
ridotto a mero valore posizionale(4) all'interno della comunità di chi pratica la poesia, esso permane
nella scrittura come ineludibile istanza etica.
Potrebbe il poeta arrestarsi alla sola ricerca formale, allora? La ricerca di una forma non è
disgiunta dalla possibilità tout court che esista un senso: anzi la poesia è proprio il luogo dove l'asse
semiotico, formale, si coniuga problematicamente all'asse eteronomo esistenziale: se non vi è
responsabilità e presenza in quella forma allora non vi è niente(5). Quale forma dunque può
coniugare un ŖIoŗ così precario al mondo? Quale poteva essere la forma della singolarità alle soglie
del nuovo millennio? Era ancora possibile che l'interiorità trovasse un accordo con l'universale? Era
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ancora possibile per la lirica del 2000 contemplare un modello formale di sussunzione estetica di
ciò che è privata esperienza? È ancora possibile quello che da qualche secolo chiamiamo poesia
lirica?
Su queste domande era approdata la scrittura di Mario Benedetti, dopo l'uscita del suo libro
Umana Gloria(6). Il libro mondadoriano del 2004 è stato costruito a posteriori, raccogliendo una
produzione accumulata nei venti anni precedenti e che aveva trovato pochi episodi, tra l'altro
minori, per raccogliersi in una unità(7). È un libro che non presenta in sé alcuna intenzione
programmatica se non quella di un amorevole erede di se stesso: raccogliere gli sparsi resti di chi
non è più. Potremmo dire che esso - mi si comprenda - sia un libro nato morto, le cui componenti
poetiche non erano più attive per l'autore che pur le vedeva pubblicate lì per la prima volta tutte
insieme. Così come si compone un cadavere, Mario Benedetti ha dovuto attendere alla vestizione di
questo libro, ripercorrendo con cura e attenzione - con pietà - tutto ciò che aveva creduto poesia
durante la propria vita.
L'esperienza di Umana Gloria, dico della composizione editoriale di questo libro, ha
assommato in sé due stati fondamentali, due stati agogici. Poniamo mente ad essi, perché poi li
ritroveremo, ma resi ormai strategia retorica: da un lato la raccolta, il catalogo, l'elenco di ciò che è
stato fatto; dall'altro la contemplazione esterna, l'esercizio dello sguardo critico e distante, la
verifica di quanto si stava raccogliendo, elencando, catalogando. Per la prima volta, forse, Benedetti
ebbe la visione di ciò che aveva compiuto nel suo lungo percorso di scrittura, ebbe chiara
l'immagine che di se stesso, per riflesso retroattivo, quel libro produceva. Così come «l'utensile, non
sparendo più nel suo uso, appare»(8), la poesia di Benedetti per la prima in tutta la sua ampiezza
sorse nel pallore cadaverico di un libro che la sanciva essere stata viva.
(Incidentalmente occorre qui notare come la copertina di Umana Gloria - la riproduzione
dell'opera Coraggio del pittore Enzo Cucchi - sia particolarmente suggestiva sotto questo aspetto.
Infatti vi vediamo, immerso in un paesaggio montano, in basso a sinistra, l'apparire tra il fitto verde
di un mezzo busto umano alonato da un giallo sporco; una mano bianca da un corpo invisibile si
tende e sfiora il viso dell'uomo che dorme, che muore. È la mano del vivo autore che, con coraggio,
si rispecchia acefalo nel corpo morto del libro?)
Ciò che era poesia, vita inconscia ma pulsante, «la tanta materia diversa come sognata»(9),
appare finalmente nella sua reificazione libraria, sfinisce nel suo feticismo cosale mostrandosi bruta
materia, oggetto, volumen. Non credo sia da sottovalutare l'impressione profonda che questo
avvenimento suscitò nella mente dell'autore, in quegli anni esasperato per la recente e faticosa
riabilitazione dalla malattia di cui fin da giovane Benedetti subì le conseguenze; e che lo costrinse,
proprio a ridosso della pubblicazione, per molti mesi dapprima in ospedale, poi in uno sfibrante
pendolarismo fatto di analisi e centri di assistenza terapeutica. L'apparizione di Umana Gloria
dovette sembrare, allora, una sorta di congedo, un segnale di separazione piuttosto che di continuità
con quanto la sua vita era stata precedentemente, un addio alle cose che avevano costituito
l'immaginario emotivo fondante della sua scrittura, ormai sorpassate da una vita che
scandalosamente continuava nonostante l'essere stata prossima alla sparizione.
Il primo libro mondadoriano è così densamente mitico che lascia stupefatti. Vi sono raccolti i
luoghi, le persone, gli avvenimenti che costituiscono l'Infanzia irredimibile dell'autore. La Francia,
la Bretagna, il Friuli, la Slovenia, la città di Milano e di Parigi, i quartieri come gli amici, i quadri,
l'amata, i fratelli, la madre, il padre si fondono in una sintassi liquida, amniotica, come trattenuta in
una continuata gestazione uterina(10). Il poeta vi appare come uno spaesato Ulisse, sempre colto
nella figura emotiva del ritorno così come la intese Lyotard(11), sempre in ricerca di una
identificazione precaria attraverso l'alterità dei luoghi e delle persone. Questo libro non presenta
un'intenzione poematica forse anche a causa di questa densità mitologica. Il mito, infatti, non ha
razionalità né struttura nel suo originarsi, né del resto ha un soggetto individuale cui riferirsi. Esso si
compone di risposte ad una spontanea quanto impersonale attesa: senza mediazione, il mito si dà.
Ovviamente, anche questa immediatezza non è altro che mitologia; ma è solo dall'interno di questa
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fede che esso può esistere come spontanea proliferazione(12).
Cesare Pavese è stato colui che ha parlato chiaramente del compito del poeta nei confronti
dell'aspetto mitologico del proprio immaginario. Più volte Benedetti ha dichiarato un debito nei suoi
confronti, debito che agisce attivamente anche in questa raccolta. Benedetti non è il solo, del resto, e
se si facesse una ricognizione dell'eredità pavesiana all'interno della scrittura poetica dell'ultimo
trentennio, credo ci si stupirebbe per l'ampiezza e la profondità dei lasciti carsici che la sua opera ha
diramato dentro le intenzioni di molti poeti. Scrive Pavese:
La vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo
per ridurre a chiarezza i suoi miti. Ma non si può fare che in essi non sia il foco
vitale, la ratio ultima perché inconsapevole, della vita interiore. Il tonico potente
che se ne assorbe, l'unica e sola ispirazione degna di questo nome abusato, ne è
prova. Soltanto non bisogna vietarsi esteticamente lo sforzo più assiduo per ridurli
a chiarezza, cioè distruggerli. Soltanto ciò che ne rimarrà dopo questo sforzo (e
qualcosa non può non rimanere sempre, se è vero che lo spirito è inesauribile),
potrà valere come fonte di vita.(13)
Secondo la parola dell'autore piemontese, i miti permangono come «fonte di vita» se e solo se si ha
il coraggio di distruggerli, portarli ad una chiarezza superiore. Pavese scrive ridurli a chiarezza,
laddove nella scelta del termine Ŗriduzioneŗ avvertiamo forse già la svolta metrica che Pavese stava
sperimentando nella coeva scrittura delle poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: la scelta per
un metro conciso, essenziale. La chiarezza che il mito richiede a colui che lo pratica, a colui che si
nutre del tonico che da esso scaturisce, è di natura catastrofica. La chiarezza è un atto disarticolante
ma vitale, violento ma desertico. Chi vuole mantenere in vita la fonte del proprio mito, deve ridurlo,
dominarlo, devastarlo; Pavese usa l'espressione sfondare il mito:
Ma i più forti, i più diabolicamente devoti e consapevoli, fanno ciò che vogliono,
sfondano il mito e insieme lo preservano ridotto a chiarezza(14)
Alle soglie della scrittura di Pitture nere su carta, Mario Benedetti era ad un bivio. Da un lato
continuare fino all'usura il proprio immaginario, attingervi fino alla ripetizione esausta, fino allo
sfibramento manieristico di sé. Dall'altro, invece, ridurre all'estrema chiarezza quei miti che
spontaneamente avevano dato luogo ai testi che compongono Umana Gloria, abbandonare ogni
abito acquisito e andare alla ricerca del punto dove la scrittura sfonda il proprio limite e apre le
porte ad un deserto vitale. Codesta soltanto può essere la devozione diabolica, secondo l'espressione
di Pavese. Il diavolo, fedele alla propria etimologia, è colui che divide, che porta con sé la scissione,
la ferita, la diplopia(15); colui che separa il vero dal falso, che rende vero il falso e dunque falso il
vero. Colui che Ŗsfonda il mitoŗ va letteralmente al diavolo: è costretto a stare in piedi, fermo e
immobile, raziocinante e critico, mentre osserva il proprio mito bruciare di verità.
2. Pitture nere su carta ovvero: il museo alla fine del simbolo
Alcuni attenti interpreti hanno fin da subito sottolineato quanto la struttura delle poesie di
Pitture nere su carta fosse assimilabile a quella di un museo. Da un lato Maria Grazia Calandrone
sostiene che ogni testo di questa raccolta sia come posto Ŗsotto i farettiŗ, fra le Ŗtecheŗ; dall'altro
Massimo Gezzi ha parlato di Ŗlibro-galleriaŗ, affermando che Ŗle poesie obbediscono a una
strutturazione in otto capitoli che spesso ricordano veri e propri cicli pittoriciŗ(16). Italo Testa ha,
dal canto suo, analizzato quanto la parola poetica in questo libro attinga Ŗal serbatoio delle arti
visiveŗ, sottolineandone però come Ŗla tecnica mistaŗ così raggiunta dia luogo ad una poesia di
carattere Ŗultra-figuraleŗ(17). I critici hanno utilizzato la metafora museale per cercare di chiarire la
peculiarità architettonica della seconda opera mondadoriana di Benedetti. Occorrerà sviluppare più
approfonditamente questa intuizione. Del resto, sia il titolo della raccolta, sia le citazioni che ne
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fanno da esergo(18), sono dei segnali ineludibili di quanto Benedetti volesse instaurare
un'affiliazione pittorica e visiva per quanto riguarda il proprio libro. Le epigrafi però, se da un lato
sottolineano il carattere generalmente pittorico della raccolta, dall'altro fanno un nome molto
preciso: Francisco Goya. Un'interpretazione della struttura di quest'opera non può prescindere da
questo nome.
L'influenza del pittore spagnolo è ravvisabile all'interno di Pitture nere sotto molteplici
aspetti. Primariamente Goya è richiamato all'attenzione per la sua capacità di non indulgere al mito
in un senso estetizzante, neo-classico; come uno dei pochi del suo tempo Ŗa vivere il rapporto con
l'origine come un ricorso ad una forza spontanea e non come proseguimento, nella memoria erudita,
di un luogo temporale privilegiato (l'Arcadia) o di una forma immutabileŗ(19). Goya, secondo
l'interpretazione di Starobinski, è colui che dipinge Ŗla bestia nera che viene messa a morte nelle
piazze dei villaggiŗ mentre l'Europa si attardava ad agghindare Ŗil bianco toro della mitologiaŗ,
colui che sente Ŗun'origine oscura, su cui incombe un rischio mortaleŗ. Dunque, Goya sfonda il mito
della sua epoca e riporta alla luce con diabolica devozione l'orrore originale che lo fonda(20).
A quest'ultimo aspetto vanno ascritte anche alcune delle vistose particolarità retoriche che si
notano all'interno dei componimenti di Pitture nere: un certo espressionistico uso del linguaggio che
volge al grottesco il proprio tratto(21). Ma a questa suggestione storico-retorica della pittura di
Goya, si deve aggiungere una suggestione biografica. Abbiamo già ricordato quanto fosse
essenziale sottolineare la concomitanza fra la pubblicazione di Umana Gloria e la riabilitazione
dalla malattia che aveva costretto Benedetti a lunghi soggiorni ospedalieri; ora dovremo ricordare
che proprio Goya dipingerà gran parte delle sue opere più oscure dopo una grave malattia di natura
sconosciuta che lo colpì durante l'inverno del 1792 e che lo menomò per sempre dell'udito. La fase
più acuta lo vide infermo a Cadice, presso la casa del grande collezionista e mecenate Sebastian
Martinez. Il deliri e i dolori presero il sopravvento del suo corpo mentre era attorniato dai muri di
una vera e propria casa-museo che grondava di quasi 750 quadri e migliaia di incisioni(22). La
malattia e la sua parziale guarigione segnano un passaggio importantissimo nella pittura di Goya
che non tornerà mai più a dipingere come prima. Los caprichos(23) è la celeberrima serie di
incisioni in cui il pittore spagnolo inizia, attraverso l'uso del grottesco, la sua perlustrazione
sistematica dell'orrore. È indubitabile che Benedetti sentisse nel tragitto del pittore di Fuendetodos
una somiglianza con il proprio; probabile che la scelta, successiva alla malattia, di strutturare
serialmente i propri lavori incisori abbia giocato un ruolo fondamentale nell'immaginario creativo
del poeta. Entrambi, dopo la malattia, avvertirono la necessità di un'arte che fosse in grado di
rappresentare l'absurde possible(24) di una vita come postuma. Benedetti sembra dirci che se la
fede nel mito procede in maniera spontanea, proliferante, d'altra parte lo sguardo che ha scorto
pienamente l'orrore richiede metodo, struttura. Per chi intenda questo, non è più possibile
abbandonarsi, innocente, al sorgere dei propri miti.
La incisioni di Goya trovano un rispecchiamento dunque nel numero e nella ciclicità del libro.
Mantenendo la propria indipendenza, il numero dei componimenti scelti da Benedetti si assesta
nelle medesime vicinanze delle due più celebri sequenze del pittore spagnolo: I Capricci sono
composti in totale di 80 incisioni, mentre I disastri della guerra(25) sono 82. Pitture nere su carta,
invece, è composto di 79 testi (numero primo), divisi in otto sezioni, aperti da un componimento
singolo(26). I componimenti per sezione non sono mai superiori a 11 e non scendono mai sotto i 9;
il numero di componimenti per sezione decresce a mano a mano che ci si inoltra nel libro, fino a
stabilizzarsi sul minimo dalla quinta sezione in poi(27). Ma seriale è anche la titolazione dei
componimenti, organizzata in un parallelismo che divide gli otto capitoli a due a due: nel primo e
nel secondo, come nel quinto e nel sesto, i testi hanno tutti un titolo, seguito dal numero naturale
specifico del tipo; il terzo capitolo e il quarto, come il settimo e l'ottavo, riportano invece soltanto il
numero di riferimento(28).
Il numero complessivo dei componimenti, 79, è il numero atomico dell'oro, parola che
compare nel primo verso della poesia liminale(29) e che sembra proprio essere la porta aurea
attraverso cui entrare nel Ŗlibro-galleriaŗ Pitture nere su carta. L'immagine alchemica con cui
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veniva raffigurato l'oro è un cerchio al cui centro si trova un punto, segno solare per eccellenza.
L'oro e il cerchio tornano, in concomitanza con l'immagine stellare, nei componimenti Supernove 1
e 2(30); questi due testi fungono da transizione, conducendo il lettore all'ingresso delle due ultime
sezioni della raccolta: a 2\3 dell'opera, dunque(31). Questa insistenza non è causale; Benedetti
stesso ci spiega il significato che l'immagine del cerchio solare riveste nella sua poesia, così come
appare, mediata dalla citazione dantesca, nel verso «eco di luce che non da sé è vera»(32):
Osserviamo l'universo con dei filtri, per cui la luce che per Dante era in sé, divina,
per noi è filtrata da macchinari costruiti dall'uomo(33)
L'autore torna ad insistere sul particolare stato diplopico, doppio, diabolico, che la conoscenza ha
nel mondo contemporaneo. Quella luce che per Dante era una verità oggettiva, che permetteva di
centrare il soggetto mistico e individuale nel medesimo luogo geometrico dei punti, oggi è distorta,
fievole, deformata, filtrata ed incerta(34). La carne che s'indora, allora, torna morta nel senso che
non è più in grado di stabilirsi da sola in quella luce dorata che da sé è vera, ma abbisogna sempre
di uno strumento esterno a cui appellarsi per prendere il malcerto riferimento da cui pur sempre
dipende. Torna morta si intende, qui, l'atto di sfrondare l'oro dal suo mito, mostrar la condizione di
chi non è più persuaso dal mito. «La persuasione non vive in chi non vive solo di sé stesso»,
afferma Carlo Michelstaedter; poco prima, aveva scritto:
Ma l'uomo vuole dalle altre cose nel tempo futuro quello che in sé gli manca: il
possesso di sé stesso: ma quanto vuole e tanto occupato dal futuro sfugge a sé
stesso in ogni presente.(35)
Attraverso le parole del giovane filosofo goriziano, arriviamo ad intuire la ragione ultima
della strutturazione museale di Pitture nere su carta. Egli ci ricorda quanto la condizione originaria
dell'uomo sia tragicamente sempre dentro una rettorica, una struttura mediale, in quanto egli
dipende da strumenti esterni che, nel momento in cui gli danno l'illusione del possesso di sé, a sé lo
sottraggono indefettibilmente. Come può sussistere una struttura poematica se il soggetto
continuamente si affida all'incerto esterno, ai suoi filtri, e per conoscere dunque sfugge sempre a se
stesso? Quale architettura può sopportare il moto violentemente centrifugo, deflagrante che
comporta tale esperienza interiore? Se esso conduce a quella lacerazione del vertice a cui altrove
Benedetti ha fatto esplicito riferimento attraverso la riflessione di Bataille, tale moto non può
produrre altro se non un'«interna distorta musica, interna distorta parola»(36). La forma museale,
allora, ci appare come unica struttura che possa mostrare appieno lo sdoppiamento lacerante del
soggetto di cui Benedetti ha fatto esperienza. Il poeta si trova nella situazione - al limite del
possibile - di poter solo catalogare, elencare i neri frattali prodotti da tale lacerazione, predisporli su
lastre, laddove lo sguardo dello stesso poeta vi si poggerà allibito così come lo sguardo di Goya si
poggiava incredulo sulle proprie incisioni.
La struttura museo riesce a descrivere architettonicamente la condizione di un soggetto che
guarda esattamente il punto in cui, lacerato, non è più. Si guarda, esterno a se stesso, come morto, o
meglio: collocato, in maniera indecidibile, «before the beginning and after the end»(37). È questa la
diplopia essenziale, la devozione diabolica: l'unica che esprime la condizione ecfrastica di un
soggetto che se da un lato è nella scrittura, dall'altro è colui che non è più consustanziale alla
propria scrittura(38). Dall'intercapedine mediale, nel bilico in cui la rettorica si svela come tale, egli
osserva il proprio mito e lo decompone; vi partecipa e nello stesso tempo lo critica e ne è escluso, in
quanto vittima sacrificale del senso. Sotto questo aspetto, la scrittura che Benedetti allestisce in
quest'opera è lontana migliaia di chilometri dall'usuale trasparenza con cui siamo soliti adoperare il
simbolo linguistico(39). Le parole che la compongono sono sempre parole in crisi,
etimologicamente, separate, staccate dalla vita mentre sono lì, sulla carta, opache e nere come
pitture non più comprensibili. Come dispositivi mal funzionanti, le parole indicano, ma non
simbolizzano più(40):
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Io mi sento in bilico Ŕ credo di essere sempre in bilico, anche scrivendo. Esprimo
sempre fratture, scrivo per fratture.(41)
Forse ora riusciamo a rendere ragione di alcuni versi, turbanti e contraddittori, che il libro
continuamente ci propone: «Così le foglie. Così,\ forse, foglie non sono state»(42); «Quanto sento?
e come, dove\ onda del mio stare qui e stare via»(43); «Mondo non mondo, mio mondo nero»(44);
«[...] e io so dire e non dire»(45). La divaricazione contraddittoria e negativa(46) appare fin dalla
poesia liminale: «Ma nessuno è qualcuno, niente la notte, nessun mattino»(47). Ma anche
l'epanalessi nasconde questa funzione avversativa, divaricante: «Viti di viti, uova di uova»(48). Alla
sinechia mitologica, l'aderenza ingenua che si instaura nel mito fra parola e vita, questo libro
oppone la diaspora lacerante, la coscienza diabolica del limite che il dominio verbale ha sul
mondo(49).
A questo punto siamo in grado di comprendere adeguatamente i nomi delle sezioni. Colori,
Lacrime, Sfarzi, Reliquari, Sacrifici, Sfarzi, Smalti, Supernove; cosa sono? Perché questa
particolare resilienza materiale che avvertiamo in questi termini e che troviamo anche sottolineata
nel titolo complessivo della raccolta? Questi termini non sono simboli linguistici che denotano
referenti. Non sono simboli, abbiamo detto, comunemente intesi; sono semmai ex-voto, così come
Didi-Huberman li definisce:
Ciò che si depone nei santuari per gratitudine votiva è sempre un oggetto che è
stato toccato da un evento supremo, da un sintomo: disgrazia subita in miracolo,
della malattia in guarigione etc. In breve, è quasi sempre un oggetto reliquia, un
resto di prove organiche elaborate psichicamente.(50)
Prioritario nella pratica dell'ex-voto è che, «prima di rappresentare qualcuno, l'ex-voto rappresenta
[...] il punto in cui esso [l'offerente] soffre e là dove vuole essere trasformato»(51). La mediazione
simbolica tocca in questi oggetti un limite peculiare che avvicina spaventosamente i tre poli classici
del simbolo fino a farli deflagrare in una singolarità indecidibile. L'ex voto si colloca infatti «là
dove si sente la carne»(52), dice Didi-Huberman, instaurando una somiglianza che individua il
proprio criterio in «una qualità interna al materiale»(53). I componimenti delle sezioni sono seriali
così come non possono non essere seriali gli ex-voto; in quanto in essi non è in discussione lo stile
individuale, giacché l'individuo, nel momento in cui è lacerato dal male, semplicemente non è più: è
il male. O meglio ancora: è il singolo punto organico che dolora(54). E del male si può fare
catalogo, enumerazione, elenco, variazione come abbiamo visto fare a Goya, come abbiamo visto
fare a Benedetti, come testimoniano nelle chiese e nei santuari milioni di pellegrini; ma di esso,
come ci dice l'immutabilità formale degli ex voto(55), non si potrà mai fare storia(56).
4. Vitalità del postumo e conclusione
Adorno, in un celebre saggio, ricordava che le parole «Museo e Mausoleo sono connesse da
qualcosa di più che un'associazione fonetica»:
I musei sono come i sepolcri familiari dell'arte. Testimoniano la neutralizzazione
della cultura(57).
Benedetti compone la propria teratologia dolorante allestendo il museo dei propri miti brutalizzati,
che, come le opere d'arte, incarnano una promesse du bonheur soltanto quando sono rivolti sul
sentiero della loro distruzione(58). Il museo di Benedetti testimonia esattamente questa
«neutralizzazione», di come, dall'interno della lacerante esperienza interiore, ogni convenzione
umana (e segnatamente: poetica) venga resa postuma a se stessa, sopravvivendo in una vita
sepolcrale. Se però il museo distrugge e neutralizza, esso è l'unico luogo in grado di conservare i
resti di una cultura, di garantire loro la durata. Da qui la tenacia citazionistica e il plurilinguismo di
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quest'opera. Molte opere, di pittori e di poeti, di architetti, di artigiani e di scienziati, e le loro
diverse lingue sono racchiuse nelle teche, nelle pagine di Pitture nere su carta(59). Di ogni cosa
umana si vorrebbe rendere testimonianza astorica, preservarla pur nella coscienza della sua
immedicabile neutralizzazione. Il movimento da cui scaturisce la poesia di questo libro è sì di
carattere distruttivo, disumanizzante; ma fuoriesce dall'umano esattamente per quanto sull'umano
indefettibilmente converge. Trapassato attraverso le più bestiali e disumane raffigurazioni, l'opera di
questo poeta non può fare a meno di ritornare a comporre, proprio attraverso la macrostruttura del
museo, un disegno, una traccia percorribile(60).
Sebbene non vi sia in questa opera una vera e propria progressione, l'aspetto poematico
evidente nella struttura del libro ci pare apra alla possibilità di un senso ulteriore. Abbiamo provato
a definire ogni componimento mediante il funzionamento degli ex-voto; ma dobbiamo fare capo ad
un'altra suggestione per definire meglio ciò di cui si compone questo museo e per provare, infine, a
tratteggiare l'ipotesi del senso ultimo di tale struttura. Yves Bonnefoy, a proposito di Goya,
individua la presenza di uno stato originario ravvisabile sotto la superficie in tutti i suoi quadri, ma
di cui se ne dà piena evidenza solo nelle sue figurazioni più estreme. Egli propone di chiamare
schizzo questo peculiare stato del segno. Così scrive:
Lo schizzo, nel senso in cui uso il termine, non è il rapporto dell'individuo con se
stesso così come lo studia la psicanalisi, senza preoccuparsi per l'«in più» che vede
pesare sui grovigli della parola inconscia. È la reazione di una vita ancora priva di
strutture linguistiche a un immenso fuori che la sovrasta, onda che già si riversa. Lo
schizzo non è obbedienza a un sogno, per la soddisfazione inquieta o meno di un
desiderio, è un fatto di coscienza ultima. Un essere agli albori vi percepisce e
affronta l'ignoto, come pure del resto l'impenetrabile.(61)
Per il poeta francese questo stato del segno è sintomo della «reazione di una vita a un immenso
fuori che la sovrasta». Mi preme sottolineare la vitalità sottesa al termine Ŗreazioneŗ, all'espressione
Ŗaffrontare l'ignotoŗ, allo stesso termine Ŗschizzoŗ. La definizione che Bonnefoy dà davvero ben si
adegua ai componimenti che sono raccolti in Pitture nere, sebbene manchi in essa - ed è per noi
aspetto fondamentale di questo libro - la problematica equivalenza fra sintomo e singolarità che
abbiamo cercato di recuperare attraverso la nozione di ex-voto. Eppure le parole che abbiamo
riportato sembrano spingerci ad una definizione del senso complessivo delle Pitture nere, la quale
tenga presente anche la nostra premessa pavesiana. Il risultato dello Ŗsfondamento del mitoŗ, infatti,
era un effetto tonico: soltanto quanto resta «dopo questo sforzo», infatti, «potrà valere come fonte
di vita»(62).
Un museo che si compone di questi schizzi, di questi ex-voto, allora, non indica soltanto la
condizione di totale afasia a cui il linguaggio simbolico (e con esso, tutta la cultura occidentale)
sembra condannarci nel mondo contemporaneo; ma ci invita a partecipare al tentativo eroico - alla
Bruno - di resistere alla crisi del simbolo tarando lo strumento linguistico ancora più sottilmente di
quanto siamo soliti fare. Se Benedetti ci spinge a visitare il museo dei propri miti decostruiti, ciò
accade affinché possiamo ricordare che la parola (e la cultura tutta, che su di essa si fonda) si basa
su di un fondamento tragico a cui si deve resistere rimanendo alla sua altezza e mai cedendo alla
facile ingenuità dei miti consolatori. Pena: un ritorno al neo-classicismo retorico, recessivo,
dimentico che la parola è segno inequivocabile della sparizione di una nuda voce che fu viva di vera
vita e che rimane memorabile fin tanto che si pronunci una parola capace di indicarne l'origine.
Oggi che la cultura occidentale ci fornisce così facilmente strumenti di narcosi e di oblio, di
dilapidazione della memoria e della soggettività; oggi che quella società ci appare così stremata nel
fallimento del suo progetto consumistico e di benessere; oggi che la letteratura così spesso si
abbandona alla nevrosi di una esperienza impoverita e non sa che ripetere che «al vissuto, al centro
esatto del vissuto, manca qualcosa di decisivo»(63); ci pare che la parola così negativa di Benedetti
si ponga, in realtà, come strumento positivo, come farmaco che ci riporti all'ascolto di quelle
dimensioni di senso ancora da venire.
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Le ultime tre poesie del libro Le pitture nere sembrano presagire proprio questo. Attraverso la
lingua morta che è messa continuamente in mostra nel museo, è possibile giungere addirittura a
rievocare l'affetto dentro la carezza della madre, utilizzando la prima persona singolare, il pronome
Ŗioŗ, il più impronunciabile dentro il regime della lacerazione: «carezzevole buio, sì, sono io.»(64).
Se quell'ŗioŗ è la madre, l'affetto che di lei può rivivere a patto che si situi nel buio di ogni cosa,
allora questa lingua morta, lacerata e che porta segno del proprio trauma, può collaborare a
quell'«unicità del miracolo» a cui Pavese riconduceva, in ultimo, l'operazione della poesia(65).
L'esclamazione finale del libro, l'«Oh» che lo termina, è la perfetta mimesi della totalità che accade.
Quella parola non è propriamente una parola; è una physical dimension(66), l'ultima estrema
perfomance concessa dal linguaggio umano. In essa non si dice nulla Ŕ lo ripetiamo Ŕ, ma si agisce
lo stupore originario di chi è messo al mondo, ogni volta, per la prima volta. Se è vero che «l'ultimo
verso di una poesia non è un verso»(67), allora questo ultimo di Pitture nere su carta è la porta che
ci conduce fuori dalle sale del museo, all'aria aperta. Nel momento in cui lo pronunciamo, infatti,
siamo fuori dal libro e fuori da ogni libro; siamo nella vita.
Tommaso Di Dio
Note.
(1) M. Benedetti, Pitture nere su carta, Mondadori, Milano, 2008. (1)
(2) W. Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità
tecnica, Enaudi, 1966, p. 83: «Far agire l'esperienza della storia, che per ogni presente è un'esperienza originaria Ŕ è
questo il compito del materialista storico. Essa si rivolge a una coscienza del presente che fa deflagrare l'esperienza
della storia». Ma si veda anche il VI paragrafo delle Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Enaudi, 1962, p. 77,
in cui Benjamin sostiene che «articolare il passato» significa «impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'attimo
del pericolo».
(3) Si veda Mazzoni, Sulla poesia moderna, il Mulino, Bologna, 2005; soprattutto il fondamentale capitolo conclusivo
pp. 211-248. Per il riferimento a Fortini si veda Al di là del mandato sociale, in Verifica dei poteri, Enaudi, Torino,
1965.
(4) Si veda Mazzoni, dialettica dell'espressivismo, in cit., p. 214-220.
(5) Secondo le parole di Bachtin: «Ogni testo veramente creativo è sempre, in una certa misura, la rivelazione, libera e
non predeterminata dalla necessità empirica, di una persona», Il problema del testo nelle scienze umane, in L'autore e
l'eroe, Enaudi, Torino, 1988, p. 295. L'affermazione «il testo non è una cosa» (ibidem), equivale a dire che il problema
formale, testuale, non è risolvibile senza fare riferimento all'esistenza esterna di un individuo che lo sancisce proprio in
quanto testo, forma. Si veda soprattutto Arte e responsabilità, ivi, pp. 3-4.
(6) M. Benedetti, Umana Gloria, Mondadori, Milano, 2004.
(7) Quattro sono le piccole raccolte prima del libro mondadoriano: I secoli della primavera, Ripatrasone, Sestante,
1992; Una terra che non sembra vera, Campanotto, Udine, 1997; Il parco del Triglav, La Collana:, Varese, Stampa,
1999; Borgo con locanda, Circolo Culturale di Meduno, Pordenone, 2000.
(8) M. Blanchot, Lo spazio letterario, Enaudi, 1967, p.226.
(9) M. Benedetti, Umana Gloria cit., p. 115.
(10) Sulla questione complessa di come la poesia di Benedetti ridefinisca lo statuto ontologico del reale, si veda l'analisi
dell'uso predicativo della copula in Italo Testa, Visività. Per Mario Benedetti, in www.puntocritico.eu. Il critico sostiene
la capacità della parola di Benedetti di compiere Ŗla ridefinizione ontologica delle cose quale forma del loro
compimento attraverso lo sguardoŗ.
(11) F. Lyotard, Il ritorno, in Letture d'infanzia, Anabasi, Milano, 1993, p.16: «Noi non concepiamo il ritorno come
l'identità ritrovata dello stesso con lo stesso, ma come l'identificazione dello stesso con sé attraverso il Ŗsuperamentoŗ
della propria alterità. Per noi alla fine del viaggio la verità di Ulisse non è la stessa di quella che era alla partenza ».
(12) Jean-Luc Nancy scrive, a proposito del mito: «Questa parola non è un discorso che risponde alla curiosità di
un'intelligenza: è la risposta a un'attesa più che a una domanda e a un'attesa del mondo stesso», Il mito interrotto, in La
comunità inoperosa, Cronopio, Napoli, 2003, p. 105. Più avanti: «[il mito] non dice altro che se stesso ed è prodotto
nella coscienza mediante lo stesso processo che nella natura produce le forze che il mito mette in scena», ivi, p. 106.
Sulla natura a sua volta mitica della nascita del mito, si vedano ivi, pp. 95-99. Anche Cesare Pavese concorda sulla
natura paradossale del mito, fra irrazionalità e storia: «Veduto dall'interno, un mito evidentemente è una rivelazione, un
assoluto, un attimo intemporale, ma per la sua stessa natura tende a farsi storia, ad accadere fra gli uomini, a diventare
poesia o teoria, con ciò negandosi come mito», Il mito, in Saggi letterari, Enaudi, Torino, 1968, p. 319.
(13) C. Pavese, Del mito, del simbolo e d'altro, in Saggi letterari, cit., p. 275.
(14) Ivi, p. 276. Si noti la consonanza fra questa espressione di Pavese e il significato attribuito da Agamben al termine
profanare, in Elogio della profanazione, in Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005.
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(15) Ivi, p. 87. L'accenno alla diplopia ci pare fondamentale sottolineatura dell'incapacità ad affrontare la doppia visione
diabolica di chi vede contemporaneamente il proprio mito e il suo sfondamento.
(16) Entrambe le citazioni sono tratte dal sito: http://www.carmillaonline.com/archives/2009/01/002902.html. L'articolo
di Gezzi porta come titolo Pitture nere su carta di Mario Benedetti; l'articolo di Calandrone è apparso con il titolo
ŖQuello che mi pronuncia è il nome di tutti”: su Pitture nere su carta di Mario Benedetti; pubblicato precedentemente
con lo stesso titolo in «Poesia», Crocetti, Milano, 2008.
(17) Si veda Italo Testa, cit.
(18) Le due citazioni, l'una di C. Baudelaire, l'altra di J. L. Schefer, sono: «Goya […] l'amour de l'insaissisable»; «Goya
[…] l'absurde possible».
(19) Jean Starobinski, 1789-I sogni e gli incubi della ragione, Milano, Garzanti, 1981, p. 113.
(20) Si notino le consonanze con quanto abbiamo riportato di Benjamin nella nota 2, vedi supra.
(21) Gezzi scrive, a ragione: «Benedetti usa le parole Ŕ e le cose che esse significano Ŕ come gli espressionisti usarono
il colore: accostandole in modo libero, intenso, energico, talvolta persino violento ed ellittico, senza preoccuparsi di
aggiungere ornamenti retorici o di organizzarle in una sintassi addomesticata», in Pitture nere su carta di Mario
Benedetti, cit. Sebbene sull'uso del termine Ŗespressionismoŗ per quanto riguarda questa raccolta nutro delle riserve.
Esso infatti può apparire fuorviante, in quanto presuppone un movimento che procede dall'interno di una soggettività
verso l'esterno: vedremo in seguito che questa impostazione è totalmente contraddetta dal piano generale dell'opera.
Rimane valido l'uso del termine solo se esso viene circoscritto in una accezione squisitamente retorico-linguistica.
(22) Si veda il libro Ŕ fondamentale per comprendere l'opera di Benedetti Ŕ Yves Bonnefoy, Goya, le pitture nere,
Donzelli, Roma, 2006. Nello specifico, per i riferimenti alla malattia di Goya, le pp. 29-43 a cui noi dovremo fare più
volte riferimento.
(23) La sequenza fu pubblicata nel 1799, a Madrid, ma nacque da una serie di schizzi preparatori iniziati nel 1796,
mentre il pittore soggiornava presso la duchessa d'Alba.
(24) È l'epigrafe di J.L. Schefer già ricordata, vedi supra nota 16.
(25) Pubblicati dal pittore fra il 1810 e il 1815.
(26) Mario Benedetti, Maggio 2009, in Materiali di un'identità, Transeuropa, Massa, 2010, p. 60: «[la poesia limitare di
-Pitture nere su carta] L'ho scelta perché ho iniziato a scrivere dopo Umana gloria, che è fatto di storie ed è totalmente
diverso. Poi, finito il libro, mi sono accorto che era compatto, omogeneo. Ma quella poesia permette un raccordo con
Umana gloria. È come se non facesse parte del libro in sé, ma lo preannuncia»; il brano è tratto dall'intervista di
Claudia Crocco.
(27) In particolare: I\II sez., 11 testi; III\IV sez., 10 testi; V\VI\VII\VIII, 9 testi.
(28) I titoli sono: I sez. Colori; II sez. Lacrime; V sez. Reliquari, Sacrifici; VI sez., Sfarzo, Smalto, Supernove. Fa
eccezione il componimento settimo della sezione VI, il quale non riporta alcun titolo ma solo il proprio numero:
vedremo poi perché.
(29) Mario Benedetti, Pitture nere..., cit., p. 7, v. 1: «Torna morta la carne che si indora, la muta del sangue nero».
(30) Ivi, pp. 82, 83.
(31) La transizione è segnalata anche dal fatto che, come abbiamo già accennato, eccezionalmente il componimento
precedente alle Supernove non ha titolo. Vedi nota 27, supra.
(32) Il verso chiude identicamente le due Supernove; è mutato da Dante, Paradiso, XXXIII, v. 54: «dell'alta luce che da
sé è vera».
(33) Mario Benedetti, Maggio 2009, cit., p. 56.
(34) A tale proposito, si veda l'ultimo testo di Umana Gloria, cit., p. 118. Se da una parte Pitture nere su carta si apre
con un richiamo a Umana Gloria, l'ultimo testo di questa raccolta chiude, forse, anticipando il futuro libro. Il testo porta
il titolo Ŕ per noi significativo - di Area museale; in esso si tratta della «parte vivente dei morti», specularmente a
quanto avviene nel primo testo di Pitture nere dove la carne, invece, «torna morta». L'ultimo verso, poi, così recita:
«[...] Vanno i focolari di pietra,\ volante, pietra, focolare, televideo, in fievole istoria»; la fievole istoria non è forse già
preannuncio di questa opacità mediatica di cui si parla in Pitture nere su carta?
(35) Entrambe le citazioni da Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Torino, pp. 41-42. A
margine, ricordiamo che Benedetti svolse sull'autore goriziano la propria tesi di laurea nell'ateneo di Padova.
(36) Mi riferisco a Mario Benedetti, La lacerazione del vertice, in Materiali..., cit., pp. 9-41. La citazione è a p.23. Per
quanto riguarda G. Bataille, si fa riferimento segnatamente a L'expérience intérieure, Gallimard, Paris, 2006 (1943),
laddove Bataille svolge fino all'estremo l'esperienza de le déchirement du sommet a partire da premesse simili a quelle
di Michelstaedter. Tra l'altro mi trovo nell'imbarazzo di dover sottolineare che l'autore francese per descrivere la
situazione verticale del soggetto all'interno della dinamica sociale utilizza l'immagine della piramide (Bataille, cit., p.
107); 78 sono i componimenti che formano Pitture nere su carta, se escludiamo la poesia liminale, e tale numero, come
è noto fin dai pitagorici, è un Ŗnumero triangolareŗ, è cioè possibile la sua rappresentazione nella forma di un triangolo:
una piramide dunque.
(37) T.S. Eliot, Burnt Norton, V sez., v. 12, in Four Quartrets.
(38) A questo proposito, Italo Testa descrive il passaggio tra Umana gloria e Pitture nere come il passaggio Ŗdall'essere
qualcuno all'esser qualunqueŗ. Il punto è che tale diaframma viene attraversato drammaticamente in ogni
componimento della raccolta, generando quella particolare Ŗradianzaŗ che Testa sottolinea scaturire dalle cose Ŗnello
stato finale della loro traiettoriaŗ. Si veda sempre Italo Testa, cit.
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(39) Sotto questa luce si può leggere anche l'espressione molto suggestiva di Gezzi, quando scrive che qui «ogni poesia
andrebbe considerata come una sorta di poem-painting»; e più oltre specifica: «ma in un'accezione più complessa, per
cui le parole e i versi non mimano quello che intendono significare, ma lo Ŗpitturanoŗ a colpi di inchiostro, con una
tecnica che riesce a coniugare il massimo di rappresentatività con la massima economia di mezzi»; in Gezzi, Pitture
nere su carta..., cit.
(40) Si legga Agamben, Pascoli e il pensiero della voce, in Categorie italiane, Editori Laterza, Bari, 2010 (1982), p. 66.
Il filosofo si interroga sul significato del fonosimbolismo pascoliano e afferma: «Non, quindi, propriamente di
fonosimbolismo si tratta, ma di una sfera, per così dire, al di qua o al di là del suono, che non simbolizza nulla, ma
semplicemente, indica un'intenzione di significato». Si riprenderà anche in seguito questa citazione. Per quanto riguarda
i rapporti fra Pascoli e Benedetti, sarebbe necessario un libro intero; valga qui questo breve accenno, ma consapevole
che è da questa nozione di lingua morta che il lavoro dovrebbe partire. Sulla questione della crisi dell'apparato
simbolico all'interno della cultura contemporanea, il nostro discorso sulla poesia di Benedetti trova un'inedita e più
vasta risonanza nelle parole dello psicanalista Massimo Recalcati, L'uomo senza inconscio, Raffello Cortina Editore,
Milano, 2010.
(41) Mario Benedetti, Maggio 2009, cit., p. 57.
(42) Mario Benedetti, Pitture nere..., cit., p. 105, vv. 4-5.
(43) Ivi, p. 95, vv. 9-10.
(44) Ivi, p. 21, v. 10.
(45) Ivi, p. 44, v. 3.
(46) È sempre Gezzi che ha notato la costante descrizione per viam negationis. Si veda Gezzi, Pitture nere..., cit.
(47) Mario Benedetti, Pitture nere..., cit., p. 7, v. 5.
(48) Ivi, p. 106, v. 7. Ma si veda anche «Acquerello opaco, acquerello opaco», Ivi, p. 93, v. 1.
(49) In particolare, la critica al sistema simbolico verbale si può leggere esplicitamente tematizzata in Mario Benedetti,
Pitture nere..., cit., p. 15, vv. 6-10: «Cominciarono sul quaderno\ con la figura copiata. Stupiti\\ segni curvi. Anatra.
Abbecedario.\ Termine. Vai, per sempre avremo,\\ dissero, nozze, tribunali, are.» Secondo l'ottica estrema di Benedetti,
l'educazione scolastica fu il primo responsabile dell'illusione di dominio che le parole portano con sé; illusione ampliata
e confermata dalle strutture sociali, richiamate attraverso la doppia citazione tratta da Foscolo e da Vico.
(50) G. Didi-Huberman, Ex-voto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, p. 25. Corsivo dell'autore.
(51) Ivi, p. 47.
(52) Ibidem
(53) Ivi, p. 75.
(54) Si veda ivi, p. 57, laddove l'autore si interroga sulle implicazioni di una somiglianza che vede identicamente
assolto il suo ruolo sia da un volto, sia da un dettaglio organico, solo in quanto l'identificazione avviene attraverso
l'equivalenza del male.
(55) Ivi, p. 7-8: gli ex-voto «sembrano del tutto inesistenti per lo storico dell'arte»; più avanti, il critico sostiene che le
loro caratteristiche «le tengono lontane da ogni Ŗgrandeŗ storia dello stile»; esse «sono in grado di resistere a ogni
evoluzione possibile».
(56) Non è un caso che Claudia Crocco, durante un'intervista con Benedetti, sottolineasse la particolare mancanza del
tempo in Pitture nere, laddove in Umana gloria «si riesce a leggere ancora una dimensione diacronica»; continua
l'intervistatrice: «la dimensione temporale sembra del tutto assente, nonostante l'articolazione in capitoli dia una forma
di architettura e di ordine consequenziale. Il tempo sembra sottratto alla poesia, e alle sue parole»; Mario Benedetti,
Maggio 2009, in Materiali..., cit., p. 57.
(57) Adorno, Valery e Proust il museo, in Prismi - Saggi sulla critica della cultura, Enaudi, Torino, 1982.
(58) Ibidem. Si noti la vicinanza con quando sostenne Pavese, vedi supra, nota 11.
(59) Per un elenco di alcune si veda Massimo Gezzi, Pitture nere, cit. e Italo Testa, Visività, cit.
(60) Si riprende qui una suggestione del poeta Paul Celan, alla cui ricerca è profondamente legata la poesia di Benedetti,
sebbene ci si debba qui limitare a questo accenno: «è come un porsi fuori dell'umano, un trasferirsi, uscendo da se
stessi, in un dominio che converge sull'umano ed è arcano Ŕ il medesimo in cui sembrano essere di casa la figura
scimmiesca, gli automi e con questo... ah, anche l'Arte» da Paul Celan, Il meridiano, in La verità della poesia, Enaudi,
Torino, 2008, p. 9.
(61) Yves Bonnefoy, cit., p. 37.
(62) Pavese, Del mito..., cit., p. 275.
(63) Ci riferiamo al saggio, ottimo per comprendere lo stato della narrativa contemporanea, di Daniele Giglioli, Senza
trauma, Quodlibet, Macerata, 2011.
(64) Mario Benedetti, Pitture nere..., cit., p. 106, v. 8.
(65) Pavese, Del mito..., cit., p. 276.
(66) Tale è l'epigrafe posta prima dell'ultima poesia, ma al plurale: physical dimensions.
(67) Agamben, La fine del poema, in cit., p. 141.
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«Ti tu levéa „l cortel fa „n spersòrio». Espressionismo e dialetto nei poemata di Luciano
Cecchinel
Luciano Cecchinel è poeta plurilingue: scrive nella parlata di Revine-Lago (alto trevigiano, al
confine con il bellunese), in italiano (un italiano di ascendenza illustre, con frequenti tratti
primonovecenteschi) e in inglese (i numerosi passaggi di Lungo la traccia(1) e, nella medesima
raccolta, il componimento Ohio Blues).
Lřesordio è però in vernacolo, fin dal titolo: Al tràgol jért(2); e il dialetto resta a oggi lo
strumento espressivo per eccellenza del poeta revinese: gli consente infatti di attingere non tanto il
lato aurorale e idillico del proprio immaginario, quanto semmai la rappresentazione più fedele e
dolorosa della sua vicenda personale e di quella della sua comunità. Da Al tràgol jért:
E cusita no i se mesteghéa, nò,
parlar đe na òlta, i to senċ
[…]
E rabioso fa na saca torđesta
che la ghe scanpa a man che đàđia
reòltete su i đènt
đe chi che te ciol senža olérte. (3)
Cecchinel sfrutta al meglio le potenzialità fonico-ritmiche della parlata di Revine-Lago,
affidandosi alla capacità generativa di quei suoni: insiste sistematicamente sui nessi velare-vibrante
e sulle dentali occlusive e fricative. Inoltre, i frequenti monosillabi in fitta successione e le tronche
in consonante, speculari alla natura scheggiosa dei suoi materiali, rendono bene lřangosciosa
difficoltà dellřesistere e del dirsi:
Lřultima macia đe luna fa lat fresc spanđest
A stròž đe lonc
valòi e crèp
par bosc e prà
co quei Řndati qua su
Te „n coat scur đe fien e đe stran
Cađene đe os la torž la not(4)
Su đa i so nif de crep
sioraž fa poje e i so sansèr fa còrž
co gòs de gorghisia e bèc de jaž
anca noi in ultima scòrža e scaja
co òci đa fret e đa scur
on raspà su a stròž đe scondon
roba restađa(5)
Interviene anche lřimpiego di un enjambement il più delle volte debole che, isolando a inizio
verso relative attributive, complementi di specificazione, predicativi e simili, provoca uno
sfasamento minimo di melos e logos, bastevole però a una pronuncia davvero alloglotta del mondo.
Il poeta ne ottiene un ritmo continuamente franto (vi concorrono anche lřanastrofe e lřiperbato),
che valorizza al meglio la tessitura irta e zigrinata del suo dialetto:
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Anca đoman la not
la intajarà su par đe là
al so đugàtol đe jaž…
E mael al pež al revèsa
i braž scanađi đal scur
e Řl bulighéa in tra le batuđe
stòrte inbriaghe
Řl fogo Řnđat lřà asà croste
đe ženđre e đe fret. (6)
Quanto finora indicato testimonia del tentativo di ridurre in una nassa di versi e forme più o
meno regolari le reminiscenze improvvise Ŕ vere e proprie accensioni mnestiche Ŕ che visitano il
poeta di continuo:
Ti tu levéa Řl cortel fa Řn spersòrio
come par salvar al to žércol
de storia sbrindolađa che Řndéa.
[…]
Đès al to žércol no Řl fa pi paura.
Lřè řndat romài in sbrìndole de memoria. (7)
Queste «sbrìndole de memoria» non si dispongono secondo un prima e un dopo, ma attuano
forme di caotica compresenza. Di qui il recupero, nella produzione in dialetto soprattutto, della
forma poemetto, che avrebbe proprio il fine di dare ordine e significato a una pluralità di
frammenti. Il poeta perviene così a una struttura accumulativa composta di una congerie di lirici
precipitati e logoi-schegge, di quanto insomma transita sotto la soglia della coscienza. La figura
dominante nei poemetti di Cecchinel è pertanto lřenumeratio, e il modello per una precisione
elencatoria che vuole sottrarsi alla pura descrizione potrebbe essere il Walt Whitman di Leaves of
grass(8):
La caṡèra su sote Řl crùcol, la porta đe lenċ
vèrta, la strisa đe sol tel scur fresc,
garnèi e garnèi levađi che arž,
i restèi pođađi su la batuđa, la manèra
piantađa sul žoc, le scaje e i s-ciauž su la
manđra, al làip sut đe piera đolža,
i falđin picađi a la rama đel pež, al
furigar đel vènt in tra mež, lřaqua
che la sguataréa tel cođèr(9)
La sintassi delle immagini e la rapinosa quanto arbitraria simultaneità associativa dispongono il
tutto a un riferimento pittorico; un quadro della realtà distorto in una forma oscuramente
aggressiva (gli esempi ne renderanno conto) anche verso lřosservatore:
i pra roṡa e bròṡa sote Řl žiel de
žera, sora i bosc ženđre đe
castagnèr,
lřaqua želèste, blu, viola in contra le
larghe đe oro đe le canèle col primo
ciaro e đel paluc sèc e la biava
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fiévere đe color
đa le invierađe đe bosc screcolosi(10)
Colorazioni fredde e cupe a un tempo, un sole lattescente che va indebolendosi, la
prefigurazione costante e ubiqua della morte autorizzano almeno un rimando alla corrente
poetico-pittorica dellřespressionismo primo-novecentesco, italiano e non: da Rebora e vociani a
Trakl e Benn, da Blok ed Esenin a Mandelřstàm e Jòzsef. Due esempi:
Al me can ghe par fursi đa strani
che rèste Řnđé che no lřé gnessuni
in tra Řl bosc mort e Řl lac injažà
la sera pi biṡa đe i ultimi ani(11)
Cecchinel è inscrivibile nellřalveo della poesia espressionistica anche per il ricorso a taluni
procedimenti che posseggono da oltre un secolo una grammatica propria: lřassolutizzazione del
sostantivo (privato dellřarticolo per accrescerne al massimo le potenzialità semantiche), le
similitudini senza il «come» (cui nel dialetto di Revine corrispondono «fa» e «cofà»), le analogie
violente, lřellissi dei verbi copulativi et cetera. Alcuni esempi:
la montagna mare biṡa insonađa,
al sol schirat roṡat ingelà
[…]
la manèra stela đe arđènt
i os tirađi sache torđeste
le vene venċ. (12)
Le medesime soluzioni sono presenti nella produzione in lingua:
ordinata catastrofe mi inghiottono
cataste di ferraglie rugginose
la città ferrovetrosa,
ortogonale ragno rattrappito,
arranca contro la pianura(13)
serpe folgorata,
sbiadisce la saetta
alti anditi fumosi
attaccaticci odori
sudano foschie(14)
Quella di Cecchinel è dunque una scrittura che procede per giustapposizioni e aggregazioni di
sensazioni e immagini. I «sénċ sparpagnadi» liberati sbloccando «al cađenaž đur / đel stàul
stracolmo e orbo» («il catenaccio duro dello stabbio stracolmo e cieco») non riescono però a
comporsi in unità, e gli utensili ormai inservibili divengono il traslato oggettivo dellřalienazione
del poeta: restèi, manèra, faldin, «la carucola ondesta, al portante che řl pica in calibro sul žei lònc
de la jerta» («la carrucola lubrificata, il portante che pende in equilibrio sul ciglio lungo dellřerta»).
La realtà è ingigantita con unřottica macro che, insistendo per metonimia sui particolari, ottiene
effetti deformanti di chiara matrice espressionistica.
Lřiperrealismo allucinatorio che investe le cose, e che la parola dialettale provvede a
incrementare, si estremizza quando il poeta batte in ritirata e si rinserra in un angulus inaccessibile
di «murate jerte e inferiađe» («mura ripide e inferriate»), in cui realizzare «al đes-ciorse ultimo»
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(«lřestraniamento ultimo»). Egli biascica «senċ che gnesuni pi romai intenz» («segni che nessuno
più ormai intende»), investendo la parola del significato scritturale di signum.
Ma il suo annunzio, per nulla lieto, si riduce a una cadenza martellante:
mi, caròl carolì de canàgola,
fae mamì de mi panevìn. (15)
Lřinsistenza allitterante-onomatopeica sulle sillabe -ca- -ro- -ma- -mi- (vi è sotteso forse il
petrarchesco «di me medesmo meco mi vergogno») simula un balbettio che mima il moto di
ripiegamento dellřio su se stesso, esibendo la prostrazione del poeta. Non per nulla Cecchinel si
definisce «scođraž žòt žabot(16) » Řultimo nato, zoppo e balbuzienteř. Una balbuzie tuttavia mai
doma, nei sussulti analogici e nelle paratattiche asprezze. Essa altro non è se non lřostinato
richiamo a un ordine del mondo millenario e a unřidea della persona superati e sommersi come
dallřonda di un maremoto:
par che la caṡera svođađa
la è cativa
fa la malađižion
đe na mare đrio Řnđar. (17)
Forme attonite sřaccampano di getto e impongono il loro silenzio.
Sul soggetto incombe la medesima condanna alla rovina che incalza il suo mondo.
Fissando gli occhi su quanto rimane di quella cosmogonia, il poeta-stregone («stròlego stranbo e
romit» si definisce Cecchinel) è il predestinato a nominare e a evocare definitivamente gli arredi
del proprio universo.
In questa situazione di allarme e delirio, la poesia resta forse l'unica dimensione possibile di
resistenza e sopravvivenza: «La mia poesia è dimessa, non mai dimissionaria. Una rivendicazione
etica, aperta all'invettiva Ŕ anche laddove questa è solo latente Ŕ, è sempre presente o
rintracciabile»(18).
Sřincide così nella pagina, con inedito strazio, lřimmagine del presente che ci è toccato in sorte:
oggi capire vale Řcolpař, esser buoni Řperdizioneř. E contro una «quiete che fa finire», meglio
allora «anche poter morire»(19).
Giovanni Turra
Note.
(1) L. CECCHINEL, Lungo la traccia, Torino, Einaudi 2005.
(2) ID, Al tràgol jért (L‟erta strada da strascino). Poesie venete 1972-1992, edizione riveduta e ampliata, Postfazione di
A. Zanzotto, Milano, Scheiwiller 1999. Esso resta, a oggi, lřunico suo libro edito interamente redatto in dialetto. Di
Sanjut de stran, lřaltro lavoro in vernacolo e non ancora pubblicato in un volume autonomo, sono invece uscite due
significative anticipazioni: Sanjut de stran. Singhiozzo di strame, in Cinque poeti in dialetto veneto. Andrea Zanzotto,
Cesare Ruffato, Luciano Caniato, Luciano Cecchinel, Gian Mario Villalta, «In forma di parole», XVIII, la quarta serie,
3, 1998, pp. 143-175; e Sanjut de stran (1989-1998), in Poeti in terra veneta. Cesare Ruffato, Luciano Caniato, Carlo
Rao, Luciano Cecchinel, Marco Munaro, Giovanni Turra, Alessandro Niero, «In forma di parole», XXVIII, la quarta
serie, 1, 2008, pp. 168-225.
(3) «E così non si addomesticano, no, / parlare di una volta, i tuoi segni / […] / E rabbioso come un virgulto ritorto / che
sfugga a mani che stentano / rivòltati sui denti / di chi ti prende senza veramente volerti». L. CECCHINEL, Al tràgol jért,
cit., p. 88.
(4) «Lřultima macchia di luna come latte fresco versato»; «Vagando lungo / valloni e dirupi / / per boschi e prati / con
quelli morti qui su»; «in un giaciglio scuro di fieno e di strame»; «Catene di ossa torce la notte». Ivi, pp. 15, 57, 82, 89;
il corsivo è mio.
(5) «Su dai loro nidi di rupe / signoracci come poiane e i loro sensali come corvi»; «con gozzi di ingordigia e becchi di
ghiaccio»; «anche noi infine scorza e scheggia / con occhi da freddo e da buio» «abbiamo raccattato vagabondando di
nascosto / roba rimasta». ID, Perché ancora, Vittorio Veneto, Istituto per la Storia della Resistenza e della Società
Contemporanea del Vittoriose (ISREV), 2005, p. 103; il corsivo è mio.
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(6) «Anche domani la notte / intaglierà su per di là / il suo giocattolo di ghiaccio»; «e solitario il pino rovescia / le
braccia spossate dallřoscurità»; «e si agita tra i battenti / storti ubriachi»; «il fuoco trascorso ha lasciato croste / di
cenere e di freddo». ID, Al tràgol jért, cit., pp. 42, 53, 78, 141.
(7) «E tu levavi il tuo coltello come un aspersorio / quasi per salvare il tuo cerchio / di storia a brandelli che andava. / /
[…] / / Adesso il tuo cerchio non fa più paura. / È andato ormai in brandelli di memoria». Ivi, p. 72.
(8) Circa lřassoluta rilevanza attribuita da Cecchinel al poeta americano, si considerino almeno Addio strada percorsa,
Suite appalachiana, A Walt Whitman e relative note, in ID, Lungo la traccia, cit., pp. 32, 35, 52.
(9) «La casera su sotto il cocuzzolo, la porta di legno aperta, la scia di sole nellřombra fresca, granelli e granelli levati
che ardono, / i rastrelli appoggiati sullo stipite, la scure piantata sul ceppo, le schegge e i fuscelli sullo spiazzo, il
truogolo asciutto di pietra dolce, / le falci appese al ramo dellřabete, il frugare del vento in mezzo, lřacqua che
sciaguatta nel bossolo per la cote». ID, Al tràgol jért, cit., p. 21.
(10) «I prati rosa e brina sotto il cielo di cera, sopra i boschi di cenere e castagni / lřacqua celeste, azzurra, viola contro
le distese dřoro delle cannelle alla prima luce e dellřerba di palude secca e del granoturco»; «febbri di colori / dalle
vetrate di boschi scricchiolanti». Ivi, pp. 15, 37.
(11) «Al mio cane sembra forse strano / che resti dove non cřè nessuno / tra il bosco morto e il lago ghiacciato / la sera
più grigia degli ultimi anni». Ivi, p. 27.
(12) «La montagna madre grigia assonnata, / il sole scoiattolo rossiccio gelato tra i rami senza una foglia, / […] / la
scure stella dřargento che cade sopra la radice»; «le ossa ridotte virgulti torti / le vene vimini». Ivi, pp. 15-17, 67.
(13) Ivi, p. 31.
(14) ID, Le voci di Bardiaga, Rovigo, Il Ponte del Sale 2008, p. 37.
(15) «Io, tarlo tarlato di collare / faccio da me stesso di me un grande fuoco». ID, Al tràgol jért, cit., p. 153.
(16) Ivi, p. 54.
(17) «Perché la casera svuotata / è cattiva / come la maledizione / di una madre morente». Ivi, p. 125.
(18) Da unřintervista inedita a L. Cecchinel, raccolta da chi scrive il 25 marzo 1998, in occasione del quarto
appuntamento della manifestazione culturale «LEGGERLE. Cantieri poetici del Triveneto», tenutasi presso la libreria
«Becco giallo» di Oderzo (TV).
(19) Cfr. ID, I tempi che son dati, in Perché ancora, cit., p. 71.
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Su Viaggio nella presenza del tempo di Giancarlo Majorino
In apertura
Occorreranno anni per metabolizzare sul piano critico un poema così complesso e stratificato. Ciò
che mi sento di dire oggi è che sin dallřinizio si possono suggerire delle chiavi di indagine, delle
tracce, delle coordinate che, come strumenti di navigazione, possono orientare e indicare dove e
cosa cercare, piuttosto che riferire ritrovamenti o illustrare zone particolari della vasta aerea che qui
si può solo fisicamente sorvolare. Con queste mie parole riprendo una strada cominciata venti anni
fa, una strada che in modi diversi molti di noi qui hanno fatto, conoscendo Giancarlo da meno o più
tempo: quella del dialogo e del comprendere, del tentare di accogliere lo specifico pur sentendo
come in un moto di simpatia umana ciò che accomuna. Lo sfondo insomma è il simil- diverso, o il
simil-dissimile, la relazione che non si crea ma si riconosce giacché è data sin dallřinizio, presso gli
umani. E con questřultima considerazione si è già dentro al poema e ci si è già imbattuti in uno dei
suoi temi preferiti.
Ne esco subito per elencare ciò che chiamo Řcampi di tensioneř e che sono secondo me alcuni
segnali luminosi utili per la navigazione e per la lettura. Un campo di tensione è tale perché
scaturito da opposte polarità o da poco riducibili differenze, si fa luogo di elaborazione e di
produzione del senso. Sono convinto che a generare la poesia di Majorino siano proprio questi
campi che nel tempo non hanno mai perso la loro Řtensioneř e che appartengono tanto a lui, alla sua
biografia, forse anche alla sua personalità umana, quanto al modo con cui la nostra storia dal
Dopoguerra si è raccontata, anche qui un singolare intreccio tra un modo di rappresentarsi e un
fascio di rappresentazioni collettive, in cui poi in definitiva consiste la cultura di unřepoca, la stessa
produzione simbolica. E questo intreccio di storie non è subìto ma costantemente cercato, direi
programmaticamente cercato, rientrando tale ricerca in quella che una volta si chiamava dimensione
etica della poesia e si voleva dire questa storica, attiva eticità. E credo di poter riconoscere questo
carattere perché proprio nel momento in cui stava per dissolversi alla metà degli anni ř80, almeno in
una sua certa forma, personalmente chi scrive ne veniva a contatto, pieno di curiosità e pronto ad
assumersene la responsabilità.
Dunque i campi di tensione da me individuati, non esaurendone con questo ovviamente il numero
né il tipo, sono relativi sia al piano stilistico-formale, sia a quello dei temi, realizzandosi molto
spesso tra gli uni e gli altri radicate simmetrie.
Splendore e oggettività della lingua
Il primo campo, per me il più evidente, è quello che viene instaurato ponendo insieme due istanze
per loro natura contraddittorie ma che risultano molto produttive una volta poste a contatto: mi
riferisco alla tensione verso Řlo splendore della linguař e la tensione verso Řlřoggettività della
linguař.
Da un lato la lingua viene lavorata e Řslogatař perché , per così dire, fiorisca nella sua autonomia,
perché possa segnalare la libertà sensuosa e gioiosa del dire intorno, su, prima, dopo lřoggetto
significato, dallřaltro la lingua viene disciplinata e ritrovata così comřè, così come risulta dal
processo collettivo dei parlanti, e quindi spesso lingua pre-codificata, o dal gergo o dalla filosofia (e
questřultimo per la verità è già un altro campo di tensione che con il precedente sřinterseca).
E di fatto la mia analisi in campi di discorsi per comodità espositiva procede in senso orizzontale
ma la realtà testuale prevede un intreccio verticale tra i campi di tensione che necessariamente una
descrizione, ancorchè sommaria come questa, non può restituire.
Energia e immobilità della lingua.
Il secondo campo di discorso, attiguo al primo, è costituito dalla tensione che si genera tra lřenergia
della lingua e la sua immobilità, per intenderci: tra il piano pre-verbale che di tanto in tanto muove
il sorgere e il concatenarsi dei versi e quello della citazione, del lacerto, più o meno adattato, più o
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meno addomesticato. Tra pre-verbale e gestuale da un lato e campionatura antologica dallřaltro, tra
energia e massa verbale.
Realismo e sperimentazione.
Un terzo campo di tensione, connesso profondamente ai primi due, riguarda i grandi progetti
estetici. Da unřistanza di partenza che è quella del realismo alla dissociazione tra questa istanza e la
poetica corrispondente. Dal momento che Majorino come Pagliarani e Di Ruscio, per citare nomi a
me familiari, hanno in un certo senso dovuto rispondere, in modi diversi, a quellřimpasse che si era
creato alla metà degli anni ř50 tra coloro che insistevano per il primato contenutistico-ideologico e
coloro che sentivano come retorico in quegli anni questo primato. E tra i migliori di quella
generazione cřè sempre stato del Řnervosismoř testuale, cioè la consapevolezza che lo specifico
dellřarte risiedesse nellřinvenzione di modi non previsti di ri-attraversamento di temi comuni, di
storie concrete, di tangibili umanità. Ed è in questa chiave , secondo me, che va letta la componente
sperimentale di Majorino: lřadozione del montaggio a freddo o a caldo, lřuso di pre-fissi e
calembours, lo spaziare tra i diversi registri del colloquiale, fino alla singola deformazione
microlinguistica. Dico componente perché lo sperimentale è solo un polo del campo, lřaltro è la
riconoscibilità, lřopposta pulsione dellřidiolettale, la pedagogia.
Accumulo ed ellissi
Un quarto campo di tensione è a livello propriamente retorico. Si tratta di una strategia che permette
di tenere insieme materialmente, cioè a livello testuale, sia lřistanza realistica che quella
sperimentale, realizzando lřossimoro della Řbellezza slogatař: lřaccumulo e lřellissi. Accumulo ed
ellissi sono due figure che rendono il dire contemporaneamente sovraffollato e reticente. Accumulo
e reticenza. O, anche, ripetizione e reticenza. La funzione mimetica dellřaccumulo viene utilizzata
soprattutto per far muovere le masse allřinterno di storie metropolitane, ma è la metropoli stessa che
sembra generare per sua natura lřaccumulo dei nomi e delle situazioni. La funzione mimetica della
reticenza addita al contrario ciò che non viene detto, che viene taciuto e che sottende spesso il
movimento di quelle masse, lo snodarsi di quelle storie metropolitane. Per le nuove generazioni
credo risulti quasi incomprensibile il fatto che le generazioni precedenti abbiano sentito nel proprio
dna una spinta utopica, che questo dna sembrava essere confermata dalla storia e dalle illusioni
collettive.
Hegel, Marx, Scuola di Francoforte ma anche Merlau-Ponty e Sartre
Un quinto campo di tensione è offerto direttamente dalla storia della filosofia e dalle questioni che
nascevano dal dover correggere il marxismo, o almeno la sua versione economicista, con iniezioni
di esistenzialismo, fenomenologia e psicoanalisi. Questo campo di tensioni codificava a livello
formalizzato e concettuale ciò che si andava vivendo. Era in gioco la rappresentazione del collettivo
alle prese con la rappresentazione dellřindividuale. Questa tensione sarebbe poi stata spazzata via
dal postmoderno fino a costringerci oggi a parlare di anomia sociale o, anche, a non parlarne più.
Ma intanto, al di là del particolare periodo storico, la poesia , come sempre, si rivolgeva al versante
di lungo periodo, giungendo a non solo a testimoniare di unřesperienza storica ma anche ad indicare
una direzione di felicità. E in tal senso riproponendo come inevitabile la relazione tra i due piani di
rappresentazione. Eř il tema, appunto, dei simil-dissimili e della necessità di trovare una via dřuscita
al solipsismo ma anche al conformismo sociale o ideologico.
Poesia e prosa
Un sesto campo di tensione viene instaurato tra poesia e prosa, sia nello sciogliersi per sfumature
tonali dellřuna nellřaltra, sia per giustapposizione. Dřaltra parte sia il verso che la prosa narrante
sono animate dalla stessa ansia che produce contrazione e andamento sincopato. Ciò che fa la
differenza e crea tensione è la misura versale che come tale impone una pausa e una concentrazione
dellřattenzione e dellřudito sulle singole parole, sulle singole assonanze o figure fonico-ritmiche.
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Ciò che fa la differenza non è tanto lřintensificazione del dettato quanto la possibilità di introdurre
qualcosa che possa funzionare come lirica o come intervallo riflessivo e meditante.
La formula e il prolisso
Settimo e ultimo campo di tensione mi pare che sia stabilito tra la tendenza a precipitare in formula,
sigla, epiteto e lřopposta tendenza ad una sorta di prolissità caotica e divergente.
Da un lato vi è come il desiderio di coniare un formulario che possa ridurre la molteplicità ad un
solo termine, spesso composto ma comunque coniato di fresco, dallřaltro vi è la tendenza a
includere ogni oggetto e quindi ogni termine che lřimmaginazione onirica propone, stipandolo così
come affiora sulla soglia della coscienza. Questo campo di discorso evidentemente si connette a
quello dellřaccumulo e dellřellissi, restituendo sul piano macroscopico ciò che avviene sul piano
microscopico della figurazione retorica.
All‟altezza degli anni „80
Più che concludere vorrei qui indicare alcuni tratti in qualche modo extratestuali ma che ritengo
importanti. Intanto un debito di gratitudine che ho contratto a partire dalla metà degli anni ř80 con
Majorino. Ed è un debito che credo di condividere con molti, soprattutto tra coloro che vivendo a
Milano hanno avuto modo di frequentarlo, magari in anni diversi, ma con la stessa intensità di
scambio. Da sempre si sapeva dellřesistenza di questo poema in progress.
Per quanto mi riguarda, lřapporto che riconosco proveniente dai suoi discorsi e dalla sua opera è
sostanzialmente il richiamo alla dimensione realistica, oggettiva, metropolitana ed etica della
lingua.
Per me, non ancora trentenne, il dialogo con Majorino ha rappresentato lřaccesso vivo ai nodi
essenziali della poesia e della cultura così come si erano andati configurando a partire dagli anni ř50
in Italia, nellřintreccio tra estetica, teoria critica e sociologia. Per me da poco trasferito a Milano,
proveniente da una Napoli che nel corso degli anni ř70 aveva proseguito il lavoro della
sperimentazione linguistica, lřincontro con Majorino, come con Pagliarani e dopo con Di Ruscio, ha
rappresentato la possibilità di coltivare, allřinterno della mia ricerca, la possibilità della narrazione
in poesia, dissociando in modo liberatorio questřistanza da certi modi della lirica e da certe
narcisistiche fumosità.
Più di una volta Giancarlo, riferendosi alle reciproche influenze tra poeti tra loro dialoganti, ha
usato lřespressione Řplasticitàř. E questa sua notazione aveva sempre nel tono della voce il segno
della meraviglia e della sorpresa. Ritengo che questa plasticità sia anche una qualità del poema e
forse il segreto felice della sua longevità.
Biagio Cepollaro
100
101
Forme macrotestuali nella poesia di Andrea Zanzotto. Da Dietro il paesaggio a
Conglomerati
La poesia e i suoi punti compatti. Resistenza Ŕ anche Ŕ
da lì. Dalle Ŗcompattezzeŗ riconoscere quanto irradia.
Paul Celan, Microliti
1. Nel volume Attraverso la «Beltà» di Andrea Zanzotto. Macrotesto, intertestualità, ragioni
genetiche1, avevo tentato di fornire preliminarmente unřindagine comparativa sui fenomeni
macrotestuali nellřopera zanzottiana, al fine di collocare il capolavoro del 1968 (La Beltà, su cui
sřincentrava principalmente lřanalisi) in un contesto complessivo 2.
Per ragioni cronologiche, era rimasta esclusa dal mio studio lřultima raccolta di Zanzotto,
Conglomerati3. Accingendomi qui a rimediare a quella lacuna, mi è parso utile riprendere al
paragrafo seguente, con qualche variazione, la parte dedicata allřanalisi di cui sopra.
2. La macrostruttura nelle raccolte zanzottiane: da Dietro il paesaggio a Sovrimpressioni
2.1 A proposito di Dietro il paesaggio (1951), raccolta dřesordio di Zanzotto, Stefano Dal Bianco
osservava:
«Per testimoniare la presa diretta sulle trasmutazioni del paesaggio, lřordinamento delle poesie
segue una rigorosa scansione stagionale, che fa aggio sulla cronologia di composizione dei testi.
La prima sezione, Atollo, è numericamente la più cospicua anche perché deve ospitare un ciclo
stagionale completo: dopo una poesia inaugurale e Ŗprogrammaticaŗ, priva di tratti stagionali
marcati (Arse il motore), troviamo un ciclo primaverile (fino a Serica), un ciclo estivo (da
Distanza a Notte di guerra, a tramontana) che sfuma nellřautunno (Quanta notte, Reliquia,
Assenzio) e infine quattro poesie invernali (da Batte il fabbro a Oro effimero e vetro). La seconda
sezione, Sponda al sole, riprende lřandamento stagionale dalla primavera trascolorando
gradualmente nellřautunno inoltrato di Lorna, che preannuncia climaticamente la terza sezione,
Dietro il Paesaggio, tutta occupata da testi autunnali, e il libro si chiude sulla data precisa del 31
dicembre (Nella valle) [...]. Fin da subito Zanzotto manifesta insomma un considerevole impegno
nellřassemblare i propri libri, tenendo in grande conto sia la forma canzoniere (con rimandi
precisi fra testi contigui), sia la sottesa narratività, a contenere lřeccesso lirico» 4.
Sempre mantenendosi ad un livello macroscopico, altri fattori di coesione si possono individuare
nella comune matrice del titolo della prima sezione, Atollo, richiamo appena dissimulato
allřhölderliniano Archipelagus, e dellřepigrafe apposta alla sezione Sponda al sole, «Ihr teuern
Ufer, die mich erzogen einst» (O care rive che un giorno mi cresceste), desunta questa volta dalla
poesia Die Heimat (Paese natale) del poeta svevo: «Come in Hölderlin le alpi sono frontiera che
delimita la terra natale della propria adolescenza e giovinezza, ma anche frontiera che si desidera
varcare»5. Non cřè bisogno di sottolineare, inoltre, come lř«atollo» e il «paese natale» rinviino
proprio al «paesaggio» cui sono intitolate la stessa raccolta e la sezione eponima.
1
Pisa, ETS, 2011.
Ibid., cap. II, 2-3, pp. 47-70.
3
Milano, Mondadori, 2009.
4
Le poesie e prose scelte, Milano Mondadori, 1999, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta (dřora in avanti
abbreviato PPS), pp. 1400-1 Sebbene non sussista in questa sede la possibilità di discutere in maniera esauriente la
questione, mi pare tuttavia che il «rigore» della «scansione stagionale» andrebbe forse lievemente attenuato. Qualche
corsivo esempio: il ciclo estivo di Atollo sembra principiare solo con la poesia eponima, mentre le quattro precedenti
(da Distanza a Le carrozze gemmate) non presentano tratti stagionali determinati. In particolare, in Montana, I, domina
lř«ebrietà / di nevi e dřacque» mentre in III si legge: «e perchè forse è primavera / la tomba tua mřha disertato». Nella
seconda poesia della sezione Dietro il paesaggio (Là sul ponte), «tutta occupata da testi autunnali», si legge nei versi
esplicitari 20-1: «e lřestate legata dalla neve / non conosce altro frutto che se stessa».
5
Fernando Bandini, Zanzotto dalla Heimat al mondo, in PPS, pp. LXI-II.
2
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Nella silloge successiva, Elegia e altri versi (1954), lo stesso Dal Bianco intravede una «ripresa
dellřandamento stagionale, a partire dal mese di marzo e insistendo sulla primavera fino allřautunno
di Contro monte, mentre Elegia è sul finire dellřanno, ma guardando allřinverno, come lřultima
poesia di Dietro il paesaggio, Nella valle»6.
La prima sezione di Vocativo (1956), Come una bucolica, è «ancora in qualche modo accostabile
tematicamente ai due libri precedenti. Le variazioni del paesaggio, stagionali e climatiche,
presiedono allřordinamento dei testi, che sono in maggioranza di ambientazione estiva, ma coprono
per intero il ciclo ideale di un anno, dallřEpifania ritornando allřinverno dei Paesaggi primi»7.
Dopo lo scenario invernale che apre il primo componimento8 (v. 1: Punge il pino i candori dei colli)
e la disperazione di Fiume all‟alba (14: Perch‟io dispero della primavera), si passa al giugno (7) di
Piccola elegia, al luglio (I, 30, 32; II, 1) di Altrui e mia ed Elegia del venerdì (I, 21); ancora estivi
sono Esperimento (I, 1-3: L‟estate ancora esalta / le recondite lave / della mia mente) e I compagni
corsi avanti (5-6: E va, l‟estate in guerra, muove al corso / dei suoi dolori le grandi erbe e i fumi),
mentre con Dove io vedo sopraggiunge lřautunno (2-4: estate che scuotesti / dal seno aperto di
settembre / spighe ed erbe su tutta la terra) che domina il paesaggio di Nuovi autunni, Quartine del
pioppo (dove lřalbero «Giallo si fa di deboli / ali» e ritorna il «lieve claxon» di Epifania, 10) e
Colloquio (1-3: Per il deluso autunno, / per gli scolorenti / boschi vado apparendo), componimento
che prelude allřatmosfera invernale di Paesaggi primi.
Pur nella permanenza di alcuni accenni stagionali, nella seconda sezione della raccolta il principio
coesivo cessa per la prima volta di gravitare attorno al tema del tempo naturale: come indica il titolo
della sezione, Prima persona, ripreso nel secondo componimento della stessa, dominante diviene la
dimensione (tematizzata) dellřio lirico, riconosciuto ormai come puro effetto linguisticogrammaticale9 al limite dellřinconsistenza.
Ad accennare una continuità fra le due sezioni che risulterebbe altrimenti molto labile, due
espedienti strutturali: la parziale ripresa del titolo della prima sezione nel dodicesimo
componimento della seconda (Bucolica10), e la presenza, in entrambe, di una poesia collocata in
quinta posizione, in cui il poeta si rivolge alla madre (rispettivamente: Altrui e mia e Da un‟altezza
nuova11). Questřultimo parallelismo è inoltre rafforzato dallřincipit del secondo componimento
(Ancora, madre, a te mi volgo), dove lřavverbio «ancora», con evidente valore logodeittico12, rinvia
al contesto allocutivo di Altrui e mia.
Alle due sezioni si aggiunge, a partire dalla seconda edizione mondadoriana del 1981,
unřAppendice di sei poesie; la penultima delle quali, Là nel cielo, là nel terrore13, è imperniata sul
6
Ibid., p. 1428.
Sempre Dal Bianco, PPS, pp. 1436-7.
8
Tutte le poesie citate qui di seguito si trovano alle pp. 133-57 del volume mondadoriano siglato PPS.
9
Di «grammaticalismo» parlò per la prima volta Michel David in La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino,
Boringhieri, 1966, p. 585.
10
PPS, p. 185.
11
Ibid., pp. 138-9 e 169-71.
12
Cfr. Maria-Elizabeth Conte, Coesione testuale: recenti ricerche italiane, in Aa.Vv., Linguistica testuale, Atti del XV
Congresso Internazionale di Studi della Società Linguistica Italiana, Genova Ŕ Santa Margherita Ligure, 8-10 maggio
1981, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 283-5: «Per la deissi testuale (logodeissi) vengono impiegati i mezzi della deissi
spaziale (topodeissi) e della deissi temporale (cronodeissi). A differenza della deissi situazionale, questi mezzi vengono
impiegati in un altro campo indicale […]: nel testo, e non nella situazione di discorso. Nella deissi testuale, i termini
deittici indicano segmenti o momenti del testo […]. Mentre con lřanafora […] ci si riferisce ad unřentità extratestuale
alla quale si è già fatto riferimento nel testo precedente, e tra antecedente e successore vřè un rapporto dřidentità, invece
con la deissi testuale (logodeissi) il riferimento è fatto a un momento o segmento del testo nel suo svolgersi […]. La
funzione della logodeissi è metatestuale: essa orienta lřascoltatore/lettore nel percorso del testo, lo istruisce a mettere in
rapporto parti testuali».
13
PPS, p. 195.
7
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vers-refrain «Dissi ieri Ŗdal cieloŗ» (1, 5, 21) in cui viene citato espressamente il titolo
dellřundicesimo componimento della seconda sezione (Dal cielo14).
Le IX Ecloghe (1962) segnano lřabbandono della traccia stagionale per un principio coesivo più
forte e derivante dal rapporto intertestuale con il genere bucolico virgiliano. Lo spazio testuale della
raccolta è circoscritto da «un proemio in alessandrini», Un libro di ecloghe, «e un epilogo, Appunti
per un‟ecloga, che è il surrogato di unřinesistente X ecloga, in minore rispetto a Virgilio».
«A esclusione di un Intermezzo di sette liriche, lřordinamento della silloge procede per coppie:
ciascuna delle ecloghe è seguita da un breve Ŗcorollarioŗ che ne specifica e ne commenta il tema.
[...] Le ecloghe vere e proprie sono, in generale, maggiormente impegnate sul fronte Ŗinnovativoŗ
della scrittura. È soprattutto qui che si affronta lřargomento dominante del libro: la sopravvivenza
e la funzione della poesia stessa. [...] La struttura del libro è progressiva: se il primo gruppo di
ecloghe, quelle che precedono lřIntermezzo, presenta soprattutto una serie di bilanci negativi, le
ecloghe successive sono animate da una maggiore fiducia nelle facoltà di resistenza della
convenzione lirica»15.
La scansione speculare delle Ecloghe, appena incrinata dal fatto che la sezione successiva
allřIntermezzo comprende due poesie in più della prima (lřEcloga IX e il relativo «componimento
satellite»), senza contare la breve lirica che segue lřepilogo (Bleu), ritorna nella Beltà, con il
raddoppiamento delle sezioni parallele tra incipit ed explicit, e la ripresa di una simmetria centrale
perfetta, questa volta, sul piano numerico, e imperniata idealmente sullřElegia in petèl.
2.2 La Beltà, infatti, si articola in un componimento proemiale, Oltranza oltraggio; una sezione
anepigrafa che raccoglie «tre grandi poemi liminari»16; una sezione intitolata Possibili prefazi o
riprese o conclusioni, comprendente 10 poesie anepigrafe e numerate progressivamente; una nuova
sezione anepigrafa di sei componimenti, tutti di ampio o ampissimo respiro a eccezione di Al
mondo, poesia di misura più breve e collocata in terza posizione; un poemetto isolato dal titolo
L‟elegia in petèl; una sezione di 18 componimenti anepigrafi e numerati progressivamente,
intitolata Profezie o memorie o giornali murali. Infine, una poesia che funge da epilogo: E la
madre-norma.
Il dato di più immediata evidenza è lřopposizione che si realizza fra il prologo e lřepilogo, i quali
incorniciano specularmente la raccolta, allřinsegna lřuno dellř«oltranza» sperimentale e della
poetica dantesca dellřineffabilità (oltraggio: cfr., come suggerisce la nota dřautore, Par. XXXIII,
57: «e cede la memoria a tanto oltraggio»), lřaltro, di una «madre-norma» la cui ascrizione al
paradigma petrarchesco si dichiara nel riferimento (vv. 17-8) alle «dolenti parole estreme» di R.V.F.
CXXVI, 13.
Oltre alla posizione strutturale e al rapporto di complementarità sussistente, sul piano semantico, fra
«oltranza» e «norma», a porre i componimenti in una condizione di reciprocità è la coordinante
macrotestuale incipitaria nel titolo del secondo (leggi idealmente: Oltranza oltraggio - E la madrenorma). Contrassegno pertanto i due componimenti, rispettivamente, con A e A1.
Palese è anche la relazione fra le sezioni Possibili prefazi o riprese o conclusioni e Profezie o
memorie o giornali murali, il cui titolo è costituito in entrambi i casi da un tricolon legato per
polisindeto dalla congiunzione Ŗoŗ, dove ai «prefazi» corrispondono parallelamente le «profezie»,
alle «riprese» le «memorie», alle «conclusoni» i «giornali murali».
14
Ibid., pp. 182-4.
S. Dal Bianco, PPS, pp. 1462-3.
16
Stefano Agosti, Zanzotto o la conquista del dire, in Il testo poetico. Teoria e pratiche d‟analisi, Milano, Rizzoli,
1972, p. 217.
15
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«Prefazi» è termine liturgico indicante la parte della messa preliminare al mistero dellřeucaristia,
ma che ritengo innanzitutto mediato da Dante, Par. XXX, 78: «Anche soggiunse: Ŗil fiume e li
topazi / chřentrano ed escono e Řl rider de lřerbe / son di lor vero umbriferi prefazi».
Profezie o memorie o giornali murali riprende invece, variandolo in polisindeto, il v. 17 del primo
componimento della sezione (Anche: profezie memorie giornali murali), la cui struttura
giustappositiva ed elencativa si estende al verso successivo, a indicare nel medesimo tempo
lřonnipervasività della scrittura e il suo poter solo lambire, circoscrivere lřineffabile «oltranza»
(monogrammi plurigrammi dovunque, sfioranti «
»; cfr. anche i vv. 15-6, con la ripresa del
lemma tematico del prologo «oltraggio»: E ogni ha in sé la sua piccola teodicea; / non mancare
allo show, né poi allo show dei piccoli oltraggi ). Nellřinterpretazione di questo titolo soccorre
anche la sintetica nota dellřautore:
«Le sole profezie che si possano formulare sono naturalmente quelle del fantasioso agricoltore
Nino; le memorie sono piuttosto residui; i giornali murali (tazebao o dazibao, secondo le più
correnti trascrizioni): bisognerà pensarci»17.
«Le profezie di Nino» è infatti lřincipit tematico del III componimento della sezione18, vero e
proprio Ŗtrionfoŗ del «ducazio» di Dolle che ritorna tra lřaltro come protagonista nel XVI, dove a
costituire un «augurio», una «profezia», è il «gran ridere» dei ritrovi conviviali con Nino,
documentato «in filmine didattiche», «nel ricco ricciolo della pellicola» 19.
I «giornali murali» o «tazebao», infine, compaiono al v. 22 del XVII, intersecando un riferimento al
Castello di Kafka (tazebao di K contro Momus e Klamm).
In senso più generale, ad ogni modo, i paradisiaci «prefazi» e le «profezie» sembrano alludere
allřapertura sul futuro compiuta attraverso una riflessione che si colloca nel presente assoluto delle
«conclusioni» e dei «giornali murali», e che ha come oggetto il passato («residuale») delle «riprese»
e delle «memorie»: la disgiuntiva, dunque, lungi dal porre le tre dimensioni del tempo in un
rapporto di reciproca esclusione, le include in una prospettiva per la quale esse,
heideggerianamente, si co-implicano20.
A segnalare il marcato parallelismo sussistente tra le due sezioni, utilizzerò la sigla C per la prima,
C1 per la seconda.
Più implicito il rapporto fra le due sezioni anepigrafe, la prima e la terza, entrambe contraddistinte
tuttavia, oltre che dalla presenza di componimenti di notevole respiro e impegno, dalla
predominanza del tema storico. Per uno scrupolo legato alla minore evidenza di questo parallelismo
rispetto ai precedenti, denomino le sezioni b e b1. Nel sopracitato saggio Zanzotto o la conquista
del dire (p. 217), Agosti sostiene che «LřElegia [in petèl] è situata esattamente al centro della
raccolta: essa è infatti preceduta da diciannove poesie più una introduttiva, ed inaugura una serie di
17
PPS, p. 353. Ci si dovrebbe chiedere se i due punti che precedono la conclusione delle nota («bisognerà pensarci»)
stiano a introdurre il significato dei «giornali murali» (in tal senso il sintagma indicherebbe Ŗqualcosa che necessita
ancora di unřelaborazione riflessivaŗ), oppure, come mi pare più probabile, una sua maliziosa sospensione.
18
Ibid., pp. 321-2.
19
Ibid., pp. 341-3.
20
Cfr. su questo punto Hermann Grosser, Contributo all‟analisi di due raccolte zanzottiane, «Acme», XXXII, II, 1979,
pp. 246-7: «In IX Ecloghe si ironizzava sul Ŗcanto che stonaŗ e Ŗad altro modo non sa ancora fidarsiŗ, mirando cioè alla
propria esperienza poetica passata e presente come corpo sostanzialmente unitario (seppur con i notati sintomi di
mutamento). Ora lřobiettivo è Ŕ continuando lřintersecarsi di ricerca poetica ed esperienza esistenziale Ŕ Ŗquellřio che
già tra selve e tra pastoriŗ: si pone, cioè, tra passato e presente una cesura piuttosto netta, sempre marcata ironicamentedrammaticamente: il presente infatti non pare liberare la condizione esistenziale dal giudizio negativo valido per il
passato. Imperniata in gran parte su questo tema è la sezione Possibili prefazi o riprese o conclusioni. Questi testi
potrebbero essere letti Ŕ pare indicare il titolo Ŕ come Ŗprefaziŗ ad un modo nuovo di fare poesia (ŖEcco unřaltra cosa,
vedine lřesordioŗ, II, 22), Ŗripreseŗ di quello vecchio (ŖRepetita juvantŗ, IX, 1) per ironizzarlo (si danno anche
autocitazioni ironiche) e concluderlo (lřuso del passato). Dřaltronde le Ŗoŗ mostrano lřintercambiabilità, oltre alla
compresenza, degli atteggiamenti in questione e, in definitiva, alludono già con moderata ironia allřinstabilitàoscillazione che è caratteristica fondamentale, e tematica e linguistica e stilistica, della raccolta».
104
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diciannove composizioni più una conclusiva». Lřosservazione è corretta anche da un punto di vista
ideale: rappresentando il ritorno allřorigine edenica del linguaggio nel momento stesso in cui se ne
denuncia lřinattingibilità e anzi lřinesistenza, il poemetto (che contrassegno con D) costituisce il
Ŗcuoreŗ della raccolta, il trait-d‟union fra i due estremi rappresentati da A e A1:
A + b-C-b1 + D-C1 + A1
1 +
19 + 19 + 1
Dal punto di vista del triplice parallelismo che siamo venuti sin qui descrivendo, sarebbe lecito
attendersi una collocazione dellř Elegia a cavallo delle due serie regolari A-b-C, b1-C1-A1, invece
che tra b1 e C1, come di fatto avviene. Questa sorta di simmetria suggerita e al tempo stesso
dissimulata, sembra prestarsi a simboleggiare, a livello strutturale, quel contrasto fra circolarità e
linearità che costituisce, in relazione alle serie allòtope ŖNatura-Essere-Mito-Narcisoŗ vs ŖStoriaDivenire-Civiltà-Edipoŗ, uno dei gangli tematici portanti del libro.
Il medesimo modulo presiede, in una forma più semplice e assieme più rigorosa, allřarticolazione di
Pasque (1973). la macrostruttura della raccolta si articola in «due sezioni di undici componimenti
ciascuna, inframmezzate da un perno o centro prospettico che non è una poesia ma la trascrizione di
un sogno»21.
Il modulo, come del resto il triangolo centrale di Microfilm, ha qui una chiara valenza simbolica di
matrice pitagorico-platonico-cristiana, incrociata con suggestioni ebraico-cabbalistiche22. I
componimenti complessivamente sono 22, come le lettere dellřalfabeto ebraico, che pure
scandiscono (da Aleph a Mem) le «stazioni» della Pasqua, secondo il modello utilizzato «per
distinguere i versetti delle Lamentazioni di Geremia nei libri di preghiere per il tempo pasquale:
segni di un acrostico che va perduto fuori del testo originario e che in ogni caso qui sarebbe mutilo
(ma non per questo meno incombente)»23.
Il titolo Misteri della pedagogia, identico per la prima sezione e per la lirica incipitaria della
raccolta, definisce il tema attorno al quale si Ŗcoagulaŗ la serie iniziale di undici componimenti,
quello pedagogico appunto, già ampiamente attestato soprattutto nelle IX Ecloghe ma anche nella
Beltà. «Misteri» prelude invece alla seconda sezione eponima di Pasque, gravitante anche dal punto
di vista strutturale attorno al motivo del mistero pasquale e alla scansione dei riti a esso collegati 24:
con lřeccezione delle ultime tre poesie, la sezione si estende infatti dallř«Epifania» di Lanternina
cieca (1) allřadynaton della Pasqua di maggio, attraverso la Feria sexta in Parasceve (cfr. n.d.a:
«così è chiamato il venerdì santo nella liturgia pasquale»), la Pasqua a Pieve di Soligo e il Lunedì
dell‟Angelo25.
Superata la tappa di Filò (1976), la cui partizione interna è legata alle contingenze che ne
determinarono in larga misura la composizione 26, il modulo a simmetria centrale trova la sua più
adamantina, complessa espressione nel Galateo in Bosco (1978), dove il manieristico Ipersonetto una corona di 14 sonetti preceduti da una Premessa (Sonetto dello schivarsi e dell‟inchinarsi) e
seguiti da una Postilla (Sonetto infamia e mandala) Ŕ si dispone tra due serie parallele di 18
componimenti ciascuna.
Di particolare rilevanza, nella seconda sezione (Il Galateo in Bosco) così come nellřultima
(anepigrafa), i grumi di componimenti contigui e accomunati dal titolo ripetuto con minime
variazioni tipografiche (cfr. ad esempio Indizi di guerre civili, Ill Ill, Sotto l‟alta guida etc.).
21
Così Dal Bianco in PPS, p. 1539.
Cfr. Luigi Tassoni, Caosmos. La poesia di Andrea Zanzotto, Carocci, Roma, p. 27: «[il triangolo di Microfilm] forse
richiama il triangolo equilatero della tradizione ebraica atto a rappresentare Dio di cui è vietato pronunciare il nome».
23
Così lřautore nella nota alla poesia, PPS, p. 457.
24
Cfr. ancora Dal Bianco, PPS, p. 1539.
25
PPS, pp. 417-42.
26
Comřè noto, le prime due parti della silloge, Recitativo veneziano e Cantilena londinese, furono commissionate da
Federico Fellini per il suo Casanova; segue il lungo poemetto eponimo della raccolta, in dialetto solighese.
22
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Opposta, anche da questo punto di vista, al Galateo, è la seconda raccolta della «pseudo-trilogia»,
Fosfeni (1983), unica opera zanzottiana a risultare del tutto priva di una partizione interna 27.
Lřassenza di una strutturazione di Ŗsuperficieŗ è tuttavia compensata dal ritorno di una scansione
stagionale28 a maglie più o meno larghe.
Nella silloge29 si susseguono infatti senza continuità il marzo di Come ultime cene (v. 1), la
«cinerina quaresima» di (Loghion) (25), la Pasqua di Faine, dolenzie, λογια (1), il maggio di La
maestra Morchet vive (10), la data del «9-6-75» in (Carillons) (22, 26-7) e quella, di poco
successiva, del 25 giugno, giorno in cui si festeggia la santa (Eurosia) cui è intitolata la poesia
seguente. Con Diffidare gola, corpo, movimenti, teatro e (Da Ghène) si passa allřautunno
(rispettivamente, II, 29, e 4); quindi, con Soprammobili e gel, a novembre (28, 50, 60), fino
allřinverno di (Anticicloni, inverni); la santa Eurosia ritorna come protagonista di Vocabilità, fotoni,
ma in «sovrimpressione» con santa Lucia, festeggiata il 13 dicembre; mentre, in maniera molto
simile a quanto avveniva in Dietro il paesaggio ed Elegia, la data del «27 dicembre ř76» chiude il
ciclo annuale in Tavoli, giornali, alba pratalia (6), introducendo allřatmosfera rarefatta di ghiaccio
e nevi degli ultimi tre componimenti.
A livello macrotestuale, «si profila» dunque in Fosfeni una graduale fuga verso quel «nord che
attraverso altri tipi di movimento collinare sfuma entro lo spazio dolomitico e le sue geometrie,
verso nevi e astrazioni, attraverso nebbie, geli, gelatine, scarsa o nulla storia» 30.
Struttura tripartita, sebbene priva del rigore geometrico proprio del Galateo, presenta invece Idioma
(1986), terza (ma idealmente centrale) anta della trilogia. Le sezioni della silloge, anepigrafe e
numerate progressivamente, si caratterizzano per una distribuzione molto irregolare dei
componimenti (16 nella prima, 28 nella seconda, solo 7 nellřultima). La coesione macrotestuale in
Idioma, peraltro calibratissima, è determinata quasi esclusivamente dal tessuto di echi e iterazioni
tematiche che attraversano la raccolta e delle quali non è possibile, qui, dare conto: mi limiterò
dunque a qualche rapido cenno ai fatti più macroscopici, concentrandomi in particolare sulla
sezione centrale31, strutturata come segue.
Due componimenti liminari in italiano, Vorrei saperlo e Nino negli anni Ottanta, che prefigurano i
temi dominanti della sezione: il radicarsi della poesia di Zanzotto nel «saliente colloquio»32
hölderliniano con la realtà antropologica del paese natìo, dove, sebbene trattenute «a malapena /
sulla sponda dellřaldiquà»33, «cose e parvenze [...] non passano mai / come non passano le loro
cause e ragioni perfette»34.
Come ben spiega Dal Bianco, «ricucire il tessuto antropologico della contrada è ricucire lo strappo
del tempo che ci separa dal presente. Per questo lřimportante sotto-sezione dedicata ai morti della
contrada», Andar a cucire, «si apre» con un testo in dialetto «sulla figura emblematica della Maria
Carpèla, cucitrice».
Segue un più ampio componimento che «funge da introduzione razionale, non a caso in italiano,
alla successiva serie Onde éli: La contrada. Zauberkraft35. Questo titolo allude alla hegeliana
Ŗforza magicaŗ, alla «mania» poetica che sola può reggere la contrada «in tutta la sua siderale /
27
Nel suo saggio La sintassi dei Fosfeni, in «Filologia e critica», X, I, 1985, pp. 490-503, Mario Martelli ha proposto di
ripartire le poesie della silloge secondo lo schema (peraltro non argomentato): «A-a; B-b1b2; C-c; D-d; E-e; F; G-g1g2;
H; I-i1i2; L-l; M-m; N».
28
Cfr. Dal Bianco, PPS, p. 1609.
29
PPS, pp. 652-715.
30
Ibid., p. 713.
31
Ibid., pp. 750-95.
32
Vorrei saperlo, PPS, p. 752, v. 56.
33
Nino negli anni ottanta, PPS, p. 753, vv. 3-4.
34
Vorrei saperlo, vv. 58-9.
35
PPS, p. 1653.
106
107
forza, inattualità, demoralizzazione costituzionale / e sovrumana inerzia di presenza / sempre più
immagicata in colori linee piani»36.
La rievocazione delle «aneme sante e bone / de la contrada»37 può così avere inizio: sei poesie in
solighese, accomunate dallřincipit («Onde éli», o «Onde éla», appunto) e dal fatto di essere dedicate
tutte (a eccezione della quinta38, dove il poeta si rivolge alla coppia Toni-Neta «già menzionata»39
in Pasque), a personaggi femminili che «contribuirono, per qualche loro caratteristica, alla
formazione poetica Ŗsul campoŗ dellřautore»40. La serie si chiude con un settimo componimento
(Aneme sante e bone) in funzione di epilogo, dove al dialetto dei primi 23 versi subentra, quasi a
marcare linguisticamente il confine della sotto-sezione, lřitaliano delle ultime due strofe.
Dedicate rispettivamente a Montale (No te pias véder piόver sul bagnà), Pasolini (Ti tu magnéa la
tό ciòpa de pan), Toti Dal Monte41 (L‟era ‟n dì de jenaro, de solesel), Charlie Chaplin e Gigetto (E
cussì tu sé „ndat anca ti, Sarlòt: il secondo è un fotografo compaesano dellřautore), Cecco
Ceccogiato42 (E s‟ciao), le cinque poesie in dialetto di cui consta la serie successiva sviluppano il
tema del rapporto tra poesia e legami affettivi ormai vivi solo nel ricordo dellřautore. A differenza
di quanto avveniva in Andar a cucire, tuttavia, lo sguardo si spinge anche al di là dei confini del
paese: è il caso di Chaplin, ma anche di Montale, Pasolini43 e Cecco44.
La «progressione dal ricordo personale al mito, e dallřancora vivo (la Nene e Nino) al sempre più
morto e lontano», caratteristica della seconda parte di Idioma, si compie con la sotto-sezione
Mistieròi45:
«Si tratta di dieci lasse irregolari, fra gli otto e i dieci versi, incastonate fra un più lungo testo
proemiale e uno di commiato [...]. I protagonisti dei quadretti obsoleti vengono come riscattati
dalla loro marginalità per fare corpo con la sublime umiltà di ogni poiesis. Come i personaggi di
Andar a cucire, essi costituirono il Ŗmateriale umanoŗ di sostegno alla formazione della poesia
negli anni dellřinfanzia»46.
Complessivamente, la II sezione si suddivide dunque in questo modo: 2 + 9 [2 + 7] + 5 + 12 [1 + 10
+ 1] poesie, raggruppabili alternativamente secondo il modulo A-A1-B-B1 (2 + 2 + 12 + 12) o, in
maniera forse più congrua alla partizione dřautore, A-B-A1 (11 + 5 + 12). Nel secondo caso, ci
troveremmo di fronte a una nuova attestazione di quella struttura speculare che caratterizza le sillogi
zanzottiane a partire dalle Ecloghe fino al Galateo, questa volta declinata al livello della sola
sezione centrale della raccolta. Questřultima si trova incorniciata fra le serie di poesie in italiano che
costituiscono la prima e la seconda sezione, e ad esse correlata sul piano semantico, rispettivamente,
da legami di carattere anaforico e cataforico. Un solo, significativo esempio: Toti Dal Monte, figura
36
Ibid., p. 756, vv. 56-61.
Aneme sante e bone, PPS, p. 764, vv. 8-9.
38
Ibid., p. 761.
39
Come viene esplicitato dallo stesso autore al v. 2 della poesia citata.
40
S. Dal Bianco, PPS, p. 1654.
41
Cfr. la nota dellřautore: «soprano leggero, che con la sua voce unica impersonò un grande momento dellřopera lirica
italiana e che trionfò in tutto il mondo nel periodo fra le due guerre». La cantante fu tra lřaltro compagna di scuola della
madre dellřautore.
42
Alias Nicolò Zotti, «poeta secentesco in dialetto pavano, lodatore delle bellezze del Montello. Se ne parla nel libro Il
Galateo in Bosco a cui questo componimento è un addio» (così la nota dellřautore, PPS, p. 813).
43
Cfr. i primi versi della poesia a lui dedicata (PPS, pp. 768-9, vv. 1-5): «Ti tu magnéa la tό ciòpa de pan / sul treno par
andar a scola / tra Sazhil e Conejan; mi ere pόch lontan, ma a quei tènp là / diese chilometri i era Řna imensità».
44
La stesura dei componimenti accorpati in questa serie, come avverte Dal Bianco, è contemporanea a quella del
Galateo in Bosco.
45
Cfr. la nota dellřautore, PPS, p. 814: « [Mistieròi è] dedicato alla cara e venerata memoria di Angela Bertazzon e
Maria Bon. Più volte pubblicato in plaquettes, questo componimento in realtà è stato concepito come parte integrante
della presente raccolta. È anche un omaggio alla serie di incisioni Le arti che vanno per via, di G. Zompini, commentate
in rima dal Questini, Venezia 1785».
46
S. Dal Bianco, PPS, p. 1659. Cfr. anche il saggio di G. Nuvoli, Mistieròi, in «Strumenti critici», 39-40, 1979, pp. 335348, risalente allřanno della prima pubblicazione dei componimenti in plaquette.
37
107
108
centrale nel quattordicesimo componimento della seconda sezione (Co l‟é mort la Toti), compare
già nellřincipit della raccolta (Gli articoli di G.M.O, 20, 32), mentre nellřexplicit (Docile, riluttante)
torna protagonista il «feudo» dellřagricoltore Nino Mura, cui è dedicata la poesia della seconda
sezione Nino negli anni Ottanta.
Se, allřinterno di Idioma, il modulo a simmetria ternaria trova una declinazione al livello inferiore
della singola sezione e delle sotto-sezioni in essa comprese (Andar a cucire, Mistieròi), va al
contempo notato come esso presieda, secondo una tendenza specularmente opposta,
allřarticolazione dellř«improbabile trilogia», con la significativa proiezione del principio
macrotestuale di Ŗcoherenceŗ dal piano macrotestuale, attinente alla singola raccolta, su quello, di
ordine immediatamente superiore, dellřŖintertestualità internaŗ: a sud di Pieve il bosco del
Montello, con la sua sanguinosa stratigrafia di natura e storia, a nord lřastrazione glaciale delle
dolomiti; al centro, la dimensione sociale ed esistenziale della Heimat, precariamente sospesa fra la
rassicurante misura affettiva dei suoi confini e il rischio, sempre più incalzante, di una definitiva
estinzione.
2.3 Con Meteo (1996) e Sovrimpressioni (2001), si assiste a una progressiva attenuazione
dellřimpegno macrotestuale a livello delle strutture di superficie47. Sul piano tematico, invece,
questřultimo resta intensissimo, sebbene il fattore coesivo tenda a parcellizzarsi, ora, in una pluralità
di Ŗpoli gravitazionaliŗ, che attirano grumi di componimenti recalcitranti a qualsiasi ipotesi di
annessione a un principio coesivo di ordine superiore. A testimonianza di questa nuova Ŗmanieraŗ
zanzottiana, si legga la nota apposta dallřautore a Sovrimpressioni:
«Continua, in questa raccolta, la linea avviata con Meteo. Più che di Ŗlavori in corsoŗ si tratta di
lavori alla deriva, che tendono qua e là a connettersi in gruppi abbastanza omogenei. E ciò in
controtendenza ma anche in coinvolgimento rispetto allřatmosfera attuale mossa da frenesia e da
eccessi di ogni genere che fanno tutto gravitare verso una pletora onnivora e annichilante. Il titolo
Sovrimpressioni va letto in relazione al ritorno di ricordi e tracce scritturali e, insieme, a sensi di
soffocamento, di minaccia e forse di invasività da tatuaggio. Esistono numerosi altri nuclei
contemporanei a questi, e in parte già sviluppati.»48.
A ben vedere, tuttavia, la macrostruttura di Meteo è in buona misura riconducibile al modello di
Fosfeni.
In assenza di una partizione interna, nella silloge del ř9649 i componimenti si distribuiscono infatti
secondo una scansione stagionale che si apre nel mese di febbraio (cfr. Morèr Sachèr, 1, v. 5) e si
chiude circolarmente col «cupo che inverno insuffla» della penultima lirica (Erbe e Manes, inverni,
9), attraversando il «maggio» di Leggende (1), il «16 buiogiugno 199...» (in epigrafe a Stagione
delle piogge), il giorno di San Rocco, in agosto, quando «le nocciole giungono a maturazione» (E ti
protendi come silenzio, 26 e nota); il clima estivo di Ticchettio, I e II, il trimestre «agostobre 1995»
(così il poeta, in calce a Tempeste e nequizie equinoziali), e infine lř«autunnale catarsi» di Altri
topinambùr (5). Unřunica eccezione è costituita dal componimento Colle ala, la cui ambientazione
autunnale si pone in contrasto con quella, estiva, delle poesie che lo precedono e seguono
nellřordine della raccolta (da Stagione delle piogge a Ticchettio, II).
Si osservi, inoltre, come allřarticolazione secondo il ciclo stagionale, del resto perfettamente
congrua al titolo della silloge, si sovrapponga un secondo, più discontinuo principio organizzatore,
che potremmo definire di tipo Ŗvegetaleŗ: dai Morèr sachèr (gelsi e salci caprini, secondo la nota
dellřautore), ai «grun de fen» di (Marotèi, de matina bonora), dai vari «pappi», «taràssaci» e
47
Per una più ampia e dettagliata analisi macrotestuale delle ultime raccolte zanzottiane, rinvio al saggio di Clelia
Martignoni Il linguaggio della «sovrimpressione». Una poetica?, in Andrea Zanzotto: un poeta nel tempo, Atti del
Convegno di Bologna, 23 novembre 2006, Bologna, Aspasia, 2008, a cura di Francesco Carbognin, pp. 203-15.
48
Andrea Zanzotto, Sovrimpressioni, Milano, Mondadori, 2001, p. 133.
49
PPS, pp. 815-61.
108
109
«radicchiette» di Lanugini, ai «papaveri» delle contigue Tu sai che, Altri papaveri, Currunt, fino
alla serie dei topinambùr (cfr. Topinambur e Altri topinambùr).
Pur presentando, a differenza di Meteo, una partizione piuttosto minuta e articolata (in tutto otto
sezioni), la macrostruttura di Sovrimpressioni è ancora in gran parte improntata al tracciato
stagionale, senza che sussista tuttavia una coincidenza fra il ciclo annuale completo e lřestensione
della raccolta. Nel complesso, è infatti possibile individuare tre cicli differenti.
Il primo, coincidente con la breve sezione incipitaria, inizia con lřestate di Verso i Palù (18) e si
chiude con i «giorni della bruma» di Ligonàs, III (cfr. v. 22 e la nota dellřautore: «Bruma: da
Ŗbrevissuma (dies)ŗ è il giorno dellřequinozio dřinverno. In precedenza caduto sulla pagina come
impossibile desiderio-distrazione che è ovviamente da ridurre al solito solstizio» 50). Si noti, inoltre,
come alla divaricazione temporale corrisponda la quasi-coincidenza spaziale: i ŖPalùŗ51 dei primi
componimenti (Verso i Palù e “Verso i Palù” per altre vie) si «indovinano»52 infatti dalla «grande
casa-osteria in aperta campagna»53 il cui nome dà il titolo alla poesia seguente (Ligonàs).
Il secondo, più ampio e completo, copre tutta la sezione successiva: le sei parti della prima poesia,
Sere del dì di festa, recano tutte al proprio interno la data del 31 gennaio, ad eccezione della quinta;
lřinverno inizia a «ritirarsi» in Adempte mihi, (I, 5), mentre nella seconda parte dello stesso (17) ci
spostiamo ad aprile; «è il 30 aprile» recita ancora Diplopie, sovrimpressioni (5, 10); il fieno e il
periodo della sua raccolta costituiscono il Leitmotiv di A Faèn. Con la prima parte della lirica da
Carità romane, entriamo in ottobre (4), per completare il ciclo nelle «caine invernali» della terza
parte (6).
Lřultimo ciclo attraversa la terza sezione per concludersi nel componimento incipitario della quarta,
da (Ore di crimini): si inizia con il «trapungere dellřautunno» (Riletture di Topinambùr, 36)
passando poi allřinverno di Spine, cinorroidi, fibule (I, 10 e II, 14)54, allřequinozio di primavera
dellřomonima poesia (21/3 Equinozio di primavera), e allo «stravolto affacciarsi di luglio» di da
(Ore di crimini), 3, in perfetta simmetria con lřincipit estivo della raccolta.
Nelle ultime sezioni lřordine stagionale viene meno, lasciando il posto a criteri coesivi di carattere
squisitamente tematico.
2.4 A Meteo e Sovrimpressioni dovremo tornare a riferirci più distesamente quando tratteremo di
Conglomerati, terza raccolta edita da Zanzotto dopo la «pseudo-trilogia». Prima di procedere
allřanalisi macrotestuale di questa ultima silloge, vorrei però soffermarmi ancora sul quadro sin qui
delineatosi, tentando di ricavarne le indicazioni più significative.
Innanzitutto, vien fatto di osservare la persistenza, lungo tutto lřarco della produzione zanzottiana,
di una forte volontà costruttiva a livello macrotestuale, la quale si concretizza secondo due modalità
alternative: la prima, che potremmo definire Ŗreferenzialeŗ ed Ŗesternaŗ, è quella della scansione
stagionale, che informa le prime due raccolte (Dietro il paesaggio ed Elegia e altri versi) con una
propaggine nella prima sezione di Vocativo, per poi riaffiorare in Fosfeni, Meteo e Sovrimpressioni;
la seconda, Ŗformaleŗ e Ŗinternaŗ, si traduce nelle varie declinazioni di quella simmetria ternaria che
si perfeziona via via a partire dalle IX Ecloghe, fino a trovare la sua massima espressione al duplice
livello dellřopera, con il Galateo in Bosco, e della trilogia, nella quale il principio coesivo travalica
il limite del macrotesto per proiettarsi al livello dellřŖintertestualità internaŗ.
La distribuzione cronologica delle due tipologie macrotestuali è dunque relativamente omogenea:
mentre la prima copre tutta la produzione degli anni ř50 e, con lřeccezione di Idioma, quella che va
50
Sovrimpressioni, cit., p. 18.
Cfr. la nota dellřautore, ibid., p. 12: «Palù: chiamati anche Val Bone, sono zone acquitrinose che già dal medioevo
erano state Ŗstrutturateŗ in varie forme, specie dai cistercensi, e trasformate in vaste scacchiere di prati circondati da
acque correnti e da alberature di diverso carattere, conservate con memore animo attraverso i secoli»
52
Ibid., p. 13.
53
Cfr. la nota dellřautore, ibid., p. 13.
54
Cfr. anche le date (8 e 10 dicembre) che compaiono in calce alla nota nello stesso componimento.
51
109
110
dallř83 al 2006, lřaltra, a prescindere dal caso anomalo di Filò, si attesta con progressiva intensità
nelle sillogi degli anni ř60-70, trovando poi unřideale appendice nella raccolta dellř86, con la quale
si chiude il disegno della trilogia.
La presenza di due modelli strutturali alternativi, qualificati lřuno come Ŗreferenziale-esternoŗ,
lřaltro come Ŗformale-internoŗ, e la rispettiva attestazione in fasi ben circoscritte dellřesperienza
poetica zanzottiana, pone in secondo luogo il problema del valore semantico e stilistico ascrivibile a
entrambi.
A questo proposito, è facile rilevare che nel primo caso lřordine della raccolta deriva da un
riferimento alla realtà extra-testuale delle stagioni, mentre nel secondo la speculare circolarità che è
propria di questřultima tende a trasferirsi nella dimensione autonoma della macrostruttura. Si
potrebbe concluderne, quindi, che il passaggio dal primo modello al secondo si attua secondo una
direttrice che va dal concreto allřastratto, nel senso di una progressiva riduzione della mimesi,
compensata parallelamente da un incremento della coerenza strutturale interna. In entrambi i casi, la
funzione della forma macrotestuale è evidente: nel rinviare, in modo ingenuamente mimetico o più
sottilmente pitagorico, allřordine immutabile del cosmo, essa intende stabilire comunque un
rapporto analogico tra libro e mondo, esorcizzando entro la totalità ridotta e dominabile dellřuno, la
traumatica infinitudine che è propria dellřaltro.
In un suo interessante saggio sul rapporto tra forma poetica e figurazione, Andrea Inglese sintetizza
bene il nodo della questione, in un modo che non sarebbe dispiaciuto a Jung:
«Lřangoscia della totalità è dunque ciò a cui ogni raffigurazione, sia essa religiosa, rituale o
semplicemente artistica, tenta di rispondere. Di conseguenza, il tema principe di ogni
raffigurazione mitica e poetica è il Ŗmondoŗ, ossia una totalità organica che sia nel contempo
Ŗpreservataŗ e Ŗridottaŗ. Ogni volta che, attraverso la poesia, il mondo viene posto Ŗin figuraŗ, è
un mostro selvaggio e dalle innumeri membra che viene catturato nel contorno, messo in
cattività, irretito nella forma, miniaturizzato. La figura come primo compito deve ridurre la
complessità del raffigurato [...]. Il flusso eracliteo dei fenomeni devřessere interrotto e al pieno
della percezione deve sostituirsi lo spazio rarefatto della rappresentazione: la figura taglia, isola,
accentra. A questo primo movimento, se ne sovrappone un altro, di carattere illusorio
(illusionistico): ciò che è stato soppresso in atto, è conservato in potenza, la totalità del senso
giace nelle pieghe della figura, che è solo parte, frammento del tutto»55.
A esemplificazione della funzione catartica svolta dal simbolo religioso, il critico fa poi riferimento
ai Ŗpaesaggi in vascaŗ cinesi (p‟en-fing) e al Ŗmandalaŗ, nei quali «lřŖintero mondoŗ» appare
«racchiuso in uno spazio maneggevole, perfettamente dominabile in termini percettivi» 56.
In tal senso lo stesso Zanzotto accostava, nella Postilla allřIpersonetto ((Sonetto infamia e
mandala)57), la figurazione religiosa buddhista a quel vero e proprio «simbolo strutturale» 58 che è la
forma-sonetto, da lui ripresa e amplificata a livello di macro-struttura nella sezione centrale del
Galateo59.
Il rapporto analogico fra libro e mondo, e il trauma che ne innesca la ricerca, sono peraltro
tematizzati esplicitamente nel componimento della Beltà Possibili prefazi…, IV, 1-26:
55
Andrea Inglese, Ritmo e figurazione. Appunti per una genealogia della forma poetica, in Ritmologia, Atti del
Convegno Il ritmo del linguaggio. Poesia e traduzione, Università di Cassino, 22-24 marzo 2001, Milano, Marcos y
Marcos, 2002, a cura di Franco Buffoni, pp. 43-4.
56
Ibid., p. 44.
57
PPS, p. 608.
58
Così Zanzotto nel suo saggio su Giovanni Raboni del 1993, ora in Scritti sulla letteratura, vol. II, Aure e disincanti
nel Novecento letterario, Milano, Mondadori, 2001, a cura di Gian Mario Villalta, p. 373: «Quanto al sonetto, risaliva in
primo piano con tutta la sua forza di simbolo strutturale con perfezioni quasi mandaliche, nascente con lřalba della
nostra lingua letteraria, e insieme, di immagine divenuta, lungo i secoli, rivomitatura in un infinito autoriciclaggio,
come in una corsa allřinezia e al nulla (non soltanto in Italia), pur se con improvvise riprese vitali».
59
Cfr. a questo proposito John P. Welle, The poetry of Andrea Zanzotto. A critical study of «Il Galateo in bosco»,
Roma, Bulzoni, 1987 .
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1
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20
25
Lřarchi-, trans, iper, iper, (amore) (statuto del trauma)
individuato ammonticchiato speso
con amore spinta per spinta
- a luci basse e filo di terra,
a sole a sole perfino spallate gomitate
come in un pleonastico straboccante
canzoniere epistolario dřamore
di cui tutto fosse fonemi monemi e corteo
in ogni senso direzione varianza,
babele e antibabele
volume e antivolume
grande libro verissimo verosimile e simile,
grembo di tutte le similitudini: gremito di una sola similitudine
talvolta unřidentità ne effiora
una specie più specie e suggelli,
e cřera in vista tutta una preparazione
un chiamarsi e chiamare in causa: o, O:
assodare bene il vocativo
disporlo bene e in esso voi balzaste
ding ding ding, cose, cose-squillo, tutoyables à merci,
non le chantage mais le chant des choses,
con crismi eluardiani fortemente amorosi
tutte come a corona intorno a noi, note animelle,
e tintinna in eterno la collana60.
Si osservi, qui, come il «grande libro verissimo verosimile e simile», alla stregua del reale in
Eraclito, si caratterizza ai vv. 12-5 per somma di predicazioni opposte, le quali trovano
composizione proprio nel rapporto analogico che media «con crismi eluardiani fortemente amorosi»
fra unità e molteplicità: in virtù della loro magica «force d‟amour», che a differenza del pensiero
logico non pone gli opposti in un rapporto di mutua contraddizione, considerandoli bensì come le
polarità di una scala potenzialmente infinita di valori, le correspondances coronano lřaspirazione a
un possesso erotico del mondo già prefigurata, allřaltezza di Dietro il paesaggio61, nellř«oscuro
matrimonio» del poeta «con il cielo e le selve».
«Ma lřaspetto musicale del messaggio incide, a ben vedere, anche sul livello contenutistico, dove
detta legge lřanalogia. Lřanalogia è proprio la chiave che consente di capire quella che è stata
definita una musica intellegibilis, cioè una musica di concetti. I vari concetti vengono accostati in
base a un teorema musicale, insomma, non immediatamente logico. Lřanalogia si basa, in fondo,
proprio su questo assunto, ed è a questo stesso fenomeno che si riferisce il famoso Ŗlegame
musaicoŗ, impermeabile alle traduzioni, di cui parla Dante: un rapporto tra le parole voluto dalla
Musa»62.
Sul tema della reciproca implicazione fra analogia, simmetria e circolarità, si legga quanto scrive
Enzo Melandri:
60
PPS, p. 284.
Nella valle, vv. 15-16, PPS, p. 107.
62
Andrea Zanzotto, Viaggio musicale. Conversazioni a cura di Paolo Cattelan, Venezia, Marsilio, 2008, p. 72.
61
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112
«Naturalmente non sempre lřanalogia si presenta etichettandosi col suo nome proprio. Dobbiamo
imparare a riconoscerne la presenza da certi sintomi. Due dei più importanti [...] sono la
simmetria e la circolarità dei concetti ai quali il problema fa riferimento. La simmetria analogica
si distingue da quella logica perché è di-polare, cioè tensionale, tendenziale e per opposizione dei
contrari anziché duale: ossia dicotomica, rigida e per opposizione di contradditorietà. Quanto alla
circolarità non occorre dire altro, poiché lřargomento logico procede per sequenze lineari ed
esclude come circulus vitiosus ogni retro-azione della conseguenza sulle premesse: in diretto
contrasto con la cibernetica, in logica vige il divieto di feed-back»63.
In quanto espressione di unřistanza traumatica che spinge il poeta a introiettare e a esorcizzare così
lřoggetto del desiderio (da sempre la natura, il paesaggio) entro il proprio «processo di
verbalizzazione»64, lo spazio macrotestuale in Zanzotto è dunque necessariamente uno spazio
circolare, simmetrico, analogico, dove lřandata coincide con il ritorno65 e tutto Ŗrimaŗ66 con tutto.
Date queste premesse, si sarebbe tentati di suggerire che lřimmagine macrotestuale risponde a una
volontà, da parte dellřautore, di regredire narcisisticamente verso una forma di compiutezza prenatale; interpretazione peraltro confermata dal fatto che, nelle raccolte a impianto simmetrico, la
sezione centrale è quasi sempre adibita a componimenti che esprimono per diverse ragioni questa
medesima istanza: sia che si tratti della dimensione pre-linguistica, come avviene nellřElegia in
petèl (La Beltà), di quella onirica, come in Microfilm (Pasque), o della «madre-norma» poetica,
come nellřIpersonetto (Galateo in Bosco), o infine del dialetto e della realtà antropologica a esso
correlata67 (Idioma), il centro Ŗombelicaleŗ delle sillogi zanzottiane rappresenta un disperato
tentativo di recuperare per via di linguaggio uno stato edenico perduto, rispetto al quale il presente
costituisce una corruzione seriore e irrimediabile.
Si pensi poi alla rosa di simboli e immagini che rinviano, in tutte le opere zanzottiane, a una
condizione di chiusura (auto-)protettiva, quali lřŖatolloŗ, lřŖuovoŗ, il Ŗcoccoŗ, la Ŗcistiŗ,
lřŖampollaŗ68, la Ŗbolla fenomenicaŗ69, il «serico bozzolo protettivo»70 in cui il baco-fabbro-poeta si
assenta da una realtà minacciosa e assieme la ricrea a proprio uso e consumo nel linguaggio 71.
63
La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull‟analogia, Macerata, Quodlibet, 2004 (edizione arricchita, rispetto
alla prima Ŕ Bologna, il Mulino, 1968 Ŕ da un saggio introduttivo di Giorgio Agamben e da unřappendice di Stefano
Besoli e Roberto Briganti), p. 152. Nel corso del saggio, Melandri oppone la logica binaria a terzo escluso, invalsa nel
pensiero occidentale da Aristotele (anzi: da Parmenide) ai giorni nostri, a quella propria del processo analogico, per
definizione polivalente e a terzo incluso. Nella prima, gli opposti stanno fra loro in una relazione di contraddittorietà, la
quale implica che essi non possano essere al contempo predicati del medesimo individuo (ovvero che un individuo, per
il quale ciò risulti possibile, non esiste). Nella seconda, al contrario, fra gli opposti sussiste un rapporto di Ŗsubcontrarietàŗ, in virtù del quale essi vengono a rappresentare i poli di una scala in cui trovano ricetto tutti i possibili
valori intermedi. Solo allřinterno di una logica di questo tipo può risultare fondato un discorso secondo la somiglianza,
che resterebbe altrimenti precluso dallřalternativa secca tra identità e differenza intese come valori assoluti.
64
Profezie…, XVI, v. 69, PPS, p. 343.
65
Cfr. Galateo in Bosco, Gnessulόgo, v. 36, PPS, p. 555: «Ammessa conversione a U / ovunque».
66
Cfr. Dietro il paesaggio, Nel mio paese, vv. 16-8, PPS, p. 77: «tutta lřacqua dřoro è nel secchio / tutta la sabbia è nel
cortile / e fanno rime con le colline»; La Beltà, E la madre-norma, vv. 24-5, p. 348: «rileva Ŗi raccordi e le rime /
dellřabietto con il sublimeŗ».
67
Nel saggio del 1960 Lingua e dialetto (appunti), PPS, pp. 1100-3, Zanzotto assegnava al dialetto un luogo analogo a
quello occupato dallřinconscio nella topica freudiana: «Lřitaliano, purtroppo, più di altre lingue, ha dovuto lottare con il
Ŗsuper-ioŗ costituito dal latino e con lřinconscio arlecchinesco dei dialetti».
68
Lřimmagine dellřŖuovoŗ è diffusissima, per ovvie ragioni, in Pasque, anche nella variante del Ŗlèndineŗ, lřuovo di
pidocchio (cfr., anche per la sovrapposizione simbolica con il Ŗcoccoŗ, Pasqua di maggio, IV, v. 29, PPS, p. 438:
«Ŗprimavera di cocchi e lèndiniŗ»), ma compare già sintomaticamente in Vocativo, Esistere psichicamente, v. 21, PPS,
p. 174: «chiarore-uovo». La metafora del Ŗcoccoŗ ha la sua prima attestazione nella Beltà, Ampolla (cisti) e fuori, in
concorrenza quasi sinonimica con lřŖampollaŗ e la Ŗcistiŗ (oltre al titolo, cfr. vv. 9-10, PPS, p. 297: «Ma come si è
difesi nel cocco / nella cisti beltà»). Per quanto concerne la Ŗcistiŗ, si legga anche questo brano dal saggio del 1977 Da
«Botta e risposta I» a «Satura» (appunti), ora in Scritti sulla letteratura, Fantasie di avvicinamento, vol. I, cit., p. 32:
«La lettera-botta è dunque una richiesta di spiegamento (spiegazione), di incrinatura o mordente spaccatura, che ledano
una esile oppure durissima bolla di sospensione, torpore sonnambolico, incertezza e confusione da dormiveglia o
risveglio. Cřè qualcuno che non si sentirebbe spinto ad abbandonare la cisti o il carapace della sospensione onirica e del
suo linguaggio perfuso di simboli e ŖHolzwegeŗ».
112
113
Come pure in parte si è detto, va parallelamente sottolineato tuttavia come questo tentativo di
regressione resti sempre, in ultima analisi, deluso, tanto sul piano semantico attinente ai testi che
dovrebbero agirlo, quanto su quello della struttura che si fa carico di rappresentarlo a livello
macroscopico: quella che da una prospettiva astratta Ŕ qualřè stata sin qui la nostra Ŕ poteva
apparire come una simmetria perfetta, cessa infatti di esserlo nel momento in cui vi si rivolga uno
sguardo più attento e ravvicinato.
Per portare soltanto lřesempio più palese in senso contrario, nel Galateo in Bosco le serie parallele
di 18 componimenti a precedere e seguire lřIpersonetto, si strutturano al proprio interno in maniera
differente, lřuna ripartendosi in due sezioni dal titolo Cliché e Il Galateo in Bosco, lřaltra, continua
e anepigrafa, scandita solo dai gruppi di poesie con titolo similare.
Il cerchio, insomma, non si chiude, né potrebbe: Zanzotto è un poeta troppo consapevole per
abbandonarsi a facili idilli senza patire al contempo i contraccolpi che la storia, anche quella
privata, infligge a chi crede di potersene idealisticamente astrarre. Di qui, il conflitto fra circolarità
narcissica e linearità edipica, ordine e caos, essere e divenire, natura e storia cui avevamo
corsivamente accennato a proposito della Beltà. Ed è significativo che proprio a partire dalle
raccolte degli anni ř60 (IX Ecloghe e La Beltà), dove, a livello testuale, lřequilibrio fra le due serie
allòtope si sbilancia sempre più a favore della seconda (Ŗlinearità-caos-divenire-storiaŗ), sul piano
della macro-struttura il modulo Ŗinterno-formaleŗ subentri a quello Ŗesterno-referenzialeŗ, come se
a un incremento del disordine interno dovesse subito corrispondere unřinteriorizzazione dellřordine
Ŗsuperficialeŗ.
Viceversa, si può dire che il ritorno, con Fosfeni, Meteo e Sovrimpressioni, a un principio coesivo
più esteriore, sia determinato dalla volontà di arginare una «deriva» ormai incontrollabile, attraverso
lřesile e discontinuo filo dřArianna costituito dalla Ŗsegnaleticaŗ stagionale.
Anche dal punto di vista della struttura macrotestuale, dunque, la Beltà rappresenta una pietra
miliare nella produzione zanzottiana: con maggior decisione rispetto alle Ecloghe, dove il modulo
speculare, già abbozzato, deve ancora puntellarsi a un elemento esterno quale il rapporto
intertestuale con le Bucoliche virgiliane, la raccolta del ř68 segna il passaggio alla maniera della
piena maturità, culminante nel grande disegno della «pseudo-trilogia».
3. Forma, spazio, durata, memoria: la macrostruttura di Conglomerati.
3.1 Tenterò ora di delineare le caratteristiche più macroscopiche di Conglomerati72, enucleandone i
tratti di continuità e discontinuità rispetto alle raccolte precedenti (in particolare Meteo e
Sovrimpressioni). Per esigenze espositive, affronterò solo successivamente la questione del titolo,
69
Cfr. IX Ecloghe, Ecloga IV Polifemo, Bolla fenomenica, Primavera, v. 27, PPS, p. 214: «Non uomo dico, ma bolla
fenomenica».
70
Cfr. Rilettura di un articolo su «Le stelle fredde» di Piovene [1974], in Scritti sulla letteratura, II, cit., p. 81: «[una
forma di vita cosciente che possa resistere sotto le radiazioni delle Ŗstelle freddeŗ] appare possibile solo in grazia ad una
forma di narcisismo, per quanto depresso e masochistico. E Narciso mobilita anche qui le sue iridescenze, i suoi
paradisi di autismo, risucchiando residui di linfe vitali dai fondi più arcaici, quelli in cui la persona, costituendosi,
generava intorno a sé una sfera, un serico bozzolo protettivo, trasformava in materiali adatti a produrlo la realtà
circostante. Così Ŗioŗ vuole sparire, ma non lontano da quegli elementi cui deve riferirsi a garanzia della sua
operazione». A questo proposito cfr. anche Premesse all‟abitazione, 1963, PPS, p. 1028: «il mio scrivere, altre cose, è
solo un modo di essere, nemmeno secrezione o escrezione, è come un cemento (o si crede un cemento) che per sisma
sbalzi da strati; è un dato che al fondo di tanto stare e muoversi arriverebbe allo spogliarsi lucido e completo di un
grumo, di un nodo. O meglio, autofilarsi in bozzolo, ridursi a realtà filata ma compatta senza più nulla al centro, che
tuttavia sarebbe di un nulla Ŗinfinitamente definitoŗ».
71
Cfr. Questioni di etichetta o anche cavalleresche, vv. 22-32, Il Galateo in Bosco, PPS, pp. 613-4: «Pace dunque al
qualunque baco parassita / che si credette fabbro di seta garantita / e sta a ciondolare sulla rama / mangiucchiando
mumble mumble / (con cento occhi ad altrui becchi) / e insieme postulando mezze-pietà / per le sue penumbrali colpe il
suo desindacalizzato / totale assenteismo dalla realtà // (produzione di massa e / prodotto garantito, per altro, anchřessa /
con marchio di qualità)». Nel testo originale lřonomatopea Ŗmumble mumbleŗ, qui trascritta in corsivo, è racchiusa
nella nuvoletta che indica in linguaggio fumettistico i pensieri dei personaggi.
72
Milano, Mondadori, 2009.
113
114
come di consueto ricchissimo di indicazioni e suggestioni anche intertestuali, le quali permetteranno
di abbozzare un primo (e necessariamente parziale) percorso esegetico della silloge.
3.2 Conglomerati «raccoglie», secondo la Nota dellřautore73, testi per la maggior parte risalenti «al
periodo successivo a Sovrimpressioni, ma un cero numero è più antico». La silloge si suddivide in
sei sezioni con titolo in maiuscolo, cui si aggiunge in explicit una piccola aggiunta di due Disperse,
entrambe datate (A Emi che torna da Parigi, 1950, e Sandro Nardi, 1951).
Alcune sezioni sono poi ripartite al loro interno in sotto-sezioni, titolate in corsivo 74: la seconda
sezione, TEMPO DI ROGHI, si compone di una prima serie di 10 poesie, seguite dalle tredici di Fu
Marghera (?); la terza sezione, IL CORTILE DI FARRÒ E LA PALEOCANONICA, suddivisa in
una serie di sei liriche, cui si aggiungono le tredici di Lacustri e le sei di Euganei; la quinta sezione
infine, ISOLA DEI MORTI Ŕ SUBLIMERIE, comprende i tre componimenti di Succo di
melograno, a seguire i sedici iniziali.
A questa prima griglia si sovrappone quella determinata dai tre asterischi a pagina nuova, con la
«funzione di indicare cambiamenti di luogo, di tempo o di argomento» allřinterno delle sezioni; e,
secondo un uso che non trova riscontri in altre raccolte (zanzottiane e non), di asterischi (da uno a
tre) posti sopra una poesia, a segnalarne «la minore o maggiore distanza dal gruppo in cui è
inserita»75. Gli asterischi sembrano dunque fungere da segni di interpunzione macrotestuale, i quali,
come ha osservato Francesco Venturi a proposito della suddivisione in sezioni «sotto articolate in
campiture o serie», rispondono «a una esigenza di calare entro una dispositio esterna una materia
multiforme e dissimile»76.
In una nota apposta alla poesia Misteri climatici, il cui titolo rimanda palesemente al contesto di
Meteo, Zanzotto avverte: «continua qui lřesperienza del lavoro secondo sporadici nuclei, iniziata
nelle opere successive a Idioma. Correnti minime in rischio di insabbiamento»77. La posizione della
nota è significativa di una Ŗcontinuitàŗ solo parziale: rispetto alla citata nota a Sovrimpressioni, di
cui riprende lřincipit, essa non è riferibile alla raccolta nel suo assieme, ma ad alcuni dei più
«sporadici nuclei» che essa accoglie al suo interno.
Se infatti la Ŗsegnaleticaŗ stagionale, pur molto fitta, non introduce in Conglomerati alcun principio
di ordinamento, dal punto di vista quantitativo la ripartizione delle poesie rivela equilibri e
simmetrie sì lontane dalla cristallina dispositio della Beltà e soprattutto di Pasque e del Galateo, ma
nondimeno interessanti. Un poř di conti.
La prima sezione (ADDIO A LIGONÁS) conta tredici poesie; la seconda sezione (TEMPO DI
ROGHI) si ripartisce in dieci poesie più le tredici di Fu Marghera (?): si delinea così un primo
nucleo a simmetria ternaria di 13+10+13 liriche.
Il secondo nucleo comprende le tre sezioni successive: la terza (IL CORTILE DI FARRÒ E LA
PALEOCANONICA) contiene un totale di diciannove componimenti (ripartiti nei sette iniziali, nei
sette di Lacustri e nei cinque di Euganei); la quarta (FIAMMELLE QUA E LÀ NEI PRATI) ne
conta solo tre; la quinta (ISOLA DEI MORTI Ŕ SUBLIMERIE), complessivamente, diciannove (i
primi sedici seguiti dai tre di Succo di melograno): una nuova simmetria ternaria, quindi, di
19+3+19 poesie.
73
P. 201.
Seguo, per chiarezza, gli usi tipografici di Zanzotto, trascrivendo in maiuscolo i titoli delle sezioni e in corsivo quelli
delle sotto-sezioni.
75
Così la nota dellřautore a p. 8.
76
Lettura di «Conglomerati» di Andrea Zanzotto, in Otto/Novecento, XXXIV, 3, 2010, p. 201. Alcuni cenni sulla
bibliografia critica relativa a Conglomerati, senza alcuna pretesa dřesaustività: Res, rovelli, rovine («Alias», 31 ottobre
2009, 43, p. 117) di Roberto Galaverni; Il cosmo in versi («il manifesto», 21 marzo 2010, p. 11) di Stefano Colangelo;
la recensione («Punto», 1, 2001, p. 66) di Salvatore Ritrovato. Mentre mi accingo a licenziare questo saggio, ho inoltre
notizia di un intervento di Niva Lorenzini sul numero di «Autografo» dedicato a Zanzotto, in uscita a ottobre, dal titolo
«Avvolgenti», «affilatissimi»: i silenzi di Conglomerati.
77
P. 48.
74
114
115
Segue una coda di quindici poesie raccolte nella sezione VERSI CASALINGHI più le due
DISPERSE.
Per questo aspetto lřultima silloge zanzottiana sembra invertire la rotta rispetto alle due precedenti,
sicché si potrebbe quasi affermare, parafrasando la citata nota a Sovrimpressioni, che i
Conglomerati si sviluppano «in coinvolgimento ma anche in controtendenza rispetto allřatmosfera
attuale mossa da frenesia e da eccessi di ogni genere che fanno tutto gravitare verso una pletora
onnivora e annichilente».
3.3 Il carattere peculiare di questo «coinvolgimento» e di questa «controtendenza», implicate lřuno
nellřaltra, potrà essere chiarito meglio più avanti. Per il momento vorrei invece procedere
nellřesame dei fattori di coesione macrotestuale. Tra di essi, una posizione di primaria importanza
rivestono i rapporti sintagmatici, o di contiguità, che possono essere suddivisi in diverse tipologie,
spesso sovrapposte, e che in genere sono esplicitati nel titolo dei componimenti o sotto-sezioni o
sezioni: continuità di luogo; continuità di tempo; continuità di persona; continuità di una o più
parole tematiche o addirittura di versi-refrain; infine, un tipo di continuità che definirei
Ŗvariantisticaŗ, e che meriterà unřattenzione particolare. Solo qualche esempio, nellřordine.
In continuità di luogo sono le poesie Crode del Pedré (Prima e Seconda versione) e Giardino di
Crode disperse; la prima serie di componimenti di Fu Marghera (?), contrassegnati da numeri posti
tra parentesi (da 1 a 5), e di Lacustri (“Mai” delle sere “mai”, Le notti fremono di ladri e di
ghiacci, Denti di squali e segnali fatali, Sacramento-pericolo, E così ti rintracciammo), etc.
La continuità temporale lega, allřinterno della sezione Addio a Ligonàs, le tre poesie Inizio 2000, Sì,
deambulare (in cui compare la data «15-1-2000»), Lievissime rotelle del 2000.
La continuità di persona unisce le due poesie che seguono la prima serie di Lacustri: ***Gentile e
forte creatura della Vallalta e Silvia, Silvia là sul confine. Qui i tre asterischi iniziali non segnano
però una discontinuità di luogo (lřambientazione resta lacustre) ma di argomento, con lřentrata in
scena di una Silvia in cui convergono circostanze reali (cfr. la nota dellřautore, p. 106: «La giovane
Silvia, già malata in grado estremo, scelse e riuscì a laurearsi in ungherese») ed evidenti
reminiscenze letterarie (ovviamente leopardiane).
Nella stessa sotto-sezione Lacustri, le seconde due poesie (Le notti fremono di ladri e di ghiacci,
Denti di squali e segnali fatali) offrono poi un esempio di ripresa di parole-tema (cfr. i vv. 1 e 5
della prima: «Le notti fremono di ladri e di ghiacci»; «le notti mille zero come pack insqualano»,
con la seconda, vv. 1, 4 e 7-8: «Denti di squali e segnali fatali»; «Animarsi, animarsi nello
scricchiolio del pack»; «ma di ladri che fin lřultimo centesimo / aspirano»). Fra la prima serie di Fu
Marghera (?) e la successiva, separate da tre asterischi a pagina nuova, vi è poi un collegamento
istituito dalla variatio dellřexplicit di Muffe (quarta posizione nella prima serie: «ŖGrigia scende la
sera e si confonde / col rumore del forno a microondeŗ») in quello di Giorno dei morti 2 novembre
2003 e *Quanti nuovi e ignoti silenzi m‟aspettano (prima e seconda lirica della serie successiva:
«Scende la sera sera e si confonde / col rumore del forno a microonde»). Collegate dallřincipit, oltre
che per evidenti ragioni tematiche, sono invece la seconda e la terza poesia di Euganei (Geometrico
avvenimento, (2) e (3))
Si potrebbe dire che fra questa tipologia e quella che abbiamo definito Ŗvariantisticaŗ sussiste una
differenza di ordine puramente quantitativo, trattandosi, nel secondo caso, di due elaborazioni
diverse di un medesimo nucleo testuale, come avvertono i titoli stessi dei componimenti in
questione (cfr. Crode del Pedré, Osservando dalla stessa china il feudo sottostante; ma cfr. anche le
liriche incipitarie di Succo di melograno, la prima anepigrafa, la seconda intitolata Nel giorno di
Ognissanti, dove il fenomeno non viene esplicitato né a titolo né a livello paratestuale).
A proposito di questřultimo tipo di connessione macrotestuale, si potrebbe ripetere quanto aveva
osservato Clelia Martignoni nel già citato saggio su Sovrimpressioni:
«Ho lřimpressione molto forte, sul tema delle varianti, che Zanzotto, estremamente attento alla
critica e alla cultura francese degli ultimi decenni […] abbia attraversato con particolare interesse
115
116
anche certe brillanti pagine teoriche della critique génétique con il suo culto dellřavantesto contro
il testo, della molteplicità contro lřunicità, del virtuale contro il ne varietur, del possibile contro il
finito»78.
E si potrebbe evocare anche il contesto aperto, fluttuante, improvvisato delle jam sessions
jazzistiche e delle Ŗriprese alternativeŗ (alternate takes) di uno stesso brano o tema che vi hanno
luogo.
Ma il fenomeno, come pure aveva notato Clelia Martignoni, si estende anche da una raccolta
allřaltra: esemplare in Conglomerati il caso di E di notte s‟avventa alto il rogo, «variazione», come
segnala la nota dellřautore, «di Primizie del primo mese, in Sovrimpressioni»79.
Lřintertestualità interna alle sillogi zanzottiane, perlopiù esplicita, è sempre stata fittissima, e in essa
va forse riconosciuto il marchio dřuna ricerca di durata e omogeneità, lřistanza unitaria e identitaria
del soggetto in quanto autore (o dellřautore in quanto soggetto). In tal senso si potrebbe leggere
quella comparsa autoironica, in Conglomerati (**Milano – Bagutta, p. 115), del ritratto dellřautore
associato alla materializzazione della sua Opera: «il ŖMeridianoŗ / come impropria postura / e un
suo sorrisetto scaleno»80.
Va inoltre ricordato come lřuso di «varianti», esplicitato nel titolo, sia ben attestato sin dalle IX
Ecloghe (in absentia: si veda 13 settembre 1959 (variante)81) e poi ancora in Pasque (in presentia:
cfr. le poesie contigue Feria Sexta in parasceve e Feria sexta in parasceve (variante)82)
Non mi soffermerò sulle tantissime auto-citazioni disseminate in Conglomerati, che vanno da
Dietro il paesaggio alla Beltà, da Pasque alla «pseudo-trilogia», e che il lettore non faticherà a
riconoscere da sé. Credo sia più interessante circoscrivere lřindagine alle ultime tre sillogi, dove non
si tratta tanto (o solo) di auto-citazione e di mise en abîme, quanto piuttosto un ritorno su nuclei
tematici e compositivi che vengono ripresi, variati, sviluppati. Penso, per fare solo gli esempi più
macroscopici, ai vari «cicli botanici»83: la Ŗserie dei papaveriŗ, che si apre in Meteo (Tu sai che,
ALTRI PAPAVERI, CURRUNT) e prosegue con una sola attestazione in Sovrimpressioni (da (Ore
di crimini)), per riaffiorare in Conglomerati nelle tre poesie della sezione Fiammelle qua e là per i
prati, lřultima delle quali si intitola persino Continuazione di “Tu sai che” (le prime due sono
Papaveri e Vite giuste ed insigni, papaveri); la Ŗserie dei topinambùrŗ (cfr. i TOPINAMBÙR e
ALTRI TOPINAMBÙR di Meteo con le Riletture di Topinambùr e Topinambùr e sole di
Sovrimpressioni; il tema ritorna poi in Conglomerati, E là dall‟inizio dell‟infinito slargo, v. 16, e
Sotto i cingoli dei diluvi, v. 5); la Ŗserie manes-vitalbeŗ, che chiude Meteo (cfr. Sedi e siti, e, con la
sola interposizione della poesia in dialetto La Taresa, Erbe e Manes, Inverni e ALBE, MANES,
VITALBE), con una propaggine nel componimento Manes ribellioni vitalbe (in Sovrimpressioni); e,
in maniera più defilata nel Cortile di Farrò e la paleo canonica…, v. 33 (Conglomerati).
Dai dati elencati e dai molti altri che ancora si potrebbero ricavare anche solo a colpo dřocchio,
emerge lřimpressione che le ultime tre raccolte zanzottiane sortiscano come per «precari e
78
Il linguaggio della «sovrimpressione». Una poetica?, cit., p. 208. Lřautrice cita a questo proposito due interventi di
Zanzotto: Europa melograno di lingue [1995], in PPS, pp. 1347-65 («personalmente […], io non sono mai stato
affezionato al concetto di definitività del testo poetico. Pronunciare il ne varietur mi turba. Ho sempre la sensazione che
si sarebbe potuto compiere un passo […] almeno verso una certa variazione laterale interessante come quella che è stata
data per centrale») e Versi provvisori [1992], parzialmente in PPS, pp. 1733-5 («per ogni componimento arriva il
problema delle varianti, che tendono ad essere potenzialmente infinite. È questa una sensazione quasi persecutoria per
colui che scrive […]. Certo è che la variante crea un testo aperto»). Molto interessante, nello stesso saggio, è anche
lřidea che il «punto della fluidità testuale trovi un affascinante corrispettivo secondo-novecentesco nella predilezione
dellřultimo Sereni, disgregato e aperto, di Stella variabile».
79
P. 49.
80
Si allude ovviamente al citato «Meridiano» Mondadori delle Poesie e prose scelte e alla foto dellřautore riprodotta
sulla custodia del volume.
81
PPS, p. 205.
82
Ibid., pp. 421-2.
83
Così Clelia Martignoni, cit., p. 209.
116
117
smarginati»84 assestamenti di una materia fluida, di un unico cantiere aperto, o come per quelle
«sporadiche» diffusioni di piante «vagabonde» su terreni «residuali» cui Gilles Clèment ha dedicato
alcuni dei suoi più celebri studi85.
Non so se questo autorizzi a parlare, per Meteo, Sovrimpressioni e Conglomerati, di una seconda
«pseudo-trilogia», quandřanche si sottolineino le profonde differenze che presiedono alla
compaginazione della prima. Di fatto, proprio in una poesia di Conglomerati, Vergogna, Zanzotto
sembra alludere alle tre sillogi con una definizione unificante:
Ora il tempo dovrebbe vergognarsi
di far quello che facciamo
di strampalarsi stralciarsi
sfalciarsi sfidarci infilzarci
ma vergognarsi di esser sempre
già passato mentre lo nomino. Non cřè, sì cřè
è questo qui di cui
scrivere il continuo
e losco cambio di marcia
tre volte in tre opere di ricordo Ŕ
macché è già tutto tappeto marcio di futuro86
«Tre opere di ricordo», dice il poeta, promuovendo così il tema della memoria (impossibile) a
comune denominatore di «tre» sue «opere» non meglio specificate, ma che sembrerebbero proprio
coincidere con le ultime raccolte.
3.4 In tutte le sue sfaccettature, il tema amletico del tempo «scompaginato-scompaginante» e quello
della memoria che si cancella sono in effetti centrali nelle tre sillogi.
In Meteo, si tratta soprattutto del tempo meteorologico, del clima sconvolto dallřavanzare della
tecnica e del suo effetto perturbante sul pianeta.
In Sovrimpressioni «assumono rilievo centrale il ri-torno, il ri-conoscimento, la re-visione: come
enuncia la nota dřautore […], dove è chiara la connessione paesaggio/ritorno/scrittura. Se questa è
la modalità motivica di base che genera il titolo allucinatorio e sdoppiato, eloquentissimo, esso si
palesa in quelle varie forme morfologiche e ritmiche che segnalano nesso e legame, rivisitazione e
ripetizione»87.
Per Conglomerati, credo che il medesimo plesso di questioni emerga se passiamo a considerare ora
le isotopie di tempo e luogo che si delineano lungo tutto lřarco della raccolta.
84
Id., p. 209.
Cfr. in particolare Le jardin en mouvement, Paris, Pandora, 1991 e Manifest du Tiers paysage, Paris, Éditions
Sujet/Objet (ed. it. Il giardino in movimento. Da La Vallée al giardino planetario, Macerata, Quodlibet, 2011. E, in
perfetta tangenza, si legga quanto ha scritto Francesco Venturi sul concetto di Ŗrizomaŗ nel suo saggio Dinamismi e
assetti avantestuali attraverso gli autografi della «pseudo-trilogia», in corso di pubblicazione sul numero di
«Autografo» dedicato a Zanzotto: «Lřimmagine fitomorfa risente dellřapparato metaforico e concettuale di Rizoma di
Deleuze-Guattari, uscito in Italia nel ř77 e che Zanzotto recensisce prontamente con parole chiarificatrici del proprio
lavoro: ŖLa polemica […] ha come bersaglio dunque la logica, il discorso, la conoscenza, lřazione […] che somigliano
tutti a un albero, pretenziosamente eretto in alto con fusto rami foglie e (massimo inghippo) frutti, oltre che avidamente
diffuso in radici nella terraŗ. Come spiega Jacqueline Risset, prefatrice dellředizione italiana: ŖUn rizoma è un gambo,
o fusto sotterraneo Ŕ un vero paradosso vegetale. Sceglierlo come metafora principale della nuova pratica di linguaggio
e di analisi vuol dire (esplicitamente nel testo) ripudiare sia lřalbero, simbolo consacrato della produttività verticale e
normale (normativa), sia la radice, figura di ogni origine e fondamentoŗ. Nellřappropriarsi liberamente della metafora,
Zanzotto sembra voler quindi esprimere sottilmente lřimpossibilità del Ŗlibro-radiceŗ, etichetta con cui Deleuze-Guattari
designano Ŗil libro classico, come bella interiorità organica, significante e soggettivaŗ, in quanto Ŗlřalbero è già
lřimmagine del mondo, o meglio, la radice è lřimmagine dellřalbero mondoŗ».
86
P. 73; corsivo mio.
87
Clelia Martignoni, cit., p. 215.
85
117
118
Quanto al tempo, basterà dire che si tratta, con poche eccezioni 88, dellřinizio millennio, quel 2000
reso «scivoloso» dalle «palline» o «lievissime rotelle» dei suoi zeri (cfr. le tre poesie esplicitarie
della prima sezione: Inizio 2000, Sì, deambulare, **Lievissime rotelle del 2000).
Con Roghi (1944-2001) e Silvia, Silvia si avanza di un anno, di due con Giorno dei morti 2
novembre 2003; in Penso alle volte che noi (tutti viventi) la clausola parentetica domanda: «atto
scritto nonostante il dito a scatto 2004?».
Ma al tempo Ŗoggettivoŗ si interseca quello privato, esistenziale, della vecchiaia: si prenda ad
esempio De senectute, vv. 1-5 (p. 52): «Possibile che non mi sia dato / compiere la più minuta /
azione senza che il tempo / venga a riscuotere, usuraio atroce / la sua parte»; o Candelete, inciampi
(p. 74, vv. 1-6: «Candelete, inciampi / venir meno in strappi / e dolori ed escoriazioni / cadute
rattratte di corpi per baricentri sbilanciati / osteoporosi no»), dove le «Candelete», come suggerito
dallřepigrafe-nota, sono le ormai «troppe troppe candeline» sulla torta di compleanno del poeta. In
Candelete ritorna anche il tema della Ŗperdita di equilibrioŗ e della Ŗcadutaŗ presente nella poesia In
te le peste da distrazhion; tema che concerne sì, come accennato, una contingenza autobiografica,
ma anche, più latamente, la condizione storica e umana che caratterizza il presente: «E ades va eco
le calze a scalcón / co la barba de tre dì / co la nobil Ŗtestaŗ (che vol dir toch de cop) / in cerca del
posto par far lřultimo rebalton, / co fa quando che quatro Řolte ò girà / su de mi sbrissando
diventando perno / de un mondo par mai pì fermo» (vv. 37-43)89.
Nella serie incipitaria di Roghi (Tristissimi 25 aprile, Roghi (1944-2001), Altro 25 aprile), si fa
largo poi il tempo storico nella sua dimensione di rito commemorativo e fondativo di istituzioni
civili e della collettività che in esso dovrebbe riconoscersi. Così anche in Grave. Isola dei morti,
intitolata al luogo sulla riva del Piave dove ebbe inizio la sanguinosa offensiva che portò alla fine
della prima guerra mondiale, e dove la corrente del fiume depositò le migliaia di cadaveri di giovani
soldati italiani uccisi nella battaglia90.
Appoggiandosi ai numerosissimi riferimenti toponomastici contenuti nella raccolta, si può
circoscrivere unřarea geografica altrettanto definita di quella cronologica, che è poi come sempre il
Ŗbiomaŗ della poesia di Zanzotto, lřalta marca trevigiana. Più precisamente: a Sud di Pieve di
Soligo, la linea storico-geografica dellřIsola dei morti; le Crode del Pedrè, sorta di canyon formato
dal fiume Soligo lungo il tratto che costeggia la villa del soprano Toti Dal Monte 91.
Nella sezione Il cortile di Farrò e la paleo canonica, procedendo verso Nord si incontrano poi il
Pian di Farrò (Il cortile di Farrò e la paleo canonica fantasma presente), il «feudo» di Rolle,
«sottostante» a quella «china» (ossia Farrò: cfr. i due componimenti incipitari della sezione,
Osservando dall‟alto della stessa china il feudo sottostante, Prima e Seconda versione; L‟aria di
Dolle92, titolo ripreso e variato dallřAcqua di Dolle di Dietro il paesaggio, 1951; e ancora Stupende
luci, incoronazioni…, v. 1: «verso Dolle»); infine, verso Est, Mondragon.
A Nord-Ovest troviamo invece Zuel di qua e Zuel di là (A Zuel di qua), Soller ((Borgo)) e il lago di
Rèvine (cfr. la sotto-sezione Lacustri). Fuori dal trevigiano, a Sud-Ovest, i rilievi dřorigine
vulcanica dei Colli Euganei (cfr. la sotto-sezione Euganei).
88
Con Quanti nuovi e ignoti silenzi ci spostiamo, ad esempio, nel 1993 (p. 65, vv. 28 e 34: «vere partorienti 1993 Ŕ
verità -»; «in verità, in silenzi 1993»); poco più in là con la bella poesia in dialetto In te la peste de la distrazhion, dove
una nota dellřautore riferisce lřoccasione del componimento «a unřesperienza personale avvenuta nel 1998» (p. 68).
89
«E ora vado in giro con le calze a penzoloni / con la barba di tre giorni / con la nobile Ŗtestaŗ (che vuol dire pezzo di
coppo) / cercando il posto per far lřultimo ribaltone, / come quando ho girato quattro volte / su me stesso scivolando e
diventando perno / di un mondo mai più fermo» (pp. 68-9).
90
Nel luglio del 2000 in questo luogo si tenne tra lřaltro un fortunato recital commemorativo di Marco Paolini e Andrea
Zanzotto.
91
Sia Toti dal Monte e la sua villa, sia le Crode (ma come «Grotte del Pedrè») sono già citati nel componimento
incipitario di Idioma, Gli articoli di G.M.O. (PPS, pp. 723-4, rispettivamente vv. 20 e 18). Nella stessa raccolta, al
soprano è poi dedicata la poesia Co l‟è mort la Toti (pp. 770-1).
92
Dolle, comřè noto, è la trasfigurazione toponomastica di Rolle.
118
119
Il paesaggio della raccolta sembrerebbe dunque quanto mai compatto, a parte alcune fughe verso
Marghera e Venezia (cfr. la sotto-sezione Fu Marghera (?)) e verso Milano (Milano, Bagutta). Ma
esso ha ormai perso il suo centro gravitazionale, come testimonia lřamaro congedo affidato proprio
al testo incipitario, Addio a Ligonàs, la «Grande casa-osteria» di Sovrimpressioni. Ligonàs era
«ómphalos del Grande Slargo / che per decenni i più bei cammini resse», ma è «circondato / ormai
da funebri viali di future Ŗimpreseŗ, / da grulle gru, sfondamenti di orizzonti / che crollano in se
stessi / intorno» ad esso; «ora la morsa si serra anche nella sua stessa maniacale / insicurezza di
poter durare / senza il gran verbo delocalizzare» (vv. 4-16). In questo contesto, di Ligonàs resta solo
il «nome finalmente espresso / […] dopo tanta latenza: / inutile alzabandiera / in una cosca sera /
che tutto copre in pece di demenza» (vv. 17-21).
La «delocalizzazione» e la «maniacale insicurezza di durare» che caratterizzano lřavanzata del
nuovo, della globalizzazione, con la correlativa Ŗesteticaŗ da cantiere, incapace di produrre forme
stabili, costituiscono una minaccia per la memoria: si leggano in tal senso i tanti riferimenti
allř«alzheimer» (sempre con grafia italianizzante: cfr. la «via Alzaimer» di Rio fu, v. 6, con
lř«antialzaimeriano sole» di Sì, deambulare, 30, e i «vecchi partigiani» che «si perdono coi loro
alzaimer» di Tristissimi 25 aprile, 19-20).
Secondo la metafora retorica, i luoghi rischiano di restare loci memoriae, esili appigli nominali cui
aggrapparsi disperatamente, talora abbandonandosi a suggestioni magico-cratiliche di gusto
rimbaudiano e leirisiano, come in Mondragòn (da confrontarsi con A Faèn, in Sovrimpressioni, v. 1,
«luogo» anchřesso «preso in parola, luogo ossitono»).
Sembra così emergere una solidarietà funzionale fra lřevocazione paesaggistico-toponomastica e
lřarticolazione tendenzialmente simmetrica della macrostruttura.
Forse non si è riflettuto abbastanza, qui e in altri saggi dedicati al problema del macrotesto, sul
rapporto (tuttřaltro che ignoto allřantica retorica e/o ars mnemotecnica) fra dispositio e memoria.
Accanto ai vari altri significati che le forme macrotestuali possono assumere in relazione allo
statuto dellřopera poetica, del soggetto e del mondo, alcuni dei quali si è tentato di delineare nel
secondo paragrafo, mi pare che lřultima silloge zanzottiana spinga a considerare un diverso aspetto
della questione, e cioè il nesso sussistente tra il simbolico, la forma (nella fattispecie macrotestuale),
lo spazio e la durata. Si legga questo illuminante brano dallřintervista del 1979 sul Galateo in
Bosco:
«La storia si risolve sempre in tragica e poi sempre meno significativa geografia, lasciando sulla
Ŗpelleŗ della terra i graffi, le tracce dei suoi conflitti o delle sue inerzialità, che diventano sempre
più equivoci con lřandare del tempo […]. Del resto sembra che geografia e storia abbiano
ugualmente a che fare con il Ŗsistema militareŗ […] che orienta i rigiri della prassi umana […].
Tutte le guerre (o varie forme di conflittualità) hanno generato un catasto sempre più fitto di
segni, dilagato a macchia su tutto il pianeta, e possibilmente fuori […]. Più distruttiva è lřarma in
cui si assommano tutte le motivazioni (storiche), meno essa si può usare: ma ingombrerà i
referenti, i significati e i significanti, o se si vuole il reale, lřimmaginario e il simbolico,
Ŗcondensandoliŗ in una sempre più insopportabile unicità di luogo fatta di non-luoghi, fino a un
non-luogo-a-procedere appunto entro quello che doveva essere il processo storico […]. Ogni
libro, a sua volta, non è che una riassuntiva, imprecisa icona, o mero indizio, di uno Ŗstare in
luogoŗ nel quale, per quanto il referente possa essere esorcizzato o addirittura rimosso, si
verificano fenomeni omologhi a quelli sopra descritti»93.
Interessante, in primo luogo, la «risoluzione» della storia in geografia, e cioè la spazializzazione del
divenire e dellřagire umano. Spazializzazione che, nel passaggio successivo, viene interpretata
come una pratica di incisione, di tracciamento, e quindi di scrittura. La metafora della «pelle» incisa
e graffiata riporta alla più volte citata nota a Sovrimpressioni, dove Zanzotto correla il titolo della
raccolta «al ritorno di ricordi e tracce scritturali e, insieme, a sensi di soffocamento, di minaccia e
93
PPS, pp. 1217-8.
119
120
forse di invasività da tatuaggio»94. Ma la successiva immagine del «catasto» ci riporta subito a una
prassi archivistica, cartacea e burocratica di gestione-istituzionalizzazione dello spazio.
Nel Galateo, questo processo invasivo che satura e se possibile supera la superficie del pianeta non
può essere che la guerra; la quale, effettiva o virtuale (Ŗfreddaŗ) che sia, inscrive le proprie
«motivazioni (storiche)» ovunque, senza risparmiare nessuno dei tre campi lacaniani (simbolico,
immaginario, reale). Ne deriva allora una soffocante compressione omologante e annichilente che
finisce per negare ciò che apparentemente si proporrebbe di istituire, il «luogo» inteso come Ŗluogo
proprioŗ di una significazione autentica. È in questo Ŗluogo proprioŗ che il libro opera
heideggerianamente la sua sempre asintotica «Erörterung», proponendosi esso stesso come «Ort»
(luogo):
«Erörtern vuol dire qui per prima cosa: indicare il luogo (Ort). E poi significa: osservare il luogo.
Ambedue le cose: indicare il luogo e osservare il luogo sono i passi preliminarmente necessari per
una Erörterung […]. Il termine Ort significa originariamente punta della lancia. Tutte le parti
della lancia convergono nella punta. LřOrt riunisce attirando verso di sé in quanto punto più alto
ed estremo. […] Il poema di un poeta rimane inespresso. Nessuno dei singoli componimenti
poetici, nemmeno il loro insieme, dice tutto. E nondimeno ogni componimento poetico parla
movendo dal tutto dellřunico poema […]. Dal luogo del poema scaturisce lřonda che di volta in
volta sommuove il dire in quanto dire poetico»95.
Nel suo rapporto con lř«Ort», nella sua tensione geometrizzante-simmetrizzante e unificante, il
«libro» è dunque necessariamente «coinvolto» con la «pletora onnivora e annichilente», ma «in
controtendenza» rispetto ad essa in quanto, costituendo una «riassuntiva, imprecisa icona, o mero
indizio di uno stare in luogo», esprime una modalità diversa di convergenza, il «rigore di chi lascia
essere»96. E, ribaltando specularmente la prospettiva, si potrebbe aggiungere che la «sporadicità»
compositiva delle ultime sillogi, complementare in Conglomerati allřeffort structurel, operi sì «in
controtendenza» rispetto alla condensazione omologante, ma che ne resti coinvolta in quanto
questřultima paradossalmente agisce disgregando, polverizzando, disperdendo le trame di senso che
attraversano lo spazio e ne costituiscono lřunicità/pluralità di luogo/luoghi.
Anche in Conglomerati le grandi guerre sono ben presenti, la Prima in Grave. Isola dei morti, la
Seconda nella sezione Roghi. È però soprattutto di unřaltra guerra, di altre distruzioni che qui si
tratta, quelle prodotte dal «progresso scorsoio» di una globalizzazione forsennata. Tra i due
fenomeni esiste una continuità, che Zanzotto sottolinea nel titolo della poesia Roghi (1944-2001), e
che forse nessun pensatore ha saputo individuare prima e meglio di Ernst Jünger, il quale vedeva
nella «Mobilitazione Totale» delle energie e delle forze un carattere comune al lavoro tecnico e alla
guerra:
«Fra tutte le svolte e le direzioni che possono essere prese nello spazio del lavoro, quella che mira
allřarmamento è la più importante. Ciò si spiega, se pensiamo che il significato più riposto
94
P. 133. A questo proposito Francesco Venturi (cit., p. 204) suggerisce giustamente un riferimento allř«allegoria
kafkiana della Colonia penale». E si noti, in Conglomerati, È l‟ora rara (vv. 1-4 «È lřora rara / in cinema biancazzurro /
è lřora dřinverno neve punta estrema del dì / ora dřarrivo di K. al castello) il richiamo a unřaltra grande opera kafkiana,
già citata da Zanzotto nella Beltà (Profezie o memorie o giornali murali, XVII): Das Schloβ, Il Castello.
95
Martin Heidegger, Il linguaggio della poesia (originariamente apparso in rivista con il titolo Georg Trakl. Eine
Erörterung seines Gedichtes, 1953) in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1984, a cura di Alberto
Caracciolo, p. 45, titolo sotto il quale vengono raccolte tre conferenze tenute fra il 1957-8, confluite nel 1959 in
Unterwegs zur Sprache (il volume, edito a partire dal 1985 nel XII vol. della Gesaumtausgabe, Frankfurt a. M.,
Klostermann, raccoglie una serie di saggi e testi di conferenze apparsi fra il 1950-9). A proposito dei termini «Erörtern»
il traduttore annota: «significa, correntemente, discutere, ed Erörterung, discussione. Heidegger Ŕ attraverso
lřevidenziazione e la valorizzazione dei monemi er e Ort richiamati nel loro significato originario Ŕ conferisce alla
parola un senso complesso che emerge via via che ci si inoltra nella lettura del saggio. Nessuno dei termini da altri
precedentemente suggeriti (situare, collocare…) […] ci è risultato utilizzabile» (ibid., p. 80).
96
Ibid., p. 75.
120
121
presente nel tipo umano e nei mezzi da lui usati tende al dominio. Qui non cřè alcun mezzo,
neppure il più specifico, che non sia nello stesso tempo un mezzo di potere, cioè unřespressione
del carattere di lavoro totale. Queste qualità assumono evidenza nel forte impulso con cui la
guerra tende a impadronirsi di tutti i campi dřattività […]. Analogamente a ciò che avviene per la
differenza tra città e campagna, durante una guerra tende a sfumare la differenza tra fronte di
combattimento e territorio della patria, tra forze armate e popolazione, tra industria in generale e
industria degli armamenti. La guerra come elemento primordiale scopre allora un nuovo spazio Ŕ
scopre la particolare dimensione della totalità, coordinata ai moti dellřoperaio» 97.
Conseguenza di questa condizione è la trasformazione della superficie terrestre in un «paesaggio di
transizione»:
«A nessuno può sfuggire che nulla viene prodotto in vista di unřesistenza duratura e con quel
carattere di perennità che apprezziamo nelle costruzioni degli antichi […]. Ogni mezzo, invece, ha
carattere provvisorio, da officina […]. In consonanza con questa situazione, il nostro territorio
appare come un paesaggio di transizione. In esso non esiste stabilità di forme; ogni forma viene
ininterrottamente modellata da una dinamica inquietudine. Non esistono mezzi durevoli; di
durevole non cřè che il diagramma della potenza […]»98.
In Conglomerati i «graffi» e le «tracce» di questo «diagramma della potenza» sono impresse non
più (o non solo) dalle armi, ma dal «gran verbo delocalizzare» e dalla sua lingua («il cancerese, il
cannibalese»), che in unř«onda» di speculazione edilizia e finanziaria «sormonta tutto ciò che con
ogni amore e afrore di paese / doveva» difendere lř«Ort» della poesia; dallř«informazione» che
«corre e scorre e fa spaventi» sulle sue «ali di pipistrello», manifestando lř«anima torva del
simbolico», di un denaro che, perso ogni contatto con il Ŗvalore dřusoŗ, è assurto ormai alla pura
dimesione del «simbolico» (Sulle ali di pipistrello dell‟informazione, p. 50); dalle alterne vicende di
Wall Street, il cui nome, tradotto in dialetto («Strada del Mur») e in taliano («STRADA DEL
MURO») con effetti di ironica risemantizzazione 99, campeggia in Inizio 2000 e Tristissimi 25
aprile.
Per Zanzotto, lo abbiamo visto, la pervasività delle Ŗragioniŗ belliche (e di altre «forme di
conflittualità») determina una condensazione-distruzione culminante in un «non-luogo-aprocedere» che interessa il «processo storico», un violento arresto, per il quale Jünger aveva
proposto lřefficace espressione che dà il titolo a uno dei suoi più interessanti libri, Al muro del
tempo. Ne stralcio alcuni brani significativi per quanto stiamo dicendo:
«Non solo il taglio profondo viene percepito in ogni strato della coscienza, e in modo precipuo
mediante il soffrire, ma neppure mancano i segni e gli indizi visibili.
[…] La domanda che ora dobbiamo porci è se il taglio separi due periodi geologici, e se, in questo
senso, una nuova epoca incomba su di noi con le sue forme.
[…] La collocazione della vita nel solco geologico, il senso della terra rimangono, così come la
maggior parte dei grandi doni, inosservati. È qualcosa che si percepisce alle radici come patria
inconscia, e trova espressione nella poesia.
[…] Occorre qui accennare almeno a una questione incidentale: è lecito far rientrare nella
geologia i cambiamenti provocati dal piano dellřuomo?
[…] Una metropoli sotto il cui asfalto si accumulano catacombe, sepolcri, rovine, macerie e
calcinacci di cinquanta generazioni richiama alla mente una barriera corallina.
97
L‟Operaio. Dominio e forma, Parma, Guanda, 1991, a cura di Quirino Principe, pp. 261-2 (Der Arbeiter. Herrshaft
und Gestalt [1932], Stuttgart, Ernst Klett Verlag, 1981).
98
Ibid., p. 153.
99
Di analogo tenore, sempre in Inizio 2000, lřinterpretatio che riduce il nome di Alan Greenspan (a capo fino alla fine
del 2006 della Federal Reserve) ad «Alan da Grespan» (essendo ŖAlanoŗ e ŖCrespanoŗ due paesi veneti, come avverte il
poeta in nota, a p. 32).
121
122
[…] Ora, questo passaggio Ŕ a partire dal quale troviamo lřuomo non solo presente in uno strato,
bensì in quanto essere che crea e definisce strati Ŕ è uno dei sintomi della sua uscita dal campo
della storia, a ridosso del muro del tempo»100.
Siamo molto lontani, sia nel caso di Jünger che in quello di Zanzotto, dalle banali suggestioni
millenaristiche oggi di moda (e che andrebbero tuttavia interpretate come fenomeni sintomatici
della condizione descritta da entrambi gli autori), o dagli affrettati proclami di un certo
Postmodernismo sulla Ŗfine della storiaŗ. Qui si tratta piuttosto, in un orizzonte anti-umanistico di
ascendenza heideggeriana (ma anche, per Zanzotto, leopardiana), di una crisi epocale della storia
come forma razionale dellřagire umano e della posizione centripeta che esso si è a lungo attribuito.
Si prendano questi versi di Muffe (p. 58-9, vv. 18-20: «- Muffetta del pianeta o grattugiato / pan di
legno munito / di un logos comunque sconfitto») e la nota dellřautore alla poesia: «Sembra solo,
lřumanità, unřinsignificante muffetta che appena sopra lo zero (273) ha attecchito sulla terra,
essendosi poi anche rivelata velenosa a sé e a tutto».
Constatata la definitiva sconfitta del logos, il tempo storico viene riassorbito da quello, pre- e postumano, della geologia. Accanto al titolo, di cui ci occuperemo tra breve, e alla conversazione
Eterna riabilitazione da un trauma di cui si ignora l‟origine101, giustamente ricordata da Francesco
Venturi (cit.), si pensi a tal proposito agli ammassi delle Crode del Pedré (nelle eponime liriche), al
«trascorrere sopra ghiaini di millenni» di Sì, deambulare; alla confusione di storia/memoria e
preistoria/amnesia in (Forre, fessure 2), secondo un motivo presente nella produzione zanzottiana
sin dalla Pace di Oliva, in Pasque (1973); o, infine, ai versi esplicitari di È l‟ora rara: «In nuove
intersezioni con altre ére / altra geometria del freddo / dalle strutture del geologiche / tremolanti del
freddo / ingoiate dal freddo rifatte / in toilettes per serpentine ère erose dal freddo / del più vecchio
cinema sepolto».
Rispetto allřepoca storica dei regni, degli imperi e degli stati nazionali, altre sono ora le
impersonali, invisibili, «idiotitaniche», telluriche e glaciali potenze che sottraggono agli individui e
alle collettività qualsiasi forma di controllo sul divenire:
Cammino oggi pian piano sugli esiti di
un nevischio, ghiaccischio che sono i millenni
li concalco dolcemente e cricchiano e ne siamo
i responsabili, dementi impacchettatori o
saccheggiatori, un gioco ne facciamo, né gioie né dolori
né mito, non esiste mito, non esiste ragione
ma soltanto la scheggia Ŗciclabileŗ con le sue
meravigliate, non autocredentesi stazioni
ma che brividi, fin sotterra, di fiducia102
Eppure, «mentre tanfo e grandine e cumuli di guerra // Mentre tutto trema nel delirio del clima / e la
brama di uccidere maligna inventa inventa», ci sono ancora rari «luoghi in cui resistere, / luoghi
dove Muse si danno convegno / per mantenere lřeco di unřarmonia / per ricordarci ancora che esiste
il sublime / per risaltare gli antichi splendori ed accogliere nuove vie di Beltà»; «raro» persiste e
«pur sempre sepolto nelle selve dřombra di armi totali / un Luogo»: una Ort, una Lichtung (radura100
Milano, Adelphi, 2000, pp. 172-87 (An der Zeitmauer, Stuttgart, Ernst Klett Verlag, 1981). E si veda anche di
passaggio quanto Jünger scrive a proposito di un altro grande tema zanzottiano, la meteorologia (pp. 195-6:
«Esperimenti che intervengono sullřeconomia geologica, e perfino cosmica, sono una novità: mai lřuomo si era preso
lřarbitrio di fare alcunché di simile […]. Tutto questo ci riconduce a un particolare tipo di inquietudine anteica,
lřinquietudine meteorologica. È quella a cui siamo più sensibili: è quotidiana, di ogni ora. […] La meteorologia rientra
fra quelle scienze ascritte alla terra in quanto tale. […] Il tempo è sì ovunque diverso e da diversi punti va osservato, e
tuttavia lřosservazione stessa, per essere proficua, deve presupporre un sistema planetario»).
101
Roma, Nottetempo, 2007, a cura di Laura Barile e Ginevra Bombiani, pp. 45-7.
102
Inizio 2000, pp. 30-2, vv. 15-23.
122
123
illuminazione) che «ora rinasce e tenta difenderci dallřira del cosmo» (Mentre tanfo e grandine…,
p. 131).
Luogo e libro come fonte-convergenza e durata di senso, come memoria viva di una scrittura Ŕ e
quindi anche di una geo-storiografia Ŕ altra: residuale ma resistente.
3.6 Il riferimento alla geologia, come spesso accade nella poesia di Zanzotto, esprime
unřambivalenza, parallela a quella che sussiste, a livello macrotestuale, tra Ŗsporadicità-virtualitàderivaŗ e Ŗgeometria-spazialità-strutturaŗ. Da un lato esso indica infatti la sortita del logos storico in
un «non-luogo-a-procedere» saturo di conflittualità e tensioni telluriche, con la conseguente
avanzata di un Ŗmorbo alzaimerianoŗ che disgrega qualunque segno geografico-scritturale provvisto
di un senso stabile e come tale trasmissibile, per riaggregare tutto nella poltiglia «onnivora» di un
generico Junkspace103. Dallřaltro, la pietra si fa simbolo di una solida persistenza, come il
«geometrico avvenimento» di Euganei (2 e 3), che «toglie / appoggio sotto i piedi ma / che tutto
ridà / in unřinimmaginabile misura / di tutte le misure» (2, p. 111, vv. 1 e 6-9); o come la «crosta»
di quella «gemma cupa» o «cupissima madreperla» fossile che è il Lago di Rèvine, che con le sue
«onde gelate / in pietra blu» buca come una macchia di solidità «ogni immaginario / o simbolico»
(Sacramento-pericolo, pp. 99-100, vv. 2-3, 5-6, 36-7).
Questa ambivalenza si riflette nel titolo della raccolta e in quella che parrebbe aver costituito Ŕ
almeno in un certo frangente Ŕ unřipotesi ad esso alternativa.
La questione potrà essere affrontata con il dovuto rigore quando saranno disponibili i materiali
autografi della raccolta, i quali, per ragioni cronologiche, non sono conservati al Fondo Manoscritti
dellřUniversità di Pavia come la restante parte dellřopera poetica zanzottiana, acquisita nel 2007.
Per il momento disponiamo solo di una preziosa dichiarazione di Zanzotto in unřintervista rilasciata
a Nello Ajello e pubblicata sullř«Espresso» 104 con il titolo Il poeta che parla alle montagne.
Allřintervistatore, che gli chiedeva se avesse «un nuovo titolo» per quello che (sono le
scaramantiche parole dellřautore) avrebbe potuto essere il suo «ultimo libro», Zanzotto rispondeva:
«Inseguo delle ipotesi. Potrebbe chiamarsi, per esempio, ŖErraticiŗ. I massi erratici sono dei blocchi
ciclopici di roccia trasportati dai ghiacciai»105.
Lř«ipotesi», per certi versi, non era molto lontana dalla scelta definitiva. Come i «conglomerati», di
cui condividono lřorigine glaciale, gli «erratici» sono «blocchi ciclopici di roccia». Nel caso dei
massi erratici, tuttavia, si tratta di una materia sì solida, mastodontica e pesante, ma che partecipa di
un moto casuale, di unřŖerranzaŗ o Ŗerraticitàŗ, con possibile rinvio etimologico allřŖerroreŗ come
forma di devianza dalla regola. Questi massi infatti hanno solitarie, insolite e stranianti collocazioni
nei fondovalle, dove sono stati trasportati da ghiacciai poi ritiratisi. A livello simbolico, quindi, essi
evocano anche un tema molto diffuso nella raccolta, quello del Ŗghiaccioŗ e della Ŗglaciazioneŗ
come metafora della contemporaneità, e unřidea della poesia come fortuito, allucinato-allucinante
effetto di fuga che pure si produce in «coinvolgimento» con un simile contesto, e anzi ne costituisce
la misteriosa traccia destinata a durare.
I conglomerati sono invece un tipo di roccia sedimentaria clastica, costituita da Ŗgranuliŗ (i
Ŗclastiŗ), tenuti assieme da una Ŗmatriceŗ (il Ŗsedimentoŗ: sabbia o argilla) e da un Ŗcementoŗ, le
cui caratteristiche variano in rapporto alle soluzioni presenti nel sedimento stesso. Derivanti dalla
disgregazione di formazioni più antiche e, quanto alla Ŗmessa in postoŗ, dal successivo trasporto ad
opera delle correnti fluviali, anche i conglomerati posseggono in certo senso una natura Ŗerraticaŗ; a
livello simbolico prevale però unřidea di coerenza (anche in senso tecnico: se il cemento è scarso si
103
ŖSpazio-spazzaturaŗ, secondo la fortunata definizione dellřarchitetto Rem Koolhaas nellřomonimo saggio (tra le
moltissime edizioni, cito solo la prima, in Guide to Shopping, Köln, Taschen, 2001, pp. 408-21; nellředizione italiana,
Macerata, Quodlibet, 2006, il saggio fa parte di una raccolta eponima di tre scritti koolhaasiani, e si legge alle pp. 61102).
104
15, LV, 16 aprile 2009, pp. 116-8.
105
Ibid., p. 118.
123
124
parla di rocce Ŗincoerentiŗ o Ŗsciolteŗ, più comunemente di ghiaia); coerenza legata alla Ŗmatriceŗ e
al Ŗcementoŗ che serrano assieme materiali eterogenei.
Nel passaggio dalla prima ipotesi (Erratici) alla scelta definitiva (Conglomerati), si ha dunque una
significativa virata verso quella compresenza di unità e molteplicità, forze centrifughe e forze
centripete, che avevamo individuato nellřanalisi della macrostruttura, e che introduce un parziale
scarto rispetto alle due raccolte precedenti. E il fatto che il principale elemento coesivo nei
conglomerati sia identificabile con la cementazione di una Ŗmatriceŗ, conferisce nuova attualità a un
tema sempre intensamente presente nella poesia di Zanzotto, quello di una «norma» materna106,
generativa, fonte di una ragione aggregatrice ma aperta.
Come sempre accade per i titoli delle sillogi zanzottiane il titolo «nasce […] come individuazione di
una struttura in mezzo a un coacervo»107, facendosi veicolo di una primaria «poetica-lampo»108 che
illumina, per lřautore quanto per il lettore, la Gestaltung dellřopera.
Ma le ragioni di interesse per i due titoli non finiscono qui: essi offrono infatti Ŕ il primo in
absentia, il secondo in presentia Ŕ il capo di una Ŗmatassaŗ intertestuale che ha centrale rilevanza
nella raccolta, e che riguarda proprio la questione del rapporto con la memoria, su cui già a lungo ci
siamo soffermati.
È noto come, in tutte le sue varianti, il tema della Ŗpietraŗ occupi una posizione nevralgica nella
simbologia di Paul Celan, poeta molto caro a Zanzotto, che gli ha dedicato tra lřaltro lřintenso
intervento del 1990 Per Paul Celan:
«Per chiunque, e particolarmente per chi scriva versi, lřavvicinamento alla poesia di Celan […] è
sconvolgente. Egli rappresenta la realizzazione di ciò che non sembrava possibile: non solo
scrivere poesia dopo Auschwitz ma scrivere Ŗdentroŗ queste ceneri, arrivare ad unřaltra poesia
piegando questo annichilimento assoluto, e pur rimanendo in certo modo nellřannichilimento.
[…] Il linguaggio sa di non potersi sostituire alla deriva della destrutturazione per trasformarla in
altro, per cambiarle segno: ma nello stesso tempo il linguaggio deve Ŗrovesciareŗ la storia e
qualcosa di più della storia, deve, pur soggiacendo a questo mondo, Ŗtrascenderloŗ almeno
indagandone gli orridi deficit»109.
Si notino le tangenze tra il discorso sullřopera di Celan e quanto, nella più volte citata nota a
Sovrimpressioni, Zanzotto scriveva della propria poesia: necessità di «rovesciare», «trasformare in
altro», «cambiare di segno» (nella nota: «controtendenza») allř«annichilimento assoluto» (la
«pletora onnivora e annichilente»), pur constatando di dover «rimanere in certo modo
nellřannichilimento», di non poter sottrarre il linguaggio «alla deriva della destrutturazione» (il
«coinvolgimento»).
Ebbene. Unřesplicito, interrogativo riferimento alla raccolta celaniana Sprachgitter (Grata di
parole, secondo la traduzione di Giuseppe Bevilacqua110, 1959) è presente in Conglomerati
nellřexplicit di Osservando dall‟alto della stessa china…111; poesia che, come segnala la nota,
106
Su tutti i riferimenti possibili, si pensi allřepilogo della Beltà, E la madre-norma (PPS, p. 348), e si osservi come i
versi esplicitari della poesia (25-6 «rileva Ŗi raccordi e le rime / dellřabbietto con il sublimeŗ») siano sostanzialmente
ripresi in Conglomerati, Tristissimi 25 aprile, vv. 30-2: «Ma nelle immondizie / troverò tracce di sublime / buone per
tutte le rime».
107
Da Autoritratto [1997], PPS, p. 1209.
108
Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-lampo) [1987], PPS, pp. 1309-19.
109
In Scritti sulla letteratura, II, cit., p. 345.
110
Nel «Meridiano» delle Poesie, Milano, 1998. Per la problematica inerente alla traduzione del titolo, cfr. lřampio
saggio introduttivo, sempre di Bevilacqua, Eros – Nostos – Thanatos: La parabola di Paul Celan, pp. LIII-LVII.
111
Cfr. su questo punto la già più volte citata Lettura di Francesco Venturi (pp. 199-201): «Nello Celan di Sprachgitter,
il paesaggio petroso era oggetto di una consimile interrogazione pietosa, poiché ogni singola pietra componeva
virtualmente un sepolcro per le vittime insepolte dellřolocausto. E, in Fosfeni, Zanzotto aveva ritratto il sovrapporsi e
lřaccatastarsi degli anni in tarda età come una lapidazione illogica: ŖAccumulati anni, come pietre / tirate a caso laggiùŗ
(Periscopi, vv. 1-2). Ma, per circoscrivere meglio il campo semantico del titolo, conviene risalire al primo saggio
montaliano Inno nel fango, del ř53, dove, a proposito del tema del ciottolo e del pietrame in Ossi di seppia, Zanzotto
124
125
riprende da Sovrimpressioni il «tema delle ŖCarità romaneŗ»112, «riproposto in diversa forma nel
nostro tempo anche in Furore di John Steinbeck (The Grapes of Wrath, 1939)»: cfr. la Prima
versione: «Dammi il seno ora, ora, subito, ben puttana, / da dietro la grata, dalla mia passione
generata Ŕ ed innocente figlia manigolda Ŕ da dietro la folle griglia sigillata (Sprachgitter?)» (e la
nota dellřautore: «Paul Celan, Sprachgitter»), con la Seconda, meno esplicita: «il feudo là nel suo
sottrarsi in non luci disperse / divenuto promessa da sempre frustrata / dallřincorruttibilità di una
grata».
Per comprendere il rapporto tra la «Sprachgitter» di Celan e le Carità romane di Zanzotto si legga
la nota al componimento:
«Dante, come tanti altri autori, fa spesso ricorso in passi celeberrimi alle muse allattatrici dei
poeti. La loro figura non può essere sentita come veramente materna ma assume un carattere di
donazione che viene da remote corrispondenze ed intrichi quasi biologici. Esse poi sono di fatto
generate dalla fantasia dei poeti, padri in tal modo nutriti dalle loro figlie […]. Nel nostro tempo
la poesia subisce un processo che rasenta lřemarginazione (anche se non sparirà mai del tutto).
Essa viene da una figura di reietto, necessitato ad assorbire e a saturarsi delle velenose forze che
tendono ad ottenebrare la fisiologia stessa del sussistere. Il padre velenoso in quanto possibile
interprete dei veleni attuali e dei loro linguaggi genererà un ghost, una Ŗfigliaŗ che gli rinvierà col
suo latte malsano lřinsieme ingigantito dei suoi mali. Eppure… Se questo scambio si verifica […]
forse qualche luce shocking può apparire»113.
Il poeta, come Celan, deve farsi «interprete» e mediatore «dei veleni attuali» nei confronti di
unřimmagine fantasmatica di «beltà» (la musa) che è creata da lui, ma che a sua volta lo nutre,
restituendogli sì «lřinsieme ingigantito dei suoi mali», ma generando anche in questo scambio un
possibile, luminoso cortocircuito in cui la poesia può continuare a sopravvivere.
Il linguaggio poetico (Sprache) in questo processo è un fattore di separazione, segregazione,
«emarginazione»:
«Materialmente [Sprachgitter] significa la grata attraverso cui avviene il dialogo in un
confessionale o nel parlatorio di un convento di clausura. È dunque qualcosa che pone un limite,
un diaframma, un impedimento quantomeno parziale alla piena e libera attuazione di un dialogo,
di un contatto. Forse ci avviciniamo al senso allusivo implicito nel titolo se vogliamo tenere
presente che il tema dominante della raccolta è lřaspirazione, il tentativo estremamente arduo di
istituire un rapporto con i Ŗsommersiŗ. E qui può essere utilmente ripreso il collegamento […] con
lřuso metaforico che Jean Paul Ŕ scrittore molto letto da Celan Ŕ fece in varie sue opere di
Sprachgitter. Così in Hesperus si legge: Ŗil silenzio è il linguaggio del mondo degli spiriti, il cielo
stellato è la loro grata di parole […]ŗ.
[…] Lřipotesi suesposta circa il senso da attribuire a Sprachgitter mi sembra dunque da preferire a
quella, pur sostenuta con ingegnosi argomenti, secondo cui il titolo indicherebbe la griglia
linguistica che il poeta avrebbe inteso gettare sulla realtà per dominare il caos che regna in
essa»114
aveva già enucleato le antinomie umano / non-umano, organico / inorganico, inferendone la nozione di Ŗtempo grandeŗ
[in Scritti sulla letteratura, cit., vol. I, pp. 15-20]: Ŗtutto questo cosmo di atroci entità sotterranee, magmi e fossili,
situati, pure nella loro soffocante vicinanza, a immani distanze di tempo, come le stelle nello spazio, dovevano
contribuire a umiliare lřuomo sino ad offenderlo, [...] predicandogli con mezzi mostruosamente eccessivi la sua
insignificanza, anzi il suo perdersi già in atto nel mare magnum dei residui, veri signori del mondo. [...] la scienza aveva
messo in luce i misteri di un paesaggio alienante, denso di pieghe e di strati che parlavano smisuratamente di vita
consunta senza essere umanaŗ».
112
da Carità Romane (1-3), pp. 42-6.
113
P. 46. La denominazione ŖCarità romanaŗ si riferisce a un aneddoto ricordato da Valerio Massimo nellřopera
Factorum ac Dictorum Memorabilium Libri IX (I sec. A.C. Ŕ I sec. D.C. circa), nel quale si racconta di una fanciulla di
nome Pero che allatta segretamente il padre in carcere, dove questi è stato condannato a morire di fame. La storia ha
conosciuto una vasta fortuna soprattutto nel campo delle arti figurative, dagli affreschi pompeiani a Rubens.
114
Bevilacqua, cit., pp. LIII-LIV.
125
126
Nel caso di Zanzotto, perlomeno, credo sia ipotizzabile unřambivalenza, e che quella della «grata»
vada intesa al contempo come necessaria funzione strutturante e ordinatrice, come elemento che
media tra il poeta e gli «spiriti», siano essi le sue creazioni fantasmatiche o le reali manifestazioni
dei Ŗsommersiŗ, dei morti (i «Manes»).
In tal senso, mi pare che anche nel titolo della sezione Isola dei morti e in quello, appena variato,
del suo componimento incipitario (Grave. Isola dei morti) emerga una reminiscenza celaniana. Il
pensiero corre infatti allřepilogo di Von Schwelle zu Schwelle (Di soglia in soglia, 1955), Inselhin
(Alla volta dell‟isola):
Inselhin, neben den Toten,
dem Einbaum waldher vermählt,
von Himmeln umgeiert die Arme,
die Seelen saturnisch beringt:
so rudern die Fremden und Freien,
die Meister vom Eis und vom Stein:
umlauted von sinkenden Bojen,
umbellt von der haiblauen See.
Sie rudern, sie rudern, sie rudern -:
Ihr Toten, ihr Schwimmer, voraus!
Umgittert auch dies von der Reuse!
Und morgen verdampft unser Meer!115
Oltre al primo verso, che palesa subito la contiguità tematica, si noti il connubio «Eis-Stein» del v.6
(Ŗghiaccio-pietraŗ), diffusissimo in Conglomerati. I «latrati» dellř«haiblauen See» (v. 8: «mare
color squalo»116) suggeriscono inoltre un riscontro con le poesie contigue di Lacustri, Le notti
fremono di ladri e di ghiacci (vv. 5-6: «le notti millezero come pack insqualano / tetri ruggiti di
urti) e Denti di squali e segnali fatali117, dove pure il tema del Ŗghiaccioŗ è centrale. Le liriche citate
sono per giunta seguite da Sacramento-pericolo, componimento dove il lago è definito
metaforicamente «gemma cupa» e «perla-nera», in possibile riecheggiamento di Aufs Auge
Gepfropft (Innestato nell‟occhio), vv. 4-5: «treibt es die schwarze, / die Knospe» («esso getta nera /
la sua gemma»)118.
E si osservi infine, al v. 11 di Inselhin, il participio «Umgittert» (Ŗimprigionatoŗ), che salda secondo
un procedimento tipicamente celaniano la silloge del ř55 alla successiva, Sprachgitter, citata da
Zanzotto in Osservando dall‟alto della stessa china….
Andrebbe indagata anche lřincidenza dello stilema iterativo «sie rudern, sie rudern, sie rudern» (v.
9), caratteristico della scrittura di Celan, con le «varie forme morfologiche e ritmiche che
segnalano» in Zanzotto «nesso e legame, rivisitazione e ripetizione» 119: ma il discorso, formale e
115
Paul Celan, Gesammelte Werke, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 1986, vol. I, p. 141 (ed. it. p. 242-3: «Alla volta
dellřisola, a fianco dei morti, / fin dalla foresta uniti al tronco scavato, / le braccia attorniate da cieli-avvoltoi, / le anime
cinte da saturnei anelli: // così, liberi ed estranei, vogano costoro, / i maestri del ghiaccio e della pietra: / fra il clamore
di boe sprofondanti, / fra i latrati del mare color squalo. // Essi vogano, essi vogano, essi vogano -: / Voi, morti, voi,
nuotatori, avanti! / Imprigionato anche questo nella nassa! / E domani svapora il nostro mare!»).
116
Letteralmente Ŗtinto di azzurro-squaloŗ.
117
Possibile, in «sovrimpressione», una eco dagli Strumenti umani (1965) di Sereni, Gli squali, 14-6: «E presto delusi
dalla preda / gli squali che laggiù solcano il golfo / presto tra loro si faranno a brani».
118
Von Schwelle zu Schwelle, op. cit., p. 106 (ed. it. p. 176-7).
119
Clelia Martignoni, cit., p. 215.
126
127
non, potrebbe estendersi allřintera produzione zanzottiana120 e ad altri fenomeni linguistici121,
esorbitando i limiti che ci si è imposti qui.
Altri referti tematico-lessicali si incontrano negli ultimi versi di Crode del Pedré (Seconda versione:
«peso, peso, peso PESO / peso / contrazioni, krismi di ciò che pensi e spargi / TU IO LEI, signore
VOI signorine PESO orbo OMBRA / fratto e irrelato e maciullato e accovacciato / MACELLASTE
ROCCE e ne uscì ventoŔmiracolo torvo / diveniste, INCIDENZE DřIPERCOSCIENTE /
MEMORIE 3000 o 30000 anni? o appena 30 di / demente, maialesca dimenticanza?»), dove, oltre
ai temi celaniani dellřŖombraŗ e della Ŗmemoria/dimenticanzaŗ, il «peso» ossessivamente evocato e
maiuscolato sembra riferirsi a Das Schwere (Il peso, in Von Schwelle zu Schwelle)122, che non
«rende leggera la pietra» (v. 2: «es macht mir den Stein nicht gewogen»), e a Es ist nicht mehr (Non
è più, in Die Nemndsrose, 1963), che riproduco qui di seguito:
Es ist nicht mehr
diese
zuweilen mit dir
in die Stunde gesenkte
Schwere. Es ist
eine andere.
Es ist das Gewicht, das die leere zurückhält,
die mitginge mit dir.
Es hat, wie du, keinen Namen. Vielleicht
seid ihr dasselbe. Vielleicht
nennst auch du mich einst
so123.
Ma cřè anche, in 27 novembre124, lo sbadiglio «Pallash» del «selvaggio» gatto Utti, che è sì
hölderliniano125, ma che rinvia anche alla celebre clausola parentetica («(“Pallaksh. Pallaksh”)»)
120
Aggiungo solo un riscontro fra il titolo di due poesie raccolte in Meteo, Ticchettio (I e II, PPS, pp. 839-42), e lo
splendido epilogo di Sprachgitter, Engführung (Stretta), in Gesammelte Werke, cit., I, p. 198, vv. 31-2: «[…] ich tickte
euch, euer Atem / gehorchte» (ed. it. p. 335: «vi mandavo un ticchettio, il / vostro respiro si adeguava»). Ma cfr. anche
Und mit dem Buch aus Tarussa (E con il libro di Tarussa), ibid., p. 287, vv. 13-29: «Von / Wahr- und Voraus- und
Vorüber-zu-dir-, / von / Hinaufgesagtem, / das dort bereitliegt, einem / der zigene Herzsteine gleich, die man ausspie /
mitsamt ihrem un- / verwüstlichen Uhrwerk, hindu / in Unland und Unzeit. Von solchem / Ticken und Ticken inmitten /
der Kies-Kuben mit / der auf Hyänenspur rückwärts, / aufwärts vervolgbaren / Ahnen- / reihe Derer- / vom-Namenund-Seiner- / Rundschlucht» (ed. it. p. 497-8: «Di quel / già detto per vero / e prima e accanto e a te / allřinsù / che giace
lì pronto, uguale / ad una delle pietre del proprio cuore, / che sputammo, assieme al loro in- / distruttibile meccanismo
dřorologio, / fuori, nel non-paese e nel non-tempo. Di questo / continuo ticchettare nel bel mezzo / dei cubi di ghiaia
con / la catena di avi / di Nomi-e-Sua- / Forra-Tonda, percorribile a ritroso / su una traccia di jene»), dove tra lřaltro
segnalo: il tema dellř«Unland und Unzeit» (Ŗnon-paese e non-tempoŗ), che come si è in parte visto è centrale in
Zanzotto; lřimmagine dei «Kies-Kuben» (Ŗcubi di ghiaiaŗ), molto simile a quella dei «conglomerati»; infine, la
«schlucht» (Ŗforraŗ) di tante poesie zanzottiane, tra le quali (Forre, fessure 2) in Conglomerati (pp. 133-4).
121
Penso, per fare solo un altro corsivo esempio, alla Ŗfrantumazioneŗ di parole in enjambement, vero e proprio marchio
stilistico di Celan e significativa del suo «lallen und lallen, / immer-, immer- / zuzu» (Tübingen, Jänner, in Die
Niemandsrose, ibid., p. 226, vv. 20-2; ed. it. pp. 380-1: «bal- balbettare / conti-, conti-, / nuamente, mente»), così in
sintonia con la balbuzie-afasia-amnesia zanzottiana (per cui rinvio a Stefano Agosti, L‟esperienza di linguaggio di
Andrea Zanzotto, PPS, pp. IX-XLIX). Tra i molti riscontri possibili, cfr., in Conglomerati, Il cortile di Farrò…, vv. 1-6,
dove la scalatura tipografica dei versi intensifica lřeffetto di «sfasamento»: «Tu che nelle sfasate / avvisaglie dřaprile,
alle sere / in cui nubi grigeoro lacri- / marono lacri- / marono / tra i ricci del sole».
122
Ibid., p. 90 (ed. it. pp. 146-7).
123
Ibid., p. 238 (ed. it. pp. 402-3: «Non è più / quella / pesantezza che talvolta / con te sprofondava / nellřora. È /
unřaltra. // È il peso rattenente / il vuoto / che sennò třaccompagna. / Come te, non ha nome. Forse / siete la stessa cosa.
Forse un giorno / anche tu mi chiamerai / così»).
124
Conglomerati, cit., p. 149.
127
128
della poesia celaniana Tübingen, Jänner126 (in Die Niemandsrose), in cui la presenza di Hölderlin è
strutturale.
Infine, si pensi alla poesia esplicitaria della penultima sezione (e dellřintera raccolta, se si guarda
alle due Disperse come a un corpo per molti versi estraneo alla sua struttura), Parola, silenzio127:
due quartine di endecasillabi a rima ABAB seguite da un verso para-endecasillabico isolato, che
paiono dialogare con il celaniano Argumentum e silentio128.
E veniamo, dopo questa escursione, al problema del titolo: «Erratici», si diceva. Si sarebbe
immediatamente portati a pensare a Erratisch (Erratico, in Niemandsrose), dove «Der Stein, /
schläfennah einst, tut sich […] auf» (vv. 6-7: «La pietra, / stretta prima alle tempie, […] si
schiude»)129, in maniera non troppo dissimile a quanto accade, nel brano citato (supra), alle «rocce»
di Crode del Pedrè (Seconda versione), dopo che il loro «PESO orbo OMBRA» è stato «fratto e
irrelato e maciullato» per farne «uscire vento-miracolo torvo».
Il tedesco, tuttavia, ha una termine tecnico per indicare i massi erratici, Ŗfindlingŗ (da Ŗfindenŗ,
Ŗtrovareŗ), che si riferisce allřenigmatico ritrovamento di queste rocce nei campi da parte dei
contadini, e che ha un riscontro preciso nella poesia di Celan. Ecco il testo di Vom groβen (in
Atemwende, 1967):
Vom groβen
Augenlosen
aus deinen Augen geschöpft:
der sechskantige, absageweiβe
Findling.
Eine Blindenhand, sternhart auch sie
von Namen-Durchwandern,
ruht auf ihm, so
lang wie auf dir,
Esther130.
Il «sechs-kantige findling » (Ŗmasso erratico delle sei cresteŗ) ricorda anche la «Trimurti» di
Euganei (2-3), le tre creste montuose che, come gli erratici, costituiscono un «geometrico
avvenimento / improvvisamente allucinante / tra tanti segni di intrichi topologici / a una curva di
stradine / che taglia il fiato / che toglie appoggio sotto i piedi» (2, vv. 1-6).
Se, inoltre, lřipotesi di intitolare la raccolta Erratici viene scartata, lřalternativa rappresentata da
Conglomerati non abbandona però la «traccia» di Celan.
Zanzotto, pur non avendo bisogno di mediazioni per leggere il tedesco, conosce senzřaltro la
traduzione dellřamico Giuseppe Bevilacqua (cui qui si è fatto costante riferimento). È molto
probabile dunque che abbia presente la versione italiana dello splendido incipit (di impronta
125
Cfr. la nota dellřautore (p. 149): «Pallash era una delle parole pronunciate da Hölderlin durante la follia.
Lřaccostamento sembra rinviare a una qualche misteriosa relazione tra questa animalità folle che ancora crea e il gatto
che si esprime con uno sbadiglio».
126
Gesammelte Werke, cit., I, p. 226 (ed. it. pp. 380-1).
127
Conglomerati, cit., p. 196.
128
In Von Schwelle zu Schwelle, op. cit., pp. 138-9 (ed. it. pp. 236-9).
129
Ibid., p. 235 (ed. it. pp. 396-7).
130
Ibid., II, p. 35, corsivo mio (ed. it. pp. 554-5: Attinto ai tuoi occhi / dal grande / Senza- / occhi: // il masso erratico /
delle sei creste, bianco di rifiuto. // Una mano di cieco, durissima anchřessa, / per quellřincrociar di no mi, / riposa su di
lui, tanto / a lungo quanto su te, / Esther»).
128
129
heideggeriana) Wege im Schatten-Gebräch, Passaggi nel conglomerato d‟ombre131, dove però
Bevilacqua sceglie di allontanarsi dal valore tecnico che la parola «gebräch» (trad.:
Ŗconglomeratoŗ) ha in tedesco. Si tratta di un termine della caccia, indicante i cumuli di terra che i
cinghiali ammucchiano scavando con il grugno alla ricerca di tuberi, e che si traduce letteralmente
in italiano con Ŗaraturaŗ. È unřimmagine di grande intensità e potenza, che richiama il tema di In
gestalt eines ebers (In figura di selvatico porco, in Von Schwelle zu Schwelle)132 e che potrebbe
suggerire una nuova parziale analogia con i «massi / colmi ancora della violenza dřurto / che li ha
sparsi e resi tali» di Crode del Pedrè (Seconda versione, vv. 2-4).
Cřè invece un altro luogo celaniano dove il poeta, senza nominarli, sembra quasi dare una
definizione dei conglomerati quale metafora dellřesistenza e della poesia. È un aforisma del 1956,
pubblicato nel volume postumo «Mikrolithen sinds, Steinchen». Die Prosa aus dem Nachlaβ133:
«Mikrolithen sinds, Steinchen, kaum wahrenehmbar, winzige Einsprenglinge im dichten Tuff
deiner Existenz Ŕ und nun versuchst du, wortarm und vielleicht schon unwiderruflich zum
Schweigen verrurteilt, sie zusammenzulesen zu Kristallen? Auf Nachschübe scheinst du zu warten
Ŕ woher sollen die kommen, sag?»134
Al di là del riscontro (i «microliti», altrimenti Ŗclastiŗ, agglomerati nel «tufo denso» della Ŗmatriceŗ
cementata), conta la profonda consonanza tra la poetica celaniana e quella di Conglomerati: la
gravità soffocante dellř«esistenza», e il poeta che, nonostante sia ormai rimasto «povero di parole e
forse già irrevocabilmente condannato al silenzio», persiste nel tentativo di portare quel poco e quel
disgregato che gli resta alla geometrica connessità e trasparenza del «cristallo». Nella disperata
attesa di «rifornimenti» (da dove?).
Luca Stefanelli
131
Atemwende, op. cit., pp. 524-5.
Si confronti inoltre la rete isotopica istituita dalla «Vier-Finger-Furche» del v. 3 (Ŗsolco-di-quattro ditaŗ) e dal verbo
Ŗwühlenŗ del successivo, che significa non solo Ŗscavareŗ, ma anche, in riferimento al maiale, Ŗgrufolareŗ: «Wege im
Shatten-Gebräch / deiner Hand. // Aus der Vier-Finger-Furche / wühl ich mir den / versteinerten segen».
133
Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 2005 (ed. it. Microliti, Mori, Zandonai, 2010, a cura di Dario Borso: per le
differenze tra lředizione italiana e quella tedesca rimando alla Premessa del curatore).
134
Ibid., p. 47 (ed. it. pp. 52-3: «Microliti sono, pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della tua
esistenza Ŕ e ora tenti, povero di parole e forse già irrevocabilmente condannato al silenzio, di raccoglierli a cristalli?
Rifornimenti sembri attendere Ŕ donde dovrebbero venire, diř?»).
132
129
130
FUOCHI TEORICI
130
131
Il poema contemporaneo tra bios e Storia
I.
I modelli per la scrittura poematica in Italia, a partire dagli anni quaranta, sono per lo più stranieri:
The Age of Anxiety di W. Auden, The Waste Land di T. Eliot e i Cantos di E. Pound. Sulla base di
queste nuove spinte, a riparo da equivoci formali nati durante il ventennio fascista, torna anche nel
nostro Paese la necessità di scrivere poemi. Così nascono le esperienze letterarie più significative di
Elio Pagliarani, La ragazza Carla, e Giancarlo Majiorino, La capitale del nord; decenni dopo, negli
anni sessanta, Roberto Roversi, scrive Dopo Campoformio, e Giorgio Cesarano dà voce ai suoi
paesaggi urbani disperati e raggelati di Il sicario e l'entomologo, Ghigo vuole fare un film e i Poemi
naturali. Una rilettura critica della nostra tradizione poematica è stata offerta, invece, negli stessi
anni da alcuni saggi essenziali: tra gli altri, i famosi scritti di Gianfranco Contini. Nel saggio
Un'interpretazione di Dante, uscito la prima volta per Paragone nel 1965, Contini dice qualcosa che
ha ancora una forte attualità teorica: «Il segreto, di questo modo biologico di Dante consiste nella
sua ugualmente intensa partecipazione, e addirittura nellřidentificazione successiva con gli oggetti,
perfettamente chiari alla coscienza.» (1) La capacità percettiva del poeta è il mezzo che permette
una poesia "locale", ossia poesia degli spazi e delle concrezioni di realtà. Alla base di questa facoltà
narrativa c'è l'equilibrio tra Ŗlo stadio liquido e lo stadio solido della materiaŗ (2). Non un'assoluta
liquidità quindi, cosa che porterebbe ad una infernale spirale barocca dell'io che collassa su se
stesso; né un'assoluta solidità, fonte di una confusa indistinzione dalla realtà (il rischio cronachistico
del racconto). Contini si riferisce alla descrizione degli eventi naturali, ma il suo ragionamento
appare anche come un monito più profondo rivolto alle capacità percettive del poeta o del narratore
in versi. Dante, l'autore poematico, deve essere capace di farsi carico e di risolvere formalmente il
contrasto tra il fluire degli eventi biologici, cognitivi, percettivi, e lo spazio condiviso, lo spazio
simbolico o culturale in cui si è calati. Si potrebbe aggiungere che le due deviazioni possibili si
scontano nella poesia contemporanea con il biologismo fine a se stesso (e di conseguenza con la
retorica del corpo e della carne che sostituisce quella dell'io e dell'anima) o nella depressione della
parola a favore del reale (il feticcio dell'oggettività e della realtà). L'equilibrio sta proprio nella
relazione tra bios e mondo, tra temporalità del singolo e Storia. L'intento critico di Contini era di
riabilitare il poema dantesco, messo in discussione negli anni addietro dalla critica crociana. Croce
aveva interpretato lřelemento descrittivo della Divina Commedia come una cornice (la struttura) o
addirittura un limite della capacità lirica dellřautore fiorentino. Le descrizioni del "poeta divino"
erano per Croce un momento di "pausa" dal suo magistero lirico(3). La grandezza di Dante sta
invece, a parere di Contini, proprio nel saper unire la temporalità esistenziale, quindi l'intuizione,
con lo spazio storico. I personaggi e i luoghi danteschi sono il frutto di questo equilibrio; sono il
nodo in cui si innesca, si incardina il rapporto tra vita e mondo, tra vita e storia: «La realtà su cui la
versatilità e la disponibilità di Dante si precipita è storicamente sentita anche quando è eterna e
ripetibile, tanto più manifesta allorché si scende verso le entità individualmente determinate.» (4)
Stando alle indicazioni di Contini, Dante è riuscito a riscattare il singolo dalla caducità della Storia,
allo stesso tempo però ha sottratto la Storia dal pericolo della monumentalità. La temporalità del
bios e la Storia si attivavano l'un l'altro nella relazione. In questo passaggio del testo di Contini si
intuiscono ragioni politiche oltre che formali(5).
Del resto, già negli anni venti, il poeta russo Osip Mandelstam, nella sua stimolante
produzione critica, sottolineava un aspetto del poema simile a quello messo in evidenza da Contini.
Mandelstam parlava della "chimica organica" di cui è fatto il verso di Dante; definiva Dante un
Ŗdirettore chimicoŗ: nella Divina Commedia non esistono metafore ma condensazioni chimiche,
tutto il poema è un organismo vivente che si fa narrazione, le terzine dantesche sono il camminare
stesso del poeta:
131
132
Perfino una sosta è una concentrazione di moto accumulato: la piattaforma dřuna
conversazione viene creata con sforzi da alpinista. Il passo Ŕespirazione e inspirazione- è il
piede del verso. Una falcata che deduce, vigila, sillogizza. (6)
Per Mandelstam il verso, la forma del poema deve misurare la materia e deve condensarla: il metro,
la scelta formale, deve essere rigoroso perché la posta in gioco è la stessa relazione tra bios e Storia:
è la forma che mantiene in potenza il rapporto tra temporalità e mondo. Scrive Mandlestam a questo
proposito:
Dante non entra mai in singolar tenzone con la materia senzřaver predisposto un organo per
agguantarla, senzřessersi armato di uno strumento per misurare il tempo che è trascorso goccia
a goccia o si è liquefatto. In poesia, dove tutto è misura, tutto parte dalla misura, ruota intorno
alla misura e grazie alla misura gli strumenti di misurazione hanno facoltà particolari, sono
portatori di una speciale funzione attiva. (7)
LřUlisse omerico, nella sua versione dantesco, è interpretato come il tentativo dellřuomo di
afferrare il tempo in quanto Storia. E' biologia del singolo, la parte animale, il nostro limite naturale,
che deve misurare quella simbolica, la deve tenere a bada (e viceversa). Il rimando e l'equilibrio tra
le due sfere permette la scrittura, le dà potenza. Solo così si possono scongiurare le retoriche
totalitarie del corpo idealizzato: Mandelstam era, suo malgrado, esperto di regime totalitari:
Nel canto di Ulisse la terra è già rotonda. Eř unřesaltazione del sangue umano, nel quale è
contenuto il sale dellřoceano. Lřinizio del viaggio è iscritto nel sistema cardiovascolare. Il
sangue è planetario, polare, salino. Con ogni circonvoluzione del proprio cervello Dante
disprezza la sclerosi, come Farinata disprezza lřInferno. (8)
Nei personaggi del poema invece la Storia torna ad essere con-divisa esperienza del tempo, la storia
viene messa, per così dire, "sotto giudizio". Leggiamo ancora nelle pagine di Mandelstam:
Lo stesso metabolismo terrestre si compie nel sangue […] Il tempo per Dante è il contenuto
della storia, intesa come un atto unitario e sincronico; viceversa il contenuto della storia è un
con-tenere il tempo, un sostenerlo in comune da parte di compagni, co-cercatori, co-scopritori
del tempo stesso. (9)
Ma guardando ancora più indietro, risalendo agli scritti teorici di Tasso, nel suo Discorso dell‟arte
poetica e in particolare sopra il poema eroico, troviamo un'esigenza non dissimile. Qui ci viene
fornita un'altra informazione sul poema e sulle sue ragioni politiche, sociali e formali. Tasso
scriveva nei suoi saggi:
Ma si come lřocchio è diritto giudice della dicevole statura del corpo (però che convenevol
grandezza sarà in quel corpo nella vista del quale lřocchio non si confonda, ma possa, tutte le
sue membra rimirando, la loro proporzione conoscere); così anco la memoria comune degli
uomini è dritta estimatrice della misura conveniente del poema. Grande e convenevole quel
poema in cui la memoria non si perde né si smarrisce; ma tutto unitamente comprendendolo,
può considerare come lřuna cosa con lřaltra sia connessa e dallřaltra dependa, e come le parti
fra loro e cořl tutto siano proporzionate. (10)
Di contro Tasso vedeva nel poema che non tiene in considerazione le regole della misura e
dellřequilibrio le sembianze di un mostro. Il poema deve avere una sola favola perché le troppe
vicende e le troppo azioni hanno del mostruoso. In questo modo, riprendendo i principi
dellřarmonia aristotelica, Tasso fissava i canoni per la composizione del racconto in versi(11). In
base a questo principio le vicende degli eroi cristiani, con le loro licenze amorose, rappresentavano
132
133
la lotta del canone occidentale con la tentazione pagana verso lřaltro, verso lřestraneo, lřeccentrico.
Per questo motivo Tasso e il suo poema sono "il primo grande esempio, nella letteratura italiana, di
complicità con lřAltro"(12). In Tasso c'è un'idealizzazione del canone e dell'equilibrio anche se
nella sua poesia (amata proprio per questo dai romantici) le strofe vivono ancora come quadri
mobili del turbamento profondo, della ricerca di un centro: il vero centro tematico è ancora la lotta
tra temporalità biologico-esistenziale e Storia. Ma se la Storia va messa al vaglio della critica della
nostra temporalità, e la nostra esistenzialità va accertata ogni volta nella Storia condivisa, è anche
vero che è la poesia il campo di battaglia su cui si dà lo scontro. Qui si decide dello spazio o di un
mondo.
II.
Difficile indagare quanto Dante e Tasso, archetipi della nostra tradizione poematica, vengano
rielaborati dai nuovi autori, ma la percezione che si ha, nel leggere alcuni testi della più recente
produzione, è che ci si imbatta in un ethos vicino a quello messo in luce da Contini o da
Mandelstam. Se negli autori del dopoguerra e degli anni sessanta (Pagliarani, Majorino, Cesarano,
Roversi), predominava la frattura, il frammento, un portare nel testo una dialettica ancora forte con
il reale, gli autori che pubblicano poemi nel nuovo millennio sembrano mossi da un'esigenza
diversa: si parla di una poesia che tenta di dire il mondo, come se lo dicesse per la prima volta. Sono
parole che emergono dal vuoto semantico e dall'aurora delle rovine della società mediatica.
L'esigenza politica è proprio di comparire nella Storia(13). Per questo motivo, dal punto di vista
formale, la tendenza poematica di certa poesia contemporaneo non stabilisce un canone, perché la
stessa forma del testo, il metro, la strofa e il ritmo, costituisce la presenza di un mondo. E' una
prospettiva nuova dello spazio collettiva e un'epifania della storia personale. Come diceva
Mandelstam, "ogni passo sillogizza". Per questo motivo, anche se oggi si parla molto di neoepica,
di romanzo in versi, si cerca una definizione adatta alla tendenza, non direi antilirica (l'anelito lirico
è presente anche in queste opere), ma anticonfessionale della poesia italiana più recente, sembra che
la differenza la faccia proprio il rigore con il quale l'operazione in versi riesca a creare un
meccanismo complesso, che si tenga da sé e che sia allo stesso tempo ampiamente metaforico. Qui,
tutt'al più, si può solo attestare una esigenza comune che ha dato vita nell'arco di pochi anni ad una
produzione diffusa di opere poematiche.
Si torna quindi a narrare con strutture forti e organiche. In molti autori torna la necessità d'indagare
la Storia. Così accade con le opere di Luigi Ballerini e il suo poema Cefalonia, tragica e, a tratti,
grottesca metabolizzazione personale e collettiva dell'eccidio dei soldati italiani sull'isola greca,
dopo l'armistizio dell'8 settembre del 1943. Episodio storico e autobiografico che muove dalla
morte di soldati lontani non per costruire, ma per decostruire, grazie al metro e al tono
canzonettistico delle lasse, la retorico di un Paese ancora intriso di cultura degenere di destra. Così
Federico Italiano, con il suo I mirmidoni, poemetto d'ispirazione audiano, ambientato nella
pinacoteca di Monaco di Baviera, appronta la messa in scena di una nuova arca russa (penso al film
di Sokurov) in cui una faglia storica e temporale permette una riflessione più ampia sulla
contemporaneità; dove custodi e giovani avventori si mischiano alle vicende dei guerrieri
mirmidoni, colti nel momento di sospensione dalla battaglia. Così fa Alessandro Rivali, che con La
riviera del sangue e La caduta di Bisanzio, cerca una soluzione messianica agli orrori della Storia
(senza prima averli affrontati ad occhi aperti), partendo dalle catastrofi antiche per arrivare a quelle
a noi più vicine. Viola Amarelli, invece, in Notizie dalla Pizia dà voce alla sacerdotessa prendendo
ella stessa voce, così come possiamo leggere dalla prefazione di Gianmario Lucini: "Il vero
protagonista del testo poetico si rivela un ambiente sociale e umano senza tempo, quello di una
civiltà che si muove molto più adagio di quanto rappresentino le scansioni storiche contraddistinte
da date, avvenimenti cruciali e grandi eventi che in qualche modo formano e fermano il corso della
storia per tappe e coordinate spesso arbitrarie. Questa narrazione in versi si svolge in monologhi: le
indovine si presentano, raccontando il loro tempo ed esponendo il pensiero magico che attribuisce
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loro un ruolo, una funzione sociale, a prescindere dalle coordinate temporali e persino dalle loro
stesse intenzioni. È, insomma, il mondo mitico-magico che crea le profetesse per una sua esigenza
di stabilità volta a evitare la propria dissoluzione"(14).
Ma aldilà dei più smaccati richiami alla storia, esistono altri esempi di scrittura poematica
dove la questione centrale resta la presenza nel tempo con-diviso, la presenza nello spazio. Anche in
quello che sembra essere un canzoniere d'amore, come si dice del poema La divisione della gioia di
Italo Testa. Il titolo del libro, oltre a citare il famoso complesso della scena new wave inglese degli
anni '80, allude al padiglione riservato allo "svago" dei soldati tedeschi durante la seconda guerra
mondiale all'interno dei campi di concentramento, occupato per lo più da ragazze ebree. I due
amanti protagonisti del libro di Testa vivono le scene del poema come se risorgesse da quel
quadrato di morte; tutta la narrazione, la messa in scena, è fondata sulla luce aurorale. Più che
l'amore, il protagonista di questo testo è proprio la gioia, ossia il modo di guardare le cose, sapendo
della loro fine. Luigi Nacci, con il suo Poema disumano, fa un'operazione di metricizzazione della
storia più recente, calando eventi tragici in un'atmosfera non dissimile da quella delle lasse di
Ballerini. Anche qui c'è una percezione fonico sillabica degli eventi condivisi, una
metabolizzazione della storia. Ciò che qui manca rispetto ad altre esperienze è l'organizzazione
strutturale del poema. La cornice è la stessa cantabilità, fruibilità pubblica del testo. Diverso invece
il discorso per il suo lavoro più recente in cui la fabula è il ritrovamento di un manoscritto in Sud
America passato per le mani di ex-nazisti sfuggiti dall'Europa (Mengele, Priebke, Eichmann). In
questo testo troviamo inni, canti e madrigali dei criminali di guerra. Autore della scoperta, della
cura e della traduzione del testo è lo stesso poeta che qui compare sotto la firma Dott. Luigi Nacci.
Anche questo espediente è il modo di affrontare un'interpretazione diretta con il male e la
Storia(15). Nel poema Le api migratori invece Andrea Raos, attraverso la vicenda dello sciame di
api assassine, parla delle eccedenze della scienza più recente, unendole ad un immaginario pop,
divenuta vera e propria rètina percettiva della realtà(16). Il corpo debordante del testo è anche
l'immaginario postremo, che fatica a ritrovare un suo centro. Francesco Filia, con Il margine della
città, che affronta il corpo a corpo con la realtà in una ricostruzione autobiografica che ingloba la
cinta muraria della città natale con i suoi delitti e le sue offese. Si legge tra l'altro i versi di un
frammento che alludono proprio alla relazione necessaria tra mondo e bios: ŖDimoro nella lesione
di ogni cosa./ Vuoto logico di questo terrazzo aperto/ su di un balzo di palazzi e voci rabbiose./ Le
labbra si schiudono ancora nella gioia/ di nominare le cose i volti lo spazio/ che si stringe intorno
alla gola,/ nelle pietre di questa città che continua/ a crollarmi addosso da millenni (frammento
XVIII).ŗ (17)
Oltre a questi esempi ci sono altri poemi, si potrebbe fare tanti altri esempi. Ma per tornare
ad un poema che si misura con la Storia, si può leggere l'opera d'ispirazione eliotiana di Roberta
Bertozzi, Gli enervati di Jumièges. Parliamo di un testo esemplare per come riesce ad alludere,
tramite una vicenda risalente all'alto medioevo, ad una domanda attualissima. La storia è quella dei
figli di Clodoveo II, colpevoli di aver cospirato contro il padre e per questo condannati ad andare
alla deriva su una zattera con i tendini delle gambe bruciati. Anche Marcel Proust ne aveva parlato
nel suo Alla ricerca del tempo perduto (anche qui una questione cairologica). La simbologia del
poema è già indicativa: il padre, il Re, che condanna i figli all'ignavia, alla passività, sembra dire la
condizione recentissima del nostro Paese. La tradizione che schiaccia, annichilisce(18). I versi della
Bertozzi tratti da capitoletto Heimat recitano così:
Intorno non è la decadenza
fino a quando la faglia non prende a puzzare
e ci si chiede quale motivo, dove fa - tarlo.
Dietro il perimetro del labirinto,
dietro le figure-contorno stanno altri muri, altri nomi,
spesso altro e ancora
limo.
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Difficile dire
quale carosello ci si pari davanti.
[...]
Heimat! Quanti ne mancano all'appello - quanti
nel repertorio dell'Istituto Luce ingialliscono trinciati
a tocchetti, a puntate, per le lame della moviola? (19)
La decadenza non è tale fino a quando la "faglia non riprende a puzzare". La faglia è la stessa
matrice temporale che il nostro organismo porta nella narrazione collettiva dei fatti. La scommessa
è se questa temporalità sappia farsi tempo con-diviso, spazio, Storia. In questo incipit c'è un vero e
proprio monito. "Quanti ne mancano all'appello?" Quanti vanno salvati dall'ingiallirsi della pellicola
dell'Istituto Luce? Ci si perde gradualmente per "tocchetti", "a puntate": l'anestesia è l'indolore.
L'interrogativo resta centrale.
Vincenzo Frungillo
Note.
(1) Contini Gianfranco, Un‟interpretazione di Dante, in Un‟idea di Dante, Einaudi, Torino, 1976, p. 98.
(2) Cfr. ivi, p. 72
(3) Cfr. Ivi, pp. 73-75
(4) Ivi, p. 99
(5) Furio Jesi, Cultura di desta, 2011, Nottetempo, Roma, p. 55, ci ricorda che funzione avesse durante il ventennio
fascista la retorica del milite ignoto. Tra le due guerre il soldato senza nome diventa l'eroe della nuova collettività. La
ricaduta politica di questo processo è evidente: le politiche totalitarie eludono il bios, la temporalità del singolo, per
accomunare la collettività nella figura di un corpo anonimo, lontano nello spazio, privo di tempo, intangibile e per
questo idealizzabile. Solo così la politica può essere trasformata in retorica, la tradizione in kitsch sublimato. Per questo
motivo, ma non solo, tra le due guerra, i poeti italiani hanno guardato con sospetto alla grande tradizione poematica,
hanno adottato misure poetiche volte all'ermetismo e, per così dire, all'economicità dei mezzi: si sentiva nei poemi della
tradizione, nella narrazione in versi, l'eco della retorica mortifera dell'unità nazionale. Dopo la seconda guerra, i poemi
della tradizione sono stati letti tutt'al più sotto la luce della nuova èra dei senza patria (Cfr. Giorgio Caproni, Il
passaggio di Enea). Scrive Jesi: «Per la stessa ragione il cuore, il nucleo pesante, della Mostra della Rivoluzione
fascista (1932-'35) era il Sacrario dei Martiri che recuperava al regime l'aura sepolcrale della retorica del Milite Ignoto,
ma che nello stesso tempo per una carenza di stile e, se così si può dire, di temperatura mitologica risultava molto più
un baraccone allestito con destrezza di coreografi, che il santuario o la cripta di una religione di morte». Le conseguenze
di questo processo Jesi le indica nel saggio Il linguaggio delle idee senza parole, in Cultura di destra, op. cit. , pp. 158159, dove tra l'altro dice a proposito delle celebrazioni massoniche della poesia di Carducci: «Così si estenderà il più
possibile il numero degli italiani che avranno come cultura il rapporto con un mucchio indifferenziato e sacrale di roba
di valore, che è il passato della patria. Essi stessi diverranno sempre più culturalmente indifferenziati, massa, e un
sacramento tipico di questa comunione con il valore indifferenziato sarà poi tutto il rituale culto del Milite Ignoto,
significativo anche per il fatto preciso di porre implicitamente la coincidenza tra quell'anonimato e la morte.»
(6) Mandelstam Osip, Discorso su Dante, in La quarta prosa, Editori riuniti, 1982, Roma, p. 124.
(7) Ivi p. 126.
(8) Ivi, pp. 139-140
(9) Ibidem
(10) Tasso Torquato, Discorso dell‟arte poetica e in particolare sopra il poema eroico, in Torquato Tasso Prose,
Letteratura Italiana Ricciardi, vol. 22, Treccani, 2005, p. 371.
(11) «La favola è la forma essenziale del poema, come nessun dubita, or, se più saranno le favole distinte fra loro, lřuna
delle quali da lřaltra non dependa, più saranno conseguentemente i poemi. Essendo dunque questo, che chiamiamo un
poema di più azioni, non un poema, ma una moltitudine di poemi insieme congiunta, o queř poemi saranno perfetti o
imperfetti: se perfetti, bisognerà chřabbiano la debita grandezza, e avendola, ne risulterà una mole più grande assai che
non sono i volumi deř leggisti: se imperfetti, è meglio a far un sol poema perfetto che molti imperfetti. Tralasso che, se
questi poemi sono molti e distinti di natura, come si prova per le moltitudini e distinzioni delle favole, ha non solo
confuso, ma del mostruoso ancora il trapassare e mescolare le membra dellřuno con quelle dellřaltro: simile a quella
fera che ci descrive Dante.» Ivi, p. 374.
(12) Scrive a questo proposito Sergio Zatti, Il modo epico, Editori Laterza, Bari, 2000, p. 71: «Lřeredità del mondo
cavalleresco di Boiardo e Ariosto, posta sotto il segno del molteplice narrativo e del pluralismo ideologico, diventa in
Tasso il patrimonio di una sola parte e, quel che più conta, del nemico musulmano. Genialmente il poeta cristiano ha
fatto coincidere nellřazione narrativa il mondo dellř errore romanzesco con un mondo pagano che, proprio per questo,
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non cessa di esercitare le proprie lusinghe, sia pure nelle forme della negazione e del represso. Da questo punto di vista,
la Liberata, rappresenta, per la forza della contraddizione che la governa, il primo grande esempio, nella letteratura
italiana, di complicità con lřAltro, di solidarietà inconscia con le forze del male, con il Ŗnemico paganoŗ».
(13) Del resto è stato proprio Giorgio Cesarano che, nel suo testo saggistico Manuale di sopravvivenza (anno 1974), ha
profeticamente richiamato l'attenzione su un'epoca abitata dalle "personalità dell'assenza". Cfr. Giorgio Cesarano,
Autocritica della corporeità metaforica, in Manuale di sopravvivenza, Dedalo, Bari, 1974, proposizione 60, cit. da sito
internet www.nelvento.net: "Essere nella cerchia: sussistere nella figura di sé, erogarvisi co-edificandola, questo
prodotto collettivo che è la personalità dell'assenza". (la società dello spettacolo era già in atto, ma non ancora al suo più
pieno compimento).
(14) Gianmario Lucini, prefazione a Viola Amarelli, Notizie dalla Pizia, LietoColle libri, Milano, 2009.
(15) Luigi Nacci, OdeSS, pp. 117- 166, in Poesia contemporanea. Decimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni,
Milano, Marcos y Marcos, 2010
(16) Lo stesso Raos sul retro di copertina, Le api migratori, Oèdipus edizioni, Salerno, 2007, ci fornisce gli elementi per
interpretare la storia: «Nel 1956 alcuni membri della comunità scientifica brasiliana importarono in Amazzonia
dall'Africa api di quel continente, più robuste, e le incrociarono ad api produttrici di miele, inoffensive, meno
aggressive. L'obiettivo era rendere queste ultime più produttive dal punto di vista economico e industriale. Una terribile
serie di mutazioni non volute produsse le cosiddette api assassine"».
(17) Francesco Filia, Il margine della città, Laboratorio edizioni, Nola, 2008
(18) Scrive Roberta Bertozzi nel risvolto di copertina del suo libro, Roberta Bertozzi, Gli enervati di Jumièges, PeQuod,
Ancona, 2007: «Nel suo significato originario il termine "snervato" indicava qualcuno a cui erano stati tolti o tagliati i
nervi, così da renderlo apatico, incapace di reazione. Nella disciplina della macellazione l'enervazione consiste nella
recisione del midollo spinale, prassi idonea a provocare più velocemente la morte dell'animale.»
(19) Ivi p. 33
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BIBLIOGRAFIA
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Zatti Sergio, Il modo epico, Editori Laterza, Bari, 2000
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Contro la tirannia dell‟Io.
Problemi del soggetto e generi del macrotesto nella poesia del Novecento
Questioni aperte
Il modernismo, segnatamente anglosassone, e le 'scuole' del secondo Novecento italiano
(soprattutto la linea lombarda e la neoavanguardia) rappresentano forse le due punte più avanzate
verso il superamento di alcuni confini di genere e la riconsiderazione dello statuto del
personaggio(1). Non è possibile tendere un filo diretto tra i due ambiti, quello modernista
anglosassone ed europeo e quello italiano secondonovecentesco, discontinui per tempi e luoghi di
attuazione. Tuttavia, si può forse riconoscere a Montale il ruolo di tramite tra l'oggettività e il
concetto della poesia critica tipicamente eliotiani e modernisti, da un lato, la poetica dell'oggetto e
la spiccata tendenza a mettere in discussione il ruolo della poesia e del soggetto poetico in autori
italiani contemporanei, dall'altro. L'ipotesi di accostamento è corroborata, inoltre, dal comune
rifiuto per una poesia orfica, di ascendenza mallarméana (2). La poesia francese, ancora oggi molto
legata a quell'ascendenza(3), sembra meno disposta a investire nella problematizzazione del
soggetto e nell'elaborazione di personaggi alternativi al protagonista lirico (che non siano cioè
semplici emanazioni di un io assoluto). Significativi sono, invece, gli esempi che provengono da
altre aree letterarie, europee ed extraeuropee: Pessoa, responsabile di un'estrema estensione della
crisi dell'io dal soggetto poetico all'autore-poeta, frammentato in una molteplicità di eteronimi e di
stili; Benn(4); Borges(5).
Sul piano propriamente storico-letterario, è opportuno notare come la problematizzazione
del soggetto sia in gran parte legata a una crisi poetico-ideologica. Ciò, in particolare, nella poesia
del secondo Novecento. Al riguardo, sembrano significative le considerazioni di un autore come
Mario Luzi, tanto più attento a registrare la crisi della soggettività contemporanea quanto più
intimamente legato a una concezione 'classica' dell'io lirico (assoluto, come previsto dai canoni
della poesia ermetica, ed egemonico, secondo un habitus ereditato dal modello petrarchesco):
[Il senso del messaggio della poesia] non ha fatto altro che rispettare la sublime tautologia
del sogno umano sognato variamente nelle varie positure che l'uomo è stato indotto ad
assumere durante la sua notte. La nostra epoca ne ha conosciute di particolarmente infelici:
il sogno è stato attraversato dai mostri del presentimento che il risveglio rivelava poi anche
più atroci; e solo un supplemento di grazia ha permesso di ritrovare il giusto, l'equanime che
alla poesia sono necessari per esistere. Tutto questo è accaduto non senza il sacrificio di una
soggettività che il clima duro di questa fase della storia faceva apparire egotistica. L'«io»
infatti che aveva avuto in mano la strategia e la tattica del poema di decennio in decennio si
umilia progressivamente e si riconosce provvisorio, mutuabile con altre entità, privo di
identità vera e di vera sede: un semplice teste vitale. Come «auctor» l'«io» che resiste è
paradossalmente simbolico e tende a soggiacere alla oggettività, a rientrare miticamente
nell'ordine impersonale.(6)
Il nesso che Luzi individua tra il sacrificio della soggettività (cioè la sua perdita di
influenza) da un lato, il «clima» storico dall'altro segna una svolta nella lunga trafila di uno tra i più
consolidati istituti letterari: l'io dell'autore come frutto di una sostanziale condivisione di valori che
accomuna mittente e destinatari dell'opera (7). Nella letteratura e in particolare nella poesia del
secondo Novecento l'io non solo perde ogni autorità assiologica, la capacità cioè di conciliare o
diffondere valori riconosciuti da un'ampia comunità di lettori - processo, questo, già avviato dal
soggetto della poesia romantica, dotato di intelletto e sensibilità eccezionali (8) - ma si mostra del
tutto privo di stabilità ontologica.
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1. Statuto e relazioni del personaggio
1.1 La prima delle questioni aperte dipende proprio da tale instabilità e coinvolge l'identità
del personaggio poetico e la relazione tra i personaggi all'interno del macrotesto. L'identità,
nell'accezione che si vuol dare qui al termine, non ha a che fare con il referente biografico;
interessa, piuttosto, lo statuto semiotico del personaggio, la sua individualità e la relazione che
intrattiene con altri eventuali personaggi nel libro.
Questa relazione ha conosciuto uno sviluppo parallelo all'evoluzione del genere-libro di
poesia. Il personaggio pieno, indiviso, semioticamente determinato presente nella poesia medievale
e in gran parte di quella moderna lascia il posto a una figura dall'identità più instabile e
frammentaria, caratteristica della poesia novecentesca (in particolare, del secondo Novecento).
1.2 La formula dantesco-petrarchesca prevede un'interazione tra due figure fondamentali;
l'identità dell'una dipende dalla funzione esercitata rispetto all'altra. (9) Nei canzonieri di derivazione
petrarchesca, la trama segue uno schema in larga misura preordinato (esemplato, cioè, sul primo
modello del genere), nel quale i personaggi compongono un sistema geometricamente funzionale.
Non che questi rimangano immobili per tutto lo svolgimento del libro; la progressione, che
costituisce la sostanza narrativa del canzoniere, ne risulterebbe penalizzata. Il punto è che
l'evoluzione nel carattere del protagonista e della deuteragonista procede, nella maggior parte dei
casi, entro il solco dell'intertestualità e dell'imitazione; ad un episodio (evento, azione,
atteggiamento) corrisponde una specifica, prevedibile reazione da parte dell'altro personaggio
principale. Così, ad esempio, il temporaneo allontanamento del protagonista dall'amata, attratto da
una 'donna dello schermo', suscita la rampogna, l'inasprimento, il pentimento; la morte dell'amata è,
invece, una condizione necessaria per la sua celebrazione etico-spirituale. Le identità dei personaggi
subiscono perciò delle variazioni di qualità relazionale; tuttavia, a ciascuna svolta nella sorte o nel
carattere di una delle due figure principali corrisponde una determinata reazione nell'altra figura: le
funzioni e, per così dire, la reciproca distanza rimangono immutate. Il sistema prevede che gli
elementi al proprio interno abbiano un certo margine di mobilità; i binari lungo cui muoversi sono
però già posati e il percorso è semplificato dalla presenza di pochissimi personaggi.
Nel Novecento, il sistema viene sottoposto a delle tensioni che ne alterano la secolare
stabilità. L'identità dei personaggi diviene, oltre che relazionale, dinamica. Ciò anche quando la
forma macrotestuale riprende alcuni elementi canonici del canzoniere d'amore. Ad esempio, nella
Bufera montaliana la relazione protagonista/ispiratrice è arricchita da una relazione di
sconfinamento e identificazione tra Clizia e Volpe (10): si pensi al tema della continuità e
dell'impossibilità di distinzione in liriche come Iride, L'orto, «Se t'hanno assomigliato…». A ciò si
aggiunge l'incrinatura dell'autoreferenzialità e dell'astrazione dal contesto, con l'attribuzione alla
Storia di una centralità tematico-organizzativa in genere assente dai canzonieri classicistici.
Questa dinamica trova nel libro di poesia un terreno ideale di sviluppo: rientra, anzi,
nell'essenza del macrotesto, poiché l'assemblaggio e l'organizzazione dei suoi componimenti sono
soggetti a evoluzioni e mutamenti. I caratteri attribuiti in partenza a un personaggio possono essere
rimessi in gioco dalla dislocazione dei testi; viceversa, la stessa dislocazione può essere decisa per
modificare la storia del personaggio (di solito, si tratta del protagonista lirico).
Esiste però un canone consapevolmente rispettato anche nella Bufera: la centralità e l'unità
del soggetto lirico. È vero che la distribuzione dei ruoli e la distanza reciproca tra i personaggi
vengono resi più duttili rispetto al sistema tradizionale; è vero anche, però, che l'innovazione
coinvolge l'identità della deuteragonista, non quella del protagonista. Certo, Montale e prima di lui i
crepuscolari hanno compiuto un'operazione di ridimensionamento nei confronti dell'io lirico
romantico e dannunziano; si è trattato, però, di un abbassamento nel tono più che di una rivoluzione
nella prospettiva. La dichiarazione di inadeguatezza, tipica del personaggio primonovecentesco, è
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comunque un mezzo per affermare un'identità specifica e contraria rispetto a un altro soggetto. Ad
esempio, la celebre conclusione della montaliana Falsetto («Ti guardiamo noi, della razza / di chi
rimane a terra.») non rappresenta una resa ma una rivendicazione di originalità.
1.3 Altri e più radicali esperimenti, specie nella seconda metà del Novecento, hanno
contribuito a scindere anche l'identità del protagonista lirico, mettendone in discussione non più
soltanto l'attitudine esistenziale ma la stessa natura ontologica. Esemplare, da questo punto di vista,
è l'itinerario poetico di Giovanni Giudici; la vena 'umile' e neocrepuscolare delle prime raccolte
viene infatti orientata, almeno dai primi anni Settanta, verso la dissoluzione del soggetto. Il ruolo
del protagonista e, in particolare, la sua centralità conoscitiva e ideologica sono sempre più incerte.
In O beatrice(11), la riflessione metaletteraria sulla forma prevale, così, sul racconto dell'esperienza
(ancora decisiva nei due libri precedenti: La vita in versi e Autobiologia). Il prezzo del sublime(12),
terza poesia della raccolta, illustra appunto la frattura tra espressione ed esperienza, la perdita di
controllo del soggetto sulla propria identità, mediante la distorsione logico-grammaticale delle
persone e delle desinenze verbali.
Mi domandi se potrai.
Mi domando se potrò.
Io sarò Ŕ non sarai.
Tu sarai Ŕ non sarò.
Per noi sarà quello che non potremo.
Quello che non saremo su noi potrà.
Non-tu non-io noi Ŕremo.
Ma contro la specie che siamo orgoglio estremo
verbi avvento al cliname
che ci rotola a previste tane
umanamente inumane
persone del futuro seconde e prime.
Io Ŕrò.
Tu Ŕrai.
Il niente
È il prezzo del sublime.(13)
La prima quartina è giocata sullřalternanza e sulla corrispondenza pronominale e verbale
tra la prima e la seconda persona singolare: «Domandi / domando»; «potrai / potrò»; «Io sarò / Tu
sarai»; «non sarai / non sarò». La relazione tra «io» e «tu» non è ancora turbata da infrazioni
logiche o morfologico-grammaticali; si potrà tuttavia osservare come l'insistente simmetria
(materialmente percepibile anche nella mise en page) allontani la relazione tra «io» e «tu» dal piano
della coerenza empirica (attenuando la dipendenza dalle leggi della realtà) per avvicinarla a una
dimensione puramente linguistica, assoluta o addirittura onirica. (14)
La struttura simmetrica caratterizza anche il distico successivo: «Per noi sarà quello che
non potremo. / Quello che non saremo su noi potrà.» L'espressione arguta e paradossale rende
incerta, anche se non inaccessibile, la parafrasi. Un'interpretazione plausibile sembra la seguente:
«sarà dotato di valore e richiamo ciò che non potrà essere da noi raggiunto/compreso/posseduto; su
di noi agirà come un condizionamento ciò che non riusciremo ad essere». Il protagonista
riconoscerebbe per sé e per la figura deuteragonistica dei limiti esistenziali; lřanalogia col soggetto
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poetico primonovecentesco (che spesso si proponeva come un personaggio in tono minore, costretto
tra le maglie della perplessità e di una vitalità decurtata) è più apparente e formale che
sostanziale(15). Lřaffermazione di inadeguatezza, infatti, arriva in Giudici a coinvolgere il piano
ontologico, come pare confermare il monostico successivo: «Non-tu non-io noi Ŕremo.»
Il verso è centrale, non solo per posizione, nel testo; vi si illustra, infatti, la precipitazione
della logica entro una dimensione alterata, la cui validità è possibile solo sul piano delle potenzialità
grammaticali. Assumono rilievo anche i fenomeni tipografici, come il trattino che unisce gli avverbi
di negazione ai pronomi di prima e seconda persona singolare e che introduce la desinenza assoluta
«-remo», orfana della radice verbale, priva di connessione con un atto concreto. «Non-io», «non-tu»
sono coniugazioni del Řnon-essereř: la congiunzione di avverbio e pronome infatti non nega
unřazione (di cui rimane solo unřipotesi nella desinenza assoluta), ma nega proprio lo status di «io»
e «tu», destituiti di autorità e ridotti a una sopravvivenza pronominale («umanamente inumane /
persone del futuro seconde e prime.»).
Il paradosso assume evidenza e risalto ancora maggiori se Il prezzo del sublime viene letta
tenendo a mente le osservazioni sui pronomi di Émile Benveniste :
Gli indicatori io e tu non possono […] esistere come segni virtuali, ma esistono solo in
quanto attualizzati nella situazione di discorso, dove attraverso ogni singola situazione
indicano il processo di appropriazione operato dal parlante […].(16)
È nella situazione di discorso in cui io designa il parlante che questřultimo si enuncia come
Ŗsoggettoŗ. È quindi vero alla lettera che il fondamento della soggettività è nellřesercizio
della lingua. Se ci si riflette seriamente, si vedrà che non ci sono altre testimonianze
oggettive dellřidentità del soggetto fuorché quella che in tal modo egli stesso dà su se
stesso.(17)
Nel testo di Giudici gli indicatori «io» e «tu» sono condotti verso unřesistenza virtuale, svincolati
cioè da una situazione di discorso standard in cui «io» non può non designare un soggetto
ontologicamente (prima che grammaticalmente) definito.
In conclusione, la simmetria nella struttura retorica e lřoltranza quasi ludica nellřuso dei
pronomi e delle desinenze, fenomeni consoni allo stile e allřinclinazione metapoetica che
qualificano la raccolta O beatrice, esprimono la perplessità e lřincertezza del soggetto nel delimitare
la realtà e soprattutto nel riconoscere la propria individualità in relazione all'interlocutore (un «tu»
parimenti ridotto a unřesistenza grammaticale).
1.4 Il personaggio pieno e indiviso, caratteristico del canzoniere, viene così sottoposto a un
processo di erosione, che può manifestarsi in varie forme: annullamento dell'io, moltiplicazione del
soggetto, riflessione del soggetto sul proprio statuto, ampliamento e drammatizzazione del sistema
dei personaggi. Tali diverse manifestazioni richiedono profonde innovazioni nell'assetto del
macrotesto. La progressione di tipo seminarrativo, legata all'identità di un io lirico centrale e
indiviso la cui vicenda viene illustrata (sia pure in forma ellittica) all'interno del libro, non è infatti
adeguata a un sistema di personaggi rinnovato e più complesso o, addirittura, alla soppressione di
un protagonista canonico.
Nel prossimo paragrafo osserveremo alcuni esempi di rinnovamento strutturale, ottenuti
soprattutto attraverso l'acquisizione, da parte del genere lirico, di alcuni istituti formali caratteristici
del genere epico, di quello narrativo-romanzesco e di quello drammatico. Si dirà, intanto, che tra
l'integrità (cognitiva, assiologica, grammaticale) del protagonista lirico e la progressione di senso
attraverso il macrotesto esiste una diretta corrispondenza. L'unità del soggetto è garanzia, almeno
agli occhi del lettore, dell'unità strutturale e tematica del macrotesto; quand'anche non sia possibile,
come spesso accade, integrare semioticamente gli spazi lasciati vuoti in una trama costruita
dall'autore a posteriori(18), la centralità indivisa di un soggetto lirico è sufficiente perché il lettore
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142
formuli un'ipotesi di continuità. Si tratta, in altre parole, di un'illusione referenziale, sulla quale
l'autore conta per orientare l'organizzazione del libro.
L'annullamento, la scissione o la moltiplicazione del soggetto sono, invece, da associare a
forme di macrotesto caratterizzate dall'assenza, o dall'estrema debolezza, della progressione,
sostituita da un opposto criterio di modularità o giustapposizione. Annullando la progressione nella
storia, la modularità rende anche più sfumata la consistenza di un protagonista, la cui identità viene
anzi ripartita nei vari testi e subisce una sorta di decentramento.
Dal punto di vista storico, il percorso in questa direzione ha avuto varie tappe e gradi. In
Lavorare stanca di Pavese, per esempio, il decentramento non era ancora espresso in forme radicali
(pur avendo profondi legami con l'etica e la poetica dell'autore); nei poeti più recenti, consapevoli
del processo di erosione e deriva cui è stato sottoposto il soggetto nella poesia del secondo
Novecento, il decentramento può assumere espressioni più nette. È il caso di Gente di corsa di
Tiziano Rossi, in cui il soggetto viene moltiplicato in una serie innumerevole di personaggi e
sopravvive, in pratica, soltanto nell'ironia stilistica.
Un caso ancora diverso è quello che prevede non l'indefinita moltiplicazione ma la
scissione dell'io lirico in una serie di personae che rivendicano ciascuno la propria eminenza, in
competizione con gli altri. È anche questa una soluzione ironica, postmoderna e insistentemente
metapoetica. La differenza con Rossi (e, prima ancora, con Pavese e con la linea eticamente più
impegnata nella poesia italiana contemporanea) risiede, però, nella diversa attitudine conoscitiva; se
per gli uni la moltiplicazione del soggetto è la condizione per fondare una prospettiva universale e
onnicomprensiva, per gli altri la scissione è un'espressione di disorientamento.
Sul piano tipologico, l'annullamento del soggetto rappresenta un grado ulteriore rispetto al
decentramento; ciononostante, sul piano storico, quest'operazione precede di diversi decenni le
sperimentazioni attuate nell'ambito della letteratura italiana. Si devono, infatti, alla poesia di Eliot e
Pound i più complessi tentativi di liberare la lirica dalla tirannia dell'io, ponendo al centro non una
storia ma un sistema culturale. Di Eliot, come si vedrà nel prossimo paragrafo, sono anche le più
dirette prese di posizione contro l'io in favore di una prospettiva oggettiva e i più complessi (e
storicamente significativi) tentativi di rinnovamento nella struttura del macrotesto.
2. Incroci di genere
2.1 Se la forma-canzoniere, così come i libri che abbiamo definito 'di argomento lirico',
rappresentano per tradizione il regno del soggetto o del protagonista quale proiezione dell'autore (a
cui vengono, per questo, concessa un'udienza e riconosciuta una centralità superiori a quelle degli
altri eventuali personaggi), è possibile riconoscere in certi esperimenti di genere che riguardano
proprio la forma del libro di poesia novecentesco la volontà di sottoporre a un ripensamento l'idea e
la funzione del protagonista lirico. L'incrocio dei generi rappresenta un'espressione di sfiducia nel
ruolo tradizionale dell'io lirico, costretto ad accettare relazioni problematiche con personaggi
talvolta dotati di una propria autonomia cognitiva (non delle semplici persone grammaticali, come il
«tu» istituzionale su cui già ironizzava Montale), a cedere il controllo ad altri soggetti e personaggi
che un discorso tradizionalmente lirico non avrebbe potuto accogliere. La tensione verso la
narratività o verso la teatralità, ben vive nella poesia moderna e contemporanea anche prima - a dire
il vero - che l'io procedesse lungo la via della dissoluzione, disturbano il meccanismo che presiede
alla fondazione del soggetto lirico e a una sorta di identità di genere. In termini lacaniani, potremmo
immaginare la formazione dell'identità dell'io lirico nel macrotesto come un processo che
contempla: 1) in origine, gli «io» molteplici e frammentari dei diversi micro-testi (le liriche prima
dell'inserimento in raccolta); 2) uno 'specchio' che consente di addensare la pluralità originaria in un
insieme coerente e in un'immagine unitaria del soggetto, specchio rappresentato, in questo caso, dai
modelli tradizionali, dal codice della precedente letteratura; 3) l'Io come soggetto unico. La
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commistione tra i generi infrange lo specchio, rendendo impossibile l'unificazione: di qui l'ulteriore
possibile conferma di una stretta relazione tra la fluidità dei soggetti e la ricerca di una forma-libro
originale.
2.2 Accanto, o in alternativa, alla consueta identità lirica il protagonista e gli altri
personaggi possono acquistare, a seconda dei testi e degli autori, un'identità epica, romanzesca,
drammatica. Il personaggio e il testo in cui questi compare non assumono, beninteso, tutte le
caratteristiche del genere con cui si verifica l'incrocio; la trasmissione di alcuni elementi è, tuttavia,
sufficiente per rinnovare sensibilmente le caratteristiche del personaggio lirico.
Nel caso di un personaggio a identità mista lirica/epica, ad esempio, non stupirà certo
l'assenza dei tratti eroici che distinguono il protagonista dell'epica propriamente detta. (Questo
riguarda anche le forme dellřepica contemporanea, praticata specialmente nellřambito della
letteratura postcoloniale di lingua inglese, in cui lřepos è coerente con una volontà di legittimazione
di un patrimonio mitico attraverso lřinnesto nella tradizione occidentale: penso a due capolavori del
genere come Omeros di Walcott e Fredy Neptune di Les Murray. Nel secondo, il protagonista,
Freddy Nettuno, presenta dei caratteri eroici Ŕ forza e resistenza fisica sovrumane Ŕ e compie un
itinerario avventuroso paragonabile a quello di un Ulisse novecentesco; quei tratti epici allusivi
appaiono però straniati dal confronto con la storia contemporanea e dalla Řdegradazioneř picaresca
del personaggio).
L'attenzione andrà piuttosto rivolta ai caratteri (apparentemente) secondari, tra i quali vi è
la condizione assiologico-temporale. Il tempo in cui si muove il personaggio è irriducibile alle
consuete categorie di passato e presente; questi emerge da una dimensione le cui leggi sono dettate
dal sistema di valori o, in termini lotmaniani, dal sistema culturale: non a caso, esempi di
personaggio 'epico' sono offerti da The Waste Land che, come si è visto, non deve la propria
organizzazione alla mimesi dei criteri di ordine validi per la realtà esterna al testo. In The Fire
Sermon, il terzo movimento del poemetto eliotiano, il personaggio che si assume provocatoriamente
la responsabilità di dire 'Io' è Tiresia:
I Tiresias, though blind, throbbing between two lives,
Old man with wrinkled female breasts, can see
At the violet hour, the evening hour that strives
Homeward, and brings the sailor home from sea,
The typist home at teatime, clears her breakfast, lights
Her stove, and lays out food in tins. (vv. 218-23) (19)
L'ambito mitologico, la natura insieme maschile e femminile, la trasgressione delle leggi del tempo
e dello spazio provocata dall'accostamento dell'indovino alla moderna dattilografa privano Tiresia
di un'identità piena e della centralità dell'io tradizionale.
L'incrocio tra lirica ed epica caratterizza anche la poesia di Yeats. In The Gift of Harun
Al-Rashid, compresa in The Tower (1928), a prendere la parola è un esotico protagonista:
Kusta Ben Luka is my name, I write
To Abd Al-Rabban; fellow-royester once,
Now the good Caliph's learned Treasurer,
And for no ear but his. (vv. 1-4) (20)
L'affinità con Eliot discende da una certa analogia nella poetica dei due autori; anche per Yeats,
infatti, la poesia rappresenta una sorta di memoria culturale. Nonostante la riflessione di Yeats sia
attraversata da una vena mistico-esoterica estranea ad Eliot, in entrambi gli autori l'invenzione del
personaggio epico sembra funzionale a un'idea della poesia come voce universale (in Yeats,
addirittura, come 'subconscio storico'(21)) aliena dal personalismo intimistico dell'io lirico
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tradizionale. In Eliot, in particolare, l'istanza di ridimensionamento dell'io si manifesta
precocemente(22), qualificandosi subito come elemento portante di una complessa riflessione
epistemologica e artistica.
2.3 Per quanto riguarda l'incrocio tra lirica e narrativa, è necessario distinguere la seminarratività (che è, fin dalle origini, tra gli elementi costitutivi della forma-canzoniere) dalla
cosciente imitazione del romanzo (caratteristica del secondo Novecento). Il personaggio lirico
tradizionale può essere al centro di una vicenda con uno sviluppo nel tempo, con un principio e un
esito; ciononostante, la sua personalità è spesso piuttosto ellittica. Come osservava Montale, «il
personaggio che appare in una poesia sarà assai più sintetico del personaggio di un romanzo», in
quanto «proiezione»(23) dell'autore. La possibilità di identificare il protagonista con l'autore
(almeno con l'autore implicito) mantiene la poesia entro la dimensione lirica. Appare perciò
superfluo, e anzi fuori dalla norma del genere, illustrare gli aspetti realistici del personaggio,
soffermarsi sulla sua routine quotidiana, sul suo statuto professionale, su tutti quegli elementi
prosaici che l'io romantico aveva bandito dal proprio orizzonte esistenziale. Sul piano strutturale,
come si è visto, a questo tipo di narratività lirica corrisponde una progressione generalmente debole,
con molti spazi vuoti nella trama ideale; della vicenda, come si addice alla lirica, vengono posti in
risalto solo gli episodi eminenti.
Nel secondo Novecento, i confini tra i generi vengono superati con maggior slancio, fino al
limite della sovrapposizione. L'introduzione di personaggi meno direttamente legati all'autore
implicito consente un più deciso rinnovamento per quanto concerne gli argomenti della narratività
poetica. Al contempo, si assiste ad un avvicinamento tra lirica e narrativa anche sul piano formale e
strutturale. L'organizzazione del libro può così imitare, in certi casi, l'articolazione di un romanzo.
Un esperimento cronologicamente tempestivo viene compiuto da Elio Pagliarani, che nel 1960
pubblica il primo dei suoi due romanzi in versi, La ragazza Carla, iniziato sei anni prima. Lo stesso
Pagliarani ha più recentemente commentato senso e motivazioni di quella sua prima opera
'narrativa':
Dall'uscita delle Cronache […], mi preoccupava il peso, che mi pareva eccessivo, delle mie
vicende personali sulla mia poesia e m'era diventata pesante nello scrivere la "tirannia
dell'io"; lo avevo già avvertito nel risvolto delle Cronache, scritto da me anche se anonimo,
dove dichiaravo quella poesia «gravata dalla troppa, ineluttabile carità di sé e conseguente
bagaglio». Quindi per lottare contro " l'ineluttabile" avevo deciso di comporre un poemetto
narrativo, con la sua brava terza persona, che si occupasse di vicende contemporanee che
non mi riguardassero troppo direttamente. (24)
La scelta della forma-poemetto si lega strettamente alla necessità di reinventare i generi letterari, in
funzione di un ampliamento del linguaggio poetico. Spiega Pagliarani:
Nessun vocabolo ha illimitate capacità di adattamento (e quante più ne ha tanto più è
avvilito); ogni vocabolo ha i suoi precisi problemi di sintassi, si muove in una sua area
sintattica. […] I problemi di sintassi investono per definizione tutto il periodo, imprimendo
una diversa tensione durata ritmo al discorso. Ma questa designazione di tonalità […]
appartiene ai generi. La reinvenzione dei generi letterari cui ora si assiste non è dunque che
la necessaria conseguenza dell'ampliamento del linguaggio poetico. […] Strumento di
questa operazione è il genre "poemetto", il Kind poesia didascalica e narrativa […](25).
Nello stesso brano, Pagliarani distingue tra un positivo procedimento di 'reinvenzione' dei generi
(da lui stesso messo in atto nel romanzo in versi) e un meccanica operazione di 'riadozione';
reinventare significa anche forzare dei limiti dall'interno, proporre delle forme di incrocio. È quanto
avviene nella Ragazza Carla, che alterna (distinguendoli anche tipograficamente in tondo o corsivo)
brani narrativi a brani lirici o commentativi, come quello finale:
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Ma non basta comprendere per dare
empito al volto e farsene diritto:
non c'è risoluzione nel conflitto
storia esistenza fuori dall'amare
altri, anche se amore importi amare
lacrime, se precipiti in errore
o bruci in folle o guasti nel convitto
la vivanda, o sradichi dal fitto
pietà di noi e orgoglio con dolore.
(III, 7, vv. 22-30).
Al riguardo, si deve osservare come l'alternanza coinvolga anche lo statuto dell'enunciatore,
complicando i ruoli e le reciproche relazioni tra la protagonista e gli altri personaggi da un lato, il
narratore dall'altro. Se l'inizio del romanzo (e gran parte del suo svolgimento) è in terza persona
(«Di là dal ponte della ferrovia / una traversa di viale Ripamonti / c'è la casa di Carla, di sua madre,
e di Angelo e Nerina»), più avanti la protagonista si esprime direttamente in prima persona:
Signorina signorina mi dice
mamma io non ci posso più stare
è venuto vicino che sentivo
sudare, ha una mano
coperta di peli di sopra
io non ci vado più.
(III, 1, vv. 16-21)
Ma il brano non corrisponde al semplice monologo lirico. In primo luogo, pur in assenza degli
indicatori grafici altre volte presenti nel romanzo, sono perfettamente distinguibili le parole di un
altro personaggio («Signorina signorina») qui riportate dalla protagonista; in secondo luogo, il
brano è a carattere dialogico. Carla si rivolge infatti alla madre, che le risponde alcuni versi più
avanti (sebbene la 'battuta' che adempie al dialogo, per l'assenza di indicatori e per l'articolazione
discorsiva intervallata da un brano commentativo e da un breve inserimento del narratore
extradiegetico, venga differita e quasi riassorbita):
Non ti ha nemmeno toccata
gli chiederemo scusa
fin che non ne trovi un altro
tu non lascerai l'impiego
bisogna mandare dei fiori
alla signora Pratèk.
(III, 1, vv. 41-46).
Il tratto che rivela, nella forma più elementare, l'intenzione di liberarsi dalla «tirannia
dell'io» è la creazione di un personaggio femminile. La sovrapposizione e integrazione della
vicenda del protagonista e di quella dell'autore maschile diviene, per questa via, assai meno
spontanea e automatica; ciò anche se, per ammissione dell'autore, tra l'esperienza personale e quella
narrata esistono inevitabilmente dei punti di contatto (26).
2.4 L'identità d'incrocio lirico-drammatica è ben illustrata da Il conte di Kevenhüller di
Giorgio Caproni (Garzanti 1986), sia perché i principi dell'organizzazione e i temi fondamentali del
libro aderiscono a un immaginario palinsesto drammatico-musicale sia perché, più in dettaglio, il
ruolo e la condizione dell'enunciatore (del personaggio che dice io) si delineano in relazione a un
sistema di personae (personaggi e 'istituti', quali il firmatario dell'operetta e il protagonista) che
intervengono nel testo come farebbero i protagonisti di un dramma.
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Tra i temi del libro, quello dell'io riflesso nella molteplicità degli agenti e dei nomi assume
un rilievo programmatico in Personaggi, componimento-didascalia collocato quasi all'inizio del
libro (terzo elemento di una sequenza che comprende anche Fondale della storia e Luogo
dell'azione: i titoli alludono alle indicazioni paratestuali che precedono, di norma, il testo vero e
proprio):
PERSONAGGI
Alcuni Io.
Quasi mai io.
Altri Pronomi.
Nomi.
Parti secondarie:
le stesse del Discorso.
Grazie all'articolazione pseudoteatrale e, soprattutto, all'accentuazione di alcuni tra gli istituti
fondamentali del dramma (specie di quello operistico-musicale), il soggetto può essere sottoposto a
un processo di scomposizione e di rifrazione. In luogo di un protagonista lirico, dalla cui integrità
cognitiva dipenda l'unità della storia narrativa o sentimentale, si ha una serie di personaggi che
godono, a vario titolo, dell'autorità di un protagonista o di un autore implicito: parleremo, al
riguardo, di personaggi autoriali. Seguendo l'articolazione del libro, il primo personaggio autoriale
è Alesio Leucasio ('bianco fornaio'), a firma del quale è posto l'esergo dell'«operetta»:
Quest'Operetta a brani,
Lettor, non ti sia sgradita.
Accettala così com'è,
finita ed infinita.
(Alesio Leucasio)
Dietro il forbito pseudonimo si celerebbe lo stesso Caproni, che avrebbe adottato "Alesio Leucasio"
come proprio nome arcadico(27). Il secondo personaggio autoriale è l'eponimo Conte di
Kevenhüller, per il quale viene bandita la caccia alla «feroce Bestia». La caccia, tema della finzione
operistica, riceve nel paratesto una sorta di autenticazione documentaria (probabilmente fittizia);
prima della sezione Libretto, infatti, viene riprodotto l'avviso a stampa datato «Milano li 14 luglio
1792», con il quale il Conte mette in palio la somma di cinquanta zecchini per chiunque liberi la
provincia dall'«infestazione»(28). Gioverà osservare come il Conte, nonostante non prenda mai
direttamente la parola nel libro, è spesso evocato da un ulteriore personaggio autoriale. A questi
spetta il ruolo di enunciatore («Mi armai anch'io. Anch'io / mi unii alla "generale Caccia")»,
direttamente coinvolto nell'azione. Ora, quest'enunciatore è quanto di più simile a un tradizionale
protagonista, se non altro perché la costanza della sua presenza attraverso le due sezioni
drammatiche del libro(29) garantisce la continuità della vicenda e l'unità del macrotesto. Tuttavia,
tra il cacciatore e colui che chiameremmo "io lirico" si crea una sfasatura di tempo e coscienza,
messa in luce già in Personaggi. Tra i diversi Io (oltre all'enunciatore principale, si contano nel
libro alcuni enunciatori secondari: in Al più frenetico, Saggia apostrofe a tutti i caccianti, L'abate,
ecc.) e l'io che prende la parola in quel testo esiste una differenza di livello: l'io (con la minuscola)
si pone all'esterno della vicenda, in una condizione di onniscienza e di consapevolezza gnomica; l'Io
è invece, come si è detto, calato nell'azione. Ad arricchire il già complesso sistema dei personaggi
autoriali interviene, fuori dall'operetta ma dentro i confini del libro, il protagonista di Paura terza
(nella serie Mostellaria, tra le Altre cadenze). Ebbene, in quella lirica, un personaggio invoca se
stesso, chiamandosi col nome di battesimo dell'autore empirico:
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Una volta sola «Giorgio!
Giorgio!» mi sono chiamato. (vv. 1-2) (30)
La molteplicità delle personae e degli istituti non può tuttavia far passare inosservata la singolarità
grammaticale che prevale nel libro; l'io, in altre parole, non ricava un arricchimento della propria
fisionomia dalla relazione con personaggi diversi (con il «tu» dei canzonieri, ad esempio, o con la
terza persona del romanzo in versi) collocabili sul versante del «non-io». Piuttosto, si assiste a una
drammatizzazione interna all'io, ad una sua scissione (talvolta rappresentata, sul piano
dell'articolazione discorsiva, da uno pseudodialogo tra il protagonista principale e gli enunciatori
secondari). Se già nel primo Novecento la poesia modernista aveva messo in discussione l'egemonia
dell'io, istituendo un complessa mediazione tra autore, io lirico e personaggio, la poesia del secondo
Novecento italiano assume in pieno quell'egemonia, per mostrarne i paradossi e renderla
definitivamente obsoleta, o riproporla in forma critica.
Niccolò Scaffai
Note.
(1) Nella drammatizzazione dell'io, convertito da soggetto lirico in personaggio irriducibile a semplice doppio
dell'autore, ha un ruolo decisivo l'esempio offerto dal dramatic monologue di Robert Browning.
(2) Si veda, per questi aspetti, M. A. GRIGNANI, La costanza della ragione.Soggetto, oggetto e testualità nella poesia
italiana del Novecento, Novara, Interlinea 2002.
(3) Sembra eloquente la prefazione di Z. BIANU, IN Une antologie de poésie contemporaine francophone, Paris,
Gallimard 2002, pp. 7-8: «Car le poème est toujours l'énergie d'une voix - il est chant, il est pouvoir. Pouvoir de
l'incantation, efficacité magique de la parole chez Orphée - auquel, selon Platon, fut révélée la poésie. […] Pouvoir du
Livre qui, dans la mystique juive, n'est autre que la matière même de Dieu, sa "peau sonore", pour reprendre une
expression de René Daumal - un infini rythmique. Le poèmes choisis ici sont le reflet contemporain de cet infini.»
(4) Cfr. G. BENN, L'io moderno (1918-1919), in BENN, Lo smalto del nulla, a c.di L. Zagari, Milano, Adelphi 1992, pp.
21-22: «se vi addentrate nella storia del rapporto tra mondo e Io, scorgete con grande chiarezza l'evoluzione seguente: il
rafforzarsi del sentimento di autonomia del soggetto individuale. L'Io […] arriva gradualmente a raccogliere e a
concentrare la sensazione soggettiva del vivere trasformandola nella consapevolezza di un'esistenza individuabile».
L'autonomia del soggetto dal mondo è il presupposto perché l'io, libero dalla tutela del contesto, possa espandersi ma
anche disperdersi; dal punto di vista storico, questo è l'esito dell'evoluzione illustrata da Benn.
(5) Nella dedica di Fervore di Buenos Aires (1923) Borges scrive: «Se le pagine di questo libro consentono qualche
felice verso, mi perdoni il lettore la scortesia di averle usurpate io, previamente. I nostri nulla differiscono di poco; è
banale e fortuita la circostanza che sia tu il lettore di questi esercizi, ed io il loro estensore.» (citato in N. GARDINI,
Breve storia della poesia occidentale. Lirica e lirismo dai provenzali ai postmoderni, Milano, Bruno Mondadori 2002,
p. 185).
(6) M. LUZI, Osservazioni possibili su un secolo di poesia, in LUZI, Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura, a c.
di D. Piccini e D. Rondoni, Milano, Garzanti 2002, pp. 89-90.
(7) È la condizione dell'io illustrata da S. SPENDER, Una breve storia del pronome di prima persona singolare, in
SPENDER, Moderni o contemporanei, a c. di G. De Angelis, Firenze, Vallecchi 1966, pp. 147-48: «L'io […] è il
segnacolo di una fusione di valori sperimentali che scrittore e lettore hanno in comune, in una situazione nella quale la
coscienza dello scrittore fa le veci del lettore e attualizza l'esperienza creata nell'opera d'arte. Quando scrittore e lettore
appartengono ad una comunità che fornisce, per dir così, un contesto continuo di valori e convinzioni che li avvolge
ambedue in una rete di referenti simbolici, allora l'Io è anche il Noi, il Tu e l'Egli.»
(8) Su questi aspetti, cfr. G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, Bologna, il Mulino 2005. Nell'ambito della letteratura
italiana ed europea moderna, tra i primi a fondare l'eccezionalità del soggetto lirico vi è un autore come Alfieri; in
particolare, nelle prose (Giornali, Vita) e nelle Rime autobiografiche, Alfieri mette in stretta relazione l'unità dell'io e la
propria identità di letterato. Il soggetto, cioè, deve la propria coerenza e integrità gnoseologica allo status di artista (si
veda, al riguardo, P. RAMBELLI, La scoperta dell‟Io e la (ri)costruzione della figura del letterato nelle prose e nelle
tragedie di Alfieri, «Critica letteraria», XXX, I, 2002, pp. 35-69). Sul piano storico-letterario, un confronto tra questo
punto della poetica alfieriana e il tema della crisi dell'io nella poesia contemporanea mostrerebbe come ciò che gli autori
più recenti revocano in dubbio sono proprio i presupposti su cui si basava l'unità del soggetto proto-romantico (e poi
romantico).
(9) «L'identità di un personaggio è legata al sistema dei personaggi di un determinato testo. Dunque l'identità è un
fenomeno relazionale» (G. BOTTIROLI, Differenze di famiglia, in BOTTIROLI (a c. di), Problemi del personaggio,
Bergamo, BUP-Edizioni Sestante 2001, p. 13).
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(10) La questione della continuità/discontinuità tra le due principali figure femminili nella Bufera è di grande momento
dal punto di vista critico-teorico, tanto da sollecitare (idealmente) un dibattito a distanza tra due delle massime
auctoritates negli studi letterari italiani: Fortini e Avalle. Il critico suggeriva di verificare testo per testo quale diversa
funzione e significato avessero i medesimi simboli, usati da Montale sia per Clizia sia per Volpe; il filologo-semiologo,
nel celebre saggio su Gli orecchini (in dřA. S. AVALLE, Tre saggi su Montale, Torino, Einaudi 1970), metteva in luce la
tenace riproposizione di un lessico tematico (relativo specialmente alle immagini delle ali e del volo) condiviso dall'una
e dall'altra ispiratrice. Ora, sul piano del metodo, la posizione di Fortini appare del tutto condivisibile; d'altra parte,
'discontinuità' non sembra la parola-chiave per accedere alla Bufera. Credo, infatti, che la simbologia cliziana riferita a
Volpe non vada semplicemente rovesciata di segno, come pare voler suggerire Fortini negando la lettera di Se t'hanno
assomigliato…in virtù di una presunta «generale legge della lirica» [cfr. F. FORTINI, Di Montale, 2. La Volpe e gli
sciacalli (1974), in FORTINI, Saggi italiani, Milano, Garzanti 1987, pp. 160-71], ma valutata nell'effettiva
organizzazione tematica del macrotesto.
(11) 1a ed. Milano, Mondadori 1972.
(12) Per unřinterpretazione di alcune poesie-chiave nella raccolta (con riferimenti anche a Il prezzo del sublime), si veda
A. PUNZI, La parola e l‟io franto. Una lettura di “O Beatrice” di Giovanni Giudici, «Anticomoderno», I, 1995, pp. 3746.
(13) Si cita da G. GIUDICI, La vita in versi, a c. di R. Zucco, con un saggio introduttivo di C. Ossola, Milano, Mondadori
Ŗi Meridianiŗ 2000, p. 243.
(14) Come mostra I. MATTE BLANCO, L‟inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, trad. it. Torino, Einaudi
1981, una logica basata sul principio simmetrico (per cui se, ad esempio, a>b allora b>a) non è conciliabile con le
relazioni del mondo reale, ma trova riscontro nelle elaborazioni della retorica onirica (cfr. anche, al riguardo, F.
ORLANDO, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi 1992).
(15) Sul piano grammaticale, i due versi in questione possono evocare la notissima formula montaliana: «Codesto solo
oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.» (Non chiederci la parola…, vv. 11-12). Lřicasticità
assertiva dei versi di Montale (che ne hanno anche indebitamente favorito una ricezione in senso storico-politico) è
tuttavia sconosciuta ai versi di Giudici; in questi ultimi, lo stesso uso del futuro al posto del presente sfuma
lřaffermazione nel dubbio e nella possibilità.
(16) La natura dei pronomi, in E. BENVENISTE, Problemi di linguistica generale, trad. it. Milamo, Il Saggiatore 1990, p.
305.
(17) La soggettività nel linguaggio, Ibid., p. 314.
(18) Si veda, al riguardo, quanto osservato da C. SEGRE, Testo, in Enciclopedia Einaudi, vol. XIV, Torino, Einaudi
1981, pp. 269-91.
(19) «Io Tiresia, benché cieco, pulsando fra due vite, / Vecchio con avvizzite mammelle di donna, posso vedere /
Nell'ora violetta, nell'ora della sera che contende / Il ritorno, e il navigante del mare riconduce al porto, / La dattilografa
a casa all'ora del tè, mentre sparecchia la colazione, accende / La stufa, mette a posto barattoli di cibo conservato.»
(20) «Mi chiamo Kusta Ben Luka, scrivo / Ad Abd Al-Rabban, un tempo compagno di baldoria, / Ora sapiente
Tesoriere del nostro buon Califfo, / E per non altri che lui.» (trad. it. di A. Marianni, in W. B. YEATS, La Torre,
Introduzione e commento di A. L. Johnson, Milano, Rizzoli 1999 [1995 1], p. 175).
(21) Ibid., p. 252.
(22) Già nella tesi di dottorato, Conoscenza ed esperienza nella filosofia di F. H. Bradley (conclusa nel 1916), Eliot
scriveva: «Non abbiamo il diritto, eccetto che in modo estremamente provvisorio, di parlare della mia esperienza,
perché l'io è una costruzione al di fuori dell'esperienza, un'astrazione da essa […].»; «Nel sentire, il soggetto e l'oggetto
sono una cosa sola. L'oggetto diventa tale per la sua continuità sentita con altri sentimenti che cadono al di fuori del suo
centro finito, e il soggetto diventa tale per la sua continuità sentita con un nucleo di sentimenti che non è riferito
all'oggetto. Da un certo punto di vista tutto è soggettivo, da un altro tutto è oggettivo, e non esiste un punto di vista
assoluto da cui si possa enunciare una decisione.» (T. S. ELIOT, Opere. 1904-1939, a c. di R. Sanesi, Milano, Bompiani
2001, pp. 54, 57).
(23) «Ci sono personaggi caratteristici, particolari della sua poesia, come Arsenio o come il Nestoriano di Iride, nei
quali è possibile rintracciare un fondo esistenziale. Ed è anche possibile rintracciare, in lei, un costante sforzo di
arrivare alla costruzione di personaggi definiti, ben delineati. Ritiene che questo impegno, così evidente in lei, sia una
parte importante nel lavoro di un poeta? Che differenza c‟è tra la costruzione di un personaggio in poesia e la
costruzione di un personaggio in narrativa? […] Non saprei che cosa dire sui personaggi poetici, oggi che il
personaggio tende a sparire anche dal romanzo. Arsenio e il Nestoriano sono proiezioni di me. In ogni caso il
personaggio che appare in una poesia sarà assai più sintetico del personaggio di un romanzo. Tuttavia, in certi limiti,
anche il verso può narrare.» (Dialogo con Montale sulla poesia, in E. M., Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a c.
di G. Zampa, Milano, Mondadori 1996, p. 1603).
(24) E. PAGLIARANI, Cronistoria minima, appendice a E.P., I romanzi in versi. La ragazza Carla. La ballata di Rudi,
Milano, Mondadori 1997, pp. 121-22.
(25) Ibid., p. 122. Il brano riprende il passo di un precedente saggio di Pagliarani (Ragione e funzione dei generi,
«Ragionamenti», n. 9, 1957).
(26) Il lavoro del personaggio di Carla nel romanzo in versi di Pagliarani fu svolto, in gioventù, anche dall'autore. È
Pagliarani stesso ad ammetterlo in Cronistoria minima: «avevo scritto, nel '47-'48, cioè proprio nel tempo del racconto
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della Ragazza Carla, quando ero impiegato come traduttore dall'inglese e dattilografo in una Società milanese di
import-export, una cartella e mezzo per un eventuale soggetto cinematografico» (p. 123).
(27) Cfr. G. CAPRONI, L'opera in versi, a c. di L. Zuliani, Milano, Mondaori 1998, Apparato, p. 1629.
(28) «Il Conte di Kevenhüller, che dà il titolo al libro pur non essendone il protagonista, è un personaggio realmente
esistito, firmatario dell'avviso riprodotto in fac-simile […], nel quale esorta la popolazione a una generale caccia contro
una feroce Bestia. Non ho fatto particolare ricerche [sic] sulla figura di questo Conte, ma per primo è stato Giovanni
Bonalumi, dell'università di Basilea, a ricordare recentemente ai distratti che il Parini scrisse la famosa ode Alla Musa
nella primavera del 1795, nove mesi dopo le nozze del Marchese Febo d'Adda con la contessina Leopolda Kewenhüller
(una w in luogo di una v non fa… testo!). Dirò che il Conte di Kevenhüller è un titolo che mi è piaciuto per il suo
sapore operettistico.» Che a Caproni non prema, in fondo, sostenere l'autenticità dell'Avviso né la reale esistenza del
Conte è confermato poco dopo: «[Il bando] potrebbe anche non essere autentico, ma poco importa. L'ho trovato per
caso in un rotolo di manifesti d'epoca che mi regalarono anni fa. Sfogliandoli scorsi in riproduzione l'avviso.» (Ibid., p.
1626; da un'intervista rilasciata dal poeta per «Unione sarda» nel 1986). Nelle note d'autore che completano il volume
del 1986 si chiarisce invece la probabile fonte storico-leggendaria della vicenda: «"La BESTIO del GEVAUDAN fut la
terreur du pays du GEVAUDAN de 1764 à 1767." Così a tergo d'una cartolina riproducente una stampa del 1765:
"LOZERE - La Bête du Gévaudan." Una bestia orribile, che dopo numerose battute inutili venne finalmente uccisa dal
coraggioso Jean Chastel, durante una caccia organizzata dal Barone d'Apcher.» (Ibid., p. 701).
(29) Il Conte di Kevenhüller è diviso in tre sezioni (Il libretto, La musica, Altre cadenze), ma la terza, a detta dell'autore,
non avrebbe «niente a che fare con il titolo: si tratta di un altro libro nel libro.» (Ibid., p. 1628). Ciò non toglie che
alcuni motivi e immagini tematiche presenti nelle prime due parti tornino anche nella terza, a suggerire l'unità di fondo
dell'intero macrotesto. Lo stesso Caproni, in un'intervista radiofonica, ebbe a dire quanto segue a proposito dell'opera:
«Quindi penso che al posto della musa oggi vi sia […] il subconscio, e che il subconscio abbia un suo progetto, e che
quando scrivo inconsciamente vi obbedisca. […] L'esempio più lampante è proprio Il Conte di Kevenhüller: il libro è
proprio organizzato, ma mentre lo scrivevo no[n lo era], basta guardare le date.» (Ibid., p. 1628).
(30) Il personaggio di Giorgio è, evidentemente, in strettissima relazione con la figura empirica di Giorgio Caproni.
L'intromissione dell'autore nel testo è ribadita, nella strofa successiva, da un'invocazione che replica quella della prima
strofa («Mi è venuto in mente "Vittorio"! / Vittorio!"»), che allude al nome e a un testo di un altro poeta amico e
contemporaneo di Caproni, Vittorio Sereni (il testo in questione è Paura seconda in Stella variabile). L'analogia nei
titoli (Paura seconda per Sereni, Paura terza per Caproni) conferma l'intenzione allusiva che apre, nel libro di Caproni,
uno squarcio metapoetico immettendo tra i personaggi autoriali lo stesso autore (il cui statuto è paradossalmente
garantito dalla citazione testuale e personale di un altro autore). Per la corrispondenza tra le due liriche cfr. M. A.
GRIGNANI, Due paure: tra Sereni e Caproni, in GRIGNANI 1992, cit., pp. 133-48.
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POEMA E CANONE FEMMINILE
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Invadendo di febbre gli elementi:
note di lettura a Non sempre ricordano e I fondamenti dell'essere di Patrizia Vicinelli
1. Una doppia migrazione
Osservando le geografie letterarie (antologie, percorsi di lettura, pubblicazioni in rete) allestite in
anni recenti e meno recenti dalla critica italiana si ha la sensazione del perdurare, pur tra i continui,
trasversali tagli di luce proposti da quelle ricognizioni, di un ostinato cono d'ombra, di una zona
d'indiscernibilità entro cui non sembra lecito addentrarsi, a meno di non disarmare i propri strumenti
interpretativi dalle partizioni che ne orientano le inclusioni e le esclusioni, i giudizi sistematori.
È in una zona del genere che devono essersi nascoste la vita e la scrittura di Patrizia Vicinelli,
bolognese di nascita (classe 1943) e cosmopolita per scelta e vocazione, ostinatamente migrante in
vita (prima da Bologna a Roma, per poi toccare il Marocco e ritornare infine nel capoluogo
emiliano) e, dopo la morte avvenuta nel 1991, restia con pari ostinazione ad assumere qualsiasi
definitiva collocazione entro l' altra geografia, quella letteraria appunto, non meno priva di barriere.
Una vita e una scrittura, quelle della Vicinelli, disseminate in un nugolo di carte e faldoni
manoscritti, o precariamente raccolte nelle piccole riviste (Bab Ilu, Ex, Tau/ma) che furono la
fucina di quella scrittura del secondo Novecento che, insistendo a volersi di sperimentazione e
ricerca, ha in primo luogo disperso le proprie tappe, le parziali cartografie dei territori di lingua e di
vita che andava man mano sondando, quasi a suggello di una mappatura dai confini porosi e sempre
oltrepassabili, costitutivamente incerta: come, si direbbe, per un invito al viaggio, alla sua
prosecuzione. Per altro una rimozione così durevole risulta tanto più incomprensibile a fronte del
fatto che alcune tappe di quella ricerca la Vicinelli le aveva poi fissate, trovando complice ospitalità
presso alcune indipendenti, meritorie case editrici. È del 1967, infatti, il suo esordio in volume con
à, a. A per i tipi di Lerici (con la contemporanea uscita del disco per Marcatré), mentre risale al
1985 l'edizione del poema epico Non sempre ricordano uscito presso la casa editrice Aelia Laelia,
esito di una travagliata e continua rielaborazione durata quasi un decennio. Senza contare la Ŗsolitaŗ
capacità Ŕ ma quanto insolita tra i nostri critici e poeti Ŕ di ascolto e prefigurazione dimostrata da
Antonio Porta, che proprio di quel poema, ancora in fieri, antologizzava il capitolo H. is my life
nella ricognizione a tutto campo della Poesia degli anni settanta(1).
Tracce a rischio di scomparsa, dunque, cui ha però prestato parziale soccorso l'edizione postuma
delle Opere(2), approntata grazie alle cure dei critici più solidali con la ricerca della poetessa. Quel
recupero parziale, scontratosi con una dispersione d'opera così difficilmente perimetrabile, ha
trovato di recente la sua completezza nel volume che raccoglie l'intero corpus, Non sempre
ricordano: Poesia Prosa Performance, che permette finalmente di indagare in tutta la sua
estensione il percorso creativo di Patrizia Vicinelli(3).
Eppure, nonostante le eccezioni appena citate, sembra che la mancata collocazione di questa poesia
entro gli schemi critici di più larga circolazione possa essersi nutrita anche di altro, di una ragione
che non ha a che fare - non soltanto, almeno - con l'erranza che ne ha caratterizzato i materiali
eterogenei (poesie, collage e assemblaggi grafici vari): il nomadismo che ha tanto inficiato la sua
ricezione è piuttosto quello che interessa il corpo stesso di questa poesia; di una scrittura, cioè, che
azzera i confini di genere per riaggregarne gli elementi costitutivi in ammassi dalle potenzialità
inedite. Dunque qualcosa di analogo deve essere avvenuto anche Ŕ forse soprattutto Ŕ riguardo alla
forma poematica, tanto più quando questa faccia mostra di sé entro un corpo d'opera che di poemi
ne conta ben due, diversissimi esemplari, incastonati come altrettanti corpi solidi nel magma ora
denso e vischioso, ora invece aereo e imprendibile dei suoi libri di poesia visuale e concreta, delle
sue performance vocali.
Nell'avvicinarsi alla produzione di Patrizia Vicinelli in una rapida ricognizione d'insieme, potrà
forse apparire strano che un simile percorso poetico abbia trovato la sua massima espressione nella
forma del poema. Chi di quel percorso ne scorresse i capitoli iniziali, infatti, si troverebbe a contatto
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con un linguaggio aggredito nella sua consistenza sintattica, nella tenuta lessicale e frantumato in
una congerie di schegge riaggregate sulla precarietà della pagina; il lettore è chiamato a percorrerla
con lo spaesamento di chi esperisce un linguaggio così incerto della propria tenuta referenziale da
riservare soltanto alla propria avventura la possibilità di reperire un senso, di potenziarlo. Tanto più
che ricerca e investitura nella Vicinelli paiono coincidere, laddove la parola viene atomizzata negli
elementi costitutivi che l'elaborazione grafica della pagina restituisce in forma di pulviscolo
semantico, dotato tuttavia di una ritrovata potenzialità aurorale. E forse a fronte di questi estremi, di
questa polarità all'apparenza non conciliabile, apparirà meno impensabile che il percorso creativo
della poetessa abbia dato prova di un'analoga divaricazione interna al genere, tentando una sorta di
coincidenza degli opposti nell'ampia orchestrazione del poema.
In queste pagine vorrei quindi soffermarmi sulla paradossale solidità dei poemi di Patrizia
Vicinelli, prendendo in considerazione i due esemplari citati: in primo luogo Non sempre ricordano
e, a seguire, quei Fondamenti dell'essere che, cronologicamente, si situano nel territorio incerto che
in Italia segue la grande stagione sperimentale, aprendo a una riaffermata concezione della parola
come evento, di una parola innamorata di se stessa, con cui la ricerca pluriennale della poetessa non
sembra avere nulla a che fare. Questa ricerca, piuttosto, in quelle ultime propaggini degli anni
ottanta si configura come lo strenuo, per certi versi solitario tentativo di lasciare aperta una
possibilità inedita, un percorso di scrittura che ha di certo i suoi padri putativi nella stagione
neoavanguardistica e sperimentale, ma poi prosegue e insiste per strade del tutto autonome, per
nulla riconducibili a indirizzi programmatici di scuola, a una poetica che si garantisca ante rem.
Piuttosto, insieme all'altro grande eretico dello sperimentalismo avanguardistico che fu Antonio
Porta, Patrizia Vicinelli ha costretto la poesia a rifondare le proprie ragioni tramite l'avventura
incerta del suo farsi, in pieno azzardo di scommessa e scoperta, nella tensione di un corpo testuale
che affinava i propri meccanismi percettivi nel corso del suo stesso procedere.
È un procedere, questo, da intendersi non solo nella sua estensione diacronica, da un testo all'altro,
ma riscontrabile anche Ŕ e in maniera del tutto particolare Ŕ nel singolo testo, tanto più quando si
strutturi nell'orchestrazione ampia e, si diceva, paradossale del poema.
2. Proiettare il samuray
Come accennato, la data di pubblicazione di Non sempre ricordano nasconde un'elaborazione
precedente frutto di tre differenti stesure: la prima tra il 1977 e l'anno seguente, la seconda nel 1979
e la successiva nel 1985. Un'elaborazione discontinua, che accoglie la materia incandescente di una
biografia vissuta all'insegna del rischio, dello spaesamento, e che la scrittura restituisce nelle sue
stratificazioni tramite una pagina organizzata in primo luogo come partitura. Ben poco è però
concesso alle fascinazioni della melodia, in un testo che aggrega materiali linguisticamente e
tematicamente divergenti ponendo a contatto, senza soluzione di continuità, fatti di cronaca e
visioni oniriche legate al ricordo, registrazione in presa diretta di soprusi e fascinazioni mitiche.
Eppure di partitura davvero si tratta, non appena ci si renda conto di quanto questi frammenti siano
ricomposti in un amalgama dalla tenuta solidissima, percorso da fenditure del senso e del segno
linguistico orgogliosamente protratte nella densità di un corpo testuale (sempre suscettibile di
trasformarsi in fantasma vocale) che li stringe nella necessità della loro compresenza. Una
compresenza che ha come primo effetto l'erosione dei confini temporali dell'esperienza: alla
registrazione in presa diretta (tramite un imperfetto narrativo che si impone con l'evidenza di un
presente) si affianca, lo si accennava, una dimensione del ricordo (dunque precedente a quel
costante imperfetto della Ŗnarrazioneŗ) che sembra legare gli elementi in un tempo assoluto.
A ben vedere, il ricordo ha una valenza centrale nell'economia espressiva del poema,
configurandosi come suo motore principale fin dalle prime, splendide battute (parte prima, Lontani
dal paradiso. Strada non ancora avvistata):
...TUONAVANO
gli spiriti dei dormienti santi
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fino ad allora in siesta o in passeggiata silenziosa,
veli, camicie, RESPIRI.
:tutt'in torno le valli del desiderio
EMERGONO. (4)
Chi percorra l'inquieta testualità del poema non potrà non notare, e proprio a partire da un incipit
come quello appena citato, quanto la memoria agisca dentro una pagina che la convoca al di fuori di
qualsiasi tentazione elegiaca, costringendola a inserirsi nel tessuto vivo del testo, che è poi la vita
stessa di un presente che rivendica di continuo, in queste pagine, il diritto alla propria esistenza, alla
registrazione della sua voce sofferta. E così la violenza, il sopruso, il degrado indotto oppure
liberamente ricercato come fucina di esperienze alternative e potenzialmente liberatrici, si innestano
nei versi come il battito pulsante e senza ritorno del qui e ora, di cui si riconosce l'approdo nella
morte. Un senso di mortalità che pervade il testo dall'inizio alla fine ma di cui si scopre il
fondamento ideologico e normativo nel suo essere Ŗusata da sempre come / strumento di dominioŗ
(parte quinta)(5). È con tale consapevolezza che Vicinelli imbastisce, tramite l'articolazione
poematica, la propria personalissima concezione del tempo, volta a stornare il presente da ogni
determinazione esterna, sia pure quella di una morte posta al termine di un percorso che il senso
comune vorrebbe lineare e progressivo. Nulla di più lontano dagli scoscendimenti del tempo che il
poema registra, così restituendo al presente una dimensione ulteriore (parte prima):
Le facciate erano 4
e hanno formato il cubo della mia memoria scoscesa.
IL MITO S'IMPONEVA OVUNQUE. (6)
Qualora non si voglia assumere il mito nella semplice accezione di ricordo, magari primigenio e
fondativo, così da assimilarlo al tema memoriale appena sottolineato, dovremmo chiederci quale sia
la sua reale funzione dentro la dinamica temporale di ricordo e realtà, che tanta parte sembra avere
nella strutturazione del poema. Strutturazione, conviene ribadirlo, che agisce principalmente tramite
una resa omogenea dello spazio testuale, in cui i passaggi tra la dimensione del presente (di un
imperfetto che finisce con l'assumere lo statuto di un presente) e quella del ricordo di un tempo
precedente avvengono nella continuità di un dettato che non sembra mostrare attriti. Questi in realtà
ci sono, ma in una misura e di un'intensità tali da poter essere accolti sulla pagina solo tramite la
costituzione di uno spazio testuale mobile.
Può forse giovare, per avvicinarsi a tale mobilità interna, riflettere sulla modalità di raffigurazione
cui sottostanno di frequente tanto i ricordi, evanescenti eppure persistenti, quanto gli eventi della
quotidianità più cruda. Non sempre ricordano mostra di continuo, lungo il testo, una costante
strategia di distanziamento degli avvenimenti narrati, disponendoli su uno sfondo in cui le presenze
evocate, le apparizioni improvvise, e così pure le più ampie campiture narrative sembrano prendere
vita sulla pellicola di un film. È come se la fucina mentale di una psicologia in continuo fermento
imbastisse una sala di proiezione cui demandare l'oggettivazione dei propri fotogrammi, e dunque
frammenti, interiori (parte prima):
...un colpo secco e strano quella volta,
bussano?
TITOLO: in sovrapposizione: ŖRICOMPARSI,
ALL'ALBAŗ
RISORGENDO
DAI CAMPI
INVASI DA SMITRAGLIATE DI LUCE (7)
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Scorrendo i versi ci si imbatte di continuo, anche in assenza di indicatori tanto eclatanti, in strategie
testuali tese a costruire la pagina come una sceneggiatura, alla quale le improvvise immissioni di
elementi lessicali discordi, la messa in atto di una logica non consequenziale e le relative infrazioni
della linearità sintattica sembrano offrire un'immediata traduzione cinematografica, quasi che alle
didascalie di regia si sostituisse la messa in atto delle stesse: una proiezione, appunto. Il numero
delle occorrenze è talmente alto da configurarla come la modalità dominante di messa in figura,
rispondendo a una necessità intimamente radicata nelle ragioni stesse dell' opera. E intimamente
legata, riguardo l'aspetto che qui più ci interessa, alla scelta di genere in cui quest'opera ha voluto
incarnarsi.
È un genere, quello del poema, che gli esempi più autorevoli della prima metà del Novecento
avevano consegnato alla disgregazione dei propri elementi, innescando allo stesso tempo, alla
stregua di un paradossale correttivo, una tenuta formale attuata grazie a quelle stesse caratteristiche
che ne avevano minato la stabilità. Così se Eliot Ŕ presente nella formazione della poetessa quanto
nel testo in questione, che fa mostra di parche ma significative allusioni(8) - potè mostrare il corpo
sfinito di una civiltà tramite un fondo mitico di cui veniva denunciato l'esaurirsi della spinta
aggregante, lasciando che gli elementi si depositassero come le figure liberamente componibili di
un disegno di cui non si riconoscevano più i volumi complessivi, pure a quegli elementi residuali, a
quei miti inquinati eppure persistenti aveva affidato il compito di sorreggere l'edifico sul punto di
crollare: these fragments I have shored against my ruins(9).
Ai frammenti, d'altronde, seppure di genere diverso, Eliot aveva fatto ricorso anche prima di
tracciare la mappa di queste terre disertate dal dio, fin dal momento in cui, abbandonando ogni
residuo tardo decadente o, piuttosto, correggendolo con la raffinatezza ironica e disincantata di un
Laforgue, aveva demandato agli oggetti di una trita quotidianità o ai simboli di un esausto istituto
lirico il compito di rendere manifesta una soggettività ugualmente sfiancata. Tuttavia l'oggettività,
quale risorsa estrema di un soggetto in dissoluzione, poteva ribaltarsi nel suo omologo finalmete
reificato, divenire cioè l'oggettualità che permette alle cose (e siano pure, queste, simboli ormai
decaduti a simile statuto) di essere manipolate e ridisposte in nuovi ammassi tramite sapienti
operazioni di riaggregazione: ŖBricolage, dunque; e rifunzionalizzazioneŗ, per usare il binomio
formulato a suo tempo da Franco Moretti per descrivere, non a caso, l'anomalia di struttura e
figurazione di un poema tanto fondativo per la modernità letteraria quale il Faust di Goethe(10).
La funzione di tali oggetti - nel doppio significato cui si è accennato - sembra dunque essere
duplice, funzionando, da un lato, come la soglia di resistenza e di oblitarazione di quella
soggettività al limite, in perenne rischio di scomparsa, e che tuttavia proprio negli oggetti trova sia
un'ultima garanzia del proprio esistere nonostante tutto, sia la consapevolezza che quel tutto, quel
gremito di cose è in definitiva un nulla; dall'altro, disponendo di quegli elementi come di altrettante
tessere di un puzzle a cui affidare il possibile ripristino di una figura integra. Certo è che, tuttavia, la
riscoperta del patrimonio mitologico operata da Eliot, per quanto immessa entro un orizzonte di
disfacimento che ne inficia il potere rigenerante di morte e rinascita, resiste poi con l'ostinazione
della brace soppravvissuta all'incendio, come un lacerto, un frammento, appunto, posto dentro il
divenire della storia con la forza residua di un appiglio: sono comunque punti fissi, attorno ai quali
si muove un mondo fenomenico alla ricerca di un proprio centro di gravità.
È questa opposizione tra la sfiancata mobilità del reale e il centro immobile del mito a essere
sottolineata da Cecilia Bello Minciacchi a proposito del poema vicinelliano:
Dunque il mito, che è da intendersi sia nel senso di una mitizzazione (e di una vocazione
mitopoietica)
privata, sia in quello di una mitizzazione archetipale e collettivamente aperta
in termini junghiani […], si
incunea nella prosa bassa del quotidiano e con questa si
scontra fuori da ogni possibilità di pacificazione. (11)
Gli elementi mitici, o una disposizione mitizzante nei confronti delle proprie vicende biografiche,
godono in effetti in Non sempre ricordano di una comparsa discontinua, riconoscibile tramite la
presenza di figure (gli spiriti, gli avi, il samuray, il cavaliere ecc..) che paiono offrire alla porzione
di testo che li ospita un diverso statuto rispetto ai brani di realtà, disposti con la crudezza e la
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perentorietà proprie di un vissuto oggettivo, concreto. Eppure, considerando i rapidi passaggi, le
frizioni e le continuità che oppongono e lasciano comunicare gli elementi del poema, sembra che
il rapporto tra la realtà quotidiana e il ricordo debba essere pensato come più dinamico (parte
prima):
...OMBRE
(come cinesi) come riflusso della stanchezza del giorno
LE HA VISTE scorrere sulle fronti
fresche e sudate
- AVVICINARSI sul cui tappeto ballano raggruppandosi i sogni
e si increspano alla tempia
suoni mitigati e sottratti al senso eterico
(per non filtrare?)
COMUNQUE ANELANO.
SPIRITI DEFORMI. (12)
Ancora una proiezione, in bilico tra teatrino delle ombre e allucinazione; e ancora uno schermo (la
fronte) che permette l'oggettivazione di elementi altrimenti celati nella segretezza del soggetto, e
che pure al soggetto continuano a rimandare nell'assunzione di quella stessa particolare superficie:
luogo di collegamento tra l'interno psichico e l'esterno del mondo, in cui i due poli della relazione
si confondono incessantemente.
La proiezione, intesa come modalità di messa in figura, comporta un iniziale distanziamento del
magmatico materiale del poema, un suo disporsi finalmente al di fuori di un soggetto che può in tal
modo consegnare alla nuova oggettività la certificazione della propria esistenza. A questa, tuttavia,
la modernità Ŕ inaugurata da Goethe con il Faust Ŕ chiede il continuo ridefinirsi dei propri attributi,
quasi quella certificazione restasse in perenne attesa di verifiche: da qui la categoria del bricolage
citata da Moretti, cui la frequentazione della Vicinelli con il cinema sperimentale degli anni
sessanta consente forse di sostituire quella omologa del montaggio.
È una categoria, questa, che sembra rivestire una medesima funzione di destrutturazione e
ristrutturazione di quel gremito d'esistenza e memorie; eppure essa non è perfettamente sinonimica,
la pratica del montaggio potendo infatti godere dell'aleatorietà, dell'impermanenza propria del
fotogramma che lascia il testo in balia di frammenti (come altrettante, fulminanti epifanie di realtà)
non ricomponibili. Sono le voci di un coro che sembra aver perso ogni spartito, dovendo così
configurare la struttura idealmente unitaria della forma poematica (e di un poema, ci avverte il
sottotitolo, epico, e dunque detentore Ŕ almeno in teoria Ŕ di un'unitarietà specifica) tramite il loro a
solo violento e irrelato, in una vera e propria psicomachia. È in questo agone che il soggetto
convoca una nuova figura, di nuovo proiettandola su uno schermo mentale in cui realtà e sogno,
presente e passato giocano la loro partita (parte quarta):
INFINE, come quella volta, he need [sic] help,
PROIETTARE, partorito dalla mente,
il SAMURAY, la sua splendente fiammeggiante
scimitarra alla mano,
sospeso in sfera vuota e incolore
SOTTO DI LUI CADEVANO SCRICCHIOLANDO
LE OSSA A BRANDELLI SENZA VOLTO E
VUOTO ATTORNO MOSTRI TRASPARENTI E
INVISIBILI
EPPURE SCHIZZI DI SANGUE BIANCO
(i miei mi avevano accerchiato)
UNA GRANDE SCIMITARRA CHE VOLAVA
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NEL DESERTO
ROTEAVA VOLTEGGIAVA NELL'ARIA
(contro i pensieri)
ŖE IO POCO DOPO ERO SALVAŗ seven days. (13)
ŖOccorreva Ŕ è il verso successivo a suggerirlo - uno schermo ai potenti schemi della / memoriaŗ
perché questa figura mitica (di un mito ibridato, sincretico di tradizioni culturali distanti) potesse
entrare in attrito coi lacerti di mondo nel cui attraversamento il soggetto spera di Ŗrintracciare sé
stessoŗ (p. 91): è questa la posta in gioco e il movente dell'intero svolgersi del poema, la forza
propulsiva che ne modula il canto anche nelle note più discordi. La meta, tuttavia, è il viaggio
stesso, in una coincidenza che sancisce la difficoltà storica della sfida poematica di Patrizia
Vicinelli e, allo stesso tempo, ne riafferma la necessità di là da ogni immediatezza innamorata tra
parola e realtà. Questa, per riprendere la notazione di Cecilia Bello Minciacchi, rimane davvero
estranea al mito, il quale viene cionondimeno convocato, ricercato nelle pieghe e nelle piaghe
nascoste di quella stessa quotidianità, quasi nel tentativo di offrire al mondo uno specchio entro cui
collocare le mutevoli manifestazioni del suo soffrire. Un simile tentativo non va però confuso con la
riduzione delle asperità del mondo fenomenico nella rigida sistemazione dell'archetipo, dato che
quest'ultimo, piuttosto che porsi come la realtà prima alla quale il mondo deve il proprio incanto,
viene anch'esso proiettato, configurandosi quale modulo suscettibile di variazioni e combinazioni,
di giustapposizioni stranianti. Davvero, allora, non può esserci Ŗpacificazioneŗ in questo incontro
ricercato con ostinata tenacia e, di nuovo, sempre perduto. Agisce, al contrario, una
compenetrazione incessante, in cui i due elementi, realtà e mito, sembrano scambiarsi gli attributi:
l'una denunciando, dietro l'apparente multiformità delle proprie manifestazioni, un fondo di
inscalfibile, ottusa immobilità; il mito, invece, dismettendo la propria carica fondativa e normativa
per disperdere le tracce della sua auroralità tra i lacerti di una realtà irredimibile.
Quando in questo sfondo scosceso, aspro di memorie e di miti, il soggetto non vorrà più realizzare
soltanto una pratica di liberazione che quei miti sappia soggiogare e convocare in una realtà
reincantata, ma ad essa demanderà la ricerca di una fondazione del sé, i suoi elementi vivranno
ancora in questo baluginare continuo e impermanente, che brilla un istante con la stessa transitorietà
del fotogramma cinematografico, vivo e luminoso solo nella misura in cui prepara l'apparire di
quello successivo. Così una scrittura calata per intero dentro la propria ineludibile materialità,
scopre quanto altrimenti le si sottrarrebbe: un tempo gettato a capofitto nella corsa di un poema che
proprio dentro questa continua addizione di gesti e memorie, di registri e stili, scorge la pausa breve
che ne sospende il procedere.
3. Tutto quello che c'era nel mezzo
È dunque il tempo il centro propulsore della scrittura di Patrizia Vicinelli, il movente e la
condizione di possibilità di una forma poematica così intimamente scissa, combattuta tra le opposte
tensioni della dispersione di senso e del suo agglutinarsi. Un tempo che vede costantemente
interrotto il proprio procedere rettilineo, spaccato dall'irruzione di zone testuali in cui convocare le
figure che la storia avrebbe altrimenti dimenticato: Ŗcambiare la prosa del mondo, il suo orologio
intattoŗ, recitava un passaggio folgorante di Amelia Rosselli. E questo orologio va in pezzi in molti
passaggi di Non sempre ricordano, con una perentorietà che ne scongiura ogni possibile
ristrutturazione, decretando, piuttosto, che ogni quadrante sospenda la misurazione fin da subito
nell' altro, conclusivo capitolo del respiro poematico della poetessa.
I fondamenti dell'essere, infatti, sorta di epopea di un soggetto (un cavaliere) alla ricerca di una
redenzione laica, danno corpo a un amalgama temporale che si mostra innanzitutto nella scelta
stessa delle figure mitiche che ne compongono la sostanza e ne determinano il procedere. Nelle
quattro parti del poema appaiono la dea egizia Iside e simboli cristiani mescidati con elementi
favolistici (la coppa del sacro Graal, il drago e la colomba), tra cui si innestano figure dell'alveo
romano come Proserpina e Giano, affiancate da incursiosi nella religiosità greca più arcaica (Orfeo
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e Pandora). Davvero uno strano parterre per un poema che voglia, come denuncia il titolo, risalire il
flusso del tempo alla ricerca di una sorgente, di fondamenti stabili su cui la storia - sia pure quella
privata di un soggetto investito di funzioni collettive - abbia poi edificato le proprie costruzioni.
Sembra che un sincretismo culturale tanto esibito voglia porsi come il corrispettivo, a livello
dell'immaginario da cui attingere, di una pratica poetica non nuova nel voler trasformare la fissità
del mito in strumento di metamorfosi ed erranza. Una pratica, come si è visto, che intende
attraversare la verticalità del tempo tramite l'orizzontalità di una scrittura che ne immetta gli
elementi residuali dentro la cronologia assoluta del testo, la quale sembra essere tale in virtù
dell'obliterazione totale di ogni successione. Ed è precisamente a uno spostamento nello spazio che
fa seguito, nelle primissime battute del poema della fine degli anni ottanta, una raffigurazione del
tempo scostata dalle usuali configurazioni (parte I, Il cavaliere di Graal):
Da un altro punto furono viste le stagioni
fino lì sconosciute
solo allora poté sedersi ad ammirare
il senso dell'alternanza. (14)
Il tempo del mito - o meglio, una temporalità esperita e attivata tramite il mito (il senso
dell'alternanza) - viene assunto nei Fondamenti come lo sfondo, il punto di partenza cui il poema
deve la propria iniziale insubordinazione e la sincretica configurazione degli elementi mitici che in
esso operano. È un sincretismo, quello dei Fondamenti, che trova un primo denominatore nella
scelta di personaggi accomunati dalle insegne del passaggio, dell'oltrepassamento del confine, in
primo luogo quello tra la vita e la morte. Figure di morte e resurrezione, dunque, come la colomba e
il Graal, simboli di Cristo e della redenzione; oppure che nella morte transitano abbattendo così la
barriera opposta al regno diurno dei vivi. Non è un caso che il primo movimento del poema
convochi, appena oltre i versi citati, la figura di Iside, moglie di Osiride e lamentatrice della sua
morte, alla quale la dea cerca rimedio tramite una discesa agli inferi. Figura ambigua, tuttavia, che
all'iniziale valenza funebre addiziona presto, nel rimescolio culturale e cultuale del secondo secolo
d.C., diverse e contraddittorie valenze positive, divenendo regina dei morti e dei frutti, presiedendo
alla magia, alle trasformazioni delle cose e degli esseri, agli elementi naturali. Quanto di meglio per
imbastire lo studio alchemico della Vicinelli, il suo fare stregonesco che confonde rigenerazione e
morte in una trasformazione reciproca ostinatamente perseguita: Ŗla mia vita e la mia / morte sono
la stessa avventuraŗ, aveva scritto al termine della quinta parte di Non sempre ricordano,
nell'ambizione di stornare la linearità di un tempo che vedeva consegnato alla morte e che lei, al
contrario, dispiegava in quella zona di sospensione in cui vita e morte scambiano le maschere delle
loro manifestazioni. Ma questa zona è esattamente lo spazio senza tempo del mito, il luogo in cui
gli opposti si toccano e le civiltà muoiono e rinascono nello stesso istante.
Ecco dunque la dea egizia, a contatto con una figura femminile che nella prossimità alla sua stessa
Ŗombraŗ sembra annunciare la ricomposizione di una propria immagine intera, non più scissa, come
il segno della compresenza, dentro il giorno perenne figurato dal poema, di un regno ctonio
attraversato con il medesimo passo con cui si procede oltre:
È fusa la donna alla sua ombra
eppure trema al fuoco dell'inizio
così se li sposta i suoi passi
Iside all'orizzonte mèta
ora essa fugge la sua lontananza. (15)
La libertà sintattica e l'incertezza denotativa, marchio di una scrittura insubordinata alle norme di
una percezione codificata, dapprima accostano la figura femminile alla divinità, quasi questa le
fosse compagna e sodale, poi la ripropongono (essa) confondendone l'identificazione e delineando
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così un soggetto che ritiene insieme le caratteristiche di una morte attraversata (Iside è infatti colei
che attraversa il regno delle ombre alla ricerca di Osiride) e di un inizio che trema del suo
principiare. Ad essecondare una disgregazione che accenni per segni incerti e deboli a una
ricomposizione, i versi successivi scandiscono una materia refrattaria all'ordine sintattico,
giustapposta in segmenti che il verso lascia nell' indecidibilità della loro concatenazione e dei loro
referenti:
Perché non cola l'attesa profumata
ossia fermarsi
la sua ansia volta avrà la fine
di profilo porre cosa la tiene unita
quella che stacca la radice, un alito. (16)
È nello stridore del segno linguistico, nella conseguente sospensione del senso, che il cavaliere
Ŗbatte allora come sul ferro la materia di séŗ (p.207) dando inizio al costante processo di
metamorfosi che investe gli elementi del reale e, con essi, il soggetto che vi si muove
attraversandone gli stadi intermedi, le tappe di una trasformazione mai compiuta. Per Vicinelli Ŗciò
che non è compiuto spinge / il modo del procedereŗ (p 208), e il singhiozzo di una sintassi spesso
bloccata e aggregata a forza, l'accostamento abnorme di sintagmi logicamente discordi,
l'oscillazione morfologica degli elementi sono la risposta del testo a una realtà di cui vengono
saggiate asperità e crudezze, ostruzioni, divieti, col fine di aprirvi gli spiragli da cui un mondo
percepito come infinito possa dispiegare le proprie forme perennemente cangianti.
Il linguaggio, tuttavia, non è solo la registrazione di questo magma; ne è anche l'artefice, il motore
attivo, in uno scambio tra mondo fenomenico e scrittura del poema che costringe quest'ultima a
inseguire il variare del primo, e questo a modellarsi secondo i voleri di una parola che esercita la
propria forza tramite le ferite da cui è lacerata. Si stabilisce uno scambio virtuoso tra la debolezza di
una parola preclusa a ogni possibilità di reperire l'assoluto e un mondo che lascia brillare le proprie
macerie, preludi a costruzioni più vaste, a Ŗmondi paralleli, attriti / posti sopra o sottoŗ (ibidem). Si
istituiscono in questo intrico Ŗi paradossi demoniaciŗ (ibidem), la costante ambivalenza di una
scrittura la cui forma, il cui Ŗmodo del procedereŗ appunto, è il referto di uno scontro senza
mediazioni col reale e, allo stesso tempo, la forza che istituisce e trasforma il teatro entro cui il
soggetto mette in scena la ricerca di sé:
Già pensa che il santo graal è troppo
lontano, e il bicchiere si sta offuscando
di rosso, - qualsiasi cosa signore, ma spingimi
avanti -, nuovamente il bicchiere brilla rosso(17)
Alle parole dell'invocazione segue immediata la trasformazione della realtà testuale, in un'attitudine
alla performatività radicale che ridisegna, tramite le parole che lo nominano, il mondo che il
soggetto attraversa. Un tale soggetto, d'altronde, non ha alcuna consistenza al di fuori di questo
doppio legame, che unisce parola e realtà nella loro produzione reciproca: esso è fin da subito
conficcato tra lingua e mondo, potendo esperire soltanto la porzione di realtà che il linguaggio
dispiega:
I piani del linguaggio
ne è avvolto
così genera le forme della sua ricerca(18)
Ma questa realtà è poi la medesima che congiura, con la propria rinnovata solidità, a chiudere gli
spazi dell'avventura del cavaliere, del suo perdersi e ritrovarsi Ŕ il binomio, inscindibile, è ancora
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rosselliano Ŕ che non può che coincidere, a questo punto, con l'intento di Ŗinfrangere ciò che da
inadeguato / si ricompone ad ogni istanteŗ (p. 208).
Immergendosi nel cuore di questa reversibilità furiosa, Guido Guglielmi aveva notato, già a
proposito dell'incedere fluviale di Non sempre ricordano, quanto Ŗper Vicinelli la manifestazione
del mondo coincide con la manifestazione di séŗ, al punto che Ŗle circostanze dell'io fanno parte
della sua costituzione: lo invadono, gli lasciano tracce e ustioniŗ(19), in una marchiatura che il
respiro maggiormente concentrato dei Fondamenti dell'essere porta impressa come il suggello di un
destino e di un compito:
egli ha imparato come lasciarsi solcare
ad essere cinto dalle tracce.
Con un colpo d'occhio sentiva
la presenza simultanea di tutto ciò
che nella terra cresce
e questa coscienza della situazione attuale
lo aiutava come una disciplina.(20)
La disciplina di questa attenzione spasmodica si attua tramite una mente costantemente percorsa e
ferita, attraversata dalla traccia ustoria del mondo. Essa coincide con un esercizio di sospensione del
tempo, attuata entro quella dimensione del ricordo che Vicinelli, delegittimandola di ogni consistere
elegiaco, richiama piuttosto nel nostro mondo Ŗinchiodato alla strategia del tempoŗ(21) per dotarlo
di una zona di quiete:
Scivolando lungamente sul fianco
della piramide atavica
lo blocca quando vuole come esercizio(22)
Ma per chi voglia sbarazzarsi di ogni pretesa normativa inscritta in un ricordo esperito come
tradizione fissa e immutabile (sia pure soltanto personale), la sospensione non realizza una
concrezione immobile, bensì crea lo spazio entro cui gli elementi del passato si riposizionano nel
presente, costringendolo così a destabilizzarsi, a perdere la propria memoria fondativa, per
consegnarsi a un segno linguistico brancolante che recupera la propria valenza aurorale, il reincanto
inarreso, nella sua rabdomanza.
Memoria, dunque, sua permanenza e contestazione alla ricerca di una forma integra del sé realizzata
tramite un recupero del tempo trascorso, una volta che questo, piuttosto che precedere l'attuale
secondo una sistemazione lineare della storia, ne sia un piano ulteriore, posto accanto a zone
cronologiche che si rifiutano a ogni disegno rettilineo. Non zone del presente o prefigurazioni di
futuro, ma dimensioni parallele che il soggetto costituisce tramite la lingua, per poi transitarvi.
È ancora il transito, dunque, il viaggio, a rendere evidente la propria meta nella mappatura dei
territori attraversati. I Fondamenti realizzano il proprio corpo poematico nell'accumulo, ravvisabile
fin dalla partizione in quei quattro Ŗcantiŗ che si negano, nel loro succedersi, a ogni sviluppo
narrativo, dovendo invece riattivare ogni volta, e perfino al loro interno, la sfida testuale di uno
stravolto romanzo di formazione che riesca contemporaneamente a dispiegarsi e a coagularsi. Il
risultato è il profilarsi di una moderna quête, che lascia tuttavia consistere le sue sequenze sul piano
tridimensionale di Ŗnuove geometrieŗ.
Non è casuale che un' attitudine tanto generosa nei confronti della lingua poetica, distesa
nell'ampiezza del poema e capace di dispiegare un vocabolario ricchissimo senza alcuna
preclusione liricista, trovi un approdo ogni volta rinnovato nel rigore della forma geometrica. Quasi
il rocambolesco susseguirsi dei canti struggenti e selvaggi di Non sempre ricordano (la definizione
è di Leonetti), che appartiene, pur se in forma variata, anche ai Fondamenti, trovi in questi piani
solidamente delineati in uno spazio il proprio risvolto segreto, l'architettura nascosta di un testo che
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in tanta dispersione di lingua e immagini raggiunge la sua certezza nella possibile combinazione di
perimetri e aree, nella loro sovrapposizione (parte II, Il tempo di Saturno):
Dunque il sole era di fuoco in ogni luogo
e risplendeva per sempre nella sua continuità.
Nemmeno un attimo ci fu margine d'errore
ma lodi nella mecanica di nuove geometrie
esse formulavano la quiete di altri sistemi.(23)
Il fluire del poema vocale vicinelliano, soggiogato quasi per statuto al proprio procedere e alla
propria dispersione, trasmuta nel referto geologico della pietra, Ŗquella in cui è ricordato / il
passaggioŗ(24) finalmente bloccato in densità minerale, per poi riattraversare il sedimento
disponendone le parti infinitesimali, gli atomi di tempo, nello spazio tridimensionale della
geometria. Ma perché ciò accada, il poema ha dovuto imbastire ancora una volta i meccanismi della
propria insubordinazione, tra i quali torna quella strategia della proiezione che si era ravvisata in
Non sempre ricordano come il luogo in cui il mito, pur tradendosi, riaffermava se stesso:
Entra il possibile passato nella proiezione
del presente, egli può scegliere
come entrare da un'altra porta, si avvolge
nel suo scudo atavico, ancora una volta osa
col rischio della fine, camminare sull'orlo. (25)
Il senso e la sfida dei Fondamenti dell'essere stanno in questo Ŗcamminare sull'orloŗ. Al di fuori di
un tale bilico poco o nulla si comprenderebbe del suo groviglio di immagini, della sua sintassi ora
fluida e avvolgente, ora al contrario claudicante, sghemba per improvvise pause e ancor più rapide
riprese e agganci. Bisogna, in altre parole, entrare nella sua cifra conflittuale, in quella che si era
chiamata la sua paradossalità, consapevole che Ŗinfrangere quello che è già dettato / non lo puoi
tanto a lungo, mia dama, né / lo puoi fuggire di più, mio cavaliereŗ (parte III, Eros e thanatos, il
canto) (26).
Il dettato è parola della tradizione, può equivalere all'essere detto di un soggetto al quale viene
negata ogni autonoma consistenza. Ma esso, nonostante tutto, fornisce una direzione e lascia
intravedere un cammino. Accenna dunque a una meta, a patto di non considerarla il punto
conclusivo di un'ideale linea di continuità temporale, bensì il luogo di una visione restituita alla
propria pienezza:
Così da lontano vedeva la sponda, anche
tutto quello che c'era nel mezzo.(27)
Nel non potere liberarsi d'un colpo di tutto ciò che si è vissuto, senza neppure la scorciatoia della
fuga ma con la necessità di stare nel mezzo, si misura l'incontro mai pacificato tra il desiderio che
guida la lingua del poema tra gli oggetti psichici e reali del proprio cammino, soffrendone gli attriti
e le compromissioni, e le precarie anse di riposo in cui quella stessa lingua si articola nella quiete
della lode. Pare essere l'unica religione possibile, questa, per un poeta che nel decennio che voleva
sancire l'inaridirsi di ogni esperienza, ne ha tentato un inesausto reincantamento: non in un
monologare lirico che pretenda di fondarsi sulla solidità di un soggetto dato una volta per tutte, ma
nell'avventura di un poema in cui l'unico approdo possibile coincide con il naufragio tra gli stralci di
mondo che il cavaliere deve comunque, pur se disperatamente, avere amato.
Matteo Di Meco
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Note.
(1) A. Porta [a cura di], Poesia degli anni settanta, Feltrinelli, Milano 1979.
(2) Opere, a cura di Renato Podio, introduzione di Niva Lorenzini, Scheiwiller, Milano 1994.
(3) P. Vicinelli, Non sempre ricordano. Poesia Prosa Performance, a cura di Cecilia Bello Minciacchi e con
un'introduzione di Niva Lorenzini, Le Lettere, collana Ŗfuoriformatoŗ, Firenze, 2009. Da questa edizione saranno
estrapolate le seguenti citazioni dei versi indicandone la pagina di provenienza.
(4) p. 47.
(5) p. 102.
(6) p. 49.
(7) Ibidem
(8) Citazioni esplicite o allusioni, per quanto sottoposte alla deformazione dell'ironia o risemantizzate, sono ravvisabili
nella quinta parte, I have no time. Versi quali ŖFu collocato il fifteen number: the devil card, o / the sixteen number: the
fire towers card / […] / quindi, the thirteen number alias the / death card or the mutationŗ (p. 97) sembrano alludere,
quanto meno per il tema analogo della divinazione tramite i tarocchi, alla parte conclusiva del primo capitolo di The
wast land, The burial of the dead, in cui viene evocata la figura di Madame Sosostris, chiaroveggente da salotto che
dispone le figure mitiche del poema; i versi ŖPassi di donne che vanno e vengono / per le stanze di Michelangeloŗ (p.
101) riecheggiano invece il celebre ritornello della Love song of J. Alfred Prufrock, nel precedente libro eliotiano
Prufrock and other observations: ŖIn the room the women come and go / Talking of Michelangeloŗ.
(9) I versi, peraltro celebri, si leggono al termine dell'ultima parte della Wast land, What the thunder said.
(10) F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent'anni di solitudine, Einaudi, Torino 1994, p.
20.
(11) C. Bello Minciacchi, Il sogno di evadere tutto, in P. Vicinelli, Non sempre ricordano, cit., p. XLV.
(12) p. 48.
(13) p. 93.
(14) p. 207.
(15) Ibidem
(16) Ibidem
(17) p. 210.
(18) p. 207.
(19) G. Guglielmi, La vocazione alla poesia di Patrizia Vicinelli, in Bollettario, 8/9, maggio-settembre 1992.
(20) p. 207.
(21) Second time: a Emilio Villa, in P. Vicinelli, Non sempre ricordano, cit., p. 368.
(22) p. 208.
(23) p. 213.
(24) p. 212.
(25) Ibidem
(26) p. 221.
(27) p. 225.
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Spazio e sconfinamenti in Non sempre ricordano di Patrizia Vicinelli
We can be heroes
just for one day.
D. Bowie, Heroes.
Era il 1977 e Monicelli, Risi e Scola mettevano in scena Ŗi nuovi mostriŗ, un varietà di tipi umani
cinici, spregiudicati, avidi, superficiali, rassegnati o semplicemente travolti dalla storia, da molti
amato per il gusto amaro e grottesco della rappresentazione corrosiva. Ornella Muti, icona di una
bellezza pura e irrequieta, compariva in due episodi del film, ŖAutostopŗ e ŖSenza paroleŗ. Nel
primo, per la regia di Monicelli, una ragazza accetta un passaggio da un rappresentante marpione.
Lei è una giovane emancipata, intelligente e interessata al mondo: lo suggeriscono l'atteggiamento
allegro ma fermo, il giornale che ha in mano, il modo sottile con cui porta in giro il suo
interlocutore macho e furbastro. Quando, per evitare i suoi approcci molesti, la ragazza gli fa
credere, ingegnosamente ma ingenuamente, di essere una pericolosa criminale evasa, questi la
uccide. In ŖSenza paroleŗ, girato da Scola, una hostess nel giorno di riposo incontra uno straniero
bello e dolce, dalle fattezze mediorientali; i due non parlano la stessa lingua ma vivono una
appassionata notte d'amore. Al momento di ripartire, mentre la giovane si imbarca sull'aereo, l'uomo
compare per un ultimo saluto e le dona un mangianastri con la canzone strappalacrime che ha fatto
da colonna sonora alla loro storia. Nell'ultima scena lo vediamo al bar, mentre segue imperturbato la
notizia di un attentato terroristico su un aereo, messo a segno grazie ad una bomba nascosta in un
mangianastri.
Il 1977 è anche l'anno di Mina con bignè, l'ultimo disco prima del ritiro dalle scene della voce
iconica della musica melodica italiana. Signora delle scene per molti anni, dentro e fuori il piccolo
schermo, dalla vita sentimentale burrascosa e appassionante, fenomeno di costume oltre che
musicale, Mina aveva fissato uno stile di successo nella femminilità, stile cui molte donne 'normali'
tendevano. Certe messe in piega, certa forma delle sopracciglia, certe linee del fard segnavano il
corpo femminile di una audacia possibile, che risuonava delle ambizioni nazional-popolari alla
modernità: una indipendenza dei sensi e dei consumi che sapeva rimanere familiarmente
accessibile, incarnata in canzoni di gioioso edonismo alternate a motivi di amore melodrammatico.
ŖRicominciare da capo / sembra facile da fareŗ - canta Mina in una delle tracce dell'album - Ŗe io
spreco le giornate qui / tra gli angoli di casa miaŗ (1).
Del 1977 prendiamo, per cominciare, due spunti così, due narrazioni facili della cultura di massa
fingendo che bastino ad abbozzare le multiformi reazioni alla complessa agitazione attorno alla
questione delle donne e al loro movimento, inteso letteralmente come spostamento nello spazio
geografico, o, metaforicamente, come attraversamento dei tradizionali confini della domesticità e
dell'eterno femminino, o anche, certo, socialmente, come ripensamento di ambiti e posizioni. A ben
guardare, infatti, entrambe le suggestioni qui sopra sembrano proiezioni di un più generale sospetto
nei confronti di una certa donna pubblica, i cui sconfinamenti nella libertà continuavano a
mobilitare disagio e apprensione e si concludevano, da copione, con la morte della giovane, e le cui
rappresentazioni invocavano, sommessamente, un ritorno alla sessualità ammessa ma dominata del
domus: Ŗin questa casa che mi opprime / in questa notte senza fine / in questo stato di torporeŗ (2).
Certo, questo è il '77, è anche il tempo di esperimenti estremi, di adesioni viscerali, di corpi offerti
ad esperienze totali. In questo stesso anno, per esempio, alla Galleria d'arte moderna di Bologna
Marina Abramović e Ulay allestivano Imponderabilia, una performance che, come le altre loro
opere di relazione, costringeva i due artisti a una situazione limite di esposizione e affaticamento.
Nel lavoro portato a Bologna i due sostavano l'una di fronte all'altro, completamente nudi,
all'ingresso della galleria, costringendo i visitatori che cercavano di entrare ad una scomoda
manovra di strofinamento tra i due, totalmente immobili e immersi nei rispettivi sguardi. Lo spazio
del fare arte coincideva con il corpo, a modo suo indisciplinato, refrattario a impersonare l'artista
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staccato dall'oggetto estetico. Due corpi in esposizione, in tensione, si trasformavano in soglia,
diventavano la cosa con cui lo spettatore doveva misurarsi, e compromettersi.
Era il 1977, dunque: notoriamente uno degli anni apicali della seconda ondata femminista, dei
gruppi di presa di coscienza, delle lotte per il riconoscimento, che naturalmente si accordavano al
più vasto ed eterogeneo amalgama di contestazioni e richieste di diritti. Per dirla con lo slancio
ideale e assolutizzante di allora, con la sua retorica della 'donna' come entità univoca: Ŗ[n]on si
tratta soltanto di rivendicare alla donna il diritto di farsi 'soggetto conoscente' […]. Non si tratta
soltanto di avviare un processo di revisione dei metodi storiografici che consenta un recupero della
donna come 'soggetto della storia' […]. Si tratta piuttosto di convogliare tutti questi sforzi verso un
fine più generale: la costruzione di una scienza pienamente umanaŗ (3). Di contro non meraviglia
che le spinte normalizzanti si innestassero su di una cultura italiana tradizionalmente patriarcale.
È in questo intreccio di traiettorie nuove, costumi consolidati, culture pop-sentimentali,
sperimentazioni radicali e soggetti in fieri che ipotizzo riscriversi le grafie dell'immaginario poetico
e lo spazio, della vita e della pagina, trasformato. Spazio mai neutro, mai contenitore assoluto,
creato invece dalle relazioni e da esse mediato, esso è configurato (anche) da storiche interdizioni:
al movimento materiale o simbolico, di accesso al sapere, per esempio, all'opportunità e alle varie
modalità della presa di parola pubblica, fino alla avventurosa quest esistenziale. Queste
demarcazioni vengono potentemente rinegoziate. La scrittura delle donne (ma non solo) ne registra
le tensioni, in modi a volte fecondi di risultati straordinari. Ecco, dunque, che da una costellazione
minima di riferimenti ed episodi periferici del famigerato '77 arrivo a Patrizia Vicinelli, che in
quello stesso anno cominciava la stesura di Non sempre ricordano, poema epico (4). I suoi
costituenti primari saranno proprio la molteplicità e lo sconfinamento,
COSI' SGUARDANDO IN PANORAMICA
PLURI-DIMENSIONALE
(129)
Nelle riflessioni che seguono sosterrò che nella misura poematica Vicinelli trova una potente
posizione discorsiva, in modi che attivano e danno forma a relazioni complesse tra corporeità di chi
scrive, materialità del testo, storie di fuga e di sfida, tracce biografiche, riaffiorante inconscio
politico, aspirazioni a una rifondazione Ŗpienamente umanaŗ. È una misura che permette di
Ŗ[m]ixa[re] la sua vita alla leggendaŗ (67), consentendo l'entrata in scena di una pletora di elementi,
modi, argomenti: essi segnalano sia il coinvolgimento nell'accadere presente, sia il desiderio di
rifare la vita su di una diversa frequenza, percussiva, viscerale, mitica. Montando, innestando,
schizzando storie e voci disparate Vicinelli tratteggia un 'noi' che rifiuta di fissarsi univocamente,
che si presenta in una molteplicità di piani, ironici, trasgressivi, lacerati, veementi, parodianti, e che
pure si oppone per intero alla repressiva avanzata di una uniformità omologante, quella
ŖLIHLIPUTŗ che ŖINCREDIBILMENTE SI È AVVICINATA / HA INVASO 3/4 DELLO
SPAZIO DI TUTTIŗ (130).
Al tempo stesso l'attenzione onnivora per il circostante, per i suoi moti e le sue manifestazioni,
alimenta l'impulso alla digressione, alla commutazione rapida tra vari personaggi e pronomi
personali, a focalizzare sul singolo dettaglio, sulle umane, eterogenee voci che sempre ci
attraversano. Tutto questo, naturalmente, spinge a riflettere sulla natura epica del testo. Di certo le
voci, delle vittime e degli insorti, delle carcerate e dei poliziotti, delle canaglie, dei marocchini,
degli amici e degli erranti, come pure quella dell'autrice-performer, il cui ritmo, fiato e timbro sono
implicati finanche nella resa tipografica del testo, le voci sono le eroiche protagoniste di
quest'opera:
[…]
quelli che ci composero otterranno spazio
lentamente ce li rivedremo ridendo attraverso noi
163
164
noi nella nostra magnifica sentenza di luce
come serpenti a tutto cerchio
concludiamo il senso della successione dei tempi.
Quindi,
arrenditi solo quando è più strategico farlo, Lucia.
Mille battaglie perdute, e infine la guerra,
solo allora, prima è santo combattere
anche se l'acqua a volte può sommergere il capo
la tua maschera di perbenismo SCONFINA
SCONFINA...
l'hanno fotografato il tuo cuore,
la tua maschera graziosa sconfina, e CEDE IN PEZZI.
) comunque, questa è solo un'indicazione).
MY GOD! UNO CHE PALPITA!
… vorrei... vorrei... vorrei.....
) the next stop, man!)
(62)
La versione definitiva di Non sempre ricordano è pubblicata solo nel 1985, per i tipi di Aelia
Laelia, e viene ristampata nel 1994, tre anni dopo la morte di Vicinelli, nell'edizione Scheiwiller
delle Opere, a cura di Renato Pedio. Ad oggi è disponibile nel bel volume dallo stesso titolo curato
da Cecilia Bello Minciacchi, una ricca antologia multimodale che comprende quasi tutte le opere
edite e inedite dell'autrice bolognese. Vi sono incluse anche alcune copie anastatiche dei manoscritti
di Non sempre ricordano, che, come sottolinea Niva Lorenzini nell'introduzione, in origine nasceva
su lunghi taccuini e tazebao multicolori, come performance grafica e calligrafica, esplosione
linguistica e sfida ai confini tradizionali del libro. Leggiamo, sparsi sulla pagina, caratteri enormi
scritti a mano, in una sequenza di spazi che le barre della punteggiatura riescono a malapena a
registrare: Ŗ4 MURA / […] NASCE INEVITABILE / IL TUO GIGANTEŗ (286).
Sembra lecito affermare che, assieme a un nuovo dettato poetico, Vicinelli reinventi lo spazio stesso
del poetico. Aprendolo, innanzi tutto, portandolo oltre i limiti della pagina bianca e della
subvocalizzazione, e innervandolo di una mobilità, di linguaggi, di voci e di luoghi, che ha molto a
che vedere sia con il problema specifico del poeta donna, ovvero situarsi in una tradizione che si è
costituita eminentemente ponendo il femminile come oggetto (ispirazione, simbolo, allegoria) per
eccellenza (5), sia, più in generale, come per gli altri suoi sodali, con una revisione profonda delle
convenzioni e dei generi.
Non mi soffermerò sullo status obliquo della scrittura delle donne rispetto alla poesia lirica, il cui
canone, almeno in Italia, ha a lungo poggiato saldamente sulla costituzione di una alterità femminile
muta (nelle trasfigurazioni poetiche) o ammutolita (negli archivi dimenticati). D'altra parte l'epica
invocata da Vicinelli non costituiva certo un genere 'femminile', né per temi, né per voci. ŖUna
epica nel senso più veroŗ - scriveva già Pound - Ŗè il discorso di una nazione pronunciato dalla
bocca di un sol uomoŗ (6): c'è ragione per credere che quell' Ŗuomoŗ non fosse applicabile
genericamente, più ancora per ritenere che i termini politici e storici in cui si dispiegava Ŗil
discorsoŗ non fossero immediatamente disponibili a una donna poeta. Eppure la strategia epica non
solo autorizza Vicinelli a chiamare all'appello una serie di personaggi, situazioni, registri,
idiosincrasie, residui incontenibili nello spazio angusto di una poesia come istanziazione unitaria,
essa la proietta anche in una matrice di dissenso e costruzione dell'auctoritas che arriva ai giorni
nostri: Rosaria Lo Russo e Daniela Rossi invocano proprio Patrizia Vicinelli, insieme ad Amelia
Rosselli, come figura fondativa del poema epico italiano, con l'intento di ispirare una Ŗpresa di
coscienzaŗ (etica, poetica, politica) specificatamente femminile (7).
Vi è, dunque, nella scala de La Libellula di Rosselli e di Non sempre ricordano, come di altri
magmatici assemblages vicinelliani, una potenzialità di argomentazione e di fondazione che li rende
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più accoglienti alla spinta eversiva e ri-costruttiva di quanto non sia la lirica, più adatti ad un
discorso politico che rimanga al tempo stesso disponibile alle proprie, singolari psicomachie. Si
tratta di epica, ci dice esplicitamente l'autrice bolognese: ma come viene allestita? Che cosa
organizza? Quali figure dell'umano sono rese possibili dal suo spazio ampio? L'epica di Vicinelli è
realizzata per anomalia, attraverso tensioni che distorcono le aspettative relative a questo genere,
associato alle imprese di uomini forti, centrato sul destino della patria, così pesantemente codificato
al maschile (8).
Va detto che la scelta dell'andamento poematico era funzionale a un più vasto aggiramento dell'io
lirico intrapreso da molti contemporanei. Le soluzioni formali della poesia canonica non
sembravano più in grado di contenere il Ŗdelirioŗ di Ŗpopoli, razze e tribùŗ (9), il rimescolamento
dei confini tra linguaggio 'alto' e 'comune', la vocazione al presente. Pagliarani racconta bene la
scelta della terza persona come una salutare fuga dagli autocompiacimenti della lirica: non si
trattava solo di ampliare il lessico poetico, ma, inevitabilmente, di reinventare i generi (10). La
poesia come scena rarefatta di una illuminazione morale era dunque un problema: troppo limitanti
la sua postura didattica, il postulato distacco dell'oggetto estetico, le sue pretese universalizzanti,
l'istituzione della pagina bianca come macchina creatrice di aura. Altrove si era teorizzata la pagina
come Ŗcampo di forzeŗ, dimensione sensibile del respiro e del gesto; contro l'appagamento di un
soggetto poetico dato per scontato si aspirava a un nuovo realismo, a una nuova oggettività, per cui
anche l'io era un oggetto, oggetto era anche la sillaba (11). E poi le esperienze del concretismo e
della poesia visiva, della poesia detta e recitata in mezzo agli altri, ibridata con la musica, espansa a
raccogliere più vivente: tutto questo scompagina una compartimentazione tradizionale. Non sempre
questa aspirazione alla sinergia e alla totalità dava i risultati sperati. Come ricorda Spatola: ŖSpesso
la poesia visiva non è altro che poesia incorniciata, che si limita a rifiutare il libro per accettare la
galleria d'arte, e cioè ad abbandonare un pubblico di élite per un altro pubblico di éliteŗ (12). Di
certo questa nuova attenzione alla materialità dimostrava che neanche lo spazio della pagina era
innocente. Per dirla con Vicinelli: Ŗ[u]n insegnamento senza via di scampo / aveva bruciato i lembi
della letteraturaŗ (79).
Diciamo, dunque, della lunghezza. Pavese, notoriamente, si era soffermato a raccontare il
tormentato rapporto tra respiro e unità poetica, tra autosufficienza di un testo, concatenazione dei
testi ed elemento narrativo. Diceva di convenire con Poe, laddove questi sosteneva che la lunghezza
in poesia non facesse che rovinare l'elemento artistico più importante, Ŗla totalità, o unità di
effettoŗ, e che una poesia Ŗlungaŗ, in fondo, non fosse altro che Ŗuna successione di poesie brevi,
ovvero, di rapidi effetti poeticiŗ (13). E lo integrava, specificando: Ŗnon è soltanto una questione di
moleŗ. Tuttavia, rigettando il genere Ŗpoemettoŗ (Ŗche sentivo confusamente condannabileŗ),
descrivendo il suo sforzo nell'inventare una forma della poesia che sostenesse Ŗun complesso di
rapporti fantastici nei quali consista la propria percezione di una realtàŗ (14), Pavese stesso non
sfuggiva ad una tassonomia basata sulle dimensioni e parlava di lunghezza delle righe e di mole, di
numero di versi e di limiti. Persino Poe, severissimo con la poesia che per ampiezza costringesse a
superare la singola seduta di lettura, e che credeva che il valore di un testo poetico fosse in
Ŗrelazione matematicaŗ con la sua estensione (tanto più breve quanto più intenso), doveva
concedere che Ŗun certo margine di durata è una condizione fondamentale per la produzione di
qualsivoglia effettoŗ (15).
A ben guardare la poesia Ŗlungaŗ, se rinuncia ai principi dell'epifania improvvisa e dell'unità, può
attivarne altri: quelli dell'accumulazione e della molteplicità, oltre che, tipicamente, quelli della
narrazione (con la caratteristica mutevolezza che consente di passare dalla satira alla tragedia al
dialogo e così via), e, nella fattispecie di Vicinelli, quelli di una sperimentazione sul rapporto tra
linguaggio, mente, corpo e cose immersi in una nuova intimità, revisionante il già dato. Cambiare
questo rapporto implica trasformare profondamente il soggetto poetico: alla modalità basata su un
io solitario di fronte al mondo in un estatico momento trascendente, si preferisce una enunciazione
frammentata, dislocata, a volte surreale e onirica, a volte contestatrice e punk, con tirate ipnotiche
rifrangenti le deflagrazioni sociali e culturali dell'epoca.
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La quantità di versi, la loro distribuzione, la veste tipografica del testo, la segmentazione, la
suddivisione in parti, la reiterazione, la distorsione sintattica, l'uso della punteggiatura: nulla di tutto
questo è innocente o scontato, naturalmente, in poesia. Vicinelli lavora su questi e ulteriori piani
formali perché impersonino (perché risuonino) il singolarissimo percorso epico di Non sempre
ricordano. Re-immagina l'epica investendola dell'ardente qualità dei corpi e della loro mobilità, di
una parlata idiomatica, anti-accademica, franta, dell'incandescenza del tempo presente, di un'azione
che esce dai confini nazionali, fino ad arrischiare la psichedelia: ŖGuarda, / è vasto il territorio. Una
lunga mente flessuosaŗ (88).
Sciogliamo il nodo più scottante: vi è narrazione di 'gesta', sì, ma certo non nei termini di una
Bildung individuale o di una epopea nazionale. In Vicinelli l'impresa del singolo eroe, impresa dalle
più ampie implicazioni formative all'interno della cultura d'origine, non si dà nei termini statutari
dell'epica. Se vi è superamento di una serie di prove tempranti, esso è plurale, messo in atto da
variegate schiere di personaggi, sparsi e ricollocati su di un territorio non circoscrivibile dalle patrie
frontiere e dalle sue istituzioni. La tensione qui non è verso la raffigurazione di un ordine stabile, né
verso la memorializzazione di una eredità mitica: si sta, piuttosto, nella temperie di un tempo
attraverso una varietà di incarnazioni, di inabissamenti psichici, di incontri cruciali. A voler scoprire
o ri-creare un'alternativa condizione umana. Gli stralci di conversazioni, i suoni, le frasi, i gemiti o i
dialoghi afferrati quasi casualmente, dei compagni o dei venditori, dei morti ammazzati o dei
giramondo, sono così importanti in quest'opera perché segnalano l'inevitabile pluralità e innata
apertura di tale condizione: le voci hanno ragione di essere perché ogni essere umano sta con gli
altri. Ancora prima di una opinione e di una identità esse esprimono, nella loro materialità fonica,
l'unicità di ciascuno. E quando si danno è per aprire uno spazio relazionale fra essere unici (16).
Non è la voce superiore del bardo o del dio o dell'eroe a fare la comunità.
Se una trama 'classica' rimane inafferrabile, è quell'inafferrabilità che dobbiamo interrogare. Il
mondo epico di Vicinelli non è una totalità coerente, piuttosto esso forma un orizzonte,
materialmente imprendibile e pur presente. Rimane processo, ricerca verso principi altri, che
riformino le metafisiche, le storiografie, le modalità esistenziali ordinarie. Vicinelli complica la
procedura narrativa sottraendole un valore che altre scritture giudicano indispensabile: un senso
univoco, uno scioglimento finale, un modello morale. Gli 'errori' ne segnalano l'erranza. I subitanei
passaggi tra diversi pronomi personali e tra tempi verbali, per esempio, il plurilinguismo, l'innesto
di memorie personali, l'invocazione di nuovi archetipi, che siano impersonati da Janis Joplin o da
Jean Genet, scombinano le traiettorie puramente omosociali dell'andamento epico, il soggetto
poetico unilaterale, nonché le velleità di una trama unica.
Volevano andare tutti là, lontano
dalle chiazze sui materassi fetidi
di sudore e sangue, questo giudizio che
ci diamo conformi all'apocalisse,
basta disse centrato un punto del silenzio
la perfetta assenza gettando un urlo
che fu udito fino al cielo,
come una meditazione riuscita.
Oh lord, want you buy me a color tv...
chant d'amour,
genet lo sa
voglio cadere dentro il sole
che non resti traccia
le motivazione profonde, sì,
d'amore.
(115-116)
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Assistiamo alla Ŗepopea della sua fugaŗ (75), che, alternativamente, si riferisce alla fuga di
ŖEzequieleŗ (74), o a quella di ŖRoberto a Casablancaŗ (110), alla fuga Ŗdella P.ŗ, finita con la
cattura, o a quella di Ŗcerto Benito G. mexicano / e poeta finito a colpi di shock electroŗ (92). Sulle
molte fughe si proietta, sì, l'esperienza della latitanza di Vicinelli, del periodo trascorso in carcere,
peraltro su accuse risibili. Ma i tanti personaggi in scena non sono semplicemente alter-ego di chi
scrive, piuttosto alter-dove (17). Luoghi esotici e miti contemporanei, metropoli straniere e
postazioni di provincia, Ŗoasi inventate in viaggi fittiziŗ (85), registrano l'aspirazione a fuoriuscire,
in ogni senso. La strategia è quella dello spaesamento, linguistico e narrativo. Uno straspaesamento, anzi, che esplode gli asfissianti inscatolamenti culturali nazionali.
Non a caso il poema prende avvio in termini puramente spaziali: il titolo della prima parte infatti è
ŖLontani dal paradiso. Strada non ancora avvistataŗ (45). Essa ci consegna una non-via di uscita: le
morti, per ritorsione e per pestaggio, che sono al centro della sezione d'esordio. Così attacca il
poema, con le eterne vendette contro i poveracci, con le vecchie omertà di altri disgraziati e gli
abusi di potere dei forti, Ŗla prevaricazione autorizzata legalmente / dei TUTORI dei CORPI dei
CITTADINIŗ (55). A questa segue una seconda parte che monta frammenti di ricordo, asciuttissima
elegia, moti di denuncia, gli inseguimenti, la vita in carcere. Il poema comincia con degli omicidi,
in una rimessa, in una caserma, nel retro di un bar, ma in galera nella seconda sezione troviamo
Concetta, che compie gli anni 'dentro':
: SÌ, TRENTA CINQUE ANNI CONCETTA,
abbiamo festeggiato i tuoi anni
COME FOSSI A CASA CON NOI
e così dicendo il marito le aveva spaccato il cuore
dal dolore
per quella accertata solitudine
: per me, si vous voulez, rose di rosso scuro,
le baccarà, quelle che preferisco.
(60)
Luoghi fatali e inquietanti questi in apertura, di cui qualcuno potrà anche dire ŖMA NON E' MALE
ACCHI' […] / CON IL
LUME
TONDO
D'ARANCIO / CON LE
TENDINE
DI PLASTICA / CON LE LENZUOLA DA CASA / CON LA
TELEVISIONE
ACCESAŗ (60). Tuttavia, inevitabilmente, con la loro soffocante domesticità, con le
ossessioni dell'ordine costituito, queste scene iniziali istituiscono le premesse all'evasione, al
pericoloso viaggio verso un posto altrove.
Solo nei limiti della relazione dinamica tra due o più luoghi si può concettualizzare il viaggio, che
sia edonistico o coatto: esso non si dà senza una 'casa' iniziale da cui partire e a cui far riferimento,
che sia luogo verso cui far ritorno o da cui fuggire per sempre. Il viaggio non è tale senza che in
qualche misura l'inizio stesso sia perduto. Paradossalmente la 'casa', lřoikos, è un punto di
orientamento utile ad un disorientamento necessario: la sua percezione deve variare perché si
realizzino le condizioni di spostamento e cambiamento inerenti al viaggio. La manipolazione dei
luoghi, nella loro ruvida irregolarità fatta di frontiere, blocchi, paludamenti, dogane, lingue
straniere, alberghi, carceri, paesi stranieri e lřattraversamento dei confini del noto attivano un nuovo
rapporto con l'origine e con la meta. La partenza e lřarrivo, i punti di riferimento dello spaesamento
che è il viaggio, non sono dati immobili: è lřesperienza della loro scabra trasformatività ad essere
qualità precipua del viaggiare. Il luogo non è un contenitore di spostamenti, paesaggi o incontri,
bensì accade insieme e attraverso quegli stessi, non è uno spazio astratto, inerte, ma un prodotto (e
un protagonista) delle umane interazioni (18).
Se l'inizio di Non sempre ricordano sta nella reazione all'imprigionamento, nella ribellione agli
spazi normati, fuggire significa accorgersi Ŗben presto che altri / marciavano nella stessa direzioneŗ
(74), verso una destinazione ignota
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META CERCATA
INCOGNITA DA STABILIRE
DIVIENE
DIREZIONE METASTASI IRREFRENABILE
CONGIUNGERE L'ATTIVITÀ A QUESTA
DINAMICA INTERNA
IN MODO DA PADRONI E PARTECIPI
DELLA PROPRIA CURA
AGGIRARSI Ŕ DISTENDERSI Ŕ (E RANNICCHIARSI
NEL BISOGNO)
(129)
Va notato come i protagonisti di Vicinelli si costituiscano per opposizione, ma rimangano
costellazione mobile, mai placati in una configurazione determinata. Non si stagliano mai
personalità a tutto tondo, né compaiono eroi compiaciuti del loro destino. Tutt'al più lampeggiano
archetipi salvifici, ŖAdamo e Orfeoŗ (74), e figure eroiche, su tutte il Ŗsamurayŗ, come strategie
proiettive che consentano di ribellarsi. ŖProiettare il samuray, e io poco dopo ero salvaŗ (83): così si
intitola la quarta parte, in un sol colpo rifiutando lo statuto di vittima inerme canonicamente volta al
femminile e aprendo alle potenzialità sovversive dell'immaginario. Il poema procede
rizomaticamente, opponendosi alla ŖLIHLIPUTŗ (130), alla Ŗmediocrità dei cuori scelta / coi tests
preselettiviŗ (55), senza rinunciare alla felice eterogeneità del 'noi' che vi si contrappone.
Rivelatrice questa consonanza tra esplosione formale dello spazio-pagina, nuova tavolozza di
espressioni contro l'anestesia del bianco, scombinamento sintattico, persino contro le convenzioni
della punteggiatura, e tematizzazione della fuga e della ribellione: tutto partecipa al tentativo di
decentrare l'autorità, di mettere in forma una alterità critica. Si investe in una nuova forma di
sophia, che abbia al centro il corpo desiderante, le percezioni, la visionarietà. Non sono senza rischi
queste immersioni, queste adesioni che sconfinano nella vita. Neanche in poesia, dove il pericolo è
l'eccesso di oscurità. D'altra parte di là c'è ŖL'AREA DI DOMINIOŗ (56), l'agevole chiarezza dei
massimi sistemi, la semplice uniformità dell'egemonia Ŗin sintonia con lo spirito del clubŗ, la
sinistra linearità da ŖPiano di rinascita democraticaŗ, con le sue ŖPremesseŗ, gli ŖObiettiviŗ, i
ŖProcedimentiŗ e ŖProgrammiŗ (19). La banalità di questo male riposa sulle tacite connivenze, sulle
rassegnate conformità. Anche di queste Vicinelli sa dire potentemente, con grande sintesi visiva:
SIGILLI, MINISTRI
DALLE GIARRETTIERE ROSSE
ovvero menti contorte, corpi
ristretti, piumosi
mediocrità consentita ai quadri
richiesta: avidità-sottomissione
(amoralità garantita): ognuno ha
il suo prezzo […]
(101)
All'ordine dei Ŗquadriŗ Vicinelli preferisce un estatico torcere, un intrecciarsi di trame, Ŗcreando reti
e ragni con teleŗ (99). Scrive così da disinnescare l'uniformità e far riaffiorare il rimosso, il
marginale. In questo si inseriscono le geo-grafie degli avventurieri spatriati, gli smodati
plurilinguismi delle sessioni marocchine:
c'era una volta in Tangier
tangerine dream
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Morocco nord 'Afrique made
elmà, l'acqua
due mari
due lingue
Ŗera una questione di radiciŗ
una lezione trasversale
spanish french et arabie
(105)
Il dinamismo del materiale lessicale e sintattico e della sostanza fonica è fecondo e imprevedibile.
Vividi e alteri insieme i passi che evocano gli inesauribili dialoghi tra le lingue, di seduzione e
scoperta, di estasi e paura. Essi disegnano una generazione che sconfina e aspira: Ŗtorre di Babele o
la maison de dieu, / (perché noi sappiamo di cieloŗ (97). Vi è fierezza senza aulicità, mondo
quotidiano senza minimalismo. Anche qui torna la felice corrispondenza: il motivo della
trasgressione, lo spostamento geografico e il detour linguistico sembrano articolare lo stesso
movimento anti-autoritario.
Come Rosselli, l'altra magistrale manipolatrice di lingue e linguaggi, Vicinelli cerca contaminazioni
e interferenze con le altre lingue, inserisce arbitrariamente alloglotti (ŖNon aveva osato to entry a
Veneziaŗ, 87), compone nuove parole (Ŗuomolocaustoŗ, 51), usa arcaismi e termini mistilingui
(Ŗputrefactio inspirataŗ, 99, ŖHEROICOŗ, 129). Mentre la prima Ŗse bouttà dans l'encreŗ (20),
Vicinelli, sotto l'influsso delle arti visive e della performance orale, adotta anche le possibilità della
grafica (Ŗp o v e r i n aŗ, 61, Ŗt.u.o.n.a.r.e.ŗ, 47, nonché il ricorrente maiuscolo), usa inserti
onomatopeici (Ŗil suo cuore scoppiava come una molotov / e faceva bang bang vvvv ffffŗ, 98),
impiega refusi nella punteggiatura (virgolette non chiuse, parentesi mai aperte, virgole dopo i due
punti, ecc.), addita alle cadenze enfatiche del parlato (ŖYOU RE-MEM-BE-RRRR?!!!ŗ 90), fa
propria una tmesi idiosincratica (Ŗtutt'in tornoŗ, 47, Ŗguard'iaŗ, 101). Caratteristico è l'uso estremo,
deviante, dell'iperbato, uno stilema che in special modo riecheggia dell'intreccio di voci e viaggi:
allentando la naturale alleanza sintattica tra varie parti del discorso, è come se Ŗun cuneo di materia
psichica viventeŗ (111) si innestasse nelle fantasmagorie del mondo. In questo scioccante
avvitamento la sintassi distorta e ri-agglomerata indica possibili discorsi secondi, si apre a ulteriori
percorsi:
egli si apre a questo senso un corpo aperto
l'aria ai fiori sempre sulla terra si ripete
verrà e vorrei, superba proiezione d'estati
ATTORCIGLIAMENTO, deglutisce, the queen of
desire
(63)
O ancora:
nel palco di un la preghiera di un
teatro 'Plaza Real' la sola che conosco
santo sconosciuto stava seduta
al centro
(50)
Smontando la sintassi, rimontandola come se le sue parti fossero pezzi di manifesti sovrapposti, un
palinsesto di atti linguistici simultaneamente presenti, Vicinelli dà corpo al Ŗmostro attorcigliatoŗ
(85) di un desiderio policentrico, che sfugga la linearità e le gerarchie, della vita come della
scrittura.
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Come può il fibrillante divenire di questa poesia dirsi epico? Non erano proprio il plurilinguismo e
la parola colloquiale e contemporanea, come sosteneva Bakhtin, a segnare la fine della scrittura
epica? La distanza da un passato assoluto e compiuto, il mondo eroico degli inizi della tradizione
nazionale: precisamente quella inaccessibilità era la cifra dell'epica classica. L'esperienza
particolare e la conoscenza ne erano escluse, la sua forza creativa era nella memoria di un passato
chiuso, sacro e perfetto. Il presente e il futuro, aperti e transeunti, non potevano farne parte (21).
L'epica di Vicinelli è in tensione con questi costituenti primari. Re-immaginando lo spazio della
nazione oltre i suoi confini nazionali e oltre i confini interni delle gerarchie di classe, registrando i
più svariati colloqui e le più diverse voci, Vicinelli sottrae il monopolio del discorso rilevante al
bardo unico o alla sua élite di eroi esemplari ed estende la citabilità anche agli altri, tutti quelli che
cercano, quelli che si calano Ŗlaggiù nel pozzo profondoŗ (105). Non storie individuali, né cenni
biografici di alcun tipo, come già s'è detto, nella pioggia di nomi, esclamazioni e dialoghi che
scroscia in quest'opera. Nei repentini passaggi da Casablanca a Gerusalemme, dal deserto berbero a
Firenze, da Ostia al Texas è fondata la quest essenziale: non nella specifica realtà dei luoghi, ma
nella sacralità della ricerca. Poiché Ŗè santo morire se si stava cercando / qualcosaŗ (110). Se il
passato assoluto era la qualità primaria dell'epica, qui è forse l'uso dello spazio e dei luoghi a
consentire il tempo mitico, l'imponenza e l'energia del discorso epico, la fondazione dei nuovi
principi vitali della comunità e l'aspirazione a interrogare e a sfidare i depositati capisaldi della
cultura nazionale. Di questa si chiede non già cosa sia, ma dove: ŖSE TI CHIEDESSI DOV'È LA
NOSTRA CULTURA, / DOV'È?ŗ diceva il disco richiesta di quel giorno.ŗ (123)
Non sempre ricordano esordisce con un imperfetto: Ŗ...TUONAVANOŗ (47). I puntini di
sospensione segnalano un discorso che viene da altrove, che continua. Il solenne affresco iniziale,
con tuoni e abissi, crateri e incontri fatali, è la scena da cui si parte per l' ŖULTIMO VIAGGIOŗ
(47). Le ultime pagine dell'opera passano repentinamente da un tempo verbale all'altro, e si
chiudono, alla fine di un muro di maiuscole compatto e inderogabile, con un futuro: ŖNON
AVANZERANNO PIÙ DI UN SOLO PASSO.ŗ (131) Se il tempo non è più quello teleologico
della metafisica, ancor meno quello lineare della storiografia positivista, esso si fa epico proprio
nella sua ri-figurazione in termini spaziali, nella simultaneità materica delle presenze. ŖViviamo
nell'epoca del simultaneo, nell'epoca della giustapposizione, nell'epoca del vicino e del lontano, del
fianco a fianco, del dispersoŗ, scriveva famosamente Foucault (22); immaginando il tempo non più
come una retta continua, bensì come un reticolo che si intreccia indefinitamente e come un
palinsesto di eventi compresenti, Vicinelli lo rende disponibile alla presa mitica, ad una visionarietà
maestosa e liberatrice dai vincoli:
[…] Non c'è stendardo che possa
realmente fermarmi, né chiusura di spazio,
né circolo di tempo: la mia vita e la mia
morte sono la stessa avventura.
(102)
Gli ultimi versi sembrano ispirarsi all'amato Eliot dei Quattro quartetti, il cui secondo movimento
esordiva con Ŗin my beginning is my endŗ e si concludeva con Ŗin my end is my beginningŗ.
Numerosi sono gli echi del poeta americano: nell'accento tedesco di ŖI have no timeŗ (99)
ritroviamo la donna lituana de La terra desolata, nei Ŗpassi di donne che vanno e vengono / per le
stanze di Michelangeloŗ (101) sentiamo risuonare i versi del Prufrock (ŖIn the room the women
come and go / talking of Michelangeloŗ). Eliot fu modello ispiratore, ma la sua anti-epica costruita
mimeticamente sul frammento rimpiangeva il tramonto dell'Occidente, la condizione post-bellica di
svuotamento, e l'ordine mitico andava a compensare l'isolamento psichico. In Vicinelli l'instabilità è
invece euforica, incandescente anche quando è sofferta, e produttiva di revisione. La rivolta ai
Ŗmonopoli di statoŗ (77), l'espatrio, l'eteroglossia sono anche evasioni dal mondo circoscritto e
ammansito, privato e sentimentale, riservato alle donne (nelle figurazioni letterarie, nelle posizioni
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discorsive disponibili, nelle consuetudini sociali). Se per Eliot le donne erano figure di decadenza,
alternativamente segni sia della corruzione dei costumi che del convenzionalismo culturale, per
Vicinelli Ŗloroŗ, i nemici, i reazionari, i Ŗtutoriŗ, non hanno un genere in particolare, semmai una
statura (quella dei lillipuziani), a volte una divisa (il maresciallo, i poliziotti). Lo iato tra tempo
umano e tempo mitico si colma in Eliot con un movimento trascendente. In Vicinelli è la revisione
dello spazio a consentire il salto, l'installazione su di un piano orizzontale di visioni simultanee e
multiformi possibilità, che siano quelle della libera commutazione tra i generi sessuali, del rimpasto
dei generi letterari, del plurilinguismo, o della manipolazione dei materiali poetici. Non a caso,
forse, tra i molti iridescenti luoghi, ad ospitare caleidoscopiche combinazioni sta anche il deserto:
su quell'autobus entrando in uno spazio così vasto e
illuminato, da allora
c'era tempo per pensare e per non
pensare più Ŕ pas penser trop Ŕ
consigliano, scendi fino al deserto, disse,
i colori si fanno roventi, le case
si abbassano al suolo,
scendi fino ai gin ballerini del deserto,
dove i chicchi di sabbia rullano al vento,
e passeri senza ali cinguettano
dove l'usura crea montagne crepate
e le riduce in briciole,
dove i solchi delle carovane di camions
durano il tempo di una notte.
(112)
In questa nuova manovrabilità degli spazi si mobilita la polifonia che è la cifra di Vicinelli. Essa è
di certo alimentata dalla vicenda umana dell'autrice, in cui includo le esperienze (materiali, prima
che poetiche) della poesia concreta e della performance orale, come pure la latitanza in Marocco, il
soggiorno nella multilingue, stratificata Tangeri, o il periodo trascorso in carcere. Tuttavia non si
tratta di mera soluzione psicologica, di sintomo. Piuttosto, attraverso il bruciante dato esistenziale,
spazi concettuali e spazi linguistici stanno in tensione con le possibilità della propria creatività. In
Vicinelli la loro relazione abilitante sembra costituirsi nella dialettica tra struttura poematica e
polivocale multiformità, tra autorevolezza del genere epico e sua revisione in una installazione
smottante di frammenti, linguaggi, timbri.
Renata Morresi
Note.
(1) ŖA capoŗ, di Cocciante-Luberti, in Mina con bignè, EMI, 1977.
(2) Ibid.
(3) Dalla quarta di copertina del primo numero di «DWF, Donna Woman Femme: rivista internazionale di studi storici e
sociali sulla donna» (1975), cit. in Catalogo dell'archivio Silvana Donno, stampato per il convegno Scrittura delle
donne fra letteratura e giornalismo, Bari 29 novembre Ŕ 1 dicembre 2007.
(4) Qui farò riferimento all'edizione curata da Cecilia Bello Minciacchi in Non sempre ricordano. Poesia, prosa,
performance, Firenze, Le Lettere, 2009. Il volume contiene un saggio di Niva Lorenzini e un'antologia multimediale a
cura di Daniela Rossi. I numeri di pagina delle citazioni saranno dati tra parentesi nel testo.
(5) Il problema non è stato soltanto femminile, se pensiamo a Pasolini che imputa a Petrarca un impiego Ŗterroristicoŗ
della eterosessualità. Vedi P. P. Pasolini, [In occasione del sesto centenario della morte del Petrarca], 1974, cit. in
Nicola Gardini, Recuperare il corpo: genere e proibizione sessuale nella storia della letteratura italiana, in «Trame di
letteratura comparata», 2 (2001): 19-38, p. 36.
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(6) Ezra Pound, Lettera alla madre, cit. in Louis Lohr Martz, Many Gods and Many Voices: the role of the prophet in
English and American modernism, University of Missouri Press, 1998, p. 17. La traduzione, qui e nelle successive
citazioni da testi in inglese, è a cura di chi scrive.
(7) Il manifesto Fragili guerriere – poepiche di Rosaria Lo Russo e Daniela Rossi si può leggere su «AbsoluteVille»,
<http://www.absolutepoetry.org/FRAGILI-GUERRIERE-poepiche-di> (pubblicato il 6 Marzo 2011; ultimo accesso: 3
Novembre 2011), oppure su
«Alfabeta2»,
<http://www.alfabeta2.it/2011/03/09/fragili-guerriere-poepiche/>
(pubblicato il 9 Marzo 2011; ultimo accesso: 3 Novembre 2011).
(8) Vedi Susan Stanford Friedman, When a “Long” Poem Is a “Big” Poem: Self-Authorizing Strategies in Women's
Twentieth-Century “Long Poems”, in Dwelling in Possibility: Women Poets and Critics on Poetry, a cura di Yopie
Prins e Maeera Shreiber, Cornell University Press, 1997, pp. 13-37.
(9) Gilles Deleuze, Literature and Life, «Critical Inquiry», 2.23 (1997): 225-230, p. 229.
(10) Vedi Elio Pagliarani, Ragione e funzione dei generi, «Ragionamenti», 9, 1957.
(11) Penso a Charles Olson e al manifesto di poetica Projective verse, del 1950.
(12) Adriano Spatola, Verso la poesia totale, cit. in Sauro Fabi, L'avanguardia per tutti: concretismo e poesia visiva tra
Russia, Europa e Brasile, Macerata, EUM, 2008, p. 97.
(13) Edgar Allan Poe, The Philosophy of Composition, 1846, in The Oxford book of American essays, a cura di Brander
Matthews, New York, Oxford University Press, 1914, Bartleby.com, 2000, <www.bartleby.com/109/> (ultimo accesso:
3 Novembre 2011).
(14) Cesare Pavese, Il mestiere di poeta, in Le Poesie, Torino, Einaudi, 1998, pp. 105-113. Le citazioni sono
rispettivamente a pagina: 106, 110, 111.
(15) E. A. Poe, cit.
(16) Sulla politicità inerente all'atto del parlarsi vedi Adriana Cavarero, Logos e politica, in A più voci. Filosofia
dell'espressione vocale, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 200-214.
(17) Più precisamente, Vicinelli scrive: ŖOH! MIO! ALTER. DOVE?ŗ (59) Qui mi concedo il gioco di parole con alterego per introdurre la questione cruciale del viaggio.
(18) Vedi Georges Van Den Abbeele, Travel as Metaphor: From Montaigne to Rousseau, University of Minnesota
Press, 1992, e Henri Lefebvre, The Production of Space, Oxford, Blackwell,1991.
(19) Il testo del Piano è rintracciabile su Web, pubblicato e citato da molti siti. Non sorprendentemente non sono
riuscita a trovarne una versione ufficiale.
(20) Il verso di Rosselli è da Diario in Tre Lingue, in Poesie, Garzanti, Milano, 1997, p. 88. Daniela La Penna ne
propone una interessante lettura in La mente interlinguistica. Strategie dell'interferenza nell'opera trilingue di Amelia
Rosselli, in Eteroglossia e plurilinguismo letterario II, Atti del XXVIII Convegno interuniversitario di Bressanone (6-9
luglio 2000), a cura di Furio Brugnolo e Vincenzo Orioles, Roma, Il Calamo, 2002, pp. 439-456.
(21) Vedi Michail Bachtin, Epos e romanzo, in Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 445-482.
(22) Michel Foucault, Eterotopia: luoghi e non-luoghi metropolitani, Mimesis, Milano, 1994, p. 11.
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Il (dis)Sacrato Poema
Io non Enea, io non Paulo sono
Dante
Elettra , le tue università!
A. Rosselli
Sarebbe interessante iniziare a tracciare la storia della letteratura italiana femminile dal Novecento
ad oggi. Emergerebbe un continente sommerso, all'interno del quale, nella seconda metà del secolo,
la forma-poema mostrerebbe di avere un particolare rilievo, declinata, come si suole in ogni
preistoria, nella sua accezione originaria di poema di fondazione, il cui statuto eminentemente
orale-vocale, a trasmissione performativa, lo ricongiungerebbe alle ragioni vitali profonde del suo
nascere e imporsi sociale, fenomeno ancora criticamente non osservato e in quanto tale non
studiato.
Le pagine che seguono non hanno questa pretesa, ma l'attività di performer della sottoscritta sì,
intendendo tale attività testimoniare di una grandezza letteraria incompresa e anche travisata, negli
anni delle prevalenze minimaliste, della asocialità della poesia e delle persistenze maschiliste in
ambito accademico e non solo, ché perfino i sodali di autrici quali Patrizia Vicinelli ed Amelia
Rosselli non colsero l'aspetto letterariamente rifondativo della loro scrittura, limitandone l'orizzonte
alle vaghe somiglianze con gli esperimenti testuali e performativi della neoavanguardia.
E invece i poemi epici di Vicinelli e Rosselli Ŕ in particolare il capolavoro del '58 di Amelia
Rosselli, La libellula, hanno rappresentato un nuovo inizio per la poesia scritta dalle donne in Italia.
Ho già tributato il mio omaggio e ringraziamento implicito a queste due autrici in vari luoghi, per il
reperimento dei quali rimando alla bibliografia finale.
Qui intendo riproporre un mio saggio specificamente autoesegetico scritto qualche anno fa in
occasione di un convegno in Argentina, - al quale fui invitata in quanto poetisa contemporanea che
molto doveva al buon Padre Dante -, estremamente dettagliato nei riferimenti, e, per converso,
alcune mie note, brevi e incomplete ma appassionate e a caldo, sul lavoro di Florinda Fusco, le cui
uscite editoriali molto recenti ne fanno l'ultima e straordinaria rappresentante di una genealogia che
ritengo molto vitale e attiva.
La tesi fondamentale è questa: il soggetto del poema scritto dalle autrici italiane dalla fine degli
Anni Cinquanta ad oggi, è un Io Esperienziale che tende a diventare un Sé Transpersonale. L'Io
Esperienziale procede ad una ricerca basata sull'Esperienza (inteso come termine specifico della
mistica) e in quanto tale la sua scrittura è necessariamente sperimentale: ŖIo sono una che
sperimenta con la vitaŗ scrive Ŕ a nome di tutte le successive - Amelia Rosselli ne La libellula. Tale
scrittura non aspira ad essere una narrazione autobiografica, infatti si serve dello strumento-poesia
proprio perché è una modalità di ricerca di un Sé transpersonale (e lo sesso fenomeno avveniva
contemporaneamente negli Stati Uniti, si vedano i rimandi bibliografici), che è un Attante narrativo
storicamente determinato, che comprende l'Io esperienziale delle singole autrici ma lo trascende,
servendosene esperienzialmente, per fondare un canone altro poematico che si situi nella tradizione
letteraria italiana sovvertendola e parodiandola sia nelle forme che nei contenuti, dunque
sostanzialmente mettendola in crisi e innovandola.
Questo lungo grido, questo lungo sospiro ed espiro, questo lungo Appello, questa flussuosità
dirompente che risuona e si trasmette da oltre mezzo secolo viene bellamente ignorata dai critici e
dagli storici della letteratura italiana. Provo, da dilettante qual suono, a porre fine a questo
affossamento niente affatto casuale in maniera volutamente antiaccademica e militante, sempre
nella speranza che le autrici si riconoscano nella mia impostazione o desiderino controbatterla ad
armi pari.
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Comèdia&Comedìa
(Anonimo Fiorentino)
Tutto verrà tralasciato di quanto concerne i riferimenti non danteschi nei testi poetici che
commenterò e molto verrà tralasciato, in queste pagine, di quanto è intercorso fra Dante e Me, fra il
Padre della Poesia Italiana e una Figlia Incestuosa di essa, fra dettatura amorosa e dittatura della
tradizione dantesca nella mia poesia. Ma la messa a fu(o)co dellřessenziale poietico, e quindi del
suo valore precipuamente testimoniale, mi inducono a rinunciare allřesaustività filologica a favore
di un rilievo ideologico del discorso, che intende essere adeguato ad una militanza poetica
sottomessa allřattualità dello stato presente della poesia femminile, non fossřaltro perché da anni se
ne fa un gran discorrere generico (ovvero con lřapprossimatività di molti, troppi, studi cosiddetti di
genere), appunto, senza però quasi mai soffermarsi, qui, sì, filologicamente, ovvero in medias res,
sugli elementi propriamente letterari di quanto vagola in tali studi, genericamente femministi, sul
monstrum detto poesia femminile: i grandi temi della ricerca dellřIdentità poetante (che poi si
riduce tristemente e troppo spesso a generici autobiografismi che sconfinano nella pseudopoesia
dello sfogo emotivo) e quindi del Corpo, in primis. Mi tenterò di verificare la presenza di alcuni
motivi ascrivibili a queste tematiche, altrimenti generiche, facendo atto, umilmente puntuale, di
autopoietica, ovvero prendendo alcuni miei testi a prestesto per un discorso che, fra le righe,
vorrebbe essere transpersonale, come avrebbero detto le poetesse americane della metà del secolo
scorso, quando la poesia delle donne cominciò a diventare un fenomeno di massa (contestualmente
al femminismo mondiale), sia per quantità che per qualità, attestandosi fortemente attraverso il
lavoro di Sylvia Plath ed Anne Sexton, giusto per citare le due che conosco meglio e che sono le più
rappresentative, data la scelta confessionale, delle macrotematiche di cui sopra. Ma concludo subito
con le generalizzazioni storico-geografiche Ŕ avendole citate come riferimenti a miei interventi
pregressi (cfr. bibliografia finale) e per eventuali interventi futuri - e delimito lřoggetto della ricerca
presente ad alcune mie modalità di sperimentazione circa lřidentità-identificazione/costituzione
poetante femminile allřinterno della Tradizione Letteraria Italiana in relazione a ciò che la
rappresenta antonomasticamente, il Poema del Pater Patriae.
Trattando precipuamente della nascita e del costituirsi del mio poetare in quanto soggetto femminile
attestantesi, attraverserò, per summa capita, il mio rapporto con la Sua/Nostra lingua letteraria come
essa originariamente fu Ŕ ed è, originariamente, in ogni atto realisticamente poietico Ŕ ovvero un
fatto di in-formazione orale. In quanto tale lřatto poietico (e metapoetico, in questo caso) si basa
sullřantico stilema delle modellizzazioni, sulla prevalenza degli exempla dei Ŗparlarŗ maternipaterni: in pratica emergerà dal mio discorso come rimodellizzo stralci del poema di Dante che
modellizza la lingua poetica in base al suo stilema principale, la mimesis orale (del volgare, guarda
caso, muliercolo, che doveva farsi illustre), sorretta dalla mnemotecnica degli exempla, da
intendersi come citazionismi sperimentali e modelli autoriali. Dunque la lingua-poema di Dante è
per me lřExemplum su cui modellare la lingua poetica come imitazione orale, il mio idio-dialetto
fiorentino. Valse per Dante, vale per me per presa di posizione performativa: comica, teatrale. Ma
poiché non si tratta (ovviamente!) di unřoperazione-posizione di riscrittura Ŕ nonostante e anzi
proprio a causa del fatto che il libello da cui traggo quasi tutti i testi che presento sřintitoli Comèdia
Ŕ il mimetismo orale-vocale dantesco della mia poesia è da ascriversi in un metaforismo allegoricoparodico globale che rinvia vettorialmente, cioè a perdere (ad infinitum, ad eco orale) oltre che a
recuperare, a loci della Comedìa centonizzati per ragioni semantiche spostate metonimicamente
rispetto al dettato dantesco e - ciò che più conta Ŕ pro-vocatoriamente desemantizzatedecontestualizzate. LřAmore per il Padre Dettatore-Dittatore non solo non è sordomuto (come tanta
pseudopoesia infestante le patrie lettere dal dopo-Petrarca al Novecento, perché infestata dal
Modello Linguistico per eccellenza memorizzando e memorizzato, e perciò sempre più
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scolasticamente esausto-esaustivo, molto presto deteriorato in stilnobbismo patriarchista: dal cui
misfatto deriva che lř80% della lingua poetica italiana non si è scostata di un ette dal volgare illustre
che inventò Dante, a ben sentire) ma non è neppure cieco: anzi, quel che nella mia poesia sřinscena
linguisticamente e concettualmente, è proprio unřincessante dialettica informativa del ricantare
parodicamente la Voce Creatrice del Padre Orante come certificato di nascita di una lingua poetica
altra perché dellřaltra, della Femmina Fonica (come mi ha gentilmente definito un giovane critico,
Marco Simonelli) che impara a Ŗparlarŗ dalla Voce del Padre/Lingua Madre, divorandola ed
espellendola, una volta metabolizzata, modificata attraverso lřuso straniante e pervertito della
centonizzazione (come vedremo desemantizzata e perciò risemantizzante), che pertanto assurge a
stilema retorico-semantico fondamentale. La poesia femminile Ŕ se vuole esistere come fenomeno
storico-letterario Ŕ deve attestarsi nel Canone (volente o nolente: non cřè Arte senza modelli e
tèchne precostituiti), trovando prima una propria ubicazione, dunque un ubi consistam, se vuole poi
trovare una voce propria. In mancanza di una tradizione propria, essa va inventata, va rinvenuta
nella sua lingua, prima ancora che nei suoi contenuti (anche perché temi e lingua, significati e
significanti, in poesia non possono scindersi): la lingua, il corpo del testo, non può che essere il
primo oggetto, lřOggetto Primario, kristevianamente, di ogni possibile discorso sul fare (poièin) del
soggetto femminile, nel mio caso scrivente in italiano. La poesia del soggetto femminile italiano è
ancora allo stadio vegetativo, storicamente parlando, dato che le nostre poetesse, fino al Novecento
inoltrato, sono state perlopiù (intendo quantitativamente e qualitativamente) riducibili al canone
sonettistico petrarchista (e dopo il Ř500 alle sue progressive degenerazioni di massa nel comune
poetese versoliberista moderno e contemporaneo). Di tale vegetatività tratterò, muovendomi fra
sprazzi e stralci di versi, avendo a che fare con questa macroallegoria doppiamente originante Ŕ
perché legata allřanfibologia della parola poetica, del segno linguistico in poesia Ŕ del processo di
costituzione (concepimento, nascita e vita nuova) del dictatum femminile e della sua specificità in
un ordine dialettico-concettuale rispetto al (ai) Padre/i.
Prima di passare alle puntualizzazioni autoesegetiche e per contestualizzarle adeguatamente,
delimito il campo semanalitico fondante. Il Padre, i Padri, sono Maschi e quindi la Lingua Madre,
elaborata in poesia, diventa Lingua dei Padri. Dunque il Soggetto Poetante è Lui mentre lei, ab
origo, è un Tu Angelicato (asessuato, de-genere, madre quindi solo nel senso metaforico del
termine), più che donna un Travestito, un travestimento dellřanima di Lui, una non-lei. Insomma il
punto di partenza e anche il nodo centrale della mia poietica ruota intorno alla vexata quaestio della
dialettica, monovocativa a favore di Lui, fra lřIo lirico-poematico del Poeta e il Tu femminile,
invocazione-vocazione-evocazione su cui si fonda e prospera tutta la poesia italiana dalle origini al
Novecento. Da questa presa di coscienza poietica prende forma la questione centrale dei miei due
libri, due capitoli di un unico romanzo poematico di (in)formazione autobiografico-transpersonale:
lřinterrogazione sulla musività (intesa come presenza ineludibile della Musa e poeticità in sé) nel
rapporto speculare Io-Tu e poi Ŕ per forza di cose Ŕ nel rapporto intraspeculare lei-Lei, quando a
scrivere sia un Soggetto poetante femminile. Su questřultimo punto è focalizzata lřintera operazione
de Lo Dittatore Amore, in quanto secondo momento, altrettanto parodico, del poema-romanzo di
formazione Comèdia, centrato piuttosto sulla questione primaria della formazione del Soggetto
poetante dal punto di vista femminile. In sintesi sto per ritrattare, ritratteggiandoli, (de)gli argomenti
cruciali del Libello bignamico della Tradizione Letteraria: il rapporto fra la Poesia Stessa (nella sua
solita e ormai insolente e insolvente quidditas) Ŕ unico Soggetto del contendere poetico di sempre Ŕ
e la Donna (il Bello della Donna), suo Oggetto di sempre per i fabbricanti del bello di sempre, ma
dal punto di vista rovesciato (parodico e, in quanto tale, comico) di un Soggetto scrivente donna che
finalmente prende la parola ovvero interloquisce col Padre in quanto Soggetto Maschile scrivente
da sempre intorno alle due Lei: Poesia e Madonna. Dialettica oramai emunta, e non da poco tempo,
se già Dino Campana, geniale sovvertitore di questa funebre tendenza (la Musa è per necessità
Morta o almeno Assente in quanto donna, da Dante-Petrarca a Montale ed epigoni), ebbe a scrivere
in un frammento dei Taccuini intitolato Nel portamento della testa: ŖNata morta… Troppo a lungo
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durò la commedia della poesia italianaŗ. Desidero puntellare con questa annotazione di sgomento
funebre il mio tentativo di entrare in arte in lingua italiana. Gli esiti - sterili o prolifici, costruttivi
(sperimentali) o meramente decostruttivi Ŕ della mia ritrattazione poietica, discanto, odioso
disincanto, amoroso ricantare, non mi è dato conoscerli, anche se spero per me, ovviamente e
dantescamente, nellřopzione innovatrice-sperimentale a sfondo politico: il mio contributo alla causa
femminista è lřannuncio-denuncia dellřavvenente (azione del Soggetto Femminile Poetante in
processo linguistico dal dittato del Padre) poetricio, scambio meretricico della Figlia Poetante con il
corpus poematico del Padre, bòtte e risposte fra sentenze versali già dittate ma si spera altrimenti
ridicibili. Alle postere, in ogni caso, altre sentenze palingenetiche, che magari sostituiscano la
marca orfica campaniana con una sorta di superamento, nel dittato, del lutto orf(an)ico.
Per ora vediamo come e da chi-cosa nasce e come e da chi-cosa impara a parlare, cioè Ŗa sonare un
poco in versiŗ, una lei non maiuscolata, una autrice in lingua italiana: guardiamo al teatro delle
metafore del linguaggio poematico che entrano nellřagone comico che sřinstaura fra lřIo-Lui, lřIolei, il Me-Lui e il Tu-Lei nel tentativo di un approdo psicagogico finale (non so se raggiunto né
raggiungibile) ad una Lei-lei o forse ad un Sé-Me autonomato dal vincolo incestuoso dellřipse dixit
del/dei Padre(i) sul Bello della Donna, che nega alla donna lřaccesso al Bello, a meno che non si
comporti esteticamente e retoricamente come Lui. Lřazzardo poietico di cui mi fo carico,
affrontando lřodiosamato Padre, ha per antecedente exemplum glorioso un poemetto del 1958: La
libellula di Amelia Rosselli. Lřincipit la dice lunga: ŖLa santità dei santi padri era un prodotto sì/
cangiante chřio decisi di allontanare ogni dubbio/ dalla mia testa purtroppo troppo chiara e
prendere/ il salto per un addio più difficile (…)ŗ. Momento felicissimo della poesia italiana,
purtroppo la testa troppo lucida di Amelia si perse nella battaglia poematico-politica e ricadde in
tentativi meno ideologici, perdendo lřoccasione per il salto cruciale nel difficile addio al dominio
dei Santi Padri della Tradizione Nostrana. E sappiamo a quale più triste salto si destinò la persona
Amelia, pochi anni fa. Ma quel che più conta per me, in questo discorso, è sottolineare il valore
ermeneutico del titolo: per la trilingue Rosselli, autrice di lapsus - come giustamente rilevò Pasolinila libellula non è lřinsetto volante della lingua italiana ma unřeccellente pseudotraduzione
paraetimologica e diminutiva del latino libellum, termine che, oltre che diminutivo di liber, è anche
decodificabile come libellum volto al caso femminile per incriptamento: La libel(lu)la. Un Senso di
Colpa Incestuosa Originaria nei confronti del Padre è causa di questa diminuzione sminuente il
piglio eversivo dellřesito soggettivante femminile che pervade il poemetto-libello/libella proprio a
partire dallřiperconnotatività semantica del titolo. Il sottotitolo del poema lo comprova: Panegirico
della Libertà: Amelia Rosselli ha dato lřabbrivio al discorso che tento di ereditare. Per
lřemancipazione dellřio-Tu in Lei-lei, come Soggetto poetante dialetticamente allřinterno della
Tradizione Letteraria Italiana (tutto il poema rosselliano cita parodicamente il dittato dei Padri, da
Dante a Montale), La libellula rappresenta lřinizio della Vita Nova della poesia femminile italiana,
la prima dichiarazione dřindipendenza dalla fertile filiazione dalla Lingua dei Padri, non
rinnegandola o abolendone lřefficacia, ma rimetabolizzandola (anche alla luce fertilissima della
vocalità multilingue dellřautrice) e con ciò appropriandosene e così dandosi la possibilità di
superarne i limiti ideologici.
Dunque Comèdia, che esordisce con un trittico intitolato Tre variazioni sulla nascita, è il libro che
inscena la nascita al linguaggio poietico della Femmina fonico-scrivente, e il suo primo canticare
allegorico (modello adottato come prevalente) allegoricamente in rapporto di filiazione con il
macrotesto per eccellenza della Tradizione Poetica Italiana, il sacrato poema, che tutta
statisticamente e potenzialmente la ingloba e promette, come in una circolare enorme variatio,
almeno stando alle percentuali di alti tassi lessicali e morfologico-sintagmatici - fino addiritura al
modo di dire della lingua parlata, in essa, danteschi Ŕ di cui dicevo -, ovvero il Verbo Eterno del
Santo Padre della Lingua Italiana, suo serbatoio enciclopedico totalizzante. Devo, anche se per
inciso, far almeno presente lřimportanza determinante, sia nella mia scrittura che in quella della
Rosselli (e non solo!), della letteratura mistica femminile nuziale (molto fiorente fra Medioevo e
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Controriforma), sottolineando che, collusa la lingua dantesca, o della tradizione letteraria dei Padri,
con tale contesto linguistico-tematico, la filiazione si associa ad uno sposalizio con il Padre
(ovviamente qui Dio Padre) da cui deriva il conseguente macrotema psicolinguistico della scrittura
Femminile come Incesto col Padre, connubio mortifero in quanto sacrilego, peccaminoso, marchio
dřinfamia infera, penalizzante in sul nascere gli esiti purgatoriali, ma mai paradisiaci, finora, del
peccato della lingua poietica, peccato lussurioso di gola, se la poesia Ŕ qui intendendo quella
femminile in particolare - è sempre un fatto carnale (Maria Zambrano) in quanto movimento
ancestrale di immissione-emissione che confonde le funzioni infero-infantil-glossolaliche
dellřapparato fono-articolatorio-alimentare, la gola, in quanto luogo di formazione o accoglienza,
elaborazione, espulsione del cibo e della voce (Julia Kristeva). E siccome il rapporto parola poeticavoce-cibo-sensualità è un campo semantico fortissimo e frequentissimo nelle metafore dantesche in
Comedìa, farsi corpus poematico in Comèdia dalla Lingua-Voce del Padre Dante, che per ogni
poeta nostrale (maschio o femmina che sia) detiene ancora lo ius primae poesiae, implica un atto
edipico contronatura per un Soggetto Femminile Poetante, per motivi storico-psico-biologici: il
Peccato della Lingua poetica che Ŕ trasmessa oralmente dal Padre Ŕ diventa, per la Figlia, Peccato
di Gola Profonda, di gola lussuriosa, di avaritia-avidità del Cibo-Linguaggio. Nelle pagine
successive approfondirò, sostanzialmente, questa tematica, rilevando le centonizzazioni semantiche
che provengono prevalentemente da due zone purgatoriali ad alto tasso di metafore sensualalimentari paterno-materni: i canti XXI-XXVI e XXIX-XXXIII.
Parto dallřinizio della fine, ovvero dalla prima poesia del secondo capitolo di questo dittico
definitivo in quanto annunciante la morte-rinascita dei Soggetti-Oggetti della poesia femminile. Se
Comèdia rappresenta la nascita e i primi vagiti-sgolamenti della In-fanta Orante, i trittici melologici
(il ragionar cantando) de Lo Ditttatore Amore (il cui testo conclusivo, Epitaffio, ci fulmina in
clausola con la dichiarazione apocalittico-apodittica Ŗsmetto di masturbarmi allo specchio del
Padreŗ) rappresentano la compiutezza Ŕ perciò tale finale (teleologica) - della Parabola del Viaggio
intralinguistico del Soggetto Femminile Poetante, una Poetrice, tanto per coniare unřalternativa
parodica al personaggio, declassato nel linguaggio corrente a anima bella e belcantistica, della
Poetessa (non meno Angelicata e quindi moribonda Ŕ Assente, Demente- della Musa). Lei-lei,
Autrice e personaggio ri-definentesi a partire da unřabborrita Assenza (che non avendo del divino,
per lei, è soltanto inesistenza…), Attrice e Viatrix, gemella in-desiderata come sposa grottesca di
Lui Auctor/Actor, nel paesaggio teatralmente claustrofobico e maraviglioso delle retoriche e delle
tematiche che la Nostra Signora Poesia apre sugli inferni paradisiaci o sui paradisi infernali del
purgante e purgato amore dellřAmore, sua croce e delizia perpetuamente autoproducentesi, e
quindi a tutti i consumatori di Essa ben noti, è il primo Soggetto-Oggetto da porsi in questione.
Allegoria sullo sfondo cartapestaceo della poesia mistico-amorosa dellřIo-Tu allo Ŗstato feliceŗ
delle Patrie Lettere: nellřatto della Cacciata di Lei-lei dal Paradiso Terrestre, dal nirvanico Parnaso
di ŖQuelli che Anticamente Poetaroŗ, si tratta di avviare e condurre vettorialmente (a fondo perduto,
ripeto) un Corpo a Corpo fra il Soggetto e lřOggetto, lřIo e il Tu, della Tradizione Canonica. Chi e
quindi cosa è Poetante, chi e quindi cosa è Poetato (prepotenza da strapotere dellřImago come
emanazione del Dio Padre Poeta Platonico: Ma Donna può mai essere poetante oltre che poetabile)?
Si potrà mai finalmente de-sacrificare lřImago Femminile? Metterla a non sublimante morte? Farla
finita con la Commedia di Madonna?
A proposito della semantematicità del titolo del secondo libro (in riferimento a Purg., XXIV, 4959): come scrivono le Ŗpenneŗ, non già piumosamente metaforiche ma concrete, delle donne
smaiuscolate che hanno ŖIntelletto dřAmoreŗ, ovvero virtù poietica, a-spirante alla mimesis orale?
Da Lo Dittatore Amore. Melologhi, Milano, Effigie, 2004:
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DEDICA
Lei che non fu manco soggetta a corpo sodo,
L'incoronasti dominetta d'un egotico ergastolo.
Ma se s'ammusano adesso commilitoni in desiderando
si avvedono dell'errore trasmesso dalle veneree congiunte,
dell'avverarsi fatidica batosta di losco gemellaggio:
travaso o sbocco, insomma, quel ch'è mio, caro Lei, tosto s'intuia!
Eccovi allora esito fabuloso di sadomaso di madonna:
Ora sovrasta Lei, Lo monta, Gli sta col fiato addosso,
si prepara la risposta, sentenzia in appello, va in ricorso,
Lo scudiscia perbenino con gli occhi Lei, L'aizza flabello,
e Lui zitto - lo stronzo - Le ammicca, qual fusse Lolita novella.
Lei Lo fiammeggia nel caldo d'amore, Gli leva 'l fiato,
inciampa Lui, e pronto e prono piano se la canta dentro
- ma mente, come sempre -, mortificato tanto dalle di Lei refulse.
Poi quasi si perdono amendue
con gli occhi chini, dopo tanto abbaglio.
Quanto scritto sopra è già sufficiente commento, intro a questřIntro. Aggiungo alcune minime
chiose. ŖCorpo sodoŗ, minima citazione paradisiaca, ivi incastonata in una perifrasi astronomica il
cui locus non ricordo, è qui, oltre che decontestualizzata rispetto alla fonte in riferimento al primo
livello di lettura del poema tripartito che commenterò maggiormente, Gli angoli della bocca,
costituente la gran parte di Comèdia, poema nel poema dedicato allřanoressia, storicamente sacra
(malattia tipica delle mistiche Ŕ esiste ampia bibliografia in proposito - due per tutte Santa Caterina
da Siena e Santa Teresa dřAvila) e transpersonalmente profana (malattia adolescenziale della
Scrivente ma soprattutto transpersonalmente tipica delle Poetesse, due per tutte la gloriosa
patriarchista Gaspara Stampa Ŕ anchřessa assai centonizzata nel mio poemare Ŕ morta giovanissima
di consunzione astenica, come poi, in pieno Novecento, una delle ingiustamente neglette femmine
poetanti, Antonia Pozzi). ŖIntuiaŗ: attesto, risemantizzandolo, il neologismo paradisiaco, per
introdurre gli esiti sado-maso-mistici dellřŗammusarsiŗ, come azione neologistica del corpo a corpo
Io-Tu/Lui-Lei in condizione di gemellaggio incestuoso di cui sopra (la fabula mistica abbagliante
dellřImago), che accade nella sacrata-esecrabile lussuria (pornografica) dellřAmore dittatorialedettatoriale della seconda strofa, in cui il finale refulgere di Lei è da intendersi, per minime
commutazioni foniche, come rifiuto del suo arcano risplendere. Che gli Occhi di Madonna la
facciano da Padrone del Padre è fatto repulsivo per Lei-lei, che intende prendersi il diritto di
sguardo, di guardante al reale e non più di Sguardata-Travi(s)ata/trasfigurata: ŖAmenŗ-Ŗdueŗ, se i
due si perdono abbagliati nella con-fusione della Poetica dello Sguardo Novecentesca al suo
spegnersi. A Lei-lei quel che preme è guadagnare il diritto alla parola automusiva: Musa a me
stessa sřintitola il poema che consegue alla dedicatoria, parodia della Tragedia della Poetrice che,
sadomasochisticamente dittatoriale andando Ŗdi retroŗ al Dittatore Padre, inscena attorialmente
come le Ŗvanno stretteŗ le di Lui-Loro Ŗpenneŗ, sineddotiche di una forma-linguaggio di cui intende
destituire la claustral-claustrofobica struttura mirante alla catastrofe. Abbandono qui il discorso
sulla Ŗcatastrofetta” della figura femminile ridotta a parodia di Madonna, destrutturazione che
sorregge il secondo libro, volto infine al tentativo Ŕ come accennavo Ŕ di una rifondazione
annullante (del)l‟immagine, dellřapprodo alla donnità della scrittura poetica come risultato della
quêste. Malvolentieri, perché sta qui, per me, ora, la domanda vivida.
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Ma ho da tornare agli inizi del Viaggio, allřaurorale vegetatività della Nascita della Comèdia dalla
Comedìa per fago-citazioni. E anche qui parto dalla nota finale: in fondo al primo libro si legge, a
moř di glossa paraetimologica, allřapparenza sfacciatamente parodico-grottesca, ŖComedia, comřè
ovvio, dal latino comedereŗ: mangiare. Mangiare la lingua poetica: ecco lo stadio retorico della
vegetatività, la manducatio. La memoria orale dell‟exemplum. Sempre per amor di mimesi mi
avvalgo del fatto originante che il Grande Padre abbandonò la prosa compìta del Convivio per
incarnare i fatti linguistici di cui tratta il trattato, ovvero del parlar materno e muliercolo che
descrive, commenta, di cui auspica il prevalere nellřuso autoriale in versi a lui contemporaneo, nel
crogiolo volgarmente stra-italiano (dialettale, paesano) in statu nascendi dellřinvenzione versale in
terzine, prima forma metrica originale della Scrittura della Manducazione della lingua volgare.
Atto questo da inscenare poeticamente, più che da de-scrivere, se la lingua poetica è, comřè,
inscindibile dallřoralità primaria, cosa che Dante sapeva e diceva prima che lo dicesse la semiotica a
noi contemporanea. Mimesi orale: spessissimo Dante in Comedìa quando metapoeteggia, quando
tratta del suo poetare o del poetare in genere, fa uso di metafore alimentari e perlopiù coinvolte con
lřalimento materno. Allegoria metaforica: quando nomina per la seconda volta Omero, già Ŗpoeta
sovranoŗ (in Inf. IV, 88), lřAuctor Per Eccellenza (Auctor del Suo Auctor, Virgilio, quindi da
intendersi come metonimia del Sé Poetante), lo omaggia come colui Ŗche le Muse lattar più ch'altri
maiŗ (Pur. XXII, 102): kristevianamente, voce e latte materno fluiscono dentro e fuori la Bocca
Poetante felicemente come un unicum imprescindibile nella metaforesi dellřatto scrittorio-orale.
Secondo la regola aurea medioevale dellřipse dixit delle Auctoritates, il rapporto fra Autore e
Autore, in omnia saecula saeculorum, è per lřAntico Padre serenamente simbiotico. Quindi il
passaggio del testimone, nel Canone poetico, avviene amorevolmente, da un Padre/Madre allřaltro,
senza collusioni con la configurazione psicologica personale. Nella Fabbrica Poetica del Parlar
Materno, cui Dante inneggia in più loci, ma in particolare nei canti purgatoriali dellřincontro con i
poeti maestri e sodali (dal XXI al XXVI), avviene lřinveramento degli auspici poietici conviviali.
La Grande Poesia è lřAlimento Vitale per eccellenza, e in quanto tale la Via per la Salvezza
(lřaccesso alla Verità). Il Poema del Padre/Madre (Virgilio) di un Padre/Madre (Stazio) del
Padre/Madre Ŗsovranoŗ del Canone Letterario Italiano (Dante) è Cibo che passa di Bocca in Bocca,
perpetuamente metabolizzabile dal latino al volgare illustre: lřEneide, dice Stazio, Ŗfummi mammaŗ
e Ŗfummi nutrice, poetandoŗ (Pur. XXI, 97-98), e qui Stazio è anche allegorico Alter Ego di Dante,
che con Stazio condivide serenamente tale fratellanza. Il latte della Mamma Nutrice Virgilio, tanto
per fare della psicoallergologia da strapazzo Ŕ ma non perciò meno esemplare nel mio caso - è
allegoria di ciò che perpetuamente manca o avvelena lřIo anoressico femminile, che prende la sua
parola da Lui per colmare (sempre kristevianamente) il vuoto cruciale di dolce/aspro cibo materno.
Mancanza di cibo-parola che solo un Padre/Madre può colmare Ŗpoetandoŗ, avviando un poetare
che però avviene contronatura, nel caso in cui lřexemplum tràdito sostituisca un tradimento materno
nel setting psicolinguistico originario, mediante contraffazione delle figure degli attanti: il
Padre/Madre della Figlia si configura come una Mamma/Nutrice. Se un Padre Musivo latta la
Figlia, allontanata nei secoli la modalità delle Auctoritates e divenuta quindi farsa grottesca
lřallegoresi esemplare di unřAutorialità anacronistica (io non Enea io non Paulo né Dante sono, ma
una scrittrice, piccola così, di fine Novecento…), il meccanismo della Maternità del Padre può
inverarsi solo come per-versione, modalità per (scrivere) versi: insomma, se il meccanismo è
piuttosto psicagogico (nel senso contemporaneo del termine, magico-incantatatorio, orale anche in
questo senso: rituale con cui si evoca lřanima dei defunti per ottenerne responsi, o perché Ŗla morta
poesì resurgaŗ) che allegorico in senso stretto (perché parodico di unřallegorizzare), questo latte
colerà oscenamente dagli angoli di una bocca deviata dal materno verso un allattamento paterno,
che altro non può essere se non una incestuosa fellatio, non per imitazione degli schemi medioevali
ma per bisogni primari mancanti; dřaltronde non è possibile eludere lo psicologismo della
Letteratura Poetica dagli inizi della Modernità in poi, da cui non ci siamo ancora liberati. Da qui la
centralità della Parodia dellřAllegoria alimentare come Incesto col Padre, chiave di lettura de Gli
angoli della bocca, di cui adesso trascrivo i brani a cui mi sono fin qui riferita e di cui non mi
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rimane che glossare gli spruzzi di lattazioni dantesche nellřordine psicoretorico e semantico che le
ha determinate.
Ma prima, riassumendo e concludendo: tutto il discorso verte intorno alla identità-identificazione
originaria del corpo biopoetico della poetante come corpus linguistico originato dall‟actio retorica
della manducatio in quanto metabolizzazione, per fago-citazioni desemantizzanti e risemantizzanti,
del poema dantesco come exemplum della summa della tradizione letteraria di appartenenza,
nell‟intentio di riscattare, per ribellione edipica, l‟atavico mutismo del corpo del Tu Femminile,
che da Imago del poetare maschile si trasforma, comicamente (parodicamente e grottescamente), in
presenza della scrittura vocale di un Sé-Me che prende la parola. Centonizzare i canti purgatoriali
dell‟incontro con i poeti, Padri/Madri e Fratelli sodali del Padre e quelli delle rampogne della
Madre Cattiva Beatrice (trasformata, nella metabolizzazione, da Musa beatificante in madre
punitiva dell‟Incesto Poetico della Figlia), ha senso e ragion d‟essere nell‟ordine psicagogicoanalitico del poemare della Figlia come Simia del Padre. La mimesis è qui principio (atto iniziale)
di identificazione del Sé. Il poema che fa “macro” il Padre fa magra la Figlia/Amante, suo
virileggiante alter ego: il poemare intorno alla parola lattante del Padre/Madre, costitutiva del Sé
poetante, è, già alla fonte, per il Padre della Lingua Poetica, anoressante. Si aggiunga, nel caso
della Figlia della Lingua del Padre, la dimensione sessuale contronatura dell‟Incesto orale con il
“parlar materno” dei Padri/Madri e l‟ulteriore conferma della per-versione nella protesta del TuMusa-Beatrice che rivendica il suo ruolo primario di nutrice della voce poetica: fatto che salva il
Poeta, dopo averlo dannato come In-fante, approdandolo, con la sua Voce-Guida, finalmente
sostitutiva dei Padri-Poeti (il “dolcissimo padre” Virgilio sparisce quando appare l‟asperrima
Pietra-Beatrice) al “Vero ver” della Teologia che assorbe la Poesia annullandone la necessità, ma
che con-danna ulteriormente la Figlia a restare In-fanta, bloccandone la voce al conato
citazionista non approdante ad alcuna beatitudine che superi lo dittato poetico in Altro da Sé
(laico, non divinizzante). Innanzitutto perché esclusa edipicamente da tale felicitante glorioso
connubio, la Figlia si autodestina non già all‟identificazione – impossibile, in-desiderabile – con
Tale Madre rivale, e quindi non-guida alla Vita Vera ma spauracchio di Musa a Morte, ma alla
presa di posizione di Soggetto vocatorio auto-nomantesi, rispetto ad un Tu-Amata che non la può
rispecchiare (pena il mutismo mortale di cui sopra), ovvero all‟identificazione di un Sé-Me
esorbitante la ditta-dettatorialità educativa del rapporto Io-Tu, dominato dalla Voce lattante del
Tu-Madre, monstrum di ogni setting lirico-poematico da Dante a Caproni et alii, la cui struttura
sarebbe destituenda, pena la non-in-formazione del Soggetto femminile Poetante stesso in quanto
in-dipendente e innovativo rispetto al Canone. Questa parodica allegoria de-lirante può essere
ritenuta esemplare di un processo storico-letterario finora rimosso e dunque inevitabile, come
rimossa è stata l‟identità femminile fino al movimento storico femminista, che ancora non ha
liberato la realtà femminile da ben più cogenti, socio-ideologicamente parlando, anacronismi
legati ai luoghi comuni dell‟Imago. Per cui c‟è poco da scandalizzarsi e molto da stupirsi che
ancora certe dinamiche letterarie a sfondo divistico-pubblicitario, non siano state rilevate come
distruttive dei sé femminili reali. L‟attentato e l‟attantato della mia poesia giustificano la presa di
posizione letteraria contestualizzandola mediante una retorizzazione speculare rispetto al dettato, e
dunque, filologicamente pertinente ad essa letterarietà: il metaforismo-allegorismo metabolico
(perlopiù anche tematicamente alimentare-vocale) mima l‟oralità e le ragioni profonde stesse del
cantare del poema-fonte, del Dante conviviale e comico. Specularmente Comèdia&Comedìa sono
entrambi luoghi retorico-stilistici di purificazione innovatrice di un In-fante (e un‟In-fante) che
prendono la parola dal linguaggio parlato (l‟idioma, l‟idioletto) per farne atto di poietica, di
poesia etico-politica: in questo senso, senza anacronismi, l‟operazione linguistica del Sé-Me è
speculare a quella di Dante, naturalmente come scommessa pro-vocatoria e con le dovute tare
quantitativo-qualitative. Nel mio caso, nel caso della mia fiorentinità biografico-linguistica, si
tratta di affondi leciti e libiti nell‟ esemplarità vitanovistica transpersonale del poetare femminile,
per un tentativo, ripeto, esemplare, di scrivere dei dis-sacrati poemetti avanguardisticamente
decostruttivi ma orf(an)icamente necessitati. E se si considera l‟in-genuinità della motivazione
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profonda, psicolinguistica, di cui ho trattato sopra (l‟anoressia come impedimento all‟oralità
primaria e metaforicamente secondaria dello scrivere in versi), la lectio facilior avanguardistica
dovrebbe cadere a favore di una valenza sperimentale, virtù virtuosistica rilevabile nel superfetante
kitsch de Lo Dittatore Amore, in cui si concreta, dispiegandosi oltre la frammentarità
novecentesca, un ragionar melologando (speculare parodicamente all‟antico ragionar d‟Amore
come prassi stilistica dei Padri/Madri) – avviato nella frammentarietà di Comèdia - fondativo di
una poesia femminile che attesti la propria consapevolezza storico-tematica radicale, avviandola
alle sue inevitabili conclusioni, appunto, storico-letterarie.
Da Gli angoli della bocca, in Comèdia, Milano, Bompiani, 1998:
VEGETATIVA
(I)
Fami freddi vigilie nervi
per i versi soffersi
l'inganno dei sensi.
Adesso l'altra origine
altra causa d'avaritia m'adesca
e ciao mi scappi sul motorino
in pieno inverno anche tu mi lasci
o mio bel Sanfrediano
Amari passi di fuga
(s'alza un polverone)
e anch'io son per la Fiore!
E mi dìa una spuma gialla da 50
tìnnano a i' barre i bicchieri lustri
(cencino molle cencino molle)
tìnnano lustri occhi-monetine nel piatto delle mance:
la porti un bacione a Firenze cantavamo.
Adesso célo célo manca manca
si giocava a soffino alle medie
girando a vuoto s'alzava un polverone
e in avaria andò il motore.
Piatto, piatto d'un encefalo, onfalo bianco
girando a vuoto ancora più ampio mi spazia
in sin dentro l'odore greve
del soffritto della Graziella che mi manca manca
l'odore del mio bel Sanfrediano adesso mi ripesca
- e parlo come magno -
(che nausea la mattina)
a destra
e a manca
e ancor più giùe giùe
còlta in flagrante là all'accesso
del panificio aulente ove un bel dì s'innesca
la vita infanta
l'amor polenta.
(che buco allo stomaco)
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A moř di protasi, Vegetativa, lřabbrivio del poema della Ŗvita infantaŗ che inizia a prendere la
parola, ha luogo, parodiando la Tradizione, con lřinvocazione alle Ŗsacrosante Verginiŗ, le Muse, le
lattarici, le nutrici di Linguaggio Poetico. ŖFamiŗ Ŗfreddiŗ Ŗvigilieŗ Ŗversiŗ Ŗsoffersiŗ (Purg. XXIX,
37-42): lřinvocazione alla Musa Lattatrice avviene per mancata soddisfazione dei bisogni biologici
dellřinfanta, cioè della Figlia allo stadio orale primario, mancanza del materno, di cui si invoca la
sostituzione (metafora allegorica in funzione metonimica) mediante attuazione dello stadio orale
secondario, la scrittura poetica (lřŗaltra origineŗ) come oralità secondaria elargita dal Padre/Madre
Dante, il cibo amoroso (lřŗamor polentaŗ è un dolcetto fiorentino e Dante appare nel centro storico
di Firenze in lapidi consolatorie, come un dolce esposto nella vetrina di un panificio). La citazione,
risemantizzata dal punto di vista della Figlia Poetante, racchiude anche una allegorizzazione di
secondo grado: il canto XXIX prelude a un momento cruciale per il Viator Ŕ e perciò vi si invocano
le Muse Ŕ al ritorno-parusia di Beatrice, avvento in cui però Madonna appare sorprendentemente
non più come fanciulla angelicata ma sadicamente come Madre Punitiva, la Madre Cattiva che non
latta, anzi il cui latte è amaro, Ŗargumentoŗ velenoso. Gli Ŗamari passi di fugaŗ sono unřeco che
riecheggia Purg. XIII, 118-119: citazione a reminescenza, puramente evocativa, perché
decontestualizzata e desemantizzata rispetto alla fonte, malinconicamente anticipatrice delle parolelatte velenoso che la madre beatrice-dannatrice elargirà nei canti successivi. Lřŗaltra origineŗ
vegetativa dal Padre/Madre-Musa è Ŗcausaŗ, causante e causata, Ŗdřavaritiaŗ: Ŗavariziaŗ (Purg.
XXII, 23), ma subito dopo, e contestualmente, peccato di gola, avidità di cibo spirituale, Fame che
incita al peccato della lingua poetica in quanto abbandono dal/del materno a favore di un paterno
nutritivo, che nella Comedìa è inscenato nel canto in cui non solo si nomina Omero come il più
lattato dalle Muse, ma in cui compare Stazio, per eccellenza Poeta Alter Ego dellřAutore, Fratello in
quanto Figlio dellřEneide proprio come lui, nonché compagno di viaggio per un bel pezzo.
Entrambi lattati dal Padre/Madre Virgilio, il loro sodalizio è qui emblema della avidità della gola:
condivisa avidità di cibo-linguaggio poetico, se tutta la commozione dei due gemelli simbiotici è
rivolta enfaticamente allřAutore dellřEneide come loro comune modello poetico assoluto.
Spaziando più ampiamente, nel tempo, questo gemellaggio di nascituri al linguaggio poetico del
Padre/Madre lo faccio proprio, mutuandolo e allargandone il senso: Ŗpiù ampio mi spaziaŗ (Pur.
XXVI, 63) è citazione, lievemente variantata, e completamente risemantizzata, da un contesto
intertestualmente cruciale. Il canto XXVI è probabilmente la fonte più importante per la questione
centrale de Gli angoli della bocca: è il canto in cui Dante, accompagnato dal Padre/Virgilio e dal
Fratello/Alter Ego Stazio, incontra Bonagiunta (il Precursore dello stile Paterno/Materno),
Guinizzelli e Daniel, il Ŗpadreŗ di Lui-Autore, ovvero di tutti coloro che usano Ŗrime dřamorŗ, cioè
degli sperimentatori dello Ŗstile novoŗ e Ŗdolceŗ, dei Ŗdolci dettiŗ(Guido) mutuati dal Ŗmiglior
fabbro del parlar maternoŗ (il Padre dell‟europeismo dello Stile Nuovo che accende a Vita Nuova la
Tradizione Letteraria, il provenzale Arnaut). Sciogliendo lřallegoria, qui LřAutrice trova conferma
che il Ŗdolceŗ alimento materno dittante proviene dai Padri del Padre, si trasmette di Padre/Madre in
Padre/Madre fino a fare del loro Cibo-Linguaggio alimento tradizionale anche per la Figlia
Mimetica della Tradizione Occidentale. Accenno appena al fatto che nel XXVI le metafore
alimentari sovrabbondano in una sorta di soddisfazione orgiastica e orgastica e, a tal riguardo,
sottolineo che il Peccato di Gola-Lingua della poesia al suo insorgere orale si macchia della colpa
della Lussuria, da cui si purgano i Poeti: Gola (dal XXII al XXIV) e Lussuria (XXV-XXVI), ovvero
Fame Erotica in-estinguibile (lo Dittatore Amore) sono alla fonte dellřAvidità linguistica del
Poetare come fatto della carne, ritmo sonoro che riproduce i ritmi sensuali (il Senso,
barthesianamente, in quanto sensuale) dellřallattamento e della copula.
LA PARTE OFFESA
Io non so perché la mente
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non so come s'indementa
(Opalina opalina, liscia pietra capricornina
uh! pissi pissi bau bau
uh! pizzicorino in onfalo bianco piatto
piatto, piatto d'un encefalo
girandolona di una mamma divertinga)
Tanto fu dolce suo vocale spirto
mamma fummi poetando dramma
e lasciò il corpo vilmente disfatto
Fra punto morto superiore
e punto morto inferiore
in avaria andò il motore.
Nessuno aveva i suoi occhi e il suo odore
Tutto fu stucco e biacca, grave abbaglio
malinteso, malefatta
- s'intenda - al momento dell'incaglio
d'un rigurgito violento di presame
presa me da te per fame.
(LUCE!)
(ti sculaccio, oh, guarda!)
(E qual indulto beata sentenza m'ingiunse):
LE PAROLE SONO UN MOTO CHE VA
DALL'INTERNO
VERSO L'ESTERNO
Continua, in questo come in un testo successivo che non riporto, il dialogo fra Me/Dante/Stazio in
quanto allegoria dellřAlter Ego del Sé Poetante nascente alla Vocazione. La fonte è Pur. XXI, il
canto dellřincontro col Poeta (potenza del lapsus in poesia: qui addirittura, allegorizzando a maglia
larga, Lapsus sullřOrigine!) Ŗtolosanoŗ, da cui vengono centonizzati, con sostanziali varianti
desemantizzanti e risemantizzanti il Soggetto Poetante e lřOggetto Poetato (e il luogo di formazione
del poièin, i versi 31-32: Ŗampia gola/dřinfernoŗ, sintagma che torna due volte più oltre ma che
commento qui per puntualizzare metaforicamente e concludere circa il Luogo Generico Originante
del Peccato della Lingua-Gola-Voce) soprattutto i versi 88-99. Beatitudine dellřoralità primaria che
si fa in-felicemente secondaria in quanto elargita dal Padre sostituente la Ŗmammaŗ distratta-assente
nellřŗonfalo-encefaloŗ (luogo carnale da cui fuoriesce il poetare: la Ŗmente de-menteŗ vocata e
vocatrice, è ventriloqua, lallatrice, gode kristevianamente e barthesianamente producendo Senso
Sensuale, Suono e Ritmo) Ŗpiattoŗ: è lřeccitazione sessual-alimentare data dal Padre/Madre tramite
la Voce come contatto primario-secondario, in assenza della quale lřonfalo-encefalo rimarrebbe
anoressicamente piatto, morente, in presenza della quale il Ŗpiattoŗ diventa recipiente di Cibo Orale
Informativo. ŖTanto fu dolce mio vocale spirto (…)(…) mamma/ fummi, e fummi nutrice,
poetando:/(…) drammaŗ; lo Ŗspirto vocaleŗ, la virtù poietica, Suo, di Dante/Stazio come
Padri/Madri Alter Ego del Sé Poetante originantesi nella Ŗgola infernaleŗ del poièin orale, Ŗfummi
mammaŗ Ŗpoetandoŗ e perciò Ŗdrammaŗ: se le prime due citazioni sono semanticamente parallele
alla fonte, la terza attua una deviazione semantica, rispetto al locus testuale, virando la ri183
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conoscenza verso le fonti in una desemantizzazione-risemantizzazione che la deflagra, con un coup
de thèatre repentinamente decontestualizzante, in Tragedia Esistenziale. Lřoperazione sublimante
del passaggio di testimone dalla Tradizione Comica del parlar muliercolo-nutriente dei Padri Ŕ che
non fermano Ŗpeso di drammaŗ senza la dipendenza simbiotica dal Poema Madre - arriva alla Figlia
dal Ŗdrammaŗ dellřassenza di Ŗmammaŗ: per-versione che ha ben maggior Ŗpesoŗ di una dracma.
ŖE lascia il corpo vilmente disfattoŗ (Pur XXIV, 87), citazione decontestualizzata, variantata e
risemantizzata: disambiguando le allegorie, lřatto nutritivo che sřinscena facendo il verso al Poema
Madre del Padre non può dissimulare fino in fondo lřopera di contraffazione dei Soggetti Attanti,
altrimenti teatrale, tragica, che esige. La scena allegorico-reale del Ŗcorpoŗ della Figlia Anoressica
Ŗvilmente disfattoŗ dalla Madre Cattiva, che Ŗlascia il corpoŗ (Ŗanche tu mi lasciŗ, in Vegetativa)
dellřin-fante a bocca asciutta - Ŗmacroŗ fa il corpo il poema, e così le stratificazioni e i cortocircuiti
sensoriali del dittato inseguono il senso per fini compensativo-dissimulatorii - è metonimicamente
assai prossimo alle terzine che nel XXIV, nel canto della Ŗsanta greggiaŗ dei Padri Poeti Materni,
inneggiano alla gloria del Dittato Amoroso Salvifico dello Spiro, della Voce che si fa Nutrice, per la
Figlia, sostituendo il di lei corpo morto che cade nel di Lei Corpo Vocato. Frana rumorosamente su
se stessa lřopzione de-sublimante? Eř il rischio che ho corso ne Lo Dittatore Amore, melologando a
perdere la Voce dei Padri. Nel finale il testo denuncia il quando e il come del misfatto incestuoso
(Ŗmalinteso, malefattaŗ) della presa di posizione di Lei scrivente-orante nellřassunzione del Latte
Paterno come nutrimento costitutivo del Sé-Me poetante a de(-nu-)trimento del soggetto femminile
reale: nel Ŗmomento dellřincaglioŗ, della formalizzazione, di un Ŗrigurgitoŗ (le citazioni del Poema
tornano a gola) Ŗviolentoŗ (contronatura) Ŗdi presameŗ (lřin-caglio poetico del dittato del Padre)
Ŗpresa me da te per fameŗ. Chi si prende in affidamento la Figlia, al-levandola alla Madre Cattiva
è il Padre-Corpus poematico. Questione cogente del prossimo frammento.
BOCCHINO
Come il presame fa nel latte
coagula colloso sperma in bocca
il sangue mi s'incolla nel cervello
e dove coli sboccian le boccàgnole I
- ingoio, sorrido (sorriso opalescente)
Con gli angoli della bocca cadenti
o fuoco di Sant'Antonio da preziosissimo sangue.
Comparsa nel segno dell'eccitamento
:sciagura I
la pappa in capo ella mi manduca
mostrandomi il partito preso delle cose,
cosa succede cosa succede, oh Sacrocuore,
se si sposa la luna.
Ma chi la vendica, chi la vendica ora la mendica,
la luna?
Questa sboccata boccalona
questa simpaticona
che attonita ti chiama,
(per nove giorni, per nove notti
- finché non fece la luna -)
o scemo della luna,
il mezzo sorriso che schiocchi
che mi schiocca ogni morino quando abbocca.
Poi per nove giorni per nove notti
ti mangiasti un bigoncio di suppa
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secondo l'usanza d'omicida Cupido
ti mangiasti la suppa cupidigia,
biasciavi come un vecchio sdentato,
o scemo della luna, succhiando ti colava
dagli angoli della bocca, biasciandomi
me pappa, scemo della luna sdentato (ingoiavi, sorridevi)
e abbioccato sulla mia tomba mamma
(sorriso impeccabile:
c'è una LUCE! sul tuo volto)
rumorosamente t'ingoiasti impunito
- ingoio anch'io sorrido la vita infanta
il cuore infranto.
(Moderare con quiete)
Finché non si spense la luna
(pispigliando) CHI CERCA NUTRIMENTO CHE NON NUTRE
BARCOLLA DA BRAMA A VOLUTTA'
E NELLA VOLUTTA' LA SETE DI BRAMA LO CONSUMA.
Il titolo, iperconnotativo, e i primi versi, allegorizzano, stigmatizzandolo con un termine fra i più
volgari per designare la fellatio ma scelto per indicare che essa è lavoro di una piccola bocca, di una
bocca in-fantile, esemplarmente che il concepimento del linguaggio poietico in atto avviene tramite
rapporto orale con il Padre, il cui nutrimento poetico-vocale è, appunto, latte paterno, sperma: perversione del normale meccanismo con-fusionale latte-voce che origina lřatto poetico al suo
insorgere. Per circuire allegoricamente questo luogo del testo poematico, vertiginosamente cruciale,
torna il termine desueto, arcaico come il processo stesso di cui si parla, Ŗpresameŗ, già in clausola
del testo precedente. Il luogo di riferimento per questa designazione metaforica è una postilla tratta
dal commento dellřOttimo, o dellřAnonimo Fiorentino, a Purg XXV, 37-59, in cui Stazio apre una
parentesi dottrinaria prescientifica circa le credenze partenogenetiche dellřatto concezionale e
quindi dellřorigine dellřanima umana, secondo cui la generazione dellřhomunculus-seme è opera del
solo padre, essendo la madre-matrice mero ricettacolo e luogo di sviluppo di esso. Il sanguesperma, Ŗcoagulandoŗ con il mestruo materno non sgorgato, Ŗcome il presame fa nel latteŗ
(Anonimo Fiorentino), comincia ad esercitare la sua Ŗvirtute informativaŗ, Ŗvirtù chřè dal cor del
generanteŗ, ovvero lřinsufflazione nel feto dellřŗanima vegetativaŗ. La Virtù In-formativa,
scientificamente così definita dai teorici contemporanei dellřOralità Secondaria come specificità
della scrittura poetica contemporanea, arriva qui a coincidere alla lettera, con il modello
prescientifico allegorizzante la coincidenza perversa fra oralità primaria e secondaria dal Ŗcorŗ del
Padre Ŗgeneranteŗ! Figlia di Solo Padre: potenza delle simbologie partenogenetiche nella cultura
occidentale, così testardamente misogina… Alla costituzione dellřanima vegetitiva segue la
manducazione del Verbo, ormai concepito oralmente e cordialmente, passando da Padre a Figlia di
bocca in bocca, in un bocchino che succhiando metabolizza i coaguli versali, colati e digesti nella
lattazione, dal Poema del Padre (boccàgnole ec-citazionali) e così facendo la Figlia della Tradizione
si fa Ŗsboccata boccalonaŗ, cresce in poetricio (meretricio poetico incestuoso). Ma chi spiega il
processo è Stazio, il Fratello, emblema, qui diminutivo, di un fratellino reale la cui nascita sottrae la
mamma sadico-fallica, anoressando ancor più la bocchina della sorella… I processi metabolicometamorfici del linguaggio si sviluppano rapidamente Ŕ come le evoluzioni di una morula
linguistica eccitata geneticamente Ŕ in contenuti riferentesi a gelosie transbiografiche che cagliano
nella tripla ripetizione, in funzione decontestualizzata, rincontestualizzantesi in mini-invettiva,
ingiurioso-esorcizzante, volta alla presenza di un fratellino rivale in lattazioni, tramite una
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minicitazione dantesca, anchřessa incagliata in una perifrasi parascientifica di tipo astronomico, lo
Ŗscemo della lunaŗ (Pur X, 14), che non è la letterale mezzaluna ma il nuovo Řcocco di mammař, la
cui nascita infranse il cuore appena in-formato dellřin-fanta. Ahi! Lo Dittatore Amore!
COM'E' COM'E' QUESTO DIMAGRIMENTO?
Ad un tratto s'incupisce e fa boccuccia
e scoppio di pianto violento
vacilla e brocciolando cocciuta
balza en travesti sull'infame boccascena
della vita infanta testarda.
(VAMPATA)
Eppur non tragge, no, la voce viva ai denti
la voce vaca nella sede sua,
la voce spenta
- e s'impappìna, traballa ché nella bocca secca tranquirisce la mente
per il sapor della pietade acerba.
Indi si morde le mani fino all'osso a sangue
e proprio non sa come non sa come come
la sua mente trastullando
trastullando s'indementa
quand'è vacante la sintassi di sue vaghe membra
sparte nel profondo della testa.
Onfalo bianco, piatto piatto d'un encefalo,
mi mostri il partito preso delle cose:
la costrizione della mente
la coscrizione della mente
(onde mi struggo ed ardo
per chi arsi ed ardo ancor
canto e cantai)
(onde mi snervo e spolpo
onde mi snervo e 'mbianco
sudo e addiaccio)
di cui conven che sempre scriva e canti.
Ed in guai si converte ogni mio gioco:
(CALDANA)
alla mamma piacciono i maschi
odiamo i nostri poveri amanti.
Data la conclusione della precedente, lřazione anoressante è pienamente avviata a recepire le sue
concause. La boccuccia dellřin-fanta grida la mancanza della gest(az)ione materna nonostante la
sostituzione partenogenetica. Qui non il Padre/Madre Dante ma la Madre Cattiva Beatrice è il
personaggio principale del referente poietico: l‟inf-anta che resta a bocca asciutta è pertanto
condannata alla frammentarietà del discorso per secchezza di fauci da terrore abbandonico. E Dante
Ŗfantolinoŗ ammutolito dal Ŗrespittoŗ inibitorio al cospetto della Ŗmammaŗ Ŗprotervaŗ Beatrice
(Purg XXX, 44; 70) è qui il modello del performante del Ŗdrammaŗ (Ivi, v. 46) del Me poetantebalbettante, castrata nel crescere del canticare, ridotta ad una sorta di fantozziana diminuzione
dellřIo scrivente-orante, condannato, dallřassenza del materno, al non essere, impedita a godere il
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Sommo Bene Vocale elargito dal Padre. Da Ŗeppur non traggeŗ a Ŗpietade acerbaŗ i luoghi
parodicamente centonizzati e risemantizzati sono tratti da Purg XXX, 79-81 e XXXIII 25-33, luoghi
testuali puntualmente riferentisi agli effetti di paralisi vocale, poietica, che riconducono il corpo del
Sé Poetante al corpo muto dellřio femminile, cui la dipendenza dalla Madre Anoressante
destinerebbe. Corpo muto e smagrito che smarrisce la sintassi delle sue membra allegoriche,
poematiche e anatomiche: il corpus an(im)atomo-poematico promesso e non mantenuto dal
Padre/Madre. La maschera del Me in continuando a poemare è qui un altro Alter Ego Fraterno di
Dante, il sodale Forese, le cui fattezze corporee si disfano nella magrezza cui lo condannerebbe il
suo peccato di gola-lingua per-verso, allegoresi senza tregua del destino che congiunge in Comèdìa
cibo (mancanza di) e poesia. Purg. XXIII, 40-44: disfatto nellřaspetto corporeo, sparito come corpo
reale e ridotto a qualcosa di riconoscibile solo Ŗnel profondo della testaŗ Ŕ nel messaggio inviato
dallřencefalo non piatto, ma parlante, puranco se purgatorialmente dis-onfalato dalla pena
dellřaffamamento perpetuo che lo consumerà fino a purgazione avvenuta -, Forese è riconoscibile,
in quanto quel poeta che fu, solo dalla voce, nuovamente extrema ratio di futuro riscatto. Perché
proprio la Voce Poetante, per la virtù Mistica che Dante le conferisce, lo salverà, in quanto
appartenente alla Ŗsanta greggiaŗ (Purg XXIV, 73) privilegiata metafisicamente, quella della Santità
Poietica dei Fabbri del Volgare (fra cui anche il bécero Forese: salvati dal turpiloquio!…), molto
vicini, per la teoresi dantesca, alla Voce Dolce del murmurare divino (si pensi soltanto alla
vertiginosa estasi mistica che permea lřaudizione dantesca della Voce ossimorica, dolce/aspra
dellřŗagugliaŗ-Ŗalodettaŗ nel Cielo di Giove, che premia la Giustizia Ideologica Ŕ Poietica per
Dante -, ben più misticamente, a mio modesto avviso, della Visione Trinitaria Tutta Luce del gran
finale del Sacrato Poema).
RECITA DI FINE ANNO AL RONDO' DI BACCO
Infarinato capo di penitente vèglia
indi balzai sul boccascena
in fin di vita infanta
(LUCI DELLA RIBALTA!)
io fui alle medie
la Contessa Maffei Claretta
monologante in vesta iettatoria violetta
sola scrosciata d'applausi
(fui lieto calice io, proprio io)
io proprio io
l'acclamata Claretta fra grida e schiamazzi
delle compagne tutte e anche de' maschi.
La Contessa Claretta Maffei - va' pensiero cantavamo Rosi la pasionaria
(va' 'ia va' 'ia)
io fui alle medie appena sessantenne
qual sessantenne illibata in menopausa
da tutti a gran voce prescelta:
per voto unanime della classe
lì sola sul boccascena a scaniconi
col tombolo in mano lì
(- anche tu mi lasci -)
tombò la mia carcassa su una sedia, stravaccata
vèglia io fui burattina tutta fiacca
- rilasciata tranne il tentennante testoncino
di cocco e biacca
(- tìnnano i bicchieri lustri):
libiam nei lieti calici! 187
188
(LUCE!) e (VAMPATA!)
Così furon distrutti li miei spirti
tutti tranne li spiriti del viso - facciona di luna Poi si spensero le luci
(: ma la virtù quello sguardo m'indulse).
(ECCESSO)
Da allora le mense bruttate
e gola d'inferno teatro.
SIPARIO
Si conclude così il primo capitulum del rito dřiniziazione al linguaggio del Padre. ŖIn fin di vita infantaŗ il Soggetto Poetante Femminile veste la maschera del suo Sé-Me transpersonale, o meglio
prende finalmente corpo, corpo di parole, il Sé-lei come voce in maschera di una Poetrice, ViatrixAttrice sul Ŗboccascenaŗ, attante nella scena della bocca poetica, collusa col teatro, della Poesia del
Padre/Madre Fiorentino. Maschera, Simia del Padre, sua grottesca con-sorte: Ŗcocco e biaccaŗ
(prelievo da Purg. VII, 73, desemantizzato rispetto alla fonte) sono emblemi della sua, di Lei-lei,
maschera teatrale melo-drammatico-logica: la Ŗgola dřinfernoŗ, matrice poietica, diventa Ŗteatroŗ
delle mutazioni dellřIo-Tu in Sé-Me. Ma siamo appena agli inizi Ŕ questo processo avverà
propriamente ne Lo Dittatore Amore Ŕ: bisogna fare ancora i conti con il retaggio linguistico del
padre reale, altra origine dialettale che non commenterò, attenendomi a quanto di ancora dantesco
affiora nel secondo capitulum del poemetto, il cui abbrivio riconferma il discorso sulle origini
partenogenetico-incestuose dellřanima poetante allo stadio oral-vegetativo.
VEGETATIVA
(II)
Ma ancor più giùe giùe
là dove è pianto e stridore di denti
nella natura amorale dell'estate
ha' voglia a sterpagliare ogn'anno
Versailles se la rimagna la natura
E vedo che già non son né un né due
mentre ti faccio ancora le sguerguenze
falsificando me in altrui forma.
Ha' voglia a disterpare a diserbare
tutt'intorno ci smangiucchia la natura
e vedo già che non son né due né una
ma bimbìa rossa alfine, certo, rossa malpelo
Du'lucertole s'appiccano in corsa
larghe gambette in fuga per otto
Per tomolate, a perdita d'occhio
a mischiar lor colore
(anchéggio anch'io, saltello)
tacco-punta
tacco-punta
anchéggio anch'io, saltello
S'abbarbica la buganvillea
e le sue foglie di foglie
188
189
i fiori suoi di foglie sanguisuchi
tutto ti rimagnano lu Filiciaru
tutta ti risucano la casa della mente
cinico re, mio possidente.
- sto sulle spine io, ti spio -
La metamorfosi allegorizzata dellřIo-Tu nel Sé-Me che consegue allřinizio del processo di
metabolizzazione della Lingua dei Padri riecheggia inevitabilmente il canto per eccellenza del
metamorfosarsi dei corpi in altri corpi in maniera virtuosisticamente teatral-linguistica: il XXV
dellřInferno, in cui lřapice del virtuosismo Dante lo raggiunge Ŕ a dispetto dei Padri Classici Ŕ nei
momenti magmatico-grotteschi in cui la Creatura non è Ŗné un né dueŗ: fuor di metafora si tratta del
trapasso dell‟Identificazione del Soggetto Femminile Poetante da un Io-Tu ad un Sé-Me che, per
attestarsi, veste la Maschera della Figlia Incestuosa, più unica che rara maschera nella letteratura
nostrana (figura altamente censurata dal moralismo ginofobo del Canone Patriarchista): Mirra.
ŖFalsificando me in altrui formaŗ sostituisce metonimicamente, risemantizzandolo contestualmente
alla presa di parola della Figlia Incestuosa, Inf. XXX, 41: Ŗfalsificando sé in altrui formaŗ. Tragica
allegoria: questo peccato di contraffazione dell‟Io femminile (del Tu!), della presa di posizione
come Personaggio Auctor-Actor della Femmina Fonica (La Poetrice) è, secondo la lezioneinterpretazione del Padre Dante, paradossalmente, più grave addirittura dellřatto di lussuria
incestuosa della ragazza. Inf. XXX, 37-41: Mirra è Ŗscellerataŗ non tanto perché Ŗdivenne/al padre,
fuor del dritto amore, amicaŗ quanto perché Ŗvenneŗ Ŗa peccar con essoŗ Ŗcosìŗ celando la sua vera
immagine, il suo viso, il visus spirtal-spirituale del Tu femminile! Velato per commerci carnali: per
prendersi dal Padre il corpus poematico; lřhomunculus vegetativo sottratto a tale amplesso, il
concepimento generativo che ne deriva, giace taciuto nel tenebroso sottotesto ovidiano (in cui si
narra che dallřamplesso di Mirra col padre Ciniro Ŕ che qui si trasforma a lapsus in Ŗcinico
possidenteŗ Ŕ sortì una gravidanza) che qui, scelleratamente, il poemare della Figlia rimette in
funzione, ignobilmente smadonnandosi:
LE PARTI IGNOBILI
Ma ancor più giùe giùe
ubi non trovo dante ubi consistam
là dove l'altra origine m'appesta
Le parole tendono ad essere
inadeguate al tanto temuto
contenuto
una sbiobbina cammina tutta di trache,
non sarà mica la storpia
di quella poesia di mio padre?
(mi lusso anch'io, anchéggio)
E vedo che già non son né un né due
mentre cresce di grano e io non granisco.
Per tomolate, a perdita d'occhio
Che il gemellaggio è improbabile
lo rivelano le proporzioni,
se l'una si china sull'altra
per sganciarle i bottoni.
Nessuno aveva i suoi occhi e il suo odore
(anch'io m'inchino a te, mi chino)
Ma come La Vecchia anche lei
è di grossa caviglia
e tutta a lui centimane s'appiglia
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(pispigliando) ADOPERANDO PER LA PRIMA VOLTA LE MANI FINALMENTE CAPII
PERCHE' MIO PADRE ERA STATO UN UOMO FELICE.
Dove Dante non è più donante lřubi consistam informativo, nellřinferno dellřincesto reale
dissimulato in poemando i primi versi auto-nomantisi del Sé-Me transpersonale che inizia a
registrarsi in quanto voce propria, la Poesia del Padre/Madre viene detonata in Ŗpoesia di mio
padreŗ, accidente autobiografico trascurabile, rimovibile a petto della futura melologia della Vita
Nova poietica del Sé: il Ŗgemellaggioŗ che fin qui ha funzionato Ŕ fin qui Autorizzato Ŕ diviene
ormai Ŗimprobabileŗ, letterariamente improponibile. Bisogna passare ad altro, prenderSi un Nome
Proprio, iniziare a far coincidere il Me Poetante con la Dittatrice del Sé:
NEI COLORI PRIMARI - COME DICEVA LA DUSE - “OGGI REALIZZO”
Toh!, una bòtta sulla coscia
ergo esisto, dunque sono: questo:
terra grassa, campagna
occhio e cuore di bue.
Esisto e dunque sto
intr'a ddu' alivari
Donna Rosina s'annoda languida treccia
e guarda gemere il miele dai fichi,
mmhh... gua' che goduria
(che giulebbe)
intr'a ddu' alivari ccà
c'è lei proprio lei lei
lei poppone lei scarponcelli slacciati
lei di caviglia pesante lei
la nobil contadina d''a Poèria,
chidda c''u ficu se ll'ingoia intero,
'u ssai? Glop, intero!
Il latte di fico mi brucia il labbro
(spia rossa s'accende)
dunque esisto e sono
in cassetta di sicurezza
l'anello il bracciale e la spilla
R
l'eredità dell'ava platinata e brillante
R
che qui giace in pace sorridendomi mesta
acquitrinosa livida ametista
R
E allora un'altra bòtta sulla coscia e via
mi strofino mi scortico un polpaccio,
arrossisco tutta e sono ancora e sempre
ancora e sempre ancora e sempre
(VAMPATA!)
Donna Rosarina dei Poèrio
(- Quando era sbronzo concionava come il
celebre avvocato di Casabona, almeno
così gli pareva, poeraccio -)
Donna Rosarina la Paccia
Donna Rosarina 'u Poeta
l'orator di piazza, l'orator latinorum,
che di necessità qui si registra
- vino, vino per tutti, offro io! - offro io! -
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anche se credo invero non esista.
Lui cresce nel grano mentre granisco:
'u pane 'e Capizzaglia
affogato nel vino
mi gonfia la panza.
Nel non-Nome del Padre, per irrisolta inibizione partenogenetica, lřIn-fanta Innominata diventa
finalmente, nel mezzo del cammino del Sé nascente, Donna Rosarina Poeta, Donna e Poeta, un poř
perché, come vorrebbe la letteratura femminista, Poeta in latino è femminile (anche se non siamo
ancora esentate, nonostante tutto, da un complesso narcisistico di virilità…), un poř perché la
definizione Poetrice non è giustamente esentabile da parodizzazioni grottesche; A(u)(t)trice, Ŗche di
necessità qui si registraŗ (Purg. XXX, 63) Ŗanche se credo invero non esistaŗ in quanto Io, Lei-lei
essendo, beckettianamente, s-faccia-tamente/teatralmente un Not I, una Bocca Anonimamente
Transpersonale. Come il Padre/Figlio al cospetto di un Sé/Madre del proprio dire paradisiaco
destituisce, per esaustione di mitopoiesi stilnovistica, il potere inibitorio del Tu/Madre-Musa
Angelicata, purgandosi del peccato lussurioso che in gioventù lo travi(s)ò dal Sommo Bene
Teologico, il Sé della Figlia di solo Padre abbatte il di Lui narcisistico Io Lirico-poematico
esclusivamente fallico-nutritivo, che per Lei-lei, in quanto tale, semplicemente non avrà più
necessità teleologica di sussistere, se lei infine si assume la responsabilità poietica di un proprio Sé
corpo-linguistico. Ora che il concepimento e la filiazione orale (Ŗmi gonfia la panzaŗ) del di lei
linguaggio poietico, sia pur concresciuto partenogeneticamente da quello di Lui/Loro, è stato informato dal Ŗdanteŗ, può attendere ad ulteriori sviluppi poietici, arrotandosi i denti (granire: verbo
che indica movimenti della bocca infantile in fase incipiente di dentizione) in vista di altre
manducazioni. Ahi! Lo Dittatore Amore!
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Su Thèrése di Florinda Fusco
Nell'attualità porta ad un suo straordinario esito il processo di scrittura poematica di Florinda Fusco,
in cui l'autorizzazione del Sé-corpo alla scrittura epica diventa presa di possesso, accesso e
dilagazione dello spazio grafico del poema 'in lungo e in largo', abolendo la schiavitù metrica.
Abbandonate le categorie canoniche versali del Poema dei Padri, abbandonate le controfigure
metriche e/o parodiche di Rosselli-Vicinelli-Lo Russo-Valduga, la forma poema al contempo si
disgrega definitivamente rinunciando alla tentazione della canonizzazione patriarchista fra le fila
dei Santi Padri e finalmente osando dare corpo testuale alla Santità delle Sante Madri tramite il farsi
parola del Sé-corpo femminile a prescindere dal canone poematico maschile.
La Santità del corpo-voce-scrittura-immagine della Fusco ha per vessillo un titolo ipertestuale che
dichiara implicitamente il modello testuale di riferimento: Thérèse è il nome delle due mistiche
scrittrici più feconde, famose e amate dalla tradizione canonica (in questo caso in senso
ecclesiastico oltre che letterario, ma è evidente che storicamente le poche donne non analfabete
appartenevano alla società ecclesiastica, visto che la secolarità riduceva le donne al rango di mogli o
amanti, annullandone la personalità), la Grande Teresa d'Avila e la Piccola Teresa di Lisieux, un
Nome, insomma, quello di Thérèse, che copre emblematicamente l'intero arco della spazialità e
temporalità po-epica femminile dal punto di vista storiografico della scrittura come autonarrazione
(la ricerca del Sé) che precede la recentissima nascita della poesia poematica delle donne,
poematica, ovvero svincolata dalla gabbia lirica amorosa di maniera e volta alla ricerca di modelli
altri.
La sacralità del nuovo modello testuale esalta la ricerca del Sé corpo linguistico nello spazio
dilatato della scrittura, dove il bianco lungo e largo che circonda il flusso po-ematico diventa luogo
di espansione, appropriazione a abbandono al linguaggio del Sé come corpo poematico, luogo
fecondo di dissanguamento e dissipazione dell'antica unità versale fonoritmica del poema classico
in un continuo decentramento atono/aritmico/telegrafico di linee (così Fusco definisce i suoi versi)
esplose dal Ŗquadratoŗ rosselliano (di cui la stessa Fusco ha trattato criticamente) e dalla
compattezza fonoritmica del (dis)sacrato poema Sequenza orante ne la Comèdia del Sé tracciata
dalla sottoscritta. Si tratta dunque di tutt'un'altra storia rispetto a presunte matrici
neoneoavanguardistiche (di cui già si lamentava Ŕ e a ragione Ŕ Rosselli, ma tant'è, il Gruppo '63 e
successori hanno tentato di inglobare noi femmine poematiche nel loro discorso, un'operazione
criticamente inaccettabile dal punto di vista storico-letterario, anche se va riconosciuta agli
esponenti del Gruppo '63 la bontà di averci benedette autrici).
Nelle linee-vettori della esplosione del versificare poematico di Lo Russo (Lo Dittatore Amore.
Melologhi in particolare) e di Fusco viene meno la necessità del verso tradizionalmente inteso, che
collassando si trasforma in extensions di un Sé corpolinguistico da inventare, un'eroina epica che
abbandona la pesantezza (in senso weiliano) dell'Io poematico canonico a favore
dell'ŗinvuotamentoŗ (parola usata da Fusco ne La signora con l'ermellino) dell'Io, sostituito dalle
tracce trapelanti, flebili e rigogliose al contempo, della grazia (nel senso weiliano del termine) del
Sé, piuttosto imparentato, se proprio vogliamo trovare un antecedente fuori dal canone poetico
italico, al monologante Not I di Beckett piuttosto che alle scomposizioni teatsuali delle
neoavanguardie.
Le matrici poematiche femminili di Fusco, piattaforme di lancio testuale per l'inveramento nella sua
scrittura del Sé-corpo di linguaggio, sono filosofiche: i nuclei aforistici di Weil e Arendt compaiono
nel bianco della pagina come puntelli di sostegno ideale e ideologico; e poetiche: le sue linee sono i
vettori che il quadrato armato della Rosselli di Variazioni belliche Ŕ da lei criticamente scassinato Ŕ
dirama nello spazio bianco del suo impaginare l'esperienza. Ma non meno presenti alla sua scrittura
Ŕ forse solo come adesione al progetto-poema, mi paiono i panegirici della libertà dei libella di
Rosselli e della sottoscritta, che hanno dato l'avvio al trangugiamento e rimetabolizzazione delle
fonti poematiche canoniche, facendo da apripista a questa scrittura che si è liberata dal versificare in
antiche lingue toscane definitivamente archiviando la parodia del colosso patriarchista.
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Ma una per tutte, attestandolo con estrema lucidità nella grande intrapresa ipertestuale e
multimediale del poema (che ormai è già scrittura altra, oltre ogni genere) Thérèse, Fusco esplicita
che il modello per la nuova Santità non sono i Santi Padri, ma le Sante Madri, le mistiche scrittrici.
Il modello storico del poema Ŕ nella nuova accezione di autonarrazione sperimentale ed
esperienziale del Sé Femminile Ŕ è la testualità scritta-orale delle Sante, attive testualmente dal
medioevo ad oggi, quindi una vera e propria tradizione canonica che le poetesse fanno propria: la
vera e propria fonte canonica. La scrittura mistica femminile europea è il modello del poema
italiano femminile dal secondo Novecento in poi; lavora nel sottotesto e nel linguaggio della
Rosselli, esplode in Sequenza orante, struttura e dilaga nell'ipertesto di Fusco, dove però lascia
decantare il piglio eroico e, recuperando il vecchio stratagemma manzoniano del manoscritto
ritrovato Ŕ ma parodicamente e paradossalmente rivendicandone il piano di realtà! - lo trasforma in
diario di una qualunque, una donna comune, una donna socialmente diversa ma non più identificata
con l'icona della poetessa epica, orante alle folle, come ancora ingenuamente aspirava Rosselli.
Dunque, se la scrittura delle sante era storicamente autorizzata dai Padri (i confessori, Dio), se la
scrittura delle poetesse poematiche era testualmente autorizzata dall'obbedienza alla Santità dei
Santi Padri del canone letterario a dire il Sé scrivente in versi (parodicamente in Rosselli-Lo Russo,
acquiescentemente imitativo nel caso della Valduga che neometricamente fa il verso ai Padri per il
puro piacere del testo, senza smarcarsi dall'obbedienza), Thérèse è il personaggio-autore del proprio
macrotestuale Diario, in cui si canta e in cui si narra, si disegna e si fotografa la conquista di un Sé
Transpersonale sperimentato in tutte le sue declinazioni, dall'Io Esperienziale dell'Autrce, al Noi
della ragazza ignota del manoscritto ritrovato: l'Io-Sé si consegna alla scrittura: questa è la resa
poematica della flussuosità di Florinda. Se l'Autorizzazione (= l'essere autrice) delle progenitrici
proveniva non dall'Io-Sé ma dall'Altro da Sé (l'Io/Dio), se il modello di Auctoritates viene
rovesciato dalla rivoluzione poetica del secondo Novecento, l'Autrice del Duemila può spaziare fra i
molti Io e i molti Sé in vertiginose espansioni dilatazioni contrazioni e dissanguamenti mistici di un
Grande Corpo Testuale che si confessa liberamente scegliendo la sua tradizione, le sue fonti, i suoi
modelli multimediali. La confessione, nel senso letterario anglosassone del termine, resta però un
modello valido per la scrittura. Cantare-narrare la propria e altrui storia femminile rimane, in Fusco,
un atto del donare: la scrittura visiva del poema, il suo spazio di immagini, è una vestizione
divinizzante del corpo femminile al fine di farne (=poièin) un Sé corpo.orante/scrivente. Un donarsi
espropriante eppure per-formativo nello spazio letterario: qualcosa di simile accade nelle due
Ŗboschiveŗ Biagini e Pugno, Io altrettanto Sé/lvaticamente accorpantesi nel testo, nelle formule
dissipative del testo in quanto continuità poematica del proprio darsi-disintegrarsi-disseminarsi
corporeo. Ciò che mi sembra accomunare queste poetesse di inizio millennio è la presa di poessesso
dello spazio letterario del poema in quanto risultante di un'Autorizzazione del Sé Corpo da parte di
un Sé Intellettuale liberato, tanto per usare un'espressione veterofemminista, ovvero non più
soggiacente alle regole mistiche dello scrivere per bocca e mano dell'Altro, ma Ŕ non immemore di
ciò la Fusco Ŕ per bocca e mano di un Sé collettivo femminile cui viene riconosciuta l'Auctoritas.
Non saprei se nel caso di Biagini e Pugno agisca questa consapevolezza, e neppure se le
Auctoritates Femminili siano le stesse mistiche e filosofe della Fusco, ma l'importante è segnalare
che il modello del poema attuale non è più il canone letterario italiano.
Dopo la decostruzione delle auctoritates poetiche novecentesche operata dal poema rosselliano del
'58, si aprono gli spazi per nuove auctoritates nel poema femminile e queste nuove auctoritates non
appartengono più al canone letterario bensì al canone mistico. Il nuovo riferimento, già adombrato
in un folto grappolo di lessemi rosselliani facenti riferimento all'ambito linguistico della mistica
medioevale, sono i vari libri dell'esperienza delle autrici mistiche, uno per tutti l'antonomastico
Libro dell'esperienza della medioevale francescana Beata Angela da Foligno, ipotesto di Sequenza
orante. Nel caso di Thérèse antonomastico invece è il titolo, che riunisce sotto un unico cartello
l'esperienza corporea e spirituale delle mistiche (dalle oranti peruviane in lingua quechua a Simone
Weil), attestando senza remore che i nuovi modelli da cui la scrittura femminile può svilupparsi e
andare oltre il corpus poematico strictu sensu appartengono alla grande tradizione mondiale, oltre
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che europea, dell'orazione femminile, l'unica pratica scritta-orale delle donne lungo i secoli che
abbia creato un corpus solido, pur ricevendo fin qui dall'Altro (dall'Alto) l'autorità. Il Sé corpolinguistico è lo spazio tempo sacralizzato di un dentro autoriale che inizia a farsi spazio verso un
fuori da modificare mediante il dilagare di estensioni verbo-visivo-sonore delle proprie reliquie
corporeo-esperienziali, alla ricerca delle configurazioni identitarie di una generazione nata dal Sé
partenogenetico invocato come risolutivo del conflitto autoriale dall'ultima lassa de La libellula
rosselliana: l'identificazione del Ŗnuovo Soleŗ di un Sé che si autogenera scrivente-oranteautoraffigurante la propria genealogia di autrice. Panegirico della libertà, il giro del pane è lo
spazio aperto di questa scrittura che sperimenta il luogo-poema, lo spazio immenso della scrittura e
del suo silenzio bianco, come tèmenos, luogo sacro e territorio vergine dove può liberamente
accadere (vigilanti le auctoritates mistiche) il parto fluido di un Sé Femmina rossellianamente
bellicosa – anche se non meno bellicosa e misticamente abitante la ricerca del Santo Graal
dell'esperienza fu la poematicità di Patrizia Vicinelli – nei confronti del nemico che non è più il
Demonio ma la sua incarnazione mediocre, la Signora Borghese, già ampiamente vituperata dalla
letteratura primonovecentesca ma soprattutto vero e proprio feticcio del Sé Negativo pugnalato
dalla grande poesia femminile in lingua inglese, dalla Sexton alla Duffy, e in Italia dalla Rosselli
alla Vicinelli fino a noi: la Signora come bieca caduta dell'immagine femminile di Madonna il
Travestito ovvero della donna come proiezione passiva del Sé maschile. Ecco, il poema femminile
contemporaneo sta tentando di disegnare altri modelli femminili, e com'è ovvio non è affatto facile
trovarli ed imporli al pubblico. La nostra ricerca si configura come un processo esponenziale di
Alterità, ma il nome-titolo Thérèse suscita in me l'esultanza di un approdo stabile, di un punto di
arrivo e di risposta all'invocazione disperata delle madri Rosselli-Vicinelli: la Santità della Fragilità
Guerriera, la debolezza forte, l'inermità imbattibile, dono della flessuosità e flussuosità di questa
scrittura. La scrittura di Florinda Fusco ha rotto un argine, ha oltrepassato un no trespassing ancora
inibitorio nei miei poemi (già dilaganti oltre la versificazione e verso la ritmicità) Musa a me stessa
e Sequenza orante, ampliando la frontiera della nostra ricerca ancora in corso e molto lontana, mi
pare, dall'epilogo, avendo solo ora acquisito, la creatura, un nome proprio, l'assunzione di un
Modello-Autrice, di un exemplum forte in quanto già in partenza ipertestuale.
Il Non Io che sfonda l'orizzonte lirico, che diventando Sé Transpersonale rifonda il poema
radicandolo nei piedi saldamente ancorati alla terra della quotidianità e nei capelli elettrizzati verso
l'Altrove di Anne Sexton, filamenti espansi verso l'Oltre, la Santità delle Sante come sublime
zavorra di un corpo-qui-e-ora, assunto su di Sé e al contempo rigettato lonano, oltre i confini della
quotidianità, le Madonne Celestiali che Rosselli e Lo Russo hanno parodicamente assunto a
contromodello di denuncia si sono trasformate nel loro negativo fotografico ne Il libro delle
madonne scure, primo passo di una riappropriazione della storia del proprio Sé (autobiografico in
senso transpersonale, ripeto) a partire dal riferimento implicito alle acque scure di un parto difficile:
la partenogenesi dell'Immagine di un Sé inquinata dall'onnipotente denegatore e denigratore
dell'esistenza intellettuale e fisica, e anzi intellettuale in quanto fisica della femmina, della portatrice
di vagina (con eufemismo intesa handicap, mancanza) come luogo di pensiero non come non-luogo,
vuoto di passività da riempire. Il luogo della femminilità diventa luogo di scrittura che si produce a
partire dal e nel vuoto solo apparente del bianco della pagina: si tratta di capire, leggendo Fusco,
che per la gemmazione verbale è più importante il pieno-vuoto del supporto-libro-pagina che la
freudiana penna-pene che la riempie. L'aspetto paradossalmente bellicoso sta nel porre
implicitamente fine al mito cattolico della Dormitio Virginis come Assunzione al cielo della
Scritttura della Femmina Narcotizzata, ovvero nel ridisegnare la Santità Femminile come
Oblazione, una bellicosità tutta generatrice, nel segno della scrittura come espansione di questo Sé
Vergine, neonato e partoriente al tempo stesso. La santità di Madame grazia e oltrepassa la Sposa
dalle ovaie di ferro? Quale Sé scrivendo la sostituirà? Thérèse oltrepassa Madama La Signora e la
sua Ŗfaccia di uomo truccataŗ, la mia Madonna come Travestito in Musa a me stessa. ŖIl centro
della carne è ancora vuotoŗ: ancora sono esposti rossetti, trucchi, extensions, cappelli, scarpe,
rivestimenti della carne se non più Vestizioni delle Sante Suore Scrittici per mano di Dio-Auctor. Il
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suo martorio (come direbbe Iolanda Insana, altra Grande Madre della scrittura poematica femminile
contemporanea) di Ragazza Cristica ancora agisce ne Il libro delle madonne scure, ancora vi insiste
a dominare la figura della Mistica espropriata del Sé dall'Altro da Sé maschile, insiste ad esistere
come Amata Modella anche se alternativa alla Madonna Stilnobbista.
Anche Silvia Cassioli, in Unghie, plantari, gambe di legno e altri ex-voto fantastici (Napoli, d'if,
2009), ha esposto in lasse poematiche, con sapiente leggerezza comica, grazia e potenza, questa
mèsse reliquiaria dell'antico oblato Sé-corpo femminile duro a morire nella (in)coscienza collettiva.
Il modello identificato come identitario del Sé ma da superare è la figura emblematica della
Ragazza Cristica, dell'agnella espiatoria della colpa di fare il verso ai Padri, la sacrificata tragica del
poema epico, dei frammenti sparsi e persi del grande genere poema nel crogiuolo dei generi
novecentesco: il Corpo come dono-sacrificio di Sé, del Sé ancestrale da espiare, espletare, espirare
in versi. Il Libro delle madonne scure conclude così: Ŗquesto è il mio corpo cucilo senza memoriaŗ.
La Donna Assenza è il Santo Graal delle linee di Fusco, lanciate alla ricerca del Corpo Sé da cucirecostruire, quella che nei miei Melologhi si autoproclamava ad alta voce Ŗme madonnara follaŗ.
Madame de Il libro delle madonne scure è la stessa dramatis persona Ŕ in tutt'altre modalità
espressive Ŕ di Madonna-Musa de Lo Dittatore Amore. La mia parodia troppo Ŗa tesiŗ - frutto
ipermaturo di una decadenza tardonovecentesca? - è superata dalla scrittura del nuovo millennio di
Florinda Fusco, che ne sposa gli Oggetti, i desiderata: liquidare il Sé Corpo come Assenza,
divenirlo materia ovvero spirito della terra, Grande Madre di un ritorno che si dilata verso il futuro
percorrendo la Ŗvia piccolaŗ della Santa Teresa francese e la via grande della Santa Teresa
spagnola, entrambe diversamente eroine, Modelle di Santità, Atlete del Cuore, Madonne del
Carmelo che da sempre rincorre la costruzione di un Sé Donna-Verbo (specialmente nella vasta
dottissima scrittura della carmelitana fiorentina Santa Maria Maddalena de' Pazzi). Co(s)micità del
gap maddalenico l'autodefinirsi Amante dell'Amore di Cristo; Simone Weil citata dalla Fusco:
ŖSapere che come essere pensante e finito io sono Iddio Crocifissoŗ. La Ragazza Cristica, morendo
al mondo (e che altro resta da fare se non morire ad un mondo, ad una società, che nega alle donne
l'appropriazione del proprio Sé tuttora?!), diventa Sé tramite l'identificazione con il Verbo, ovvero
tramite la Scrittura: e qui affiora il lato meno urlante e più radicale della parodia: il (dis)Sacrato
Poema delle donne ha da affermarsi come Auctoritas se vuole affermare un'altra immagine sociale
dell'esser femmina. Ma finalmente nella scrittura di Fusco è deceduta la dura necessità storica di
ionizzare (forza e limite della retorica parodica che ha dovuto assumersi la scrittura delle donne fin
qui, fino ad ora per ragioni eminentemente storico-sociali) sui concetti patriarchisti di Bellezza e
Verità (pilastri del Canone): Florinda può finalmente scrivere Ŕ far dire a Thérèse - : Ŗpadre perché
non mi hai abbandonato?ŗ
La formula orante come esclamazione e invocazione, lo Ŗstrillo d'angeloŗ della Rosselli, ci
accomuna tutte: scaturisce dalla voce di un corpo collettivo che insisto a chiamare Poema perché ha
avuto l'ardire eroico di rivoltarsi all'angelismo senile del canone.
In Thérèse l'eroina epica (l'attante) si confonde con l'autrice, ovvero con colei a cui viene attribuita
dall'autrice reale l'autorialità, l'auctoritas di fonte: l'autrice reale, l'autrice fittizia e l'attante
collaborano alla messa in opera del poema, il cui vero Autore è dunque un Noi, quello che ho fin
qui chiamato il Sé collettivo, transpersonale: abolita la sottomissione gerarchica del Tu femminile
ad un Io autoriale onnipotente, il conflitto con l'idea di Auctoritas si risolve nella flussuosità
ipertestuale che insisto, forse ormai solo per comodità, a chiamare poema. Diciamo insomma che la
ricerca del Sé, vera giustificazione del poema di fondazione, si articolava nella forma parodicointerrogativa rispetto all'Auctoritas nelle scritture di Vicinelli-Rosselli-Lo Russo, mentre in Fusco,
data per acquisita l'entità autoriale collettiva Ragazza Cristica, il tono può cominciare a farsi
assertivo, tanto da sfociare addirittura in un inno weiliano della Ragazza Cristica: L'Inno di Thérèse,
un peana della scrittura femminile contemporanea, un inno generazionale alla rigenerazione del
canone, senza schermi ironici, senza paura, con pàthos massimalista, di dire un Sì quasi
zarathustriano per assertività: Ŗgeneriamo un Padre nuovoŗ, Ŗuna creatura che generi un creatoreŗ,
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Ŗla lingua che pronunci il Verboŗ, Ŗla Sposa della terraŗ, il ŖCantico della nuova Sposaŗ,
controcanto solenne del mio parodico melologo Causa di beatificazione, non meno avvinto al
solenne linguaggio mistico ma filtrandolo attraverso una non coincidenza fra l'Io e il Tu, fra
l'Autrice e la Santa. Nella reiterata pratica della scrittura esperita come liquidità mistico-cosmica del
grande corpo della generatrice, Mater, Filia, Sponsa, ovvero della generatrice come creatura e
creatrice al pari del Padre (ché tale è l'icona della Ragazza Cristica) ha preso finalmente Corpus
una genealogia di poetesse, anzi di autrici oramai alla ricerca solo di un nome identificativo, ché
poetessa è termine avvertito come obsoleto, poeta al femminile come veterofemminista, e poetrice Ŕ
come scherzando dico da qualche anno Ŕ decisamente non accreditabile. Ma del resto se nemmeno
il poema è più poema anche la poetessa può non essere più poetessa. Siamo di fronte ad una nuova
testualità e dunque ad una nuova autorialità, esito di una innovativa genealogia poematica
femminile.
Il classico espediente letterario del manoscritto ritrovato allude alla serietà filologica con cui
l'Autrice ipertestuale dà corposità e concretezza figurativa al concetto fondamentale della
collettività del Sé poematico femminile in continuità con la tradizione delle scrittrici mistiche. Ma
forse definitivamente di un Sé transgender dell'autorialità: non è assolutamente detto che questa
genealogia infatti non includa autori maschi perché, sia chiaro, quando parlo di poesia femminile
intendo dire che esistono delle tematiche e delle formule stilistiche e di genere che hanno
interessato alcune autrici rendendo possibile un discorso critico che coinvolga più soggetti in un
medesimo percorso esperienziale definibile poema. Anzi, la nuova frontiera autoriale è l'anonimia
(che non è l'anonimato...): l'ipertesto, poematico o no, da tempo la sperimenta. Il nobile espediente
del casuale e falso reperimento di un manoscritto si ribalta in Thérèse Ŕ e con questo torna a farsi
sentire la forza della retorica parodica Ŕ nel reale dato di fatto esperienziale del reperimento, casuale
ma vero di un manoscritto che forse è di una donna, in quanto che l'autrice del diario si nomina
Thèrèse: la liberazione del Sé unitario coscienziale passando attraverso la forma-diario (già esperita
dalla Rosselli in varie modalità), e per di più diario mistico (il diario è la forma preferita dalle
autrici mistiche), passando quindi attraverso una tradizione cristiana gnosticamente e
multiculturalmente rigenerata, diventa apocrifa, anonima, transgender e sovverte il macrofenomeno
dell'angelicazione del Tu oggetto dell'Io Autore soggetto: l'auctor dell'ipertesto non è né maschio
né femmina. Si realizza il sogno della Ragazza Cristica/Anne Sexton che nella poesia (ipertestuale
ante litteram in quanto frammento di un suo copione teatrale oltre che parte della raccolta Live or
Die con cui l'autrice vinse il Pulitzer nel 1969) Frequentando gli angeli asserisce, in clausola, Ŗnon
sono più una donna/ di quanto Cristo fu un uomoŗ (il testo è del '63!).
Thérèse, nome e appellativo, operosa opera a più mani di una suororità arcaica e contemporanea,
piccola e grande, bambina ragazza e donna, né angelo né madonna, come gridavano le femministe
in piazza negli Anni Settanta, Thérèse opera multimediale, multicentrica multi-, è un approdo
letterario certo e un incoraggiante inizio, un'apertura felice.
Rosaria Lo Russo
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197
Bibliografia di riferimento di Rosaria Lo Russo:
Sequenza orante implorazione derelizione derelizione implorazione, Firenze, Gazebo, 1995.
Comèdia, Milano, Bompiani, 1998 (ristampa anche Sequenza orante col titolo così semplificato).
Lo Dittatore Amore. Melologhi, Milano, Effigie, 2004 (contenente il testo e la performance vocale in cd
audio Musa a me stessa).
Comèdia & Comedìa (anònimo florentino), in AA.VV., Dante en América Latina,. Actas primer congreso
internacional sobre Dante Alighieri en Latinoamérica. Salta 4-8 de Octubre de 2004., al cuidado de Nicola
Bottiglieri e Teresa Colque, 2 voll., Edizioni dell'Università degli Studi di Cassino, 2007, pp. 1023-1044,
ristampato, in traduzione italiana, Comèdia & Comedìa (anonimo fiorentino), in AA. VV., La scoperta della
poesia, a cura di Massimo Rizzante e Carla Gubert, Pesaro, Metauro, 2008, pp. 61-92.
Acque paterne. Sylvia Plath Full Fathom Five, in "L'Area di Broca. Semestrale di letteratura e conoscenza",
XXII, 60, luglio-dicembre 1994.
Figlia di solo padre, in "Semicerchio. Rivista di poesia comparata", XI, 1/2, 1994.
Per Amelia Rosselli, a due anni dalla morte, invitandola a d esistere, in "Via Dogana. Rivista di pratica
politica", 42, febbraio 1999.
I Santi Padri e la Figlia dal cuore devastato, in AA.VV., La furia dei venti contrari. Variazioni Amelia
Rosselli, a c. di Andrea Cortellessa, libro + cd + dvd (cd e dvd a c. di Rosaria Lo Russo), Firenze, Le Lettere,
2007 .
Il canto della “Libellula”, in AA.VV., ŖScrivere è chiedersi come è fatto il mondoŗ. Per Amelia Rosselli, Atti
del Convegno Università della Calabria 13 dicembre 2006, a cura di Caterina Verbaro, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2008.
L‟attante di Vicinelli-Rosselli è un cavaliere antico, in AA. VV., La repubblica dei poeti. Gli anni del mulino
di Bazzano, a cura di Daniela Rossi e Enzo Minarelli, Udine, Campanotto, 2010.
Altri riferimenti bibliografici:
Roland Barthes, Il piacere del testo. Contro le indifferenze della scienza e il puritanesimo dell‟analisi
ideologica, Torino, Einaudi, 1975 (titolo dellředizione originale Le plaisir du texte, Editions de Seuil, Paris,
1973).
Julia Kristeva, Materia e senso. Pratiche significanti e teoria del linguaggio, Torino, Einaudi, 1980.
Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Bari, Laterza, 1983; 2003
(titolo dellředizione originale Preface to Plato, Harvard University Press, Cambridge, Massachussets, 1963).
A.A.V.V., Scrittrici mistiche italiane, a cura di Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi, Genova, Marietti, 1988.
Corrado Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Bologna, Il Mulino, 1992.
Walter Vandereycken Ŕ Ron Van Deth, Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche. Il rifiuto del cibo
nella storia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1995 (titolo originale From Fasting Saints to Anorexic Girls,
1994).
Anne Sexton, Poesie d‟amore, a c. di Rosaria Lo Russo, Firenze, Le Lettere, 1996.
Amelia Rosselli, La libellula, in Le poesie, Milano, Garzanti, 1997.
Anne Sexton, L‟estrosa abbondanza, a c. di R. Lo Russo, A. Satta Centanin, E. Zuccato, Milano, Crocetti,
1997.
Gabriele Frasca, La galassia metrica. Per un‟ ulteriore scienza nuova, in ŖModerna. Semestrale di teoria e
critica della letteratura, I, 2. 1999.
Gabriele Frasca, Le forme fluide, in ŖModerna. Semestrale di teoria e critica della letteratura, III, 2. 2001.
Anne Sexton, Poesie su Dio, a cura di R. Lo Russo, Firenze, Le Lettere, 2003 (si veda in particolare la
postfazione La ragazza cristica).
Florinda Fusco, Amelia Rosselli: la propagazione bloccata, in AA.VV., ŖTrasparenze. Supplemento non
periodico a ŖQuaderni di poesiaŗ, Genova, San Marco dei Giustiniani, 17-19, 2003.
Patrizia Vicinelli, Non sempre ricordano. Poesia prosa performance, a c. di Cecilia Bello Minciacchi, con un
saggio di Niva Lorenzini e con un'antologia multimediale a c. di Daniela Rossi, Firenze, le Lettere, 2009
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198
Julia Kristeva, Teresa, mon amour, Roma, Donzelli, 2009
Manifesto politico-letterario Fragili Guerriere di Daniela Rossi e Rosaria Lo Russo, reperibile in vari siti
web.
Florinda Fusco, Tre opere. La signora con l'ermellino, Il libro delle madonne scure, Linee, Roma, Oèdipus,
2009.
Florinda Fusco, Thérèse, Roma, Edizioni Polimata, 2010.
198
199
La nascita del canone femminile
Esiste un canone poetico alternativo a quello che Amelia Rosselli attribuiva ironicamente, nel
poemetto la Libellula del ř58, ai ŖSanti Padriŗ della tradizione letteraria italiana? Esiste cioè un
canone unico e maschile nella nostra letteratura o è lecito parlare dellřesistenza di un canone altro?
Ovvero di un canone femminile nato e sviluppatosi nella scrittura delle donne?
Rosaria Lo Russo con grande coraggio discute, nel saggio uscito in questa sede, una questione
lasciata ai margini dal dibattito intellettuale italiano.
Eř doveroso parlare di coraggio, perché questo della Lo Russo è il primo saggio italiano che
affronta tale discorso con grande risolutezza, addentrandosi pienamente in una questione oltre che
complessa, scomoda: scomoda perché tacitamente mette in discussione lřimpostazione e le scelte
autoriali delle storie delle letterature italiane dei nostri Ŗsanti padri criticiŗ, e perché un simile
discorso, fatto da una donna, potrebbe essere facilmente e banalmente giudicato come un atto di un
femminismo retrò o come una rivendicazione di categoria o, ancor peggio, personale. E cosìř,
tranne piccoli accenni trovati qua e là, la questione è generalmente taciuta. Colpisce, dunque, il
tono sicuro e assertivo della Lo Russo, il tono di una voce pronta a dire tutto ciò che pensa, a
mettere per iscritto ciò su cui ha meditato evidentemente per anni, e che non teme alcuna risposta
critica perché fortemente consapevole di ciò che scrive.
Per affrontare la questione del canone femminile vorrei partire da unřaffermazione innegabile,
ovvero che negli ultimi sessantřanni è proliferata in Italia una scrittura poetica femminile di
notevole interesse e di grande spessore.
Parlare di poesia femminile non significa ghettizzarla, come qualcuno teme, significa al contrario
riconoscerle ciò che le è proprio, sia dal punto di vista culturale che biologico, significa poterla
leggere con lenti nuove e non con le lenti consunte consegnateci dalla tradizione critica italiana e
modellate unicamente sulla letteratura maschile. La scrittura poetica femminile non può più temere
di essere ghettizzata, dopo il suo debordante irrompere nella scena letteraria di questi anni. La
poesia femminile ormai mostra di avere una grande consapevolezza di sé ed è arrivato il momento
che anche la critica affronti la questione con forza e con chiarezza.
Se in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, si è forse ecceduto negli studi di gender, di contro, nel
nostro paese ve ne sono toppo pochi, come ha giustamente sottolineato Paolo Giovannetti in una
discussione milanese avvenuta in margine a letture poetiche del settembre passato. E tutto ciò è
dimostrato dal fatto che in Italia, anche istituzionalmente, non esistano cattedre di genere . Oserei
parlare di unř assenza del discorso critico di gender, specialmente se il settore preso in esame è
quello letterario.
La tesi portata avanti dalla Lo Russo è che a partire dalla Libellula del ř58 di Amelia Rosselli,
erompe con forza nella letteratura italiana un canone femminile, che si distanzia per le sue
specificità da quello della tradizione letteraria. Lo stesso canone si riafferma con la poesia della
Vicinelli e più tardi con quello della Lo Russo stessa, e si definisce sempre più nella poesia
femminile degli ultimi anni.
In particolare per la Lo Russo tale canone si articola una scrittura dominata da unřIo Esperienziale,
ovvero un io femminile che fa piena esperienza di sé sino a divenire un Sé trans personale
(attingendo ad una definizione delle poetesse americane della metà del secolo scorso), ovvero un Sé
che comprende lřesperienza di ogni singola autrice, ma al contempo la trascende, arrivando ad
affermarsi come un Sé collettivo femminile.
Questo corpo collettivo femminile sceglie la forma che gli è più congeniale per esprimere la propria
esperienza biologica e culturale, ovvero una nuova forma poematica con uno statuto orale-vocale.
E così in una scrittura cantata sgorga un epos che racconta la storia e la contemporaneità dal loro
punto di vista, che consegna alla letteratura un nuovo sguardo sulle cose.
E in questo senso la Lo Russo pone in stretta relazione la Libellula rosselliana, con i poemetti della
Vicinelli, ovvero Non sempre ricordano e I fondamenti dell‟essere della Vicinelli, Comedia e Lo
Dittatore Amore della Lo Russo stessa, e infine il mio poemetto uscito recentemente, Thérèse. Ma
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la sua analisi, sinora concentrata in primo piano su tali lavori poetici, ambisce chiaramente ad un
proseguimento di studi critici su altre opere poetiche femminili contemporanee.
Il Sé collettivo femminile che la Lo Russo scorge in queste opere, da più di cinquantřanni, come lei
stessa sottolinea, emette un potente e ardito grido, che sovverte e innova la tradizione letteraria e
culturale italiana, grido che sia la critica accademica che militante fa finta di non sentire.
Allřinterno di ogni opera vi sono, nonostante tratti comuni fondamentali, delle marcate differenze e
una segnata indipendenza. In particolare ci terrei a sottolineare il peculiare percorso della Vicinelli
che giunge nei Fondamenti dell‟ essere, a mio avviso il suo capolavoro, ad un ulteriore passaggio
da un Sé collettivo ad una completa desoggettivazione del racconto: il racconto non ha più un Sé,
ma ha un mondo che si racconta da solo. Lřattenzione al quotidiano e alla cruda realtà sociale di
Non sempre ricordano, qui si estinguono a favore di una tensione cosmologica e di una totale e
liberatoria consegna al suono come fondamento cosmico. Lřampiezza cosmologica con personaggi
mitologici, allegorico-cristiani e apocalittici rimanda, inoltre, fortemente agli scritti di una delle più
grandi mistiche europee Ildegarda di Bingen. I cerchi, le sfere, le colombe, le nuvole in movimento,
le ruote, la luce in alternanza alle tenebre,le volte stellate, le stelle raggianti, le geometrie celesti, le
distanze perfette, le fiamme, gli angeli, gli specchi e gli abissi fanno parte di una visionarietà che si
fa tuttřuno col suono e che è comune ad entrambe. Scrive Ildegarda di Bingen: «Allřinterno degli
spazi aerei del mezzogiorno, ecco apparire una ruota […] nella parte superiore appariva un cerchio
di fuoco chiaro che dominava un cerchio di fuoco nero. […]. Al centro della sfera dřaria sottile si
distingueva unřaltra sfera, la cui circonferenza era in eguale distanza dallřaria densa, bianca e
luminosa […].La figura dellřuomo occupava il centro di questa ruota gigante. Il cranio era in alto, e
i piedi toccavano la sfera dellřaria densa, bianca e luminosa». (da Il libro delle opere divine di
Ildegarda di Bingen).
Thérèse riprende il passaggio compiuto dalla Vicinelli da un Sè femminile collettivo ad una
desoggettivazione in senso cosmologico, ma proprio tale passaggio, nella Vicinelli implicito e
taciuto, qui è assunto a nodo tematico fondamentale.
Il canone femminile che la Lo Russo coglie e che non concerne lřoggetto del racconto, ma i modi e
la lingua di questo, non nasce dal nulla, come lei stessa intuisce, ma ha una sua preistoria: i suoi
fondamenti sono forgiati dalla scrittura mistica femminile sin dal Medioevo.
Le vecchie auctoritates maschili sono distrutte parodicamente dalla Rosselli e dalla Lo Russo e
sono soppiantate da nuove auctoritates che appartengono, appunto, al canone mistico femminile.
Non è un caso che vi siano testi di Amelia Rosselli o della stessa Rosaria Lo Russo abbiano come
ipotesti due grandi mistiche, rispettivamente Maria Maddalena deř Pazzi e Angela da Foligno. Né è
un caso che il mio poemetto Thérèse prenda il nome da due grandi mistiche Teresa dřAvila e
Thérèse de Liseux, due volti in un certo senso opposti, che si fanno portavoce di unřesperienza
mistica femiminile plurivocale e secolare, e molto articolata e differenziata al suo interno. E i
rimandi prima fatti dei Fondamenti dell‟essere agli scritti di Ildegarda di Bingen hanno forse in
questo senso un significato.
Eř nella letteratura mistica femminile che nasce la parola femminile. Ed è sorprendente come
questo nodo critico nel nostro paese sia stato ignorato, così come sono state ignorate le
meravigliose pagine di tante mistiche che hanno scritto per secoli chiuse nelle loro stanze, nelle loro
celle monastiche o in piccole comunità terziarie.
Il fatto che la parola femminile abbia origine nella mistica ha delle ragioni storico-sociali solide. Eř
infatti la religione, e in particolare, il loro rapporto diretto con Dio, che sia in epoca medievale che
moderna riesce a conferire alla donna quellřautorità e insieme quellřaudacia, negate loro dal tessuto
sociale in cui vive, per potersi esprimere. Esprimersi significa non solo e non semplicemente
riuscire a parlare autorevolmente agli altri o dare vita a documenti scritti, ma comporta finalmente
lřimporsi, nel tessuto sociale e culturale, di un nuovo punto di vista, che è un punto di vista
eccezionalmente trasgressivo rispetto al sapere dominante.
Mistica femminile è sinonimo di trasgressione sociale e insieme letteraria. Allo statuto sociale della
donna costretta alla marginalità e al silenzio, le mistiche oppongono un modello di figura
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femminile protagonista dello spazio sociale in cui vivono e padrona della propria parola. Per la
prima volta nella storia della donna, le mistiche hanno la forza e il coraggio di rompere lo spazio del
silenzio: supportate e incoraggiate dallřidea di un mandato divino che permette loro di infrangere le
regole imposte dagli uomini, esse riescono ad esprimere le proprie idee religiose, filosofiche e
sociali, a raccontare la propria esperienza, a raccontare la propria realtà, la propria esperienza,
dando vita ai primi documenti di scrittura femminile che appaiono nella storia europea. La scrittura
delle religiose costituisce un atto di autonomia e dřindipendenza ostinata da parte della donna, che
spezza i canoni tradizionali sia del sapere che della letteratura maschile.
Ed è al loro urlo ostinato e sconvolgente che la poesia femminile contemporanea si riallaccia con
forza: è lì che trova le sue radici, i suoi fondamenti.
Soffermiamoci adesso su alcuni di questi testi di mistica femminile che formano insieme a tanti altri
un corpus letterario secolarmente accantonato e che costituisce la culla della parola femminile: è qui
che la donna inizia a guardare consapevolmente se stessa, inizia a raccontarsi, a gridarsi.
Scrive Maria Maddalena deřPazzi: «Dico così che prima nel piede sinistro il sangue annichilava e
lřanima acquistava la cognizione di sé. Nel piè desto il sangue purificava e lřanima si fortificava.
Nella mano sinistra, il sangue illuminava, e lřanima acquistava la cognizion di Dio. Nella man
destra il sangue illustrava e lřanima si edificava nella carità. El costato nutriva e lřanima si
transformava nel sangue, tanto che non intendeva poi altro che sangue, non vedeva altro che
Sangue, non gustava altro che sangue, non gustava altro che sangue, non sentiva altro che sangue,
non pensava altro che di sangue, non parlava e non poteva pensare se non di sangue. E tutto ciò che
operava la sommergeva e profondava in esso sangue […]» (dai Colloqui di Maria Maddalena de
ŘPazzi). Ciò che colpisce è la forte corporeità dellřesperienza che si racconta, lř incisiva ritmicità del
discorso che diviene un vero e proprio canto e la violenza della parola come dellřesperienza.
A tal proposito Amelia Rosselli, che attinge in più parti, al repertorio di Maddalena deřPazzi ha
affermato in unřintervista del Ř91:«la donna con la sua fisiologicità corporale […]ha qualcosa non di
diverso da scrivere, ma di più fisiologico da distinguere anche sul piano contenutistico».
Ma la violenza e la corporeità non sono tratti che appartengono a pieno anche alla poesia di Patrizia
Vicinelli e di Rosaria Lo Russo? Maria Maddalena deřPazzi, inoltre, usava con naturalezza una
forma poematica orale (le sue consorelle trascrivevano ciò che lei urlava) con un uso poetico della
lingua e dei ritmi, scelta che accomuna la grande mistica cinquecentesca ad opere poetiche
femminili contemporanee.
Si legga ancora da Angela da Foligno, la cui scrittura aveva già folgorato Battaille:« talora lřira
cresce talmente che a malapena mi posso astenere dal farmi a pezzi; e mi sono procurata
tumefazioni al capo e altrove. [….] Allora urlo verso Dio, e ad alta voce gli dico più e più volte
senza pausa-figlio mio, figlio mio, non lasciarmi, figlio mio-[….]Sono sprofondata in questa
orribilissima tenebra[…]. E allora urlo, chiamo la morte. […] Gridavo di voler morire. E tutte le
mie giunture si disgiungevano. […]Fu allora che mi chiamò e mi disse che dovessi mettere la mia
bocca nella piaga del suo fianco. E mi sembrava di scorgere e di bere il suo sangue [….]E pregai
Dio che mi facesse spargere tutto il mio sangue[…]mi spogliai di tutti i miei vestiti e mi offrii
totalmente a lui»
(da Angela da Foglio, Il Libro dell‟esperienza). Anche qui siamo sconcertati dal suo urlo di tenebra,
dalla fisicità e insieme dalla violenza dellřesperienza e della scrittura che si fanno un tuttřuno.
Credo che sia innegabile la potenza letteraria di queste pagine. Ed accanto a queste ve ne sono in
Italia molte altre dimenticate come, per citare solo qualche nome, Domenica del Paradiso, Caterina
da Genova, Veronica Giuliani o Caterina Ricci (lřunica mistica studiata in Italia è Caterina da
Siena), che insieme ad altre mistiche europee formano un corpus letterario esorbitante. Come
possiamo averle negate alla nostra tradizione culturale e letteraria?Perché ce ne siamo
espropriati?Occorrerebbe guardare con sguardo rinnovato alle impostazioni critiche predefinite e
aprire le nostre storie letterarie a questo capitolo sorprendente della letteratura italiana ed europea.
Rosaria Lo Russo, con forte consapevolezza letteraria, attinge per la sua Sequenza orante in
Comedia, ad Angela da Foligno, una delle iniziatrici della lingua poetica femminile. E unendo la
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sua voce a quella di Angela, sovrapponendo le due voci, non fa che ripercorrere la storia della
parola femminile. Lavorando in modo dissacrante sulla lingua dantesca, La Lorusso permette alla
propria lingua di nascere: una lingua senza padri, una lingua che può riconoscere solo delle madri.
La sua Comedia, che Pagliarani ha definito giustamente Ŗgrandioso concerto vocaleŗ, è espressione
imponente di una parola femminile corale. La sua voce diventa il suo corpo, il suo corpo diviene la
sua voce. E il corpo canta. Ma il corpo di Comedia è i corpi di tutte le donne e canta con le voci di
tutte le donne. E a noi arriva questo dono, voci angeliche e voci terrene che ci attraversano, ci
accerchiano. «Rosi, rosicchia/canta e canticchia»: Rosaria sa che non può raccontare lřidentità
femminile se non con il canto, estremizzando in senso musicale ciò che Amelia Rosselli aveva fatto
con la Libellula.
La poematicità epica nella Lo Russo si consegna completamente allřaspetto fonico: è il suono
stesso che si fa epico. Canto ed epos divengono sinonimi. La scrittura deve impossessarsi
pienamente dellřidentità femminile per potersi fare portavoce di tutte le identità femminili. E in
questo processo non può che partire dal proprio corpo. Allřorigine del canto vi è la formazione del
corpo: «E fui fatta femmina,\ mollemente uscita viva dal guaio della nascita». Ed è il corpo stesso
che si fa Parola, invertendo il percorso dellřIncarnazione del Verbo.
«Ma tutta nuda\ rivestita di Cristo\ che godimento essere sbranata»: la donna-Cristo deve donare
tutto il suo sangue per permettere alla parola di nascere. Eř solo dalla sofferenza vissuta col proprio
corpo, che brandelli di carne si fanno suoni, parole.
Così come Angela da Foligno aveva donato il suo corpo a Cristo, chiedendogli di martirizzarlo,
Rosaria Lo Russo consegna il suo corpo alla parola, chiedendole di farlo proprio, smembrandolo
con violenza:«tu schizza e strappa e straccia e strazia me lřemoroissa io cosa biondina e tutta monda
tutta bocca io tutta cavernosa carnosa io spasimo convulsa io sponsa spossata spossessata […]
annientami sperperami scutuiami le ossa i denti le membra mie tutte inermi inerti!». Ed è proprio
nel dolore del proprio corpo che risuonano i canti stonati della folla femminile: «tutte le stonature
delle abbandonate». Ritornando alla questione centrale del canone femminile, come nel caso di
Rosaria Lo Russo e Angela da Foligno, è arrivato il momento dřintraprendere un percorso critico
incrociato che va dalla poesia femminile contemporanea sino alle origini della parola letteraria
femminile e al contempo dalle origini della parola letteraria femminile sino alla scrittura di oggi.
E solo in questo modo, ovvero scavando nelle radici e nei fondamenti della scrittura, riusciremo
probabilmente a capire a pieno la poesia femminile contemporanea: voci possenti come quella di
Amelia Rosselli e di Patrizia Vicinelli, così come la grande forza poetica di Rosaria Lo Russo, che
ha segnato incisivamente la poesia italiana contemporanea, e insieme la strenua ricerca poetica
femminile che in questi ultimi anni sta sgorgando in Italia con notevoli risultati.
Florinda Fusco
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ALTRI SCENARI
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Ascoltando Le fleuve di Yves Bonnefoy
Le fleuve
Mais non, toujours
Dřun déploiement de lřaile de lřimpossible
Tu třéveilles, avec un cri,
Du lieu, qui nřest quřun rêve. Ta voix, soudain,
Est rauque comme un torrent. Tout le sens, rassemblé,
Y tombe, avec un bruit
De sommeil jeté sur la pierre.
Et tu te lèves une éternelle fois
Danse cet été qui třobsède.
À nouveau ce bruit dřun ailleurs, proche, lointain;
Tu vas à ce volet qui vibre… Dehors, nul vent
Le choses de la nuit sont immobiles
Comme une avancée dřeau dans la lumière.
Regarde,
Lřarbre, le parapet de la terrasse,
Lřaire, qui semble peinte sur le vide,
Les masses du safre clair dans le ravin
À peine frémissent-ils, reflet peut-être
Dřautres arbres et dřautres pierres sur un fleuve.
Regarde ! De tout tes yeux regarde ! Rien dřici,
Que ce soit cette combe, cette lueur
Au faîte dans lřorage, ou le pain, le vin,
Nřa plus cet à jamais de silencieuse
Respiration nocturne qui mariait
Dans lřantique sommeil
Les bêtes et les choses anuitées
À lřinfini sous les manteau dřétoiles.
Regarde
La main qui prend le sein,
Et reconnaît la forme, en fait saillir
La douce aridité, la main sřélève,
Médite son écart, son ignorance,
Et brûle retirée dans le cri désert.
Le ciel brille pourtant des mêmes signes,
Pourquoi le sens
A-t-il coagulé au flanc de lřOurse,
Blessure inguérissable qui divise
Dans le fleuve de tout à travers tout
De son caillot, comme un chiffre de mort,
Lřafflux étincelant des vies obscures ?
Tu regardes couler le fleuve terrestre,
En amont, an aval la même nuit
Malgré tous ces reflets qui réunissent
Vainement les étoiles aux fruits mortels.
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Et tu sais mieux, déjà, que tu rêvais
Quřun barque, chargée de terre noire
Sřécartait dřune rive. Le nautonier
Pesait de tout son corps contre la perche
Qui avait pris appui, tu ignorais
Où, dans les boues sans nom du fond du fleuve.
Ô terre, terre,
Pourquoi la perfection du fruit, lorsque le sens
Comme une barque à peine pressentie
Se dérobe de la couleur et de la forme,
Et dřoù ce souvenir qui serre le cœur
De la barque dřun autre été aux ras des herbes ?
Dřoù, oui, tant dřévidence à travers tant
Dřénigme, et tant de certitude encore, et même
Tant de joie, préservée ? Et pourquoi lřimage
Qui nřest pas lřapparence, qui nřest pas
Même le rêve trouble, insiste-t-elle
En dépit du déni de lřêtre ? Jours profonds,
Un dieu jeune passait à gué le fleuve,
Le berger sřéloignait dans la poussière,
Des enfants jouaient haut dans le feuillage,
Rires, batailles, dans la paix, les bruits du soir,
Et lřesprit avait là son souffle, égal…
Aujourdřhui le passeur
Nřa dřautre rive que bruyante, noire.
Et Boris de Schloezer, quand il est mort
Entendant sur lřappontement une musique
Dont ses proches ne savaient rien (était-elle, déjà,
La flûte de la délivrance révélée
Ou un ultime bien de la terre perdue,
«Œuvre» transfigurée ?) Ŕ derrière soi
Nřa laissé que ces eaux brûlées dřénigme.
Ô terre,
Etoiles plus violentes nřont jamais
Scellé lřorée du ciel de feux plus fixes,
Appel plus dévorant de berger dans lřarbre
Nřa jamais ravagé été plus obscur
………………………………………….
………………………………………….
Terre,
Quřavait-il aperçu, que comprenait-il,
Quřaccepta-t-il ?
Il écouta, longtemps,
Puis il se redressa, le feu
De cette œuvre qui atteignait,
Qui sait, à une cime
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De déliements, de retrouvailles, de joie
Illumina son visage.
Bruit, clos,
De la perche qui heurte le flot boueux,
Nuit
De la chaîne qui glisse au fond du fleuve.
Ailleurs,
Là où jřignorais tout, où jřécrivais,
Un chien peut-être empoisonné griffait
Lřamère terre nocturne.
Le fleuve è il primo poemetto di Dans le leurre du seuil (1975) di Yves Bonnefoy, uno dei libri di
poesia più intensi del secondo Novecento, il che mi dà confidenza a scriverne, se la bellezza è un
incoraggiamento a conviverla. Mi riprometto di coglierne il senso con unřattitudine filosofante,
dandone anche un saggio di traduzione. Prima leggo la poesia in francese, poi nella versione italiana
di Diana Grange Fiori e infine la ritraduco, non perché essa non sia fatta al meglio, ma perché
tradurre in modo proprio è indispensabile per capire una poesia.
Ma no, sempre
Dispiegando lřala dellřimpossibile
Ti svegli, con un grido
Dal luogo, che è soltanto un sogno. La voce, subito,
È roca come un torrente. Il senso, radunato,
Vi cade, con un rumore
Di sonno gettato sulla pietra.
ŖTi svegli.ŗ Prima ancora di poterci pensare quel Ŗtuŗ sono io, e insieme è lřio dellřautore rivolto a
se stesso. Soltanto in un secondo tempo mi domando se non sia la voce di un personaggio che si
rivolge a qualcun altro in carne e ossa. Ma per ora non importa saperlo.
Il risveglio è un passaggio, repentino e brusco, da un mondo a un altro. Mentre il sonno è infatti una
giacenza nella natura animale, e quindi nel piano dei viventi pienamente coerente, il risveglio è
lřingresso fulmineo, scioccante, dellřanimale dormiente nel mondo umano che, mentre non smette
di essere animale, si accorge svegliandosi di essere anche extranaturale, nel senso che la coscienza,
mentre dispiega la sua ala, attinge la sua potenza proprio allřimpossibile di quellřala, cioè al suo
essere, da uomo-uccello, un vivente razionale e animale al contempo.
Ti svegli da un lieu qui n‟est qu‟un rêve, da un mondo fisico reale nel sonno. Che cosa significa
allora il sogno? Sappiamo per certo che anche gli altri animali sognano, e quindi esso può ancora
essere una rielaborazione che la natura fa attraverso noi. Mi immergo infatti in questa poesia come
in una prima esperienza e in una prima lingua, neanche del tutto e solo lessicale, senza nulla voler
ricordare della psicoanalisi e dellřinterpretazione dei sogni di Freud. Prendo cioè sul serio che la
poesia sia una forma diversa di pensiero, o addirittura dal pensiero, non necessariamente sempre
culturale, benché non saprei dire che cosa esattamente sia naturale. E quindi per me il sogno è
soltanto un sogno, e cioè nulla che significa simbolicamente qualcosa del mio inconscio, ma
soltanto un luogo che non esiste più, ma nel quale pure io vivevo, e il tema del quale forse non è
mai davvero esistito.
E quindi quel Ŗtuŗ, quel risvegliato, al quale lřautore si rivolge, se è ancora un autore, e che
comunque non è più soltanto un autore, io lo prendo per me, se la voce si rivolge a me, tanto più in
quanto riconosco che ogni volta che mi sveglio è di fatto un cri, cioè la sovversione di un ordine, e
uno choc, una rivoluzione dellřanimale nellřumano.
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II
Ignorando la mia cultura e storia intellettuale per smemorare in questo poemetto, non intendo infatti
ignorare la mia esperienza di vivente, cioè di un essere che vive il risveglio proprio come dice la
voce che sto ascoltando, e cioè come unřapertura alare dellřimpossibile, in un gesto in cui
lřimpossibile accade e dà a questo uomo-uccello la spinta a vivere. La mia voce è roca quando mi
alzo dal letto e mi gratifica leggere che lo sia come un torrente, come unřeco naturale, e non come
un semplice difetto di nitidezza civile, segno di un fiotto vitale che scroscia dal sonno.
Una voce dentro la quale il senso cade in un torrente vocale, avec un bruit De sommeil jeté sur la
pierre. La mia voce, ancora animale, non riesce ad avere un senso da me elaborato, ma il fatto che
sono sveglio e aprente lřala dellřimpossibile, prima ancora di esserne cosciente, è una pietra, una
cosa dura, nella quale il senso è rassemblé. Con finezza la Grange Fiori traduce Ŗadunatoŗ, il che
comporta una concertazione, quasi la preparazione di un assalto deciso contro di me, in conformità
a un linguaggio lontanamente militare (leurre, avancée) non assente dal poemetto. Ma ho preferito
Ŗradunatoŗ, essendo per Bonnefoy la vita una radunanza che non consegue a un ordine. Il senso
cade dentro di me nel flusso animale che si ridesta, per fortuna senza rompermi, preso comřè nelle
mie acque scroscianti di vita, più potente dellřimpossibile dellřala.
E tu ti levi unřeternale volta
In questřestate che třassilla.
Di nuovo questo rumore dřun altrove, da presso, da lungi:
Vai a questa imposta che vibra… Di fuori, senza vento,
Le cose della notte sono immobili
Come unřavanzata dřacqua nella luce.
Guarda,
Lřalbero, il parapetto della terrazza,
Lřaria, che sembra dipinta sul vuoto,
Le masse di zaffera chiara nel vallone,
Appena fremono, riflessi forse
Dřaltri alberi e dřaltre pietre su un fiume.
ŖE tu te lèves une éternelle foisŗ. Eternelle vale Ŗeternaŗ ma in francese la voce non ha un suono
secco, semmai infinitivo, e quindi la tradurrei Ŗeternaleŗ, con una parola più fluida. E infatti mi levo
non già Ŗper lřennesima voltaŗ né Ŗuna volta per sempreŗ, bensì, in un paradosso non solo
grammaticale: una tantum eternalmente, nellřistante semper nunc, non già in una dimensione
atemporale.
Finalmente, appena lucido, grazie al rumore di quella pietra che mi ha fatto rendere conto che sono
un uomo, non più un animale dormiente. E in realtà siamo dei centauri, nel sonno e nella veglia, ma
mentre nel sonno, da animali, non sappiamo che vagamente di essere uomini storici e civili, nella
veglia, da uomini, sappiamo di essere animali.
Quella pietra di senso mi ha fatto accorgere che lřistante non è solo lo choc, la rivoluzione
sensoriale, la sovversione del sonno animale, ma che sono nellřora-sempre, sempre per una sola
volta: e per fortuna sono pur sempre un animale, benché cosciente, appartengo a un tutto non fatto
da me. Altrimenti mai avrei còlto quello che Nietzsche chiama, dialogando con il Canto notturno di
Leopardi, il Ŗpiolo dellřattimoŗ, al quale la pecora del pastore è legata: il sempre qui e ora
dellřanimale.
Scopriremo nel corso della poesia che quel Ŗtuŗ si riferisce a un uomo, Boris de Schloezer, per il
quale questo è stato lřultimo risveglio, e quindi Ŗlřultima-prima voltaŗ, grave di unřeternalità
speciale, visto che egli morirà alla fine della poesia. E quel cri acquista un più crudo senso. Ma la
poesia non è un requiem solo per Boris, come accade dal punto di vista narrativo, che non è il più
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profondo, giacché pur sempre cronico, anzi non è proprio un requiem, bensì lřaffacciarsi sulla
soglia insidiosa del senso nel risveglio e nella morte di ciascuno in lui.
Non si tratta allora di immedesimarsi, gesto sentimentale ed empatico, bensì di identificarsi, gesto
tragico, nel senso della serietà radicale del processo, possibile solo poeticamente, e mai solo
liricamente. Liricamente infatti godiamo il contrasto tra la nostra vita reale e la situazione narrata
nella poesia, commuovendoci perché è a noi e di noi che si parla, ma senza che ne subiamo le
conseguenze. Poeticamente invece siamo sempre noi realmente in gioco: Tu sei io.
III
Il senso, prima caduto sulla pietra con un rumore di sonno, cade ora nella veglia, proche, lointain.
Lřimposta, questo battente della finestra (ce volet), vibra ma non cřè vento. Cosa insolita, questa,
che ci mette in guardia sul carattere della finestra, di questa soglia insidiosa. Il titolo del libro dice
infatti: Dans le leurre du seuil e io che, come il passeur, il traghettatore, o, meglio, il traghettante,
di cui si parlerà, passo, traducendo, dal francese allřitaliano al francese, intuisco cosa significa
trovarsi davanti a una finestra che vibra anche se non cřè vento; cosa significa, visto che tutte le
parole del poemetto, in quanto stampate sulla carta, sono immobili come ora le cose. Eppure la
soglia vibra. Leurre della soglia tra i due luoghi, tra le due vite, tra le due lingue, eppure senza
vento, immote. Questa finestra vibrante nellřimmoto è allora unřesca, sì, insidiosa, in quanto ci
porta fuori dalla casa, ma non con lřintenzione di farci del male. Siamo noi che diventiamo
fortunosamente preda, come nel mito di Diana e Atteone, caro a Giordano Bruno, da cacciatori che
pretendiamo di essere. Non è una disfatta ma una ventura e una tentazione vitale, tuttřaltro che un
semplice tranello insidioso, almeno per il momento. Anche se, come si vedrà, nellřordine fattuale
sarà una trappola a tutti gli effetti.
Le cose della notte sono nere e immobili e richiamano invece il contrario: une avancée d‟eau dans
la lumière, unřavanzata dřacqua nella luce. Non siamo nel paesaggismo sensoriale e musicato, alla
Débussy. In un simbolismo capovolto, cioè, nel quale, sia pure, la superficie conti più del
significato alto e nascosto, in quel Ŗmistero in piena luceŗ di cui parla Jankélévitch a suo riguardo.
Dove siamo allora? Come può la notte immobile evocare la luce che avanza? Come la notte fisica
può essere unřalba spirituale per me? Io mi sveglio e il senso è la morte! Sono io che svegliandomi,
e non appena albeggio, già vengo colpito, come da una pietra, dallřavanzata dřacqua nella luce che
è la notte nera e immota.
Nellřossimoro, si invertono i segni del fisico e dello psichico, in una mistica terrestre, e tutto ciò
non è più così drammatico, anzi diventa addirittura una grazia tragica: vedo la buia luce, vedo
lřimmobile vibrazione.
Si arriva così a un passaggio artistico: L‟aire, qui semble peinte sur le vide, ŖLřaria, che sembra
dipinta sul vuotoŗ, il che potrebbe essere una notazione pittorica: impresa di quella maestra degli
artisti che è la natura. Ma si tratta altrettanto di un passaggio filosofico, in quanto la natura si apre
nellřevidenza del suo darsi vuota, cioè non riempita da dèi, increata. E tuttavia dipingente la vita
che lřaria ci dà.
IV
Anche i versi che seguono partecipano di questa pittura notturna, quasi extrasensoriale, non nel
senso che si dia un realismo metafisico, bensì, credo, in quello che è questa pittura dřaria sul vuoto
che la parola poetica ha il potere di consentire, nella sua ek-stasis, nel suo essere fuori di sé, facoltà
sua propria, più raramente attinta dai pittori, se non sommi.
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Guarda! Con tutti gli occhi guarda! Nulla di qua,
sia questa valle, sia questo lucore
In cima al temporale, o il pane, il vino,
Non ha quel per sempre di silente
Respirazione notturna che maritava
Nellřantico sonno
Le bestie e le cose annottate
Allřinfinito sotto il manto di stelle.
E infatti si tratta di guardare, non del noein rispetto allřeidos, non con lo sguardo intellettivo
puntato sulla forma pura platonica, sullřIdea metafisica invisibile, ma di guardare Ŗcon tutti gli
occhiŗ in unřintuizione ottica sub specie aeternitatis. Non del lucore, del lampo, visto come segno
di Grazia. Il pane e il vino, che vengono nominati, forse alludendo a una incarnazione cristiana e
sacrificale dei beni primi della vita, non sono essi per Bonnefoy a suscitare il momento ispirato,
bensì questa respirazione, di uno pneuma, spiritus, flatus, soffio della notte, che è sponsale,
anticamente maritando le bestie e le cose allřinfinito manto delle stelle.
La natura terrestre e la celeste, in un luogo che non so quale sia (non serve il nome, visto che in Le
fleuve non cřè), ma certo remoto dalle luci e dai rumori della città, nella memoria dellřantica
respirazione della campagna, quando gli animali dei contadini dormienti, ora ritrovati, essendo
anche noi uno di quegli animali, di colpo si svegliano. Siamo infatti in una trance tuttora animale.
E continuando nellřascolto di questa voce:
Guarda,
La mano che prende il seno,
Ne riconosce la forma, ne trasale
La dolce aridità, la mano sřalza,
Medita il suo scarto, lřignoranza.
E brucia ritratta nel grido deserto.
Il cielo brilla intanto degli stessi segni
La mia sensazione, non so quanto fondata, mi porta a vedere non un uomo che tocca il seno di una
donna bensì una donna che tocca il proprio, avendo intuito quella respirazione di bestie e pensando
alle sue mammelle, perché per lei si tratta di respirazione generativa, di parto e nutrimento materno.
Si riconosce donna, madre, parente di quelle bestie e ritorna, con un altro choc, più personale, a
quello scarto tra sé e loro, alla sua ignoranza, al suo impossibile, non si sa se di non avere avuto
figli, di non averli più con sé, di non essere più giovane. Fatto sta che si ritrae scottata (brûle) ripete,
ora volontariamente, il grido del suo risveglio mentre il cielo, prima matrimoniale, ora che annuncia
il deserto della donna, si manifesta nondimeno nello stesso identico modo.
Perché mai il senso
Al fianco dellřOrsa hai coagulato,
Ferita inguaribile che spartisce
Nel fiume di tutto attraverso tutto
Col suo grumo, come una cifra di morte,
Lřafflusso scintillante delle vite buie?
Tu guardi colare il fiume terrestre,
A monte, a valle nella stessa notte
Malgrado questi riflessi che riuniscono
Le stelle invano ai frutti mortali.
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V
Io non so se la voce di questa poesia riconosca già a fondo, nel 1975, la presenza di Leopardi ma
non è così decisivo saperlo. La domanda che pone infatti vibra di un comune bisogno di verità, che
si può dire poeticamente, ma non spiegare con una parafrasi, giacché è invece la poesia a spiegare
(ex-plicare, spianare le pieghe) quello che il mio pensiero complica (complico, cum-plico),
sventagliando essa il suo senso nella dizione e nellřascolto incantatorio spirituale che, pensandoci
io, sia pure in modo intuitivo, avvolgo pur sempre nelle pieghe di un mantello critico. Come se
temessi che la poesia prendesse freddo senza di me o io, piuttosto, senza di lei.
Ed è per assurdo che la interpreto, non per complicarla a me o ad altri, secondo il mio cono
esistenziale, ma per convincermi una volta per tutte che ascoltare un tale poemetto è già una
occasione di conoscenza, di fronte alla quale il commento non è che un modo per sbendare gli
occhi, per dire il da me dicibile in vista di un aldilà indicibile, ma indicibile sulla scala del dicibile,
giacché poeticamente in atto nei versi. Come se ci fosse una scala che allřimprovviso non ha più
pioli, e che ricomincia ad averli più in basso, al punto che io possa scendere a patto che sia disposto
a fidarmi, poggiando sullřinvisibile.
Va da sé che mi si potrebbe chiedere di domandare allřautore stesso a che cosa alludesse, dicendo
ad esempio: ŖPerché mai il senso Al fianco dellřOrsa hai coagulato?ŗ E se il soggetto del verso sia
la ferita, autrice del coagulo, o sia un Ŗtuŗ indefinito. Una tentazione alla quale resisto. In una
scrittura poetica è infatti possibile che siano entrambi i soggetti, e simultaneamente.
Nel fiume del Ŗtutto attraverso tuttoŗ, dove ogni cosa attraversa ed è attraversata, nessuna essendo il
mezzo o lo scopo dellřaltra, il senso, che al risveglio cadeva nella tua voce con un rumore di sonno
gettato sulla pietra, ora è un grumo coagulato (da chi?) a fianco dellřOrsa. Che cosa cřè al fianco
dellřOrsa, cioè di una costellazione tra le più care ai poeti, forse il buio nero e vuoto che cřè tra
stella e stella, Ŗcifra di morteŗ nello Ŗafflusso scintillante delle vite buieŗ?
Ricordiamo lřossimoro della notte luminosa, tipico della lingua mistica, intesa come lingua della
pienezza nellřimmanenza radicale, e che sono ora le vite buie a scintillare, non le stelle bensì le
nostre vite dormienti che respirano. E pensiamo che Ŗtuŗ, ossia che Je, fissando un punto a fianco
dellřOrsa, un solo punto, un grumo di sangue, nel fiume del tutto sciamante (malgrado le nozze tra
le bestie e le stelle, della terra e del cielo) vedo una ferita inguaribile che spartisce le cose. In essa il
sangue non si raggruma, se non per poco, eppure io ci vedo un grumo che spartisce tutto. Forse
perché esso fa coagulare la ferita, che quindi dovrebbe restare aperta per non spartire e disunire la
realtà? Ecco una domanda che è bene resti aperta, perché si risponda con un gesto. Alla domanda:
chi sono allora io? Io che respiro nellřimmensa notte con ogni altro animale? Rispondo fissando
quel fianco: Sono io quel grumo nero o quella ferita che spartisce il fiume scintillante delle vite
buie, colui che perde lřossimoro vitale e mistico della morte-vita, della notte-luce.
Cřè uno sradicamento nel mio guardare, al momento in cui guardo me nel cielo, mi stacco di colpo
quale coscienza lucida dalla trance geniale della natura. Sono un uomo che si sa mortale. Il mio
risveglio è un impossibile che si rivela cruento. Ecco che lřinsidia della soglia si manifesta, aprendo
la finestra e guardando fuori:
E tu ben sai, già, tu che sognavi
Una barca carca di terra nera
Scostarsi da una riva. Il nocchiero
Pesava con tutto il corpo sulla pertica
Puntata non sapeva dove
Nei fanghi senza nome in fondo al fiume.
Vado avanti a guardare, ma già più dentro me, non sapendo ancora il mio nome ma vivendo la mia
ferita come separazione di me dal mondo e, molto peggio, delle cose del cielo e della terra tra loro.
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Mi ricordo il sogno che stavo facendo, e che ora si rivela invece una realtà. Sognavo una barca
carca di terra nera scostarsi da una riva. Lřaggettivo dantesco che ho usato, Ŗcarcaŗ, mi fa scoprire
che la strofa mi richiama il nocchiero di Dante, unřaltra insorgenza della mia memoria culturale, ma
fatta tuttřuno con la nostra immaginazione della morte.
Il nocchiero pesava con tutto il corpo: siamo già nel mondo fisico della gravità, del peso dellřuomo
che punta nel fango la pertica, non sa dove, dřaccordo, ma che importa?, visto che ora quello che
conta è lřesito: lřavviare alla morte. Non la morte vitale, la fecondità matrimoniale notturna, ma la
morte che cade in me, direi rubando un verso dal contesto, Ŗcome per acqua cupa cosa graveŗ
(ancora Dante, Paradiso, III, v. 123), come il senso che, allřinizio del poemetto, cade sulla pietra.
VI
O terra, terra,
Perché la perfezione del frutto, quando il senso
Come una barca appena presentita
Si sottrae al colore e alla forma,
E donde il sovvenire che ti stringe il cuore
Della barca dellřaltra estate a raso dřerba?
Donde, sì, tanta evidenza attraverso
Tanto enigma, e tanta certezza, e così
Tanta gioia, preservata? E perché lřimmagine
Che non è apparenza, che non è
Neanche il sogno torbido, insiste
Benché ci neghi lřessere? Giorni profondi,
Un dio giovane passava a guado il fiume,
Il pastore sřallontanava nella polvere,
Bambini giocavano in alto nel fogliame,
Risa, battaglie nella pace, i brusii della sera,
e lo spirito aveva colà il suo soffio, eguale…
Leopardi si ripresenta, non tanto perché sento nominare lřOrsa delle Ricordanze, il pastore del
Canto notturno, invocare i ŖGiorni profondiŗ, che mi richiamano, più che Ŗgli anni profondiŗ di
Baudelaire, lřetà fiorita (per Charles fiorente il male) del Ŗgarzoncello scherzosoŗ de Il sabato del
villaggio, vedendo bambini giocare; non soltanto per lřinvocazione: ŖO terra, terraŗ ma perché
Bonnefoy in questi versi è Leopardi o, se si preferisce, Leopardi è Bonnefoy. Insomma quando si
attinge lřilluminazione notturna di questo poetare ciascun poeta è lřaltro, compartecipa della vita
dellřaltro, a distanza di decenni e in luoghi remoti, prima che lřaltro esista.
E insorgono gli stessi interrogativi, sia pure rifratti nel proprio sentire e filosofare diverso, ora
inconscio. Leopardi invoca la luna e Bonnefoy la terra. Entrambi domandano, ma a chi si
rivolgono? Nessuno dei due crede esista un dio. Nessuno dei due accetterebbe si parlasse per loro,
in modo sia pure tutto proprio, di spirito religioso. Nessuno dei due pensa che una filosofia possa
darci la verità ultima delle cose.
Entrambi domandano, e non pongono già quesiti, ma invocano. Leopardi si riferisce alla luna, a una
pietra lucente, Bonnefoy alla terra. Leopardi ha un movimento ascensionale, dalla terra verso
lřinfinito, escluso e consentito da Ŗquesta siepeŗ, Bonnefoy vive un moto gravitazionale. A vedere
bene, in questa luce notturna, dentro questa respirazione di bestie, la terra non è realmente invocata,
in una prosopopea, da Bonnefoy, serbando un eros laterale di sorella, mentre in Leopardi è molto
forte la spinta filiale e ribelle verso la madre natura Ŗmadre di partoŗ e Ŗdi voler matrignaŗ. Brutta
cosa il volere, e di più in questa notte, quasi diventando matrigna la volontà di per sé.
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Non cřè la dea madre terra, né l‟alma Venus di Lucrezio, per Bonnefoy… Ma è solo Bonnefoy? È
solo lřautore della poesia che parla? O è questo tu, che sono ormai io, almeno finché dura il filtro,
che chiama la terra a testimone, non come fonte rivelativa, non come depositaria di un segreto questo è il punto - nessuno per il poeta possedendone la chiave nella natura stessa.
Perché allora la perfezione del frutto? La perfezione cioè di una vita che si compie fino a dare il suo
frutto completo, quando il senso, la morte, è come una barca che, Ŗappena presentitaŗ, leggerissima,
si scosta dalla vita, anche se il nocchiero pesa con tutto il corpo sulla pertica, e Se dérobe de la
couleur et de la forme, Ŗsi sottrae al colore e alla formaŗ: scivola nella morte incolore e amorfa?
ŖDonde tanta evidenza attraverso Tanto enigmaŗ. La vita è sempre evidente, di giorno o di notte. Il
significato allora non è: Ŗè evidente che tutto è un enigmaŗ (ŖTutto è arcano fuor che il nostro
dolorŗ, scrive Leopardi nellřUltimo canto di Saffo), non si tratta di un enigma di pensiero annodato
nella natura (che solo un dio potrebbe sciogliere o che resta tragicamente stretto) né di un trionfo
dellřevidenza sullřenigma, infatti è notte di morte.
Anche la morte è sempre evidente. Proprio le due evidenze contrastanti generano un enigma
essendo esse tuttřuno. Io mi sarei aspettato magari, lo confesso, il contrario: ŖDonde tanto enigma /
attraverso tanta evidenzaŗ, ma proprio la mia aspettativa segnala che sarei disposto a cedere le due
evidenze, della vita e della morte, in cambio dello scioglimento dellřenigma, magari in unřaltra vita,
oppure in unřilluminazione che avessi in questa. E Yves Bonnefoy no, proteso comřè a tenersi
saldo e convinto, senza resisterle, alla finitezza, unico modo di attingere lřattitudine poetica la
quale, prima ancora che filosofica o di pensiero, è un bisogno di verità e di dire sì alla vita-morte
radicale.
A Bonnefoy sta a cuore non retrocedere mai dallřavamposto dellřevidenza, affrontando a piè fermo
lřinamabile enigma. Da solo, se necessario, ma solo se necessario. Ciò che egli chiama la
Ŗpresenzaŗ infatti è proprio il convivere lřevidenza, accettandola poeticamente nella vita-morte, con
un altro: quale rara occasione, che ci attesta che senza Boris questa poesia non avrebbe potuto
esserci. Operazione tuttřaltro che immediata, giacché nella vita o nella morte, per sé naturalmente
prese, non cřè nessun enigma, finché una persona spirituale e pensante non è costretta a metterle in
relazione, quando muore un amico.
Lřevidenza è originaria, soltanto dopo giungendo il nostro pensiero enigmatico e spirituale, che è il
pensiero stesso della morte, e perciò anti-poetico. La presenza poetica non mi salva dalla mia morte,
dice quel pensiero, che ne è per me la fine assoluta, il limitare nero, ma può attraversare lřenigma
della morte di un altro? Solo a una condizione: se questo altro, poeticamente (e cioè in verità), sono
io. E sono io se lřamo. Non dimentichiamo che si tratta dellřintuizione di un io-tu: che ho ormai
fissato io quel grumo di fianco allřOrsa, che ho già perso la respirazione concorde della natura e,
pur trovandomici in mezzo, e respirando quasi grazie a essa, ho ormai diviso le cose terrene e le
celesti, e mi sono diviso io stesso.
Svegliandomi, infatti, io sono già preso da vivo nel sogno di quella barca acherontica nella quale
traghetterò. Ecco allora che il pensiero, già nel suo risveglio, è alleato della morte. Il pensiero è
molto più naturale di quanto non si pensi, è addirittura troppo naturale, quasi la natura animale
stessa si trovasse a pensare la morte in noi. La poesia non è allora per Bonnefoy alleata della natura,
anzi è unřimpresa civilizzatrice e illuminata, legata a unřattitudine antropologica di educazione
fraterna allřevidenza, come ne La Ginestra leopardiana.
Si comprende perché per Bonnefoy poesia non sia solo letteratura e arte ma lřattitudine decisiva
verso la vita e la verità. Che questo è, se non lřunico modo per essere poeta, il più potente e
generoso. E questo spiega anche quanto Bonnefoy perseveri nel sostenere la verità civilizzatrice
della poesia, in vista di una società più vigorosa, limpida e fraterna.
Significativo mi sembra allora anche il fatto che il poeta conduca da decenni la sua campagna
contro i mali del pensiero concettuale, proprio lui che così intensamente e intuitivamente pensa, ma
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non mai contro la saldezza di una paideia etica, premessa a priori del poetare inteso come potenza
di civiltà, e ora, in Le fleuve, espressa nellřamore fraterno più duro e meno vile, quello che non si
arrende davanti alla morte dellřamico, anche se sa che egli non vivrà più.
VII
Lřimmagine delle cose non è semplice apparenza, non è illusione, e non è neanche quel sogno
torbido acherontico che ho fatto, visto che sono vivo su questa soglia, quanto insidiosa, ma senza la
quale non esisterebbe poesia. E allora? Allora nei giorni profondi un dio passava a guado il fiume,
un pastore sřallontanava nella polvere, bambini giocavano nel fogliame. Tutto qua? Sì, dèi, pastori,
bambini già erano un tempo, nel passato, nellřelegia, nella pastorale del passato. Allora colui che
separa è già dopo, già nel tempo cronologico, già fuori del transtemporale poetico? La battaglia si fa
cruda. Dobbiamo infatti rispondere di no: egli sogna con la più umane delle nostalgie un eden lirico
in quanto non è cosa facile entrare in carne e ossa nel poetico, che è sempre contemporaneo, sempre
ora.
Egli domanda, invoca, pensa il paradosso, sia pure, vive il contrasto vitale connaturato al mondo,
mondo tuttora aperto, che la mia morte e nessuna morte potrà mai chiudere e recingere. Ma è
separato, sdoppiato, capovolto dal risveglio, di nuovo verso il sonno e il sogno. E non trova altro
che un tempo perduto, divino, pastorale, infantile, ridente, non perché armonico - tale mondo non è
mai esistito - ma perché le battaglie erano nella pace, perché la pace era il concerto dellřarmonia e
della disarmonia, come in Eraclito.
Eppure le stelle sono le stesse, la natura è la stessa, nella respirazione vasta delle bestie che
continuano gli sponsali con le stelle.
Oggi il traghettante
Altra riva non ha che rumorante, nera,
E Boris de Schloezer, quandřegli è morto
Udendo sul pontile una musica
Ai prossimi inaudita (essa era già
Il flauto della libertà rivelata
O un bene estremo della terra persa,
ŖOperaŗ trasfigurata?) Ŕ dietro di sé
Non lasciò che le acque bruciate dřenigma.
O terra,
Stelle più violente mai non hanno
Sigillato lřempireo di più fissi fuochi,
Appello divorante di pastore nellřalbero
Mai devastò unřestate più scura.
Il traghettatore sognato, sogno non era, è lui stesso, prossimo allřunica riva che gli resta Ŗbruyante,
noireŗ. E il risveglio, nellřinsidia della soglia, è risveglio di morte. E quel tu allora, poiché non cřè
la morte ma solo gli uomini che muoiono, compare di colpo con un nome: Boris De Schloezer.
Ora, in questo trasvenare continuo delle persone e delle figure lřuna nellřaltra, Boris stesso diventa
le passeur, ma allora non più il traghettatore di anime dantesco ma lo stesso traghettante, passante
tra le sponde della vita e della morte.
So ben poco di Boris de Schloezer, ho letto che Bonnefoy lo stimò un uomo così intimo alla poesia
e generoso da presentarlo a Paul Celan, ma in realtà so lřessenziale di lui da questa poesia, perché
lřamore che il poeta gli porta non si chiude con lui ma scorre verso ogni suo ascoltatore. Lřamore
infatti è sempre transitivo. Giacché lřimmedesimazione, lřho detto, è qualcosa di empatico e di
sentimentale, di lirico, se vogliamo, mentre lřidentificazione è lřoperazione specifica della poesia.
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Completa ma intermittente, per me, in questo caso, prima essendo io tutto nellřaltro e poi tornando
me, e infatti ecco che non sono più io transtemporale, perché Ŗil est mortŗ e io sono vivo. Eppure
poeticamente, nel, io, Bonnefoy, io Boris, e io, lřascoltatore, siamo i destinatari dellřesortazione:
Regarde! De tout tes yeux regarde ! E non mi distinguo più dallřio Boris il quale, in quel punto di
separazione, con lřenigma di traverso allřevidenza, ascolta una musica inaudita.
Musica delle sfere? La musica che secondo il pitagorico Simmia nel Fedone è quella dellřanima che
promana dal corpo ma che, rompendosi il corpo, pur essendo essa lo scopo dello strumento fisico,
non potrà più risuonare? Musica che realmente egli ascoltava prima di morire? Rivelazione
dellřenigma, che non è una cosa pensata o detta, un vero concettuale, ma la libertà stessa? Oppure
Ŗun bene estremo della terra persaŗ, lřultima fascinazione di unřevidenza enigmatica, che è tuttora
un bene perché, non essendo libertà, impossibile, è tuttavia ancora quel torrente roco?
No, Boris morto non lascia tale e quale a prima lřenigma dellřevidenza. Un uomo amato che muore
brucia quelle acque. Non intendiamo noi allora continuare a respirare nel concerto, vederlo come
uno degli infiniti morti, condizione di una vita infinita e impersonale che trasmuta attraverso noi, in
un meccanicismo impietoso, perché quel morente, ogni morente, è unico, è la persona che amo,
sono io. Le stelle fisse sigillano lřempireo (che così traduco in termini solo astronomici), il limitare
del cielo, come prima. Ma noi non siamo più gli stessi. Esse ci appaiono ora con una violenza mai
sperimentata, e lřappello del pastore, il richiamo di unřarmonia di dèi e di bambini che giocano ci
suona tremendo: Ŗmai devastò unřestate più scuraŗ.
Non la morte propria, mai presente, ma quella dellřamico, la morte in vita, convissuta. La cosa più
violenta che ci sia, precipitata infatti nel passato-presente. La morte che è sempre stata, nel sempre
passato, origine prima dellřevidenza, non sua clausola e sigillo. Sigillo ne sono semmai le stelle,
violentemente. La morte di prima che tutto esistesse, dalla quale siamo nati. Nella quale torniamo
perché non ne siamo mai usciti.
Ecco che ascoltando questi versi, tornato io lřuomo mezzo prosastico che scrive, già un poř
dimentico della visione, e un poř barcollante col mio moi che si rimpossessa del Je, mi dico, in una
risonanza di ciò che ero, che la poesia può essere non solo una forma di conoscenza e di
rigenerazione, ma lřaccompagnatrice, lo spirito, amoroso e rischioso, dellřincontro tra due esseri,
quasi unřallenatrice assai severa dellřanima, che tu puoi versare in un ascolto a oltranza della nostra
finitudine, come in Bonnefoy, o in una fede Ŗimpossibileŗ, che chiede pari coraggio e pietà, vivendo
la stessa esperienza Ma lřuomo semipoetico dice allřuomo semiprosastico che la poesia fa la tua
esperienza, non essendo essa un fine ma nemmeno un mezzo, non essendo passata né futura ma in
atto.
Seguono ne Il fiume due file di puntini che non staccano ma sospendono la musica, in una pausa
lunga di silenzio. Quasi una punteggiatura ritmica, una gestione artigianale e tipografica del silenzio
tra materia e spirito. E di nuovo la voce:
Terra,
Che aveva scorto, che comprendeva,
Che accettò?
Egli ascoltò, a lungo,
Poi si raddrizzò, il fuoco
Di questřopera che attingeva,
Chi sa, a una cima
Di scioglimenti, di ritrovamenti, gioie
Illuminò il suo volto.
Brusio, chiuso
Della pertica urtante il fiotto di fango
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Notte
Della catena che slitta in fondo al fiume.
Altrove,
Là dove ignoravo tutto, dove scrivevo,
Un cane forse avvelenato graffiava
Lřamara terra notturna.
Ancora una chiamata a testimone della terra, più che unřallocuzione rivolta a essa, se la senti di
fianco e non la guardi. Vi fu una chiara rivelazione, una visione, e soprattutto unřaccettazione, un
consenso di Boris? Forse gli schiarì il volto il senso che la sua opera puntasse alla sua cima proprio
sciogliendosi, ritrovandosi, gioendo nella morte? Colui che scrive la poesia non può saperlo, non
può che sentire un rumore chiuso, la pertica del nocchiero nel fiotto fangoso o la catena che slitta:
Là où jřignorais tout, où jřécrivais,
Un chien peut-être empoisonné griffait
Lřamère terre nocturne.
Enrico Capodaglio
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Un lontano saluto
Dresda come appare prima che sia distrutta, nel fotogramma aereo da ovest, è un radiante traversato
dai ponti Augustus, Albert e Carola; lřesse dellřElba la taglia, quasi scaturita dalla mente di un
geometra taoista. A quellřaltezza il braille dellřabitato, in legno dolce, era ancora fittissimo.
Dallřisola ferroviaria, che non vediamo, a Racknitzhöhe, oggi vi sono cinque fermate di tram: GretPalucca-Straße (dal nome della ballerina amica di Beckett, che lřintrodusse in città quando egli vi
giunse nel gennaio del 1937); Lenné Platz, dove si apre a due passi il giardino zoologico (come i
pachidermi in fiamme di Berlino, raccontati da W.G. Sebald, qui morirono tutti coloro che
cercavano scampo, mentre gli struzzi invece fuggirono); poi Strehlener Platz, la lunga salita fino a
Zellescher Weg, infine Racknitzhöhe. Abbiamo percorso questo tragitto tante volte, il selciato
produce un rumore, in macchina, che da bambino sai subito di essere a Dresda.
Questo fotogramma aereo è lřapertura del Porzellan di Durs Grünbein (Suhrkamp, 2005), lui che ha
mandato a memoria ogni tavoletta pretoriana della sua città: «Chiudi gli occhi, e la prima cosa che
vedi: rovine / Ancora dopo quarantřanni, impresse a fuoco sulla rètina. / Conosci la pianta della città
come le linee della tua mano».
Dal fascio di binari della stazione di Dresda Ŕ lřentelechia di varie poesie in Zona grigia, mattina
(raccolta dřesordio di Grünbein, concepita fra il 1985 e il 1988) Ŕ è Jakob Abs a proiettare, sopra i
grafici della cabina di scambio, tutti i transiti futuri, anticipandone la presenza; faceva aggetto, sui
versi di questo primo volume, un metodo che diresti congetturale, intessuto di particole del
discorso, di mosaici vocali, di una verità da rinvenire in rebus (nel dialogo a distanza fra Johnson e
Gadda la cerniera del poliziesco epistemologico), e che ora, in Porzellan, conduce per forza di
scrittura alla ricostruzione di un luogo nella memoria, unřarea urbana fragile e non più esistente
(Beckett aveva battezzato la città Řporcelaine Madonnař). Di quanto spazio ha bisogno, nella
memoria, unřassenza? Tale è questa sovrapposizione impossibile, con la bisettrice della Prager
Straße, i nuovi centri commerciali, gli Hertie, i Karstadt, gli Häuser des Buches, e che porta dritto
allřAltstadt, lřincisione su rame della città vecchia, alla collezione di porcellane, al fiume.
Con Porzellan viene interrotta la persistente sonata cartesiana (il lare di La Haye en Touraine è vivo
in ogni forma allřinterno del mondo poetico di Grünbein, fino allřultima raccolta di saggi Der
cartesische Taucher) per volgere, dopo i 33 epitaffi di Den Teueren Toten (1994), allřelegia e al
planh più doloroso.
Il poemetto «della fine della mia città», come è nella campitura del sottotitolo, attraversa la
distruzione di Dresda con un sistema di 49 strofe, nel solco dei Tableaux parisiens di Baudelaire,
composte da dieci versi lunghi dřandamento trocaico, variamente rimate, sviluppanti una rete di
responsioni ritmiche a largo raggio. Lřincordatura di questi versi, quasi tesa da un ŘErcole al trivioř
Ŕ facciamo man bassa di una formula di Gabriele Frasca, anchřegli pienamente inscritto, dagli anni
ottanta, in una parabola estetica che attrae i relitti della tradizione nella centrifuga della modernità -,
dà nuova prova del furibondo culto formale che già ne contrassegnava il ductus. Il loro smalto
retorico è il referto dřuna cristallografia più che decennale (il poema è stato pensato fra il 1992 e il
2005): lřalessandrinismo armato di Grünbein, per la sua città, stende un encausto su carta.
Lřinnesco dellřopera è dato dallřesperienza degli anni successivi allřannientamento di Dresda, in
qualità di testimone secondario: «[...] un severo grigio unificato / chiuse le ferite, e dellřincanto
rimase Ŕ amministrazione. / Non perché necessario fu macellato, il pavone sassone. / I licheni
crebbero, inestirpabili, sulle fioriture dřarenaria. / Elegia, ritorna come singhiozzo. A che pro
rimuginare?». E tuttavia si tratta di una memoria che non potrà consolare («No, il ricordo, la
provvista di leggende / è da lungo tempo esaurita, e ogni nostos viene punito») né potrà farlo una
memoria meccanica del verso, perché il rituale magico che trapiantasse gli oggetti in una teca di tesi
e arsi, pietrificherebbe Ŕ a non opporre uno scudo di scepsi e ironia Ŕ quale testa di Medusa della
classicità. Ora flâneur ora archeologo, cronista, geografo e storico, lřio lirico di Porzellan non
conosce sdegno per la distruzione né ripicca sentimentale, i suoi metodi, è stato detto, sono quelli
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dei sondaggi, della descrizione, dellřerosione di strati e lřanalisi di fonti e resti materiali (Friedmar
Apel).
Walter Kempowski, il grande custode di cose tedesche, avrebbe contrappuntato, dalle pagine del
suo Der rote Hahn (*Banderuola rossa, 2001), ovvero, comřera suo uso, dai pochi pungenti fogli a
prefazione dei propri collage: «Non la smetteremo mai di meravigliarci della mancanza di scrupoli
di coloro che schiacciano i pulsanti rossi, e del coraggio e dellřenergia di quelli che devono sempre
mettersi a riordinare tutto».
Grünbein aveva già disegnato, in Lezione sulla scatola cranica, una Dresda che aggalla come in un
tardo fissaggio, «un puzzle, tutto regale, con cui la guerra poté disinnescare gli orrori di un mondo
di distruzione» (nella traduzione di A. M. Carpi); adesso egli muove, a sessantřanni dai
bombardamenti effettuati tra il 13 e il 15 febbraio 1945, verso la compresenza dei tempi, e dunque
in quel camminamento che non guarderà alla storia se non a partire da unřidea del presente: «Una
fine simile, che porcata da melodramma. / Quanto tempo sarà passato? Ragazzi, e chi se lo ricorda. /
Per il non ritorno conosco solo una parola: oggi». È lo stesso disincanto, alimentato dal senso di
postumità dellřesistenza, che si ha quando il greenhorn domanda, in un luogo del poema, se la
memoria sia ancora lancinante: «Se tutto ciò faccia ancora male? Solo uno spettatore può chiederlo,
città nella valle» Ŕ forse qualcuno riconoscerà lřepiteto, greenhorn (pivello), che Karl May attribuì a
una sua figura prima che questa divenisse il temibile Old Shatterhand della saga di Winnetou;
presso Dresda, a Radebeul, vřè il museo dedicato a questo scrittore, fortezza dřinfanzia negli slarghi
aperti dalla guerra aerea. Qui «il genius loci, lui che tutto restaura», non ha mai cessato di riattivare,
in quieta maniacalità, interi blocchi di passato: la nuova apertura della Frauenkirche (nel medesimo
anno di pubblicazione di Porzellan), chiesa andata distrutta in quei giorni, come quasi tutto resto,
pone ufficialmente termine alle ricostruzioni del dopoguerra.
Una memoria biologica, preconscia, respinge dai versi di Porzellan lřatrabile del Diavolo («Passato!
Che parola sciocca! Perché Ŗpassatoŗ? / Passato e puro nulla: identità completa» Ŕ Faust II, vers.
Fortini), tale che il vecchio abitante di Dresda può asserire: «La memoria, altroché. Proviene da
certe regioni del cervello / E poi vi fa ritorno. E lřorigine, la casa sono / un mucchietto di sabbia in
una duna mobile di neuroni [...] È come una lettura del pensiero, quando dalle grondaie, / di notte al
bancone Dresda risorge … un lontano saluto, / attraverso lo spazio e il tempo Ŕ dallřipotalamo».
Con queste Řschegge sotto la palpebra per una vita interař, Grünbein ha fissato lo sguardo su un
intervallo temporale da dove dirama ogni strada dei nostri giorni, e da cui sembra provenire il
sorriso ionico, forse anche eginetico, di una Sibilla che ripeta lřacuminato responso: ibis redibis non
morieris in bello.
Domenico Pinto
[Questo articolo è apparso su «Alias», supplemento del quotidiano il manifesto, sabato 2 agosto
2008.]
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Ritmi in chiaroscuro:
Le polarità de I vespri veneziani di Anthony Hecht
Per tutta la sua lunga carriera poetica, lo statunitense Anthony Hecht (New York, 1923 Ŕ
Washington D.C., 2004) ha intrattenuto un profondo e fruttuoso rapporto con la storia e la cultura
italiana. Molte delle sue poesie più notevoli Ŕ ad esempio ŖA Hillŗ, ŖBehold the Lilies of the Fieldŗ,
ŖOstia Anticaŗ, ŖThe Costŗ, ŖSee Naples and Dieŗ, per nominarne solo alcune da una lunga lista Ŕ
fanno uso di temi e situazioni italiane e di epoca romana. Nessun poeta statunitense ha scritto in
modo più ricco o più stimolante di quello che per Hecht era diventato il paese adottivo della sua
immaginazione. Si tratta di un rapporto cominciato nel 1951-1952 alla American Academy di
Roma, dove trascorse un anno avendo ricevuto la prima Rome Fellowship in Literature, e
conclusosi con una residenza presso il Liguria Study Center for the Arts and Humanities a
Bogliasco nell'anno della sua scomparsa, il 2004, dove scrisse le sue ultime poesie. Allo stesso
modo, l'effetto dell'Italia sulla sua invenzione poetica può essere rintracciato dalle pirotecnie
barocche di ŖIn the Gardens of the Villa d'Esteŗ nel suo primo libro, A Summoning of Stones (1954),
fino ai finissimi accenni in poesie come ŖLong-Distance Visionŗ e ŖThe Darkness and the Light Are
Both Alike to Theeŗ, tra le liriche sommesse e perturbanti del suo ultimo libro The Darkness and
the Light (2001).
Al centro del canone italiano di Hecht, e in verità vicino al centro della sua intera opera, si
colloca il magnifico monologo drammatico in pentametri giambici non rimati, suddiviso in sei parti,
intitolato ŖI Vespri Venezianiŗ, la poesia che dà il titolo alla sua quarta raccolta, apparsa nel 1979.
Con i suoi quasi 900 versi è con ampio margine la poesia più lunga di Hecht, a meno che non si
voglia considerare (come si potrebbe) l'esuberante e macabra sequenza ŖThe Presumptions of
Deathŗ, dal volume Flight Among the Tombs, come un'unica poesia. Si potrebbe parlare a lungo
della relazione tra ŖI Vespri Venezianiŗ e il resto dell'opera di Hecht, in quanto si tratta di una
poesia cruciale per capire l'ampiezza dello spettro e l'entità del suo lavoro; come a lungo si potrebbe
parlare della relazione di questa poesia con il ricco corpus di opere letterarie in lingua inglese che
trattano di Venezia, del quale costituisce un elemento di assoluto rilievo. Ma mi limiterò ad alcune
brevi notazioni, dopo qualche osservazione preliminare, che possano essere d'aiuto al lettore
italiano che ancora non conosce Hecht ad apprezzare alcuni degli aspetti splendidi e terribili del
capolavoro italiano di Hecht, in cui sono intessuti inestricabilmente sfavillanti passaggi lirici di
elaborata tessitura e sbalorditiva limpidezza con i fili più tenebrosi di un racconto tragico e
sgomentante.
Forse la prima cosa che colpisce il lettore de ŖI Vespri Venezianiŗ è la cornucopia di
abbacinanti brani descrittivi. Ad esempio, vicino all'inizio della prima sezione, troviamo
[...] la vista, un mattino uggioso,
sotto il corrimano di una ringhiera in ferro
verniciata di nero lustro, di sei gocce dřacqua
appese, sospese, che succhiano in se stesse,
come malsano nutrimento, il nero
cascante della ringhiera stessa,
ma coronate di semilune brillanti di cromo
in cui il mondo veniva splendidamente sfigurato,
come volti visti in cucchiai, come riverberi
in figliazioni gelatinose, nella bottarga di bollicine,
quel minuto wampum argenteo lungo gli steli,
ingialliti e ingranditi, dei fiori vecchi
chiusi nella lente dřacqua marcia e vetro
nelle stanze di sopra, quando qualcuno è morto.
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Ci troviamo di fronte a un'osservazione perfetta, in cui il mondo viene reso nuovo dall'occhio
penetrante del poeta. Ma porta con sé anche delle risonanze tematiche che verranno sviluppate nel
corso della poesia: esperienze visionarie come questa esistono Ŗsospeseŗ, suscitate da una specie di
Ŗmalsano nutrimentoŗ, e il mondo visto attraverso una tale brillantezza è Ŗsfiguratoŗ, per quanto
Ŗsplendidamenteŗ; inoltre, le similitudini ci conducono a quella nota elegiaca conclusiva alla quale
il poemetto tornerà dopo poco, quando comincerà a fornire alcuni dettagli narrativi (Era mia madre
che era morta. / Dopo lunga malattia, tanto tempo fa). Oppure, per fornire un altro esempio di tour
de force descrittivo, si veda questo resoconto dell'inizio di un temporale:
[...] I lampioni pubblici
si accendono fievoli nellřoscurità raccolta dellřinverno.
Il brontolio del tuono cominciaŕuna valanga
che rotola lungo corridoi levigati di rumore,
traballanti carri di condannati a morte che brancolano
nello spazio vuoto e petroso di una cantina. E poi
come un sussurro di foglie secche, comincia la pioggia.
Macchia il selciato, forma un pulviscolo
di cristalli lucenti smorzati da toni plumbei
a dieci centimetri da terra. Scialli ventosi di pioggia
rabbrividiscono e velano la facciata della cattedrale
di trine sferzanti mentre i lampioni trattengono
globi immobili di bruma rifrangente alti nellřaria
e lřasfalto nero è corso da rughe dřoro
in pozze e dispersioni di umori, rivoli svelti
di rame liquido, di ottone fuso che si attorce.
La sinestesia qui è sbalorditiva, con il passaggio che si sposta dalla vista all'udito e poi di nuovo alla
vista, come anche da effetti delicati a effetti drammatici all'interno di quei sensi, con modulazioni
calibratissime: l'accendersi dei lampioni precede il tuono, e una volta che quel brontolio si è spento,
il sussurro della pioggia si trasforma in macchie sul selciato, che presto saranno cancellate dai forti
rovesci. Ma la poesia continua sottolineando che momenti del genere, in cui Ŗlřanima [è] intrisa di
impalpabili particolariŗ, costituiscono una fuga da Ŗtutta lřangoscia di questo mondo / nel rifugio
del tempo presenteŗ: il presente lirico esiste in una relazione di contrappunto con il passato
narrativo che deve essere Ŗmisericordiosamente dissoltoŗ. Oppure, per citare un esempio ancora più
scintillante, troviamo questo climax orchestrale, vicino alla fine del poemetto, in quella che
potrebbe essere considerata la più spettacolare raffigurazione di un cielo in tutta la letteratura in
lingua inglese:
Sullo sfondo di un diorama del celeste più tenue
cagli di nuvole, cumuli di nuvole, cespugli di nuvole sřassolano.
Enormi torte nuziali, meringhe impossibili,
soffici barriere coralline e tumuli friabili
passano in auguste processioni e calme greggi.
Immensi stadi, tribune e anfiteatri,
sembrano le opulente lettighe ornate di nappe
degli dei; o fasce da neonato lavate, parrucche bien coiffées,
raccolti bianco-latte, peonie cinesi
che visibilmente rimproverano la nostra grettezza.
Nonostante tutte le loro presenze spettrali, esse
di sera assumono una nobiltà multicolore.
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Verso est il cielo comincia a volgere
a un lilla così esangue da sembrare un umore del grigio,
gradualmente, come la morte di un uomo virtuoso.
Strie di argentana bordano sfarzose
le lente chiglie a fondo piatto, quei lobi ondeggianti
tra i quali piume e fasci di luce sventagliano
rossi e arancio-pesca sfumati in cornalina,
che approssimano al centro un fulgore cedrino,
la fornace ardente nella gola del forno
che infuoca e fonde nuvole di moscatello
con pennellate dřoro.
Ma immediatamente la poesia sottolinea di nuovo la distanza ironica tra una tale corroborante
meraviglia e la tenebra indifferente del narratore: ŖIo guardo e riguardo, / come se potessi essere
salvato solo col guardareŗ.
Salvato da cosa? Solo gradualmente, a spizzichi e bocconi, ci vengono presentati i dettagli
della vita del narratore. Sua madre è morta che lui era bambino. Lui è un espatriato americano che
abita grazie a una rendita annuale a Venezia, città dalla quale è stato attratto per la sua peculiare
commistione di bellezza e decadenza. Viene da Lawrence, nel Massachusetts. Ha prestato servizio
come paramedico nella Seconda Guerra Mondiale, dove è stato testimone di orrori indicibili. Nelle
prime tre delle sei sezioni del poemetto, questi sono tutti i fatti che ci vengono forniti. Poi le
informazioni cominciano ad accumularsi più rapidamente. È cresciuto nel negozio dello zio. La sua
famiglia era costituita da immigrati lituani. Il padre, venuto in America con la giovane sposa per
raggiungere lo zio, poco dopo il suo arrivo partì verso il west da solo, e non sarebbe più tornato. Lo
zio venne sconvolto dalla morte della madre del narratore, che ebbe luogo quando questi aveva sei
anni. Quando raggiunse i diciotto anni, il corpo del padre venne rispedito a casa dall'Ohio: poco
dopo la sua partenza, il padre era stato derubato, colpito in testa, e internato come pazzo, prima che
qualcuno si accorgesse che quello che diceva non era il blaterare di un folle ma un normale discorso
in lituano; lo zio, contattato dalle autorità e preoccupato del possibile scandalo, e forse anche per
motivi ancora più sinistri, aveva lasciato che il fratello rimanesse in manicomio. Lo zio aveva avuto
grande successo nelle sue attività commerciali. Il narratore si era arruolato nell'esercito
immediatamente dopo il funerale del padre, e in seguito era stato congedato per Ŗdebolezza
mentaleŗ. Nel tempo, era arrivato a sospettare che lo zio, che l'aveva nominato suo erede, fosse in
realtà il suo vero padre. Il narratore vive disprezzandosi profondamente, sentendosi Ŗil suo
colpevole erede, il beneficiario / dei suoi soldi e dei suoi criminiŗ.
Un riassunto succinto come il precedente presenta in modo pesante quello che Hecht espone
con lentezza, con grande arte e notevole suspence, quando questi Ŗfattiŗ emergono sullo sfondo di
meditazioni sui più vari argomenti, quali la durata della vita dei virus e i più fini dettagli del galateo
codificato da Emily Post. Perché ciò che è messo in mostra lungo tutto il poemetto è naturalmente la
sensibilità del narratore: colto, raffinato, capace di percepire le più sottili nuances visive e sonore,
ma anche amaro, fatalistico, attratto dai foschi lati oscuri delle cose. Ma qui, necessariamente, ci si
avvicina al paradosso che chiunque commenti un monologo drammatico si trova ad affrontare.
Quanto della tessitura della poesiaŕle sue visioni rapsodiche o da incubo (per quanto le epifanie
che ho citato in precedenza dimostrino la grande bellezza del poemetto, vi si trovano delle
immersioni Ŕ opposte a queste Ŕ nel deforme e nel grottesco), le sue ossessioni, le sue evasioni e
circonlocuzioniŕva attribuito alla voce narrante e quanto all'autore? Se nei brani critici finora
disponibili su questa poesia si può trovare un difetto comune, sta, secondo me, in una tendenza ad
accettare la finzione che muove il poemetto alla lettera trattando ŖXŗ (così i critici hanno
denominato il protagonista) come se fosse quasi il creatore della poesia, invece di esserne l'entità
creata. I monologhi drammatici, nei grandi maestri del genere vissuti nel diciannovesimo secolo,
Browning e Tennyson, come nei loro eredi del ventesimo secolo, quali Frost ed Hecht, sono sempre
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uno stampo, una maschera della voce che permette al poeta di dire ciò che intende dire con la libertà
fornita da una tale presa di distanza, ma quasi sempre con vestigia di identificazione sotterranea fra
poeta e personaggio. Così l'abilità di Browning a rappresentare le articolazioni dei mondi interiori
dei suoi personaggi sia storici che immaginari trova un corrispettivo nell'insistenza di Fra' Filippo
Lippi nel collocare persone reali nelle sue raffigurazioni sacre, sorprendendo gli osservatori e
spesso raccogliendo la disapprovazione dei suoi superiori. Quindi le visioni attenuate di Titone, la
cui maledizione era l'immortalità, riecheggiano l'ambivalenza dello stesso Tennyson riguardo al
prolungare la tradizione visionaria romantica della quale egli stesso è erede. E quindi le oscillazioni
di ŖXŗ tra le squisite descrizioni del mondo che vede attorno a sé, colme di elaborati ornamenti
retorici, e le inquietanti meditazioni sulle forze malefiche che modellano le nostre vite e i nostri
caratteri, portano con sé più che una limitata corrispondenza con i ritmi in chiaroscuro della poesia
matura di Hecht, che passa da una polarità all'altra di tenebra e luce, e che tiene in equilibrio lo stile
alto della sua arte lirica Ŕ le sue eleganti e complicate forme strofiche e la sua musica composta e
risonante Ŕ con il torvo e impervio materiale che coraggiosamente, e ripetutamente, sceglie come
proprio argomento quando contempla gli episodi de-umanizzanti e sconsolanti del lungo catalogo di
atti inumani compiuto dall'uomo nei confronti dell'uomo.
Hecht è stato più chiaro di alcuni dei suoi criticiŕe considerevolmente onesto, come
poetaŕriguardo a tale demarcazione. Nell'ottimo libro che raccoglie una lunga intervista di Philip
Hoy, nella collana Between the Lines, Hecht scrive:
ŖI Vespri Veneziani parlano di un personaggio inventato, in gran
parte si tratta di un uomo che ho conosciuto a Ischia, ma in parte di
mio fratello e, necessariamente, in parte di me. Ma per lo più, il
personaggio è inventato. È un uomo profondamente travagliato,
nevrotico, disadattato, e la sua infelicità non fa altro che aumentare
la sua introspezioneŗ. [p. 64]
Questo commento si trova nel contesto di una spiegazione sulla distinzione tra il narratore de ŖI
Vespri Venezianiŗ e il narratore di ŖGreen: An Epistleŗ (una poesia pubblicata nella sua raccolta
precedente, Millions of Strange Shadows), rispetto al quale Hecht prova un livello assai maggiore di
identificazione: ŖIo stesso, sia come voce riconoscibile che come presenza sono di gran lunga più
coinvolto in 'Green' di quanto sia consapevole di essere nei 'Vespri'ŗ. Tale distinguo è importante,
ma lo sono anche altre ammissioni (Ŗnecessariamente in parte meŗ; Ŗdi quanto non sia consapevole
di essereŗ). Poco oltre, nella stessa intervista, Hecht parla più ampiamente sia delle origini della
poesia che del ruolo del narratore:
C'eraŕc'è la città stessa, lo splendore decaduto, ora centro di
pellegrinaggio turistico come in passato era stata centro di
pellegrinaggio religioso e di commercio, con questi due aspetti
intimamente interconnessi... Volevo scrivere una poesia che
catturasse un po' di questa brillantezza e decadenza, e pensandoci
su mi venne in mente la storia di un uomo, che adottai come voce
della poesia. Era una persona che avevo conosciuto a Ischia, un
uomo profondamente tormentato e moralmente angosciato la cui
storia famigliare è sostanzialmente quella raccontata nella mia
poesia... Mi era parso che quest'uomo, senza nome nella mia
poesia, con il suo malessere e il suo riserbo stoico potesse essere
una specie di raffigurazione della città in rovina, della sua
sospensione tra grande potenza e attrazione turistica, eppure ancora
dotata di un'innegabile bellezza. La mia intenzione era di
intrecciare questi due elementi, uomo e città, in modo che il lettore
li potesse ritenere adeguatamente accostatiŗ. [p. 77]
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Non si può fare a meno di notare il leggero spostamento d'accento tra le due dichiarazioni
precedenti. Il personaggio che era stato detto Ŗper lo più [...] inventatoŗ viene adesso identificato
come fermamente basato sull'uomo conosciuto da Hecht a Ischia (anche se nella seconda citazione,
in passaggi che non ho riportato, Hecht dice comunque che le sofferenze del fratello e le proprie
esperienze di guerra sono incluse nella persona del narratore). Non voglio qui stare a sofisticare
sulle dichiarazioni di Hecht, né sull'approccio dei suoi commentatori, ma semplicemente
sottolineare che ci si trova su un terreno altamente instabile quando si cerca di delineare la voce
parlante di una poesia distinguendola dall'autore, territorio in cui perfino uno scrittore puntiglioso
come Hecht si trova a scivolare nella direzione dell'auto-contraddizione e dell'evasività. Per quanto
strettamente il narratore de ŖI Vespri Venezianiŗ sia modellato sull'uomo di Ischia, egli esiste solo
nella, e per la, poesia a cui serve Ŕ in un certo senso Ŕ sia da veicolo che da soggetto (cioè sia come
immagine che contenuto della metafora). E se Hecht in massima parte mantiene le distanze da lui, ci
sono dei momenti in cui quella distanza si riduce. Si può leggere, ad esempio, un verso come ŖIo
sono il capo sfibrato di una lunga linea,ŗ senza avvertire un accenno al sentimento di essere un
superstite nel mondo poetico da parte di un poeta assolutamente consapevole della tradizione in cui
si colloca e che scrive negli ultimi decenni del ventesimo secolo, un'epoca in cui la sopravvivenza
dello stile alto splendidamente esemplificato nelle poesie di Hecht è arrivata a essere seriamente
minacciata?
La descrizione delle origini di questa poesia da parte di Hecht pone l'accento principale non
tanto sulla voce narrante ma sull'ambiente: Venezia stessa è stata la principale ispirazione di Hecht.
Non ho qui lo spazio per tratteggiare in dettaglio il ruolo che la città svolge nella poesia, né sono il
critico più adatto a farlo: il lettore interessato potrà consultare i saggi illuminanti di Gregory
Dowling e di Jonathan Post. Ma dovrei, per quanto di sfuggita, accennare almeno ad alcuni degli
antecedenti letterari, la maggior parte dei quali si intreccia con l'ambiente evocato da questa poesia
altamente allusiva: forse il più importante è Le pietre di Venezia di John Ruskin, citato in una delle
epigrafi del poemetto; Morte a Venezia di Thomas Mann; i vari romanzi di Henry James che
raccontano le esperienze dei vari espatriati americani in Italia; Volpone di Ben Johnson; e,
ovviamente, come sempre con Hecht, Shakespeare Ŕ in particolare Otello (pure fonte di una delle
epigrafi), Il mercante di Venezia, e, per quanto concerne la storia incestuosa sullo sfondo, Amleto.
Diversi di questi nessi intertestuali potrebbero da soli giustificare un intero saggio dedicato a
ciascuno di essi. Vorrei, invece, suggerire un'ulteriore relazione letteraria, per quanto generale, alla
luce dei versi conclusivi della poesia, una connessione che illumina per contrasto la natura della
caratteristica giustapposizione della poesia (e del poeta) per quanto riguarda presente e passato,
lirica e narrativa, luce e tenebra.
Dopo lo spettacolo delle nuvole ispirato da Tiepolo, descritto con una bravura che lascia
senza fiato, la poesia finisce:
[...] Io guardo e riguardo,
come se potessi essere salvato solo col guardareŕ
io, che non mi sono mai guadagnato il pane, che
non sono meglio di un virus parassita,
o della feccia del sottomondo veneziano,
istupidito e confuso nei miei ultimi anni,
che mai, nemmeno una volta, fui un bimbo assennato.
L'ultimo verso ovviamente riecheggia il proverbio ŖIl bimbo assennato conosce il proprio padreŗ.
Ma io credo che vi sia un più profonda risonanza semi-sepolta lì, che costituisce una variazione
raggelante su uno dei testi fondamentali della poesia inglese moderna, le meditazioni di William
Wordsworth sulla relazione tra bambino e uomo adulto in poesie fondamentali come ŖVersi
composti alcune miglia a monte dell'Abbazia di Tinternŗ, ŖOde: premonizioni di immortalità nei
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ricordi della prima infanziaŗ, e Il preludio. In queste opere e altrove, Wordsworth insiste
sull'influenza salutare delle esperienze dell'infanzia sullo sviluppo del senso morale dell'adulto, e Il
preludio pone in particolare rilievo l'idea dei Ŗpunti del tempoŗ, momenti di rivelazione epifanica
che, per quanto spesso conturbanti nel loro contesto, contribuiscono a guidare la crescita della
mente del poeta. Questi momenti Ŗelevatiŗ danno centro e direzione all'intero arco narrativo della
vita del poeta, e la relazione tra lirica e narrativa, passato e presente, bambino e uomo adulto, è
dialettica: l'entusiasmo infantile per la natura, e le prime percezioni giovanili del Ŗbagliore
visionarioŗ, per quanto si rivelino effimere, trovano risposta in seguito nella Ŗpiena ricompensaŗ
dell'amore verso l'umanità dell'uomo più maturo, amore più misurato e che rende più misurati. E la
più grande poesia di Wordsworth, in effetti, serve da terzo termine in questa dialettica Ŕ
equilibrando e riconciliando gli altri due termini. Ma ne ŖI Vespri Venezianiŗ (e anche altrove
nell'opera di Hecht) l'infanzia non è affatto fonte di benessere: anzi, i motivi più bui de ŖI Vespri
Venezianiŗ cominciano nella losca storia d'amore famigliare di cui il bambino diviene consapevole
solo in retrospettiva. Per quanto il poemetto sia ricco di momenti che assomigliano ai Ŗpunti del
tempoŗ di Wordsworth, tali momenti non hanno alcun effetto benefico (se non che a volte
provocano un sollievo momentaneo), e in alcun modo contribuiscono alla formazione positiva del
narratore, anche se talora possano brevemente rallegrarlo. Perciò le polarità di questa poesia
esistono non in termini di una dialettica, che deve essere elaborata per arrivare a una conciliazione,
ma come motivi contrappuntistici la cui giustapposizione non fa che sottolineare la differenza tra Ŗil
rifugio del tempo presenteŗ, con i suoi dettagli fini, e la meditazione sul passato (o sul futuro), con
le sue ambiguità torbide e insolubili. Per quanto meraviglioso il mondo vivo che i nostri sensi, al
massimo della loro raffinatezza, imparano ad apprezzare, la storia delle nostre vite è materia da
incubo. E se ciò è specialmente, e in modo magistrale, vero de ŖI Vespri Venezianiŗ, qualcosa di
simile si potrebbe dire di altre pietre di paragone hechtiane, quali ŖA Hillŗ, ŖGreen: An Epistleŗ e
ŖApprehensionsŗ.
Circa vent'anni fa, a un congresso di scrittori, un mio amico si imbatté nel poeta Howard
Nemerov, che stava leggendo ŖI Vespri Venezianiŗ. Quando il mio amico gli chiese cosa stesse
leggendo, Nemerov rispose: ŖLa più grande poesia lunga dei nostri tempiŗ. L'amico, curioso, chiese
il motivo di tale affermazione, al che Nemerov si limitò a sospirare e disse che la sua opinione era
basata più su una sua convinzione che su una teoria. Vi sono, senz'altro, poesie lunghe e anche
molto lunghe con cui sarebbe difficile confrontare ŖI Vespri Venezianiŗ, come ad esempio The
Changing Light at Sandover di James Merrill, che si estende su decine di migliaia di versi: la poesia
di Hecht è più un epillio che un'epica. Ma, questo detto, data la maestria tecnica e la sbalorditiva
commistione e complessità dei temi, lo sfolgorio dello stile e l'austerità e la rilevanza della sostanza,
l'opinione di Nemerov andrebbe presa seriamente in considerazione.
Joseph Harrison
[Postfazione a: Anthony Hecht, I vespri veneziani, LřObliquo, 2011. Traduzione di Damiano Abeni]
NdA: Il lettore interessato potrà consultare le seguenti opere che mi sono state straordinariamente
utili nel formulare i miei pensieri su questa poesia: Anthony Hecht in Conversation with Philip Hoy,
Between the Lines (Londra, 2001); Gregory Dowling, ŖCalm Suspension, Capitolo 5, Someone's
Road Home: Questions of Home end Exile in American Narrative Poetryŗ (Udine, Campanotto
Editore, 2003); Jonathan F. S. Post, ŖThe Genesis of Venice in Anthony Hecht's The Venetian
Vespersŗ (Baltimora: The Hopkins Review, Spring 2010).
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Seguendo il Dart
Nel 2002 Alice Oswald pubblica Dart (Faber y Faber), un lungo poema ispirato al fiume omonimo
che scorre nelle terre sud-occidentali della Gran Bretagna, e attraversa la brughiera a cui dà il nome,
Dartmoor, un altopiano disseminato di grandi torrioni granitici, verso il mare. In cosa meglio di un
fiume si rivela un territorio: esso contiene tracce dei vari paesaggi, percorre zone sconosciute, parla
con il timbro delle terre che spezza, conosce e trasporta in sé Ŕ è una mappa di voci. ŖQuesto poema
è fatto del linguaggio di tutti coloro che vivono e lavorano sul Dartŗ, spiega la Oswald nella nota
introduttiva. Per due anni la poetessa ha registrato conversazioni con persone che si sono trovate a
coabitare con il Dart: naturalisti, nuotatori, addetti alla manutenzione degli impianti fognari,
stagnini, pescatori, turisti, operai di vario genere, osservatori di anguille, barcaioli, bracconieri,
raccoglitori di ostriche, e poi sognatori, ninfe arboree, individui notturni e pericolosi, i vivi come i
morti. Lřopera si sviluppa come il corso della corrente, dove tutto - materia residuale, ricordi,
sporcizia, animali, riflessi, radici perdute - si mescola in modo caotico, trovando poi una direzione.
Le cose si adattano le une alle altre, apparentemente indistinte nei colori acquatici, da cui il ritmo
poetico deve nuovamente trarle. Il poema quindi si struttura in modo complesso e frammentario
come un discorso nellřacqua: non è un ennesimo testo sul fiume quale metafora della vita, piuttosto
tende a divenire un dato fiume. Ne emergono brani di monologhi più o meno articolati; a parti
maggiormente versificate seguono stralci di prosa; a pagine quasi prive di punteggiatura altre dove
le parole sgocciolano, si riducono al bianco del silenzio, dando lřimpressione esatta di rivoli che
filtrano per i passaggi stretti nel pietrame. Il Dart che canta, il Dart che avanza nellřimpeto della
piena, in secca nella stagione calda, allřimprovviso profondo o accogliente in un bozzo per i
bagnanti, dà la forma poematica ai contenuti, allřentrata in scena dei vari attori. Si può avere spesso
lřimpressione di trovarsi nel mezzo di una conversazione già avviata, che velocemente si fa brusio e
scivola in unřaltra storia; noi lettori dobbiamo orientarci da soli, avendo come unica bussola le
epigrafi sulla destra che indicano luoghi e personaggi, recuperare il nostro proprio respiro nel
continuo sciabordio, nellřaccumularsi dei rumori nella scrittura. La ricerca di memorie, lo scandirsi
delle identità fluide e interconnesse, lo scrollarsi del fiume dai ciottoli e dai corpi Ŕ attraverso
queste fasi Dart si scrive e si interroga, come il camminante in apertura del testo:
Consulta la sua mappa. Una vasta landa selvaggia color della pioggia.
Queste devono essere le pietre, il movimento improvviso,
il verso delle rane che cantano nel nuovo anno.
Chi è che fuoriesce dalla terra?
Il Dart, che giace nellřoscurità, grida: Chi è?
cercando di evocarsi on la parola …(1)
Pensando la Oswald come poetessa della natura, del paesaggio con le sue molte anime, è inevitabile
non ricondurla alla lezione di Ted Hughes, e in particolare al suo River (1983), dove compare lo
stesso Dart presso cui il poeta era solito andare a pescare. Tuttavia le poesie di River sono pervase
da un misticismo biocentrico: celebrano lřessenza divinizzata del fiume Caduto dal cielo, giace
sopra/ il grembo di sua madre, spezzato dal mondo (…)/ Così il fiume è un dio/ Alle ginocchia tra
le canne, guardando gli uomini,/ o spenzolante dalla porta di una diga/ È un dio, e inviolabile./
Immortale. E si purificherà di ogni morte. (Fiume). O ancora, in Dart occidentale lřacqua ha in sé
spirito e sangue, la forza fisica e il fiato invisibile dellřesistente. Il territorio abitato dalle acque
fluviali supera lřInghilterra, portando tracce di fiabe e leggende antiche, dalle estremità
settentrionali dellřAmerica al Giappone, configurandosi in una mitologia personale, che va oltre il
contingente dei luoghi e del vissuto. Diversamente Dart della Oswald è un essere vivo che si muta
sempre in qualcosa dřaltro, ma questo avviene proprio in virtù dellřadesione ad un territorio
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specifico, allřinteragire con lřumano. In altre parole: laddove i fiumi di Hughes creano il mondo
circostante, Dart lo determina fortemente, ma è a sua volta evocato, reso riconoscibile
dallřavvicendarsi di coloro che lo popolano. Questo fiume non è un dio, ma a suo modo lo diventa Ŕ
supera i limiti temporali delle vite che raccoglie, nel loro intrecciarsi attraverso i racconti. Così
perfino il soprannaturale è sempre in stretto dialogo con lřuomo, rispettando in questo la tradizione
folklorica del paese per cui lřambiguità e il pericolo, ma anche il fascino di certe creature del
destino, non sono mai troppo lontani dalle residenze umane, e il remoto e il fantastico dimorano
negli elementi. Un buon esempio è lřincontro con Jan Coo, creatura che, come suggerisce il nome
onomatopeico, nasce dal soffio prolungato del vento, assimilabile ad un monito, una voce
piangente. Folletto della brughiera o fantasma di un annegato, si aggira nel Dartmoor come un
presagio funesto, annuncia la sete del fiume, che inghiotte coloro che vi cadono.
Pioggia. Non un granché di mattinata.
lavoro di routine, svuotare i secchi
e pascolare le mucche Ŕ ti conosco,
Jan Coo. Un soffio sopra un pozzo profondo.
Jan Coo il suo nome
significa Lo Sconosciuto dei Boschi,
frequenta il Dart
Le mucche lo conoscono, quando cerca il forcone nel buio.
Sanno la verità su di lui Ŕ un uomo strano Sono fradicio, al diavolo queste mani intorpidite.
Una scossa nei boschi. Un salmone sotto una pietra.
So chi sono, vengo
dal piccolo cumulo di pietre su a Postbridge,
tu mi avrai visto nutrire il bestiame, puoi capire che sono io
dal logorarsi dellřacqua sullřosso.
Postbridge è dove
la prima strada attraversa
il Dart
Sono lento e malato, sto
cercando di convincere me stesso a lasciare questo posto,
ma le radici crescono sulla mia bocca, il mio piede è
dentro una latta arrugginita. Una notte lo farò.
E così una notte scivola via giù lungo il fiume,
ci disse che poteva sentire le voci uoooou
noi sappiamo cosa significa, Jan Coo Jan Coo.
Una piuma asciutta, bianca sullřacqua.
La mattina dopo tornò a casa era annegato.
Non avrebbe mai dovuto nuotare da solo.
Ora è così magro che puoi vedere la luce
attraverso la sua pelle, puoi vedere lo sporco nel suo diaframma.
Ora è lo sposo del Dart Ŕ lřho visto
prendere la forma del cielo, un uccello, una lama,
una foglia caduta, una pietra, possa giacere a lungo
nel nodo inesplicabile del corpo del fiume(2)
Vivere con il fiume, significa essere consapevoli della sua forza necessaria come delle sue trappole,
del mistero che sta in lui e che non ha niente di trascendentale Ŕ è lřumidore di una pietra notturna
su cui scivolare accidentalmente, lřingorgo dřacqua e di melma che impedisce di vedere il fondo. È
un pescatore stavolta a parlare:
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so come muovermi nellřoscurità, ci vedo la notte, sono stato qui sveglio nelle ore piccole
aspettando che qualcuno mi randellasse ma
non fa paura se sai quello che stai facendo. Cřè un cordone di sabbia litorale, ci puoi camminare
superando i gorghi ma
ho preso allřamo un braccio una volta, pietrificato, ho sollevato lentamente un corpo, era solo un
maglione(3)
Attraverso lřalternarsi del naturale allřultraterreno nelle vicende del fiume, si riconquista un
equilibrio per cui il Dart non è solo la massa acquosa, la Ŗfrecciaŗ, lo Ŗstraleŗ, traducendone il
nome, che fende la terra verso il mare, ma la linfa che anima il tutto, il connettore di ogni passato
con il futuro. Una sezione è dedicata dunque agli stagnini morti, un incedere di nomi e domande che
rammenta lřapertura dellřAntologia di Spoon River di Edgar Lee Masters Dovřè Ernie? Sottoterra.
dovřè Redvers Webb? Pure lui.
Tom, John e Solomon Warne, Dick Jorey, Lewis
Evely?
Alcuni sono fotografie, altri polvere.
Si dirigono da Est a Ovest lungo le vene di stagno
venticinque metri sotto Hexworthy, ognuno con una candela di sego
sul cappello. (4)
Le identità si fondono con i toponimi, le esistenze concluse ritornano nei luoghi del lavoro, come se
il procedere contrastato delle acque fosse la folla dei defunti, che solo qui ancora si può ascoltare.
Subito dopo viene svelato che ŖDart è lřantico nome devoniano per querciaŗ, epigrafe che introduce
una guardia forestale e una ninfa dřacqua. Tendendo lřorecchio cřè qualcun altro che parla sotto la
voce dellřuomo; sotto il bosco fisico che cambia ci sono leggende, desideri, memoria - la ninfa nel
segreto dellřalbero, la guardia al suo esterno, entrambi parte di uno stesso sistema; la prima scandita
dal ritmo franto dei versi, il secondo dal distendersi della prosa dove gradualmente entra il pensiero
dellřaltra Alberi come quello, quando cadono lřintero posto è diverso, aria diversa, creature diverse
riempiono il vuoto (…). Dicono che tutti i fiumi erano alberi caduti una volta.(5)
Tendendo lřorecchio si scende e si è trasformati, come succede al giovane nuotatore che avverte
tutto se stesso farsi pesce e liquidità, tuffandosi nel Dart Menyahari Ŕ gridiamo a mezzřaria.
Saltiamo da un albero in uno stagno, diventiamo
grandi come pesci. Tutti nuotano qui
sotto Still Pool Copse, di sabato
colpendo lřacqua con le mani nude, è bello una volta che sei
dentro.
È fredda? È tagliente?
Sto fermo guardando giù attraverso i faggi.
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Quando getto un sasso posso contare fino a cinque prima
dello splash.
Poi salto, un guizzo dorato nella testa,
attraverso il nero e il freddo, il rosso e il freddo, il marrone e tiepido,
dando allřacqua il mio peso e la mia taglia così da
immaginarla,
acqua con le mie ossa, acqua con la mia bocca e la mia
conoscenza
quando il mio corpo era a suo modo unřonda in cui nuotare,
una lunga pinna da capo a coda(6)
A coloro che fanno esperienza del fiume per pura passione o ai suoi molti echi leggendari,
subentrano gli operai, per cui il Dart è necessità primaria da sfruttare, prima che da ammirare,
godendo della sua pulizia o bellezza. Gli uomini del lanificio, ad esempio, che attingono lřacqua del
fiume per lavare la lana e creare le varie tinte
William Withycombe, Alex Shawe, John Dawe,
William Friend
ed io. Custode del lanificio, unřoperazione completamente
verticale,
si aggiunge una certa quantità di detergente, non-ionico,
ragionevolmente biodegradabile,
perché è necessario, quando vedi come arriva la lana,
unta di pittura bluastra, merdosa e sudata con escrementi
che pendono ovunque.
Sfortunatamente le pecore non usano carta igienica.
Va sempre tutto bene, si lamentano i pescatori
ma io ci vedo come cormorani che vivono del fiume.
Dipendiamo da lui per via della sua acqua leggera
perché scorre sopra il granito ed è relativamente priva di
calcio
mentre invece i pescatori per cosa per divertimento(7)
Oppure operai dellřindustria casearia, dato che lřacqua veniva usata per raffreddare il latte, o
lřoperatore degli impianti fognari,
Mi occupo dellřintero Dartmoor, il metabolismo di tutto il Sud-Ovest, che inizia con le nuvole e si
scarica giù per gli edifici e i corpi fino a questo reticolo di tubi sotterraneo, e tutto che finisce con
me qui sopra il mio ponte(8)
la cui testimonianza si lega al racconto medievale del nipote di Enea e dei suoi compagni in esilio,
guidati da una dea verso un‟isola di boschi indisturbati, che remarono risalendo il Dart per divenire
i primi re della Britannia.
Il fiume è dunque anche la grande dimenticanza che permette di proseguire, sapendo che ogni volta
che una storia verrà raccolta da un mucchio di cose inutili e nuovamente raccontata, le parole si
cuciranno in modo diverso sia per chi le ascolta che per chi le produce, reinventando una stessa
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materia originaria. Una singola immagine è capace di avvicinare epoche ed individui diversi, dalla
fogna a ciò che è in basso, sotto molti strati di coscienza come un mito, allřapprodo in una landa
ignota dove avanza un gigante armato di pietre e riporta al momento attuale, ad un Ŗcostruttore di
muri di sassiŗ, uno stonewaller, che si aggira per lřestuario del Dart cercando le pietre ideali,
levigate e depositate dalla corrente. Forse occorre procedere lungo il poema come in uno stato di
sogno, in cui ciò che ci sembra di riconoscere assume una consistenza imprevista e un altro aspetto
appena lo si tocca. Non è, a mio avviso, un caso se tra le varie apparizioni quasi centrale vi è un
sognatore, buona parte del cui discorso è tra parentesi, come in un bisbiglio:
Il sonno era allřopera e dalla mente la foschia
si distese come tornasole verso la luna, la pioggia
pendeva luminosa a mezzřaria quando scesi
e trovai un cumulo di scisto infranto
sotto lřaffrettarsi tremante dellřacqua.(9)
Nelle visioni del sognatore lo stesso sé-sognante del fiume avanza e allora le sue acque potrebbero
non essere che la foschia in cui, smarrendoci, siamo guidati a scoperte inattese, siamo sopra una
cartina tornasole, che mostra i contorni dei personaggi - omini del sonno, che ci sfiorano un attimo,
ogni grano di sabbia unřeco, prima di immergersi ancora nel buio dellřonda. Procedendo verso la
fine, dove il fiume si congiunge al mare, sono i costruttori di barche, i naviganti che ci
accompagnano e tutto quello che dicono, per quanto veridico, sembra straordinario, accresce
atmosfera incantata del poema. Dart partecipa infine della più pura arte orale, si muove tra storie
condivise, quelle storie che sono realmente accadute e che proprio per questo hanno realmente
qualcosa di stupefacente, diventano nostre nonostante non fossimo là. Non è mai prevedibile dove
ci coglierà la meraviglia. Come il racconto di scampata morte (e ritorno da una sposa rossa come le
donne delle fate) di un traghettatore:
Lavoravo la notte che la scialuppa di salvataggio del Penhilly
affondò:
fradicio, terrorizzato, congelato Ŕ lřultimo uomo là fuori sul fiume.
Ma non ho mai visto fantasmi. Tornai a casa che annegavo.
Entrai nella casa e cřera la mia bella moglie dai capelli rossi,
non cřera uomo sopra i venticinque che non la
desiderasse.
Penso a lei in autunno, quando gli alberi prendono questo
colore stupefacente dalle parti di Old Mill Creek.
Vado laggiù e spengo il motore. Silenzio.
Dopo un poř puoi sentire i rumori tenui della bassa marea.
O in inverno, puoi sentire steli di ghiaccio che si scheggiano sotto
la barca.(10)
O la voce dei vecchi pescatori di granchi, che ricordano la loro gioventù scapestrata, ma anche la
bellezza dellřuscire per mare, incontrando ogni tipo di animale nascosto:
Avevamo una cattiva fama, facevamo un poř di casino in città, ma che potevamo fare? A quindici
anni avevamo un sacco di denaro, era come se i granchi fossero merce gratis, potevamo andare
avanti a tirarli su dal mare anno dopo anno, era come una trappola per far soldi. Per non parlare di
cosa certi pescatori tirano su, non è che mettono sempre i loro cesti dove sono i granchi.
(…)
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Ma dimmi un altro lavoro dove puoi vedere lřaurora intera ogni mattina. Nessun cartellino da
timbrare, nessuna campanella. In estate puoi tuffarti, vedere le balene che saltano, prendere
tartarughe grandi come un dory.(11) Dai una pacca sul lato della barca e dimmi un altro lavoro
dove un delfino ti spaventa, ti guarda dritto negli occhi e poi si lascia toccare. Non sai cosa sei
finché non lo hai visto(12)
Balene, delfini, tartarughe. Animali che segnano la conclusione di un percorso terracqueo, per
aprirsi a ciò che è vasto e incontenibile allřocchio umano - quando sei per mare è tutto mare. Oltre
la foce del Dart, su quel confine suggestivo, fatto di insenature e piccole grotte, bocche di un paese
infero al cui ingresso si ammassano pelliccia, peli, unghie, ossa, si spinge sul suo wave-ski,
lřosservatore di foche:
ogni inverno si riuniscono qui,
venti foche in questo spazio dietro il mare, tutte avvolte
e al caldo nel grasso, come lřanima nel suo cilindro di carne.
Con le loro bocche di nonna, con il loro occhi languidi di cane
che chiedono
chi è che si muove nellřoscurità? Io.
Sono io, anonimo, soliloquio dellřacqua,
tutti i nomi, tutte le voci, Muta-Forma, sono Proteo,
chiunque egli sia, il pastore delle foche,
che guida i miei molti sé da caverna a caverna …(13)
Nel folklore celtico, sebbene in altre isole più a nord, le foche sono magiche. Lasciano sulla
spiaggia le loro pelli per danzare in forma di donne, hanno qualcosa di noi. Melanconici mammiferi
marini, cercano la terra per riprodursi, abitano due mondi. Il Dart si abbandona a loro, le conduce,
divide il suo carico di tempo nei loro corpi tra le onde Ŕ il viaggio che ora comincia è tutto da
immaginare.
Francesca Matteoni
Note.
(1) He consults his map. A huge rain-coloured wilderness./This must be the stones, the sudden movement,/the sound of
frogs singing in the new year./The Dart, lying low in darkness calls out Who is it?/Trying to summon itself by
speaking…
(2) [Jan Coo: his name Means So-and-So of the Woods, he haunts the Dart]Rain. Not much of a morning./Routine
work, getting the buckets out/ and walking up the cows – I know you,/Jan Coo. A wind on a deep pool./ Cows know him,
looking for the fork in the dark./ They know the truth of him – a strange man –/ I‟m soaked, fuck these numb hands./A
tremor in the woods. A salmon under a stone./[ Postrbridge is where the first road crosses the Dart].I know who I am,
I/come from the little heap of stones up by Postbridge,/ you‟ll have seen me/ feeding the stock, you can tell it‟s me/
because of the wearing action of water on bone./ Oh I‟m slow and sick, I‟m/ trying to talk myself round to leaving this
place,/ but there‟s roots growing round my mouth, my foot‟s/ in a rusted tin. One night I will./ And so one night he
sneaks away downriver,/ told us he could hear voices woooo/ we know what means, Jan Coo, Jan Coo./ A white feather
on the water keeping dry./ Next morning it came home to us he was drowned./ He should never have swum on his own./
Now he‟s so thin you can see the light/ through his skin, you can see the filth in his midriff./ Now he‟s the groom of the
Dart – I‟ve seen him/ taking the shape of the sky, a bird, a blade,/ a fallen leaf, a stone – may he lie long/ in the
inexplicable knot of the river‟s body
(3) I know my way round darkness, I‟ve got night vision, I‟ve been up here in the small hours waiting for someone to
cosh me but/it‟s not frightening if you know what you‟re doing. There‟s a sandbar, you can walk on it right across the
weirpool but/ I hooked an arm once, petrified, slowly pulling a body up, it was only a cardigan
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(4) where‟s Ernie? Under the ground./where‟s Redvers Webb? Likewise./ Tom, John and Solomon Warne, Dick Jorey,
Lewis /Evely?/ Some are photos, others dust./Heading East to West along the tin lodes,/ 80 foot under Hexworthy, each
with a tallow candle in/ his hat./
(5) Trees like that, when they fall the whole place feels different, different air, different creatures entering the gap. (…)
They say all rivers where once fallen trees.
(6) Menyahari – we scream in mid-air./ We jump from a tree into a pool, we change ourselves/
into the fish dimension. Everybody swims here/ under Still Pool Copse, on a saturday,/ slapping the water with bare
hands, it‟s fine once you‟re/ in./ Is it cold? Is it sharp?/ I stood looking down through beech trees./ When I threw a
stone I could count five before the/splash./ Then I jumped in a rush of gold to the head,/through black and cold, red and
cold, brown and warm,/ giving water the weight and size of myself in order to/ imagine it,/ water with my bones, water
with my mouth and my/ understanding/ when my body was in some way a wave to swim in,/ one continuous fin from
head to tail
(7) William Withycombe, Alex Shawe, John Dawe,/ William Friend/ and I. Keeper of the Wollen Mills, a fully vertical/
operation,/ adding a certain amount of detergent, non-ionic,/ reasonably biodegradable,/ which you have to, when you
see how the wool comes in,/ greasy with blue paint, shitty and sweaty with droppings/ dangling off it./ Unfortunately
sheep don‟t use loopaper./ It‟s all very well the fishermen complaining/ I see us like cormorants, living off the river./ We
depend on it for its soft water/ because it runs over granite and it‟s relatively free of/ calcium/ whereas fishermen for
what for leisure
(8) I‟m in charge as far as Dartmoor, the metabolism of the whole South West, starting with clouds and flushing down
through buildings and bodies into this underground grid of pipes, all ending up with me up here on my bridge
(9) Sleep was at work and from the mind the mist/ spread up like litmus to the moon, the rain/ hung glittering in mid-air
when I came down/and found a little patch of broken schist/ under the water‟s trembling haste.
(10) I was working in the night the Penhilly lifeboat went/ down:/ soaking, terrified, frozen – the last man out on the
river./ But I never saw any ghosts. I came home drowning./ I walked into the house and there was my beautiful/ redhaired wife,/ there wasn‟t a man over twenty-five that didn‟t fancy/ her. / I think of her in autumn, when the trees go
this/ amazing colour round Old Mill Creek./ I go down there and switch off my engine. Silence./ After a while you hear
the little sounds of the ebb./ Or in winter, you can hear stalks of ice splintering under/ the boat.
(11) Il dory è una piccolo barca da pesca, issata a bordo di alter barche: http://www.nautica.it/info/cultura/dory.htm
(12) We got a reputation, smashing up the town a bit, what could we do? Age fifteen we were big money, it was like
crabs were free commodity, we could go on pulling them from the sea year after year, it was like a trap for cash. Not to
mention what some crabbers pull up, they don‟t always set their pots where the crabs are.
(…)/ But tell me another job where you can see the whole sunrise every morning. No clocking in, non time bell. In
summer you can dive in, see whales jumping, catch turtles the size of a dory. You slap your hands on the boatside and
tell me another job where a dolphin spooks you, looks you straight in the eye and lets you touch him. You don‟t know
what you are till you‟ve seen that
(13) each winter they gather here,/ twenty seals in this room behind the sea, all swaddled/and tucked in fat, like the soul
in is cylinder of flesh./ With their grandmother mouths, with their dog-soft/ eyes asking/ who‟s this moving in the dark?
Me./ This is me, anonymous, water‟s soliloquy,/ all names, all voices, Slip-Shape, this is Proteus,/ whoever that is, the
shepherd of the seals,/ driving my many selves from cave to cave …
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Poema degli elementi, della catastrofe e del progresso:
Secondo natura di W.G. Sebald
Nel 1975, Hans Magnus Enzensberger pubblica una storia del progresso e del pensiero occidentale
in 37 ballate alla quale dà lřeloquente titolo Mausoleum. Lřopera ripercorre il destino di altrettanti
individui che, fra la metà del Trecento a quella del Novecento, hanno contribuito allo sviluppo del
pensiero filosofico, politico e scientifico occidentale. Il poema in stazioni di Enzensberger muove
da Giovanni deř Dondi (1318-1389) per giungere a Ernesto Guevara de la Serna (1928-1967),
ripercorrendo le gesta dei corifei di un progresso iniziatosi nel Medioevo grazie alla realizzazione
dellřAstrarium, un complesso orologio astronomico creato dal medico e astrologo:
Un assoluto prototipo, insuperato
per quattrocento anni.
Un meccanismo plurimo, di ruote
ellittiche e dentate,
connesse ad ingranaggio,
e il primo bilanciere;
unřinaudita fabbrica. (1)
Il tentativo di dominare il tempo, benché vano, si configura come il primo passo dellřuomo verso il
progresso e ad esso, per limitarsi alle sole prime ballate di Mausoleum, (con)seguono lřinvenzione
dellřŖarte / dello scrivere artificialeŗ di Gutenberg (1395-1468), lřelaborazione del pensiero politico
di Niccolò Machiavelli (1467-1527), le inchieste sugli aztechi del primo antropologo della storia
dellřumanità, Bernardino de Sahagún (1499-1590), nonché le scoperte astronomiche di Ticho Brahe
(1546-1601). Il De viris illustribus di Enzensberger non è però un mero encomio della scienze e
della tecnica create dallřuomo, quanto piuttosto unřattenta critica del progresso e dei suoi esiti più
aberranti, poiché lo Ŗangry young menŗ(2) delle lettere tedesche appare ben consapevole che ŖIl
sogno della ragione genera mostriŗ(3). Le ballate sono, così, un teatro di esposizione delle creature
prodotte dalla ragione umana lungo lřasse del tempo. Inoltre, Mausoleum offre una messa in scena
della storia del progresso strutturata a guisa di percorsi museali che
non sono quelli ben ordinati a cui siamo abituati nella vita reale; essi vanno al contrario
pensati come spazi plurimi, non lineari ma labirintici. In verità, a ben vedere, se si volesse
trovare una metafora davvero calzante, non bisognerebbe neanche parlare di loci memoriae,
ma di loculi, nel senso cimiteriale del termine: il mausoleo, non ci dimentichiamo, non è
che una tomba, per quanto prestigiosa o riccamente adorna. Fuori di metafora, intendo
riferirmi alla possibilità che la poesia, intesa come spazio di memoria, possa disattendere al
suo compito di riattivare un sapere critico, diventando invece uno spazio di non-dialogo o
un reperto archeologico di una comunicazione ormai inerte(4).
Nella metafora del mausoleo si coagulano molteplici significati: da un lato, essa rimanda al luogo in
cui la poesia, ormai incapace di dialogare e comunicare, giace nel secondo Novecento, dallřaltro
lato, lřimmagine del mausoleo è funzionale alla volontà del poeta di lanciare il proprio memento
mori ad unřumanità che persegue ciecamente il mito del progresso, non accorgendosi che, come si
legge nella ballata dedicata allřamericano economista del lavoro Frederick Winslow Taylor (18561915), Ŗlo sfruttamento della scienza diventa scienza dello sfruttamentoŗ(5).
Per dimostrare questa teoria, la storia del progresso di Enzensberger coinvolge i maggiori
astronomi, filosofi, scienziati ed esploratori della storia occidentale dellřumanità, i quali hanno
elaborato sistemi di pensiero sempre più complessi, con lřintento di dominare la natura. Al centro
della riflessione di Enzensberger si trova qui il concetto di Bewußtseins-Industrie, che dà il titolo a
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un celebre saggio dello scrittore apparso nel 1962 e con il quale viene designata quella Ŗindustria
della coscienzaŗ nella quale sono dialetticamente implicate la sfera pubblica e la coscienza
individuale. Sensibile è qui lřinflusso della Dialettica dell‟illuminismo di Th. W. Adorno e M.
Horkheimer, della quale Enzensberger condivide la tesi che vede nella tecnologia e nei mezzi di
comunicazione uno strumento affinatosi nel tempo per manipolare la verità storica, ma anche per
emanciparsi dalla natura, ampliando i confini della concezione della Kulturindustrie (Ŗindustria
culturaleŗ) offerta dai filosofi di Francoforte(6). Scienza e coscienza diventano con Mausoleum i
poli della dialettica m(a)useale di Enzensberger relativa alla storia dellřindustria culturale e dello
sfruttamento naturale, di cui la poesia è caduta vittima. Qui non si può peraltro dimenticare che,
ancora allřaura inattuale della poesia nella società di massa, Enzensberger ha dedicato dieci anni
prima di Mausoleum la raccolta Museum der modernen Poesie (Museo della poesia moderna,
1960), il cui titolo rimanda ancora alla condizione antica, frusta e museale dellřars poetica nella
contemporaneità, dove la poesia, non appena viene prodotta, diventa subito un vuoto oggetto da
museo incapace di insegnare alcunché, ma solo spendibile come object trouvé da esposizione.
Nel solco di queste riflessioni di Enzensberger sul progresso, sulla società e sulla poesia si
collocano anche i tre quadri lirici Ŕ rispettivamente strutturati in 8, 21 e 7 brevi componimenti Ŕ di
Nach der Natur. Ein Elementargedicht (Secondo natura. Un poema degli elementi, 1988), opera con
cui W.G. Sebald ha ripercorso la vita di altrettanti individui, incastonandone il destino nella storia
europea delle idee. Queste tre elegie postmoderne, dominate da un sentimento di ineffabile
malinconia, svelano al loro lettore quella medesima concezione labirintica della storia che soggiace
alle ballate di Enzensberger e induce Sebald a ricercare le Ŗanse del tempoŗ(7). Esse sono spazi al di
là del tempo cronologico, chiamati dallřautore anche Ŗvortici della storiaŗ, in cui si esperisce una
percezione a tale punto intensa del reale da esorbitare in una vera e propria illuminazione. Si tratta,
per il nostro autore, di Ŗun sentimento di assoluta assenza, unřimmagine post-storica, e non si sa con
precisione in quale direzione il vortice ti porti, indietro nel passato, oppure avanti nel futuro. Ma si
sa che ciò che viene indicato come destino collettivo dellřumanità ha molto a che fare con queste
cose, con questa follia organizzata della nostra specieŗ (8).
A fronte degli sforzi compiuti dai più illustri esponenti della filosofia e della scienza occidentale per
dominare lo spazio e il tempo, questi vortici permangono incastrati nelle Ŗstereometrieŗ(9) di
questřultimo come Ŗmacchie di nebbia che nessun occhio dissolveŗ(10). Così, recita lřesergo posto
da Sebald a epigrafe del secondo dei quatto racconti lunghi di Die Ausgewanderten (Gli emigrati,
1996), intitolato Paul Bereyter, personaggio dietro al quale si cela Armin Müller, il maestro
elementare dello scrittore suicidatosi nel 1984. Leggendo il motto, la mente sarebbe tentata di
correre allo schopenhaueriano velo di Maya, ovvero al fenomenico tessuto di apparenze che
avvolge la realtà e cela il noumeno. Non si tratta però in questo caso di unřindiretta allusione a
Schopenhauer, quanto piuttosto di una delle molte citazioni nascoste, tratte da Sebald dalla
tradizione letteraria e filosofica tedesca, che nutrono la trama delle sue opere narrative, liriche e
saggistiche. Infatti, lřautore bavarese attinge dal paragrafo 14 della Vorschule der Ästhetik
(Iniziazione allřestetica, 1804) di Jean Paul Richter(11). In questřopera il romantico tedesco si
produce in larga misura in una discussione concernente il Ŗgenio artisticoŗ, richiamandosi nel passo
in questione alle figure di Socrate, Jakob Böhme e Georg Hamann. Ponendosi lřobiettivo di
confutare i fondamenti razionali della filosofia kantiana, Richter traccia un percorso nella storia
della ribellione geniale al primato della ratio¸ la quale trova i suoi punti più alti nella lotta di
Socrate al pensiero sistematico della tradizione antisofistica del V sec. a. C., nel misticismo tedesco
del XVI secolo di Böhme e nella filosofia irrazionale e visionaria di Hamann. Perciò, a proposito
dei tre illustri personaggi, nellřIniziazione all‟estetica si legge:
A qualche indole divina è imposta a forza una forma informe, come a Socrate il corpo da
satiro; perché è alla forma e non alla materia interiore che il tempo reagisce. Così lo
specchio poetico, con cui Jakob Böhme riflette il cielo e la terra, stava appeso in un luogo
oscuro; e al vetro manca anche in qualche punto la lamina. Così il grande Hamann è un
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cielo profondo colmo di stelle telescopiche, e ci sono macchie di nebbia che nessun occhio
dissolve(12).
Pare dunque che Sebald non abbia consacrato la propria narrazione al pessimismo di Die Welt als
Wille und Vorstellung (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819), ma abbia deciso di porre
le vicende di Bereyter, il quale è pure jeanpaulianamente un collezionista di oggetti, sotto lřegida
della speculazione romantica sul genio. Cionondimeno, la concezione romantica della natura, della
storia e della metafisica giocano un ruolo importante nella produzione lirica e narrativa di Sebald.
Già il rimando allřIniziazione all‟estetica ci riporta sulle tracce delle speculazioni hegeliane,
relative alla necessità di fondare nellřOttocento una nuova mitologia occidentale capace di
esprimere lřaccordo profondo tra la vita dellřuomo e le forze della natura, abbozzate nel
paradigmatico Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus (Più antico programma
dell‟idealismo tedesco, 1797) e esplicitate nelle dense Vorlesungen uber die Philosophie der
Geschichte (Lezioni sulla filosofia della storia, pubblicate postume nellředizione dei Werke del
1848) pure con lřintento di dibattere la questione dellřesistenza dellřanima e superare una visione
melancolica della storia occidentale(13).
Le tre lunghe liriche di Secondo natura possono essere iscritte sia nellřalveo della speculazione
concernete il genio e la peregrinazione dello spirito occidentale dalla Grecia alla Germania,
dibattuta agli albori della Moderne anche da Friedrich Nietzsche, sia nellřambito della hegeliana
necessità di elaborare una nuova Ŕ cioè moderna e contemporanea Ŕ mitologia capace di esprimere
il rapporto dellřuomo con la natura. Non a caso, infatti, Sebald traccia con questřopera un percorso
attraverso tre epoche storiche, dalle quali si evince il tragitto seguito dal Geist tedesco dalla gotica
oscurità del Medioevo alla bulimica follia del vedere dellřetà barocca, dalla volontà tassonomica e
razionalista dellřilluminismo fino alla postmoderna dialettica negativa del personalissimo mito della
distruzione elaborato dallo scrittore e inscenato nelle sue opere(14).
Nach der Natur è già dal titolo un manifesto di poetica, poiché esso fornisce al lettore una precisa
indicazione per lřermeneutica del testo. La preposizione nach possiede in tedesco un valore modale
e temporale, perciò Secondo natura è una valida traduzione italiana del titolo, che veicola lřintento
dellřopera di celebrare in versi liberi le distruttive leggi naturali, ma Dopo la natura sarebbe stata
una scelta altrettanto possibile, perché Sebald restituisce in particolare nellřultima parte del poema
lřimmagine di una creazione resa esangue e post-naturale dallřazione della civilizzazione e della
tecnicizzazione. Nutrono qui il pensiero sebaldiano le teorie sul tramonto dellřOccidente elaborate
da Oswald Spengler negli anni Venti del Novecento, le quali rimandano per filosofico giocoforza al
pensiero nietzscheano sul tramonto degli idoli e sulla fedeltà alla terra di Also sprach Zarathustra
(Così parlò Zarathustra, 1883-1885), mentre nellřultima parte del poemetto sono chiari i richiami ai
capisaldi della Dialektik der Aufklärung (Dialettica dell‟illuminismo, 1947) di Th. W. Adorno e
Max Horkheimer.
Benché nella presente lettura di Secondo natura si sia volutamente deciso di lasciare al margine
della riflessione il pensiero dei maestri della Scuola di Francoforte(15), ancora da unřopera di
Horkheimer è possibile muovere per comprendere il significato profondo di Secondo natura, il cui
sottotitolo è pure incentrato su una significativa duplicità semantica che si lascia difficilmente
incanalare. Sebald ha scelto come sottotitolo del trittico lřindicazione di genere Elementargedicht:
si tratta di un neologismo che non trova riscontri nella tradizione letteraria tedesca e, già per questo
motivo, richiede unřattenzione particolare. Lřoriginalità dellřopera è infatti tutta contenuta in quel
termine che si colloca sul crinale di due significati: da un lato, Ŗpoema degli elementiŗ e, dallřaltro,
Ŗpoema elementareŗ. Se il primo significato del composto tedesco, scelto anche come sottotitolo
della traduzione italiana, è il più immediato e ha caratterizzato diverse letture di Secondo natura
nellřottica di un poema dedicato, sulla scia del De rerum natura di Lucrezio, ai quattro elementi che
sostanziano il creato, la seconda accezione del termine non è stata sinora oggetto di particolare
attenzione(16). Eppure, la dicotomia semantica veicolata dal sottotitolo del poema è di per sé
eloquente delle intenzioni che hanno mosso la penna di Sebald nel momento in cui ha composto le
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sue tre elegie postmoderne, affidando ai loro protagonisti il compito di ricostruire lřalternarsi delle
fasi di declino e ascesa dello spirito tedesco lungo lřasse del tempo. Qual è quindi il significato del
composto Ŗpoema elementareŗ e perché Sebald lo ha posto a sottotitolo di Secondo natura?
Innanzitutto, è necessario contingentare il momento storico in cui Sebald colloca Come la neve sulle
Alpi, il primo dei tre poemetti che compongono il trittico, il cui protagonista è il pittore Matthias
Grünewald (c. 1475-1528). Esso è pervaso da una religiosità medievale scandita da riti cristiani,
magistralmente riprodotti dallřartista nelle sue tavole, che rendono manifesto il profondo
ancoramento alla religione e alla trascendenza dellřepoca in cui egli visse e operò, ossia durante il
nascere e lřaffermarsi della riforma luterana. Il periodo storico in cui si snoda il primo medaglione
biografico del poema è quindi centrale per lo spirito tedesco, poiché la biografia di Grünewald si
incrocia con almeno due eventi che hanno comportato profondi cambiamenti nella Germania del
Cinquecento: lřaffissione delle tesi da parte di Lutero al portone del Duomo di Wittenberg il 31
ottobre 1517 e il cosiddetto Bauerkrieg, la guerra ingaggiata dai contadini tedeschi del sud contro lo
status quo dei Principati che raggiunse il proprio acme fra il 1524 e il 1526. Se questřultima, infine,
si concluse con la repressione e lřordine precedente venne ristabilito, la riforma luterana, le cui
ricadute sulla forma mentis del vecchio Continente fu pari solo alla riforma anglicana, impresse un
andamento nuovo al corso della storia tedesca ed europea. Sul versante delle scoperte geografiche e
scientifiche non va, inoltre, dimenticato che solo venticinque anni prima della scomunica di Lutero,
Cristoforo Colombo aveva scoperto lřAmerica, e che trentřun anni più tardi sarebbe nato Tycho
Brahe, lřastronomo che, dopo avere studiato a Wittenberg, fece costruire sullřisola di Hven della
natia Danimarca il palazzo-osservatorio di Uraniborg. Pur restando fedele al modello astronomico
geocentrico, benché il suo principale allievo che rispondeva al fatidico nome di Keplero cercasse di
persuaderlo in ogni modo ad adottare la pianta eliocentrica del sistema solare, Brahe confutò la
teoria aristotelica sullřimmutabilità delle sfere celesti universalmente accettata sino ad allora.
Gli anni in cui si consumò la vita di Grünewald furono, perciò, di centrale importanza per la storia
economica, politica, sociale e scientifica dellřOccidente, perciò nel poema gli eventi chiave
dellřepoca sono ricordati in versi fulminei, che condensano in una semplice pennellata di parole
interi archi di tempo:
Della sesta tromba
già sřintende il suono, e la povera lettera
ha da esser pronunciata. Con tintinnare di sonagli
sřannuncia festa solenne, è Pentecoste,
la piena delle acque
sřapprossima, spumeggianti
si uniscono i pianeti
nella casa dei Pesci, lřastro
rosso entra in congiunzione
con Saturno, il segno dei contadini, e un fuoco fantastico
risplenderà quando sřannuncia,
un miserabile arruffone verrà riconosciuto
come il Messia Septentrionalis. (17)
Durante la vita del pittore avvenne quel cambiamento epistemologico e antropologico Ŕ ossia il
passaggio dal Medioevo al Rinascimento tedesco, ricondotto nella citazione tratta da Secondo
natura anche ad influssi astrali Ŕ che Max Horkheimer ha descritto in un modo particolarmente
significativo, se si considera la seguente citazione in relazione agli intenti che hanno mosso la penna
di Sebald durante la stesura di Come la neve sulle alpi:
Nel Rinascimento furono poste le fondamenta della moderna scienza della natura. Il senso
di questa scienza consiste nel rilevare, con il ricorso sistematico allřesperimento, talune
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regolarità nel corso della natura, per esser in grado, in virtù della loro conoscenza, di
provocare o evitare a proprio piacimento il prodursi di determinati effetti; in altre parole:
per dominare nella misura più larga possibile la natura. Mentre nel medioevo il
comportamento intellettuale degli uomini era diretto essenzialmente a conoscere il senso e
lo scopo del mondo e della vita, per cui esso si era in larghissima parte esaurito
nellřinterpretazione della Rivelazione, oltre che dellřautorità della chiesa e dellřantichità, gli
uomini del Rinascimento, in luogo di ricercare quel fine trascendente che si voleva
individuare a partire dalla tradizione, comunicarono a interrogarsi sulle cause terrene,
accertabili mediante lřosservazione sensibile(18).
Di questo epocale momento di passaggio sono testimoni le opere di Grünewald, di cui non a caso
Sebald propone estese ékphrasis in apertura di Secondo natura. Esse denunciano lřirrequietezza di
uno spirito nobile del tempo, capace di sostanziare la propria oggettiva Ŗosservazione sensibileŗ del
creato con quello che, parlando della pittura di Jan Peter Tripp, Sebald ha definito Ŗil sostrato
metafisico della realtàŗ (19). Dinnanzi alle scoperte scientifiche e geografiche del tempo, che
misero in scacco le credenze religione di Grünewald, lřarte poté ancora fornire al pittore un ubi
consistam grazie al quale sublimare le proprie angosce e paure. Così, lřesordio di Secondo natura
pare annunciare unřopera ageografica, il cui ecfrastico incipit si configura come lřestremo tentativo
di Sebald, attuato grazie alle opera di Grünewald, di salvare dallřiconoclastia protestante le
immagini del Cristianesimo e, con esse, la medesima religione della Salvatore. Sebald descrive
unřintera teoria di Santi avvalendosi dellřékphrasis della pala dřaltare di Lindenhardt dipinta da
Grünewald nel 1503 circa. Questa piccola tavola costituisce, inoltre, il pre-testo dellřintero
poema(20), poiché racconta quella storia naturale della sofferenza propria dellřumanità che percorre
tutta lřopera dello scrittore in un Ŗintreccio fra pessimismo cosmico e storico, dove al «mattatoio
della distruzione», in cui si manifesta quellř«insano bricoleur» che è la natura, fa da contrappunto lo
«sventurato corso della storia» con le mille declinazioni della volontà di potenzaŗ(21).
Nellřeconomia del poema, la descrizione della pala dřaltare di Lindenhardt prelude allřékphrasis del
vero capolavoro di Grünewald: unřimponete opera di pittura e architettura realizzata nel monastero
di SantřAntonio a Isenheim e costituita da quattro grandi ante mobili, dipinte su entrambi le facce,
da due sportelli fissi e da una predella dipinti su di unřunica faccia. Grünewald lavorò circa quattro
anni a questa pala alta tre e larga sei metri, sulla cui prima faccia sono raffigurati, da sinistra a
destra, San Sebastiano, la Crocefissione e Sant‟Antonio, mentre nella predella è rappresentato il
Compianto sul Cristo morto. La seconda faccia, visibile aprendo i primi sportelli della pala,
presenta la Annunciazione, la Allegoria della Natività e la Resurrezione. La terza faccia, che appare
dopo aver aperto ulteriori sportelli, presenta al centro le statue lignee di Sant‟Antonio abate,
Sant‟Agostino e San Girolamo, mentre nella predella si trovano le sculture del Cristo fra gli
apostoli, eseguite da Niklaus Hagenauer di Strasburgo e da Desiderius Beychel nei primi anni del
secolo, fiancheggiate da due pannelli ancora dipinti da Grünewald, raffiguranti i Santi eremiti
Antonio e Paolo e le Tentazioni di Sant‟Antonio(22).
Al cospetto di questa storia del cristianesimo e dellřumanità, Sebald rimane però colpito da un
particolare non certo trascurabile per chi, come il nostro autore, ha da sempre posto il concetto di
Ŗsventuraŗ (Unglück)(23) al centro delle proprie opere liriche, narrative e saggistiche:
Ma la vita in quanto tale, così come raggiunge
ovunque e inesausta spaventoso compimento,
non compare mai sulle ante dellřaltare,
le cui figure già sono affrancate
dalla sventura dellřesistenza, se non in quella
tregenda irreale e folle che Grünewald,
ha costruito intorno al SantřAntonio della Tentazione,
per la chioma trascinato a terra da un orrido mostro. (24)
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Le dettagliate ékphrasis delle opere di Grünewald, attorno alle quali Sebald struttura le otto liriche
di Secondo Natura dedicate al pittore bavarese non senza indugiare su particolari della vita del
maestro, adombrano così lřinsorgenza di una concezione non religiosa, se non già nichilistica, del
creato. Grazie ai suoi dipinti, secondo Sebald, è infatti possibile maturare la convinzione che
Grünewald non concepisse la creazione come opera di Dio, ma con orrore come lř
immagine della nostra insana presenza
sulla superficie terrestre,
di una rigenerazione che corre
lungo ripidi tracciati,
le cui forme parassitarie,
avvinghiate lřuna allřaltra e
lřuna allřaltra dipartite e già concresciute,
come infero sciame irrompono,
nella quieta dellřanacoreta.
Così Grünewald descrisse,
usando tacito il pennello,
le urla, le grida, i gorgoglii
e i farfuglii dřuna recita patologica,
alla quale, come ben sapeva, lui stesso e la sua arte
appartenevano. (25)
A sua volta lřuomo, come emerge chiaramente dal poema sebaldiano, è una forma parassitaria della
creazione e, perciò, cerca di ricondurre la natura al proprio dominio, poiché Ŗignara di equilibriŗ e Ŗ
ciecaŗ essa
compie, lřuno dopo lřaltro,
esperimenti privi di costrutto
e, come insano bricoleur, ecco
distrugge quanto appena ha creato.
Sperimentare fino al limite postremo,
è lřunico suo scopo, germinare,
perpetuarsi e riprodursi,
anche in noi e attraverso di noi, e mediante
i congegni nati dalle nostre menti,
in unřunica accozzaglia,
mentre, alle spalle, gli alberi verdi
già perdono le foglie e,
nudi, come spesso di vedono nei quadri
di Grünewald, svettano incontro al cielo,
ricoperti i rami morti
dřuna stillante materia paludosa. (26)
I dipinti di Grünewald sono come tavoli autoptici sui quali lřuomo viene sezionato e scansionato in
profondità per pervenire alla verità dellřesistente. Come chi cerca di scoprire cosa sia il tempo
smontando un orologio, Sebald attraverso le opere del pittore bavarese penetra nella carne
dellřuomo nel tentativo di comprendere, infine, il significato della creazione. Anche a questo
obiettivo mira il poema, che proprio perciò si può definire Ŗelementareŗ: Secondo natura si snoda
attraverso i tre fondamentali ontologici dellřuomo (la nascita, la vita e la morte) cercando di
individuare gli elementi portanti di unřantropologia etica che distingua lřuomo dagli animali.
Sempre agito dai suoi elementi, come suggerisce già intuitivamente il titolo del poema, lřessere
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umano ingaggia in ogni istante della sua vita una lotta antagonista con la natura attraverso la quale
emanciparsi dalla sua azione, pur nella consapevolezza che infine sarà essa a predominare. Al
centro di questa lotta si trova il tempo, la divinità della modernità come lřha definita Sebald(27),
alla cui azione anche i tre protagonisti di Secondo natura cercano di opporsi.
La sfida contro il tempo e la lotta contro la sperimentazione della natura trovano il proprio esito
nellřidea di progresso germinata nel Medioevo dallřŖedificio di una metafisicaŗ(28) definitivamente
sgretolatosi. La consapevolezza del di Grünewald di vivere in momento di svolta per la storia dello
spirito occidentale si lascia cogliere appieno dallřosservazione delle sue opere, tutte immerse
nellřestremo Ŗbagliore della luce / che strapiomba nellřAldilàŗ(29). Un Ŗoscuramento
catastroficoŗ(30) avvolge i dipinti di Grünewald, cosicché su di essi si allunga sempre lřombra
lunga della distruzione: Ŗqui è dipinta in uno stato di erosione grave / e di abbandono lřeredità del
logoramento / che alla fine divora anche le pietreŗ(31). I paesaggi naturali che fanno da sfondo alla
storia del cristianesimo raffigurata dal pittore sono perciò statici, immobili e colti nellřistante in cui
lřoscurità Ŗnon si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di
quante cose cadano incessantemente nellřoblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti
per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé
incapaci di ricordo, non vengano udite, annotate o raccontate ad altri da nessunoŗ(32).
La poetica del ricordo e la storia naturale della distruzione che soggiacciono alle opere di Sebald
trovano perciò il proprio precipitato visuale nelle tavole dellřaltare di Isenheim, le cui descrizioni
sono pure funzionali, nellřeconomia di Secondo natura, a narrare la storia del progresso. A tale
proposito, la pala di Isenheim si dimostra essere profetica degli esiti più aberranti e distanti dalla
natura cui lřuomo è pervenuto nel XX secolo attraverso il culto dissennato di una tecnologia ispirata
allřideale di un progresso in continua evoluzione. Come ha magistralmente scritto Elias Canetti,
autore molto amato da Sebald, riferendosi alla pala di Isenheim nella sua autobiografia Il frutto de
fuoco:
Troppo spesso, forse, il compito più insostituibile dellřarte è stato quello dimenticato: non è
la catarsi, né la consolazione, né il talento di disporre ogni elemento in funzione di un lieto
fine. Perché il lieto fine non ci sarà. Ma peste, e piaghe, e tormento, e orrore - e se la peste
ha smesso di infierire, al suo posto inventiamo orrori più atroci […] Tutti gli orrori che
incombono sullřumanità sono anticipati in questo dipinto. (33)
Alla luce di questa citazione, si può concludere che la prima elegia di Secondo natura possa essere
considerata anche il pre-testo dellřintero poema elementare di Sebald, i cui due successivi
medaglioni lirici Ŕ intitolati …E se trovassi dimora sul più lontano dei mari e La notte oscura
prende il largo – proseguono lřepos in versi della storia naturale dellřumanità, dello spirito
occidentale e del progresso.
Il secondo viaggiatore dello spirito di Secondo natura è lřesploratore e medico Georg Wilhelm
Steller (1709-1746); egli si pose al servizio di Vitus Behring, seguendolo nella spedizione del 1741
in Siberia, durante la quale questřultimo incontrò la morte. Con Behring Ŕ ma come è noto con lo
stesso Sebald Ŕ, Steller condivide quella passione per la catalogazione e lřarchiviazione
dellřesistente, figlia del culto illuministico della ragione, dietro la cui tassonomica ossessione si
spalanca lřhorror vacui congenito a qualsiasi concezione meccanicistica e nichilistica dellřuomo
che esclude lřesistenza del divino. Profondamente illuminista, perciò votato alla causa
dellřesplorazione razionale del mondo come espressione del progresso e del processo di
emancipazione dellřuomo dalla natura, Steller è, infatti, ossessivamente alla ricerca di Ŗcostruzioni
della scienza nella sua mente, / miranti a porre un limite / al disordine del mondoŗ(34). Dopo avere
Ŗrinnegato la teologia / per abbracciare le scienze naturaliŗ(35) in giovane età, egli matura una
percezione del mondo retta da uno sguardo catalogatore che trova nella letteratura tedesca
ottocentesca un nobile esponente, esplicitamente ricordato da Sebald nel secondo medaglione di
Secondo natura. Si tratta di Adalbert von Chamisso che, nel 1815, venne nominato botanico della
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nave russa Rurik, a bordo della quale intraprese un viaggio scientifico intorno al mondo. Per
raccontare le tappe dellřesplorazione dellřartico intrapresa da Steller, Sebald si avvale dei diari di
viaggio di Chamisso e del resoconto ufficiale della spedizione, sempre a firma dellřautore
romantico, Reise und die Welt (Viaggio attorno al mondo, 1836) (36). Grazie al metodo del
Ŗbricolageŗ associativo e allusivo che regge la struttura del poemetto sebaldiano(37), la spedizione
di Steller e il viaggio di Chamisso, pur cronologicamente inconciliabili, non solo vengono associati,
ma persino assimilati e sovrapposti lřuna allřaltro. Steller è come unřombra del passato che si
proietta su Chamisso, il quale Ŗparla […] della macchina a vapore, / come del primo animale a
sangue caldo / uscito dalle mani dellřuomoŗ(38). La continuità Ŗumbratileŗ fra Chamisso e Steller
induce a ricordare lřopera più celebre dello scrittore romantico: Storia straordinaria di Peter
Schlemihl (1814), il cui povero protagonista vende la propria ombra a un misterioso uomo in grigio
in cambio di una magica borsa, dalla quale si possono estrarre in continuazione monete. Dopo una
serie di traversie fantastiche, Peter Schlemihl getta la borsa magica e dona le proprie ricchezze al
fedele servitore Bendel, decidendo di abbandonare il mondo civile, in cui lřassenza dellřombra gli
crea difficoltà insormontabili, per intraprendere un viaggio attraverso il mondo; dopo avere rifiutato
il baratto con lřuomo in grigio della propria anima con lřombra, Schlemihl inizia lřesplorazione del
mondo con lřausilio di aiuti magici, nello specifico degli stivali dalla sette leghe. Se nellřelegia che
Sebald dedica a Steller nulla riemerge del meraviglioso dello Schlemihl, ma anzi questo aspetto è
rifiutato a priori dalla mentre razionale dellřesploratore settecentesco, nella chiusa del quadro lirico,
non viene certamente dimenticata la conclusione della storia straordinaria del personaggio di
Chamisso. Egli, infatti, alla fine del racconto troverà la serenità nello studio delle scienze naturali
lontano dalla società. Parimenti, Steller compie nella chiusa del secondo quadro lirico del poema un
atto di regressione nella natura, sulla quale condurrà negli anni che lo separano dalla morte uno
studio scientifico del tutto paragonabile a quello schlemihliano descritto nella conclusione della
Storia straordinaria di Chamisso Ŕ ciò tanto nei mezzi, attraverso i quali esso è condotto, quanto
nel fine, la felicità, che esso si prefigge:
Steller colleziona materiale botanico,
riempie cartocci di semi già secchi,
descrive, classifica, disegna,
seduto nella sua nera tenda da viaggio,
per la prima volta, in vita sua, felice. (39)
Una volta rifiutata la cosiddetta civiltà, Steller diviene un naturalista, ma anche un antropologo ante
litteram che scrive Ŗmemoriali in difesa / delle popolazioni indigeneŗ e Ŗcomprende appieno la
differenza tra natura e societàŗ(40). Così, il cerchio della ricerca di se stesso, di cui le
peregrinazioni di Steller sono espressione, si chiude: lřesploratore settecentesco, dopo avere
abbandonato la metafisica e intrapreso la strada del naturalista, approda a una nuova e più profonda
consapevolezza antropologica e scientifica grazie allřincontro con lřaltro da sé reso possibile dal
viaggio stesso(41). Grazie allřexemplum di Steller, Sebald ha evidentemente voluto rendere
omaggio a quegli antropologi e scienziati di epoche diverse che hanno influito in modo decisivo
sulla sua formazione e sul suo metodo letterario, come Chamisso, Alexander von Humboldt e
Claude Lévy-Strauss. Eppure, ma anche perciò, la lettura di Secondo natura non può essere
semplicemente incanalata nei rigidi binari della celebrazione della scienza e delle sue scoperte,
perché anche laddove il poema pare concedere tutto alla ragione e al freddo calcolo, intesi come
viatici per comprendere la struttura profonda della natura, il sentimento e la fede si manifestano
come possibili alternative gnoseologiche del creato. Così, ad esempio, il monologo interiore che
accompagna lřuscita di Steller dalla società civile per abbandonarsi romanticamente alla natura
potrebbe persino disorientare, se messo in quadratura con lřapproccio razionale al mondo al quale
lřesploratore è stato sino a quel momento fedele:
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239
Se Ti compiaci di questo viaggio,
egli diceva fra sé, sii Tu
sprone dei nostri passi,
conforto lungo il cammino, ombra
nella calura del meriggio,
luce nelle tenebre,
riparo dal gelo e dalla pioggia,
veicolo nellřora della stanchezza,
aiuto nel bisogno,
così che sotto la Tua guida
giungiamo indenni
al luogo che ci è destinato;
abbi cura Tu, Signore,
affinché sopra di noi sia propizia
la congiunzione astrale. (42)
Ritrovata nel ŖSignoreŗ la propria Ŕ e ancora schlemihliana Ŕ Ŗombraŗ, Steller può finalmente
comprendere la natura nella sua complessità, divenendo il simbolo di una riuscita sintesi fra
ragione, fede e sentimento(43). Una magia inspiegabile circonfonde dřaltronde lřintera storia di
Steller: dallřesergo tratto da Klopstock che introduce al lettore il medaglione lirico ai diversi
rimandi alla pittura romantica di Kaspar David Friedrich presenti nei versi(44), la natura si
manifesta a Steller nel kantiano sublime dinamico e statico, mentre la volontà dello scienziato di
comprenderla razionalmente si infrange, come la nave sulla quale egli viaggia verso la Siberia, sugli
scogli posti alla ragione dallřistinto e dal sentimento. Come Grünewald, lo Steller che attraversa Ŗun
unico grigio / senza meta, senza né sopra né sotto, / la natura in un processo / di distruzione / in uno
stato di pura insaniaŗ(45) assurge a testimone della tragica consapevolezza che attanaglia lo
Zeitgeist dellřepoca cui vive: a prescindere dalla fiducia nella ragione, è impossibile comprendere
solo per suo tramite la natura(46).
Il sentimento, rappresentato anche dallřombra di cui Steller si riappropria nellřestrema parte della
propria vita, è necessario per approcciare con il cuore la natura e pervenire a una profonda
conoscenza dellřumanità. Questa sebaldiana convinzione, veicolata da diversi passi di Secondo
natura(47), riemerge anche dalle opere in prosa dello scrittore, come già dal titolo dalla raccolta di
quattro racconti Schwindel. Gefühle. (Vertigini. Sentimenti) apparsi nel 1995 nella collana Die
andere Bibliothek diretta da Hans Magnus Enzensberger. Ascrivendo al sentimento un ruolo
centrale nel processo di conoscenza della realtà, essi offrono una rappresentazione del passato,
contemporaneamente fittizia e documentaria, che non esita a confrontarsi con i Ŗbalenii dellřirreale
nel mondo realeŗ (48). Il sentimento assume, perciò, una valenza duplice nellřopera di Sebald: esso
traduce, a livello emozionale, la Ŗvertigineŗ evocata dal ricordo e assume al contempo un valore
consolatorio, innalzandosi a Řstrategiař di salvezza psicologica di un soggetto che non è in grado di
affrontare un lavoro di memoria dominato dalla melancolia. La scrittura di Sebald si concreta,
infatti, in biografie melancoliche che rendono lo spazio lirico e narrativo un luogo delegato allo
scavo archeologico nella Storia e nella memoria collettiva europee condotto nella consapevolezza
che il passato possa essere falsificato e manipolato. Come scrive Enzensberger nella ballata di
Mausoleum dedicata a Piranesi, Ŗlřarcheologiaŗ non è, infatti che Ŗun nuovo concetto in Europa,
una nuova follia. Il passato vien salvato, depredato. Lřantichità è una utopia. Da riesumare e
riprodurre. [...] Dalle cave della storia sgorga un fiume di falsiŗ(49).
Perciò, la terza sezione di Secondo natura si configura come spazio di evocazione dei tabù collettivi
della Germania del secondo Novecento, in cui Ŗlřelemento autobiografico è soltanto un punto di
partenza che viene relativizzato dalla sapiente arte di Ŗperdersiŗ e di Ŗritrovarsiŗ nella coscienza
altruiŗ (50). Questo procedimento retorico, posto da Sebald a fondamento della terza stazione del
suo poema elementare, rappresenta la prospettiva da cui lřautore si è avvicinato nel 1999 ai traumi
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rimossi della collettività tedesca con Luftkrieg und Literatur (trad. it. Storia naturale della
distruzione, 2004), contestato saggio in cui il germanista ha affrontato la questione dellřassenza
nella letteratura del dopoguerra di rappresentazioni estetiche convincenti della guerra di
bombardamento perpetrata dagli alleati sulla Germania durante la seconda guerra mondiale. In
questa circostanza, lřelemento biografico ha consentito cioè a Sebald di mantenere lřoggettività del
reporter e, al contempo, di muovere dal proprio vissuto(51), enucleando gli eventi del passato che
hanno gettato unřombra lunga sulla sua vita, come si legge in Storia naturale della distruzione:
Ho trascorso lřinfanzia e lřadolescenza in una zona che si estende lungo il margine
settentrionale delle Alpi, zona largamente risparmiata dalle immediate conseguenze delle
cosiddette operazioni militari. Alla fine della guerra avevo appena un anno ed è quindi
difficile che, di quellřepoca segnata dalla distruzione, io possa avere serbato impressioni
fondate su eventi reali. Eppure ancora oggi, quando guardo fotografie o documentari del
periodo bellico, ho come la sensazione di esserne il figlio, come se di là, da quegli orrori
che non ho vissuto, cadesse su di me unřombra alla quale non potrò mai sfuggire del tutto.
(52)
Di ombre che riemergono dal passato, Sebald parla diffusamente nella terza parte di Secondo
natura, il cui esergo, tratto dalla prima Egloga delle Bucoliche di Virgilio, già allude esplicitamente
al ritorno del rimosso che esse rappresentano: Ŗet iam summa procul villarum culmina fumant,
maioresque cadunt altis de montibus umbraeŗ(53). Sebald parla nel terzo medaglione lirico
dellřopera delle ombre del proprio passato attraverso la restituzione letteraria della propria memoria
individuale: La notte oscura prende il largo, così il titolo della terza sezione del poema, si apre con
il tentativo dello scrittore di restituire attraverso lřausilio di fotografie Ŕ non riprodotte in Secondo
natura, che è il solo testo dellřautore privo di apparato iconografico Ŕ la storia della sua famiglia a
partire dal 9 gennaio 1905, Ŗquando il nonno e la nonna / in una carrozza aperta / partirono, nel
freddo pungente, / da Kloster Lechfeld alla volta / di Obermeitingen, per convolare a nozzeŗ(54).
Sebald ricostruisce poi, avvalendosi sempre di una tecnica associativa, la propria infanzia e il
proprio peregrinare nella seconda metà del Novecento attraverso i resti e le rovine dello spirito
occidentale, ricordando i propri viaggi in Europa e il suo trasferimento in Inghilterra, dove visse dai
primi anni Sessanta sino alla morte(55). Dinnanzi al definitivo tramonto dello spirito occidentale nel
secondo Novecento, causato dal colpo mortale del nazionalsocialismo agli ideali etici che lo
sostanziavano, lřautore non può che affidarsi ai capisaldi della tradizione nazionale per
intraprendere un progetto di ricostruzione dalle fondamenta della cultura tedesca Ŗper la salvezza
dellřOccidenteŗ(56). Anche perciò, nella terza lirica di Secondo natura espliciti sono i rimandi a
Paracelso, secondo il quale Ŗda septentrione nulla giunge di buonoŗ(57), sebbene il riferimento
allřalchimista più celebre della tradizione germanica riconduca, al contempo, il poema nellřorbita
della magia e dellřascendenza degli astri sul destino individuale e collettivo. Lřattenzione in diversi
passi di Secondo natura ai quadri astrali e alle costellazioni, sotto i quali si sono svolti eventi
decisivi della storia europea, è ribadita da Sebald sin dallřincipit della seconda lirica che compone il
terzo quadro del poema:
Quando il giorno dellřAscensione
dellřanno quarantaquattro io venni al mondo,
davanti a casa nostra stava giusto passando,
al suono della banda dei pompieri,
la processione propiziatoria diretta ai campi fioriti
del maggio. La mamma, sulle prime,
lo ritenne un buon auspicio, ignara
che la costellazione di quellřora
fosse sotto lřegida del freddo pianeta Saturno
e che sui monti
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già sřannunciasse il temporale, destinato
a disperdere gli oranti e a fulminare uno
dei quattro, intenti a portare il baldacchino. (58)
Riti ancestrali e tradizione ermetica sono qui chiaramente evocati, inducendo anche ad una lettura di
Secondo natura come un poema elementale. Oltre a ad essere elementare e relativo ai quattro
elementi, la cui azione costituisce il basso continuo della storia naturale della distruzione, si
potrebbe, infatti, leggere questřopera come un poema riconducibile alla cultura ermetica, alchemica
e misteriosofica di Paracelso e dei suoi successori, che scorge nel creato la presenza delle
leggendarie creature Ŗelementaliŗ costituite da uno dei quattro elementi: aria (silfidi), acqua
(nereidi, ondine e ninfe), fuoco (salamandre) o terra (elfi, gnomi e driadi). In questa prospettiva
elementare ed elemantale trova una spiegazione anche il misterioso ŖTàtaro lillipuzianoŗ che nella
terza parte di Secondo natura puntualmente si manifesta in occasione di una catastrofe:
In antropologia,
questa figura, spesso associata a certe forme
di automutilazione, coincide
con quella dellřadepto, che
scala il monte innevato e lassù
resta a lungo, si dice, fra le lacrime. (59)
Questo personaggio riemerge dallřinfanzia bavarese di Sebald e ricorda il Ŗmanichino vestito da
turcoŗ guidato da quel Ŗnano gobboŗ che, nella prima Tesi sul concetto di storia di Walter
Benjamin, si configura come prefigurazione della rammemorazione, oltre a rappresentare la verità
delle cose che sfugge a un approccio completamente razionale alla natura:
È noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa di un
giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava al vittoria. Un manichino
vestito da turco, con un narghilè in bocca, sedeva davanti alla scacchiera, posta su un ampio
tavolo. Con un sistema di specchi veniva data lřillusione che vi si potesse guardare
attraverso da ogni lato. In verità cřera seduto dentro un nano gobbo , maestro nel gioco
degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. (60)
ŖEmblema di una catastrofe silenziosa che si compire, / priva di echi, davanti allo spettatoreŗ, come
Sebald lo definisce rendendo implicitamente omaggio allřopera fondamentale di Hans Blumenberg
Katastrophe mit Zuschauer (Catastrofe con spettatore), il Tàtaro lillipuziano Ŗparlaŗ infatti Ŗdi una
pietra della memoria, / della meta di un pellegrinaggio e di un cubetto / di ghiaccio, colorato con
uno iota di blu di Prussiaŗ(61). È qui allusa una posizione sopraelevata da cui osservare la catastrofe
dello spirito occidentale dopo il nazismo avvalendosi anche di quella metafisica del ricordo
segnatamente sebaldiana(62), che ancora trova un suo presupposto fondamentale nella convergenza
fra ragione e sentimento, fede e materialismo proposta da Benjamin nelle Tesi sul concetti di storia,
allorquando il fine della Ŗrammemorazioneŗ, di cui il nano gobbo è prefigurazione, viene
individuato come segue: Ŗla rammemorazione può fare dellřincompiuto (la felicità) un compiuto e
del compiuto (il dolore) un incompiuto. Questa è teologia; ma nella rammemorazione noi facciamo
unřesperienza che ci vieta di concepire la storia in modo fondamentalmente ateologicoŗ (63).
Grazie alla vertigine della rammemorazione è possibile raggiungere la postazione sopraelevata dalla
quale Sebald ha guardato, come lřangelo della storia di Benjamin, la catastrofe verso la quale
inesorabilmente è scorsa la storia del progresso, nella quale si è sedimentata una
lunga serie dřinfinitesime paure
dal passato prossimo e remoto,
241
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non traducibili nella lingua parlata
del presente […].(64)
Obiettivo della terza sezione del poema sebaldiano è stata perciò anche la ricerca di una lingua della
sventura (Unglück) sospesa fra parola umana, elementare ed elementale, oltre che basata sulla
dialettica della memoria. Tale Ŗlingua del fuocoŗ(65) ha reso possibile una poetica del ricordo
capace di gettare uno sguardo sulla civiltà contemporanea e sulla catastrofe dello spirito
occidentale, Ŗil cui estremo referente nel ventesimo secolo è lřOlocausto, e il cui paradigma
interpretativo continua ad essere determinato dal precetto di Adorno relativo alla poesia dopo
Auschwitzŗ(66). Secondo natura, richiamandosi alla parola poetica della tradizione letteraria
tedesca Ŕ in particolare, nella terza sezione del poema a Friedrich Hölderlin, Albrecht von Haller,
Adelbert von Chamisso e Franz Kafka Ŕ rappresenta, quindi, il laboratorio di sperimentazione in
vitro di una lingua della sventura e della distruzione di cui Auschwitz è lřestremo indicibile. La
macchina della morte nazista, frutto aberrante del progresso, rivela emblematicamente che lo
sviluppo della tecnologia può ingenerare il regresso morale e generare mostri indomabili dallřuomo.
Così, non stupisce constatare che, ricordando il momento in cui giunse a Zurigo, lo scrittore
restituisca in versi il proprio incontro con un ingegnere, il quale si confida a Sebald con queste
parole:
Quante macchine
avevo costruito, quanti impianti,
progettato, finché non persi
la fede nella scienza, al cui servizio
tutta la vita avevo speso.
Ero giunto in una morta
ansa del tempo, come quel Tàtaro
rosso bendato e dalla ricurva penna bianca
avevo vinto la montagna,
e di lassù guardavo la città
che, immagine sbiadita
del gran diluvio, si stendeva lì
davanti a me.(67)
Richiamandosi implicitamente alla speculazione di Lévy-Strauss sulla cultura e sulla
civilizzazione(68), il bricoleur Sebald ha cercato con il suo poema degli elementi di fissare i limiti
di una poetica della catastrofe naturale e, al contempo, dellřapocalisse cagionata sulla terra
dallřinsania di unřumanità votatasi al culto del progresso tecnico-scientifico e ormai incapace di
vivere Secondo natura. Si tratta di una lingua imperscrutabile agli occhi della ragione, ma forse non
a quelli del genio, i quali grazie al sentimento possono spingersi oltre le Ŗmacchie di nebbia che
nessun occhio dissolveŗ.
Raul Calzoni
Note.
(1) Hans Magnus Enzensberger, Mausoleum. Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso, trad. it. di V. Alliata,
Torino, Einaudi 1979, p. 5.
(2) Sulla camaleontica figura di Enzensberger nella letteratura tedesca del dopoguerra sino alla caduta del Muro di
Berlino, cfr. M. Kane (a cura di), After the “Dead of Literature”. West German Writing of the 1970s, Oxford University
Press, Oxford 1989.
(3) Hans Magnus Enzensberger, Mausoleum. Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso, cit., p. 27 [Corsivo
originale].
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243
(4) R. Concetti, M(a)us(ol)ei delle scienze. Riflessioni sulla lirica di Hans Magnus Enzensberger e Durs Grunbein, in F.
Montesperelli (a cura di), Tra Frankenstein e Prometeo. Miti della scienza nell‟immaginario del „900, Liguori, Roma
2006, p. 216
(5) Hans Magnus Enzensberger, Mausoleum. Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso, cit., p. 95.
(6) Sul concetto di Ŗindustria della coscienzaŗ nei suoi addentellati con la riflessione della Scuola di Francoforte, cfr. S.
Mamprin, Tra letteratura e giornalismo. La produzione saggistica di Hans Magnus Enzensberger, Campanotto, Pasian
di Prato (UD) 2009, in particolare p. 15 e seg.
(7) W. G. Sebald, Secondo natura. Un poema degli elementi, trad. it. di A. Vigliani, Einaudi, Milano 2009, p. 93.
(8) Così Sebald nellřintervista ŖHitlers pyromanische Phantasien: W. G. Sebaldŗ, in V. Hage, Zeugen der Zerstörung.
Die Literaten und der Luftkrieg, Fischer, Frankfurt am Main 2003, p. 278.
(9) La concezione stereometrica del tempo nellřopera sebaldiana è stata oggetto di diverse letture, che sono perlopiù
germinate dallřinterpretazione del seguente passo dellřultimo romanzo dellřautore, Austerlitz: ŖA mio giudizio, disse
Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più lřimpressione
che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore
stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione dřanimo, e quanto più
ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti lřaspetto di esseri
irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luceŗ; W.G. Sebald, Austerlitz, Adelphi, Milano 2002, p.
199. Con Enzensberger, Sebald condivide una concezione del tempo di matrice benjaminiana, che non è lineare, ma
appunto stereometrica e il cui simbolo più esemplificativo è la ŖBrezelŗ di cui Benjamin così parla in un articolo del
1916 steso per la Literarische Welt e poi raccolto nelle Illuminationen: ŖIl tempo si inarca nella natura come una
Brezelŗ, W. Benjamin, in Gesammelte Werke, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhauser, Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1980, vol. IV/1, p. 432. Sulla concezione del tempo nellřopera di Sebald, cfr. E. Locher, ŖřThe Time
is out of Jointř. Gli spettri di W.G. Sebaldŗ, in Cultura Tedesca, n. 29 (2005) (W.G. Sebald. Storia della distruzione e
memoria letteraria, a cura di W. Busch), pp. 67-91.
(10) W.G. Sebald, Gli emigrati, trad. it. di A. Vigliani, Milano, Adelphi, 2010, p. 6.
(11) Questa sorprendente ascendenza è stata rilevata per prima da E. Agazzi in La poetica di Jean Paul all‟epoca di Das
älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus. Questioni aperte e risposte possibili sul rapporto tra morale ed
estetica, in ŖCultura tedescaŗ, n. 27 (2004), pp. 63-79.
(12) Jean Paul, Vorschule der Ästhetik, in Id., Gesammelte Werke, a cura di N. Miller, Hanser, München 1996, Parte I,
vol. 5, § 14, p. 64.
(13) Si tratta di unřinclinazione della cultura occidentale che nei suoi intrecci con la magia e la scienza trova
espressione lungo la tradizione letteraria ed artistica tedesca sino ai giorni nostri, come emerge in modo perspicuo Ŕ e
con particolare riferimento allřopera di Thomas Mann Ŕ dallřaffascinante e denso studio di L. Crescenzi, Melanconia
occidentale. La Montagna magica di Thomas Mann, Carocci, Roma 2011.
(14) Cfr. Sulla genesi e sugli esiti del mito e della distruzione nellřopera W.G. Sebald, cfr. R. Calzoni, Poetica della
distruzione e culto delle rovine in Austerlitz di W.G. Sebald, in D. Borrelli Ŕ P. Di Cori (a cura di), Rovine future.
Contributi per ripensare il presente, Lampi di stampa, Milano 2010, pp. 113-128.
(15) Lřermeneutica dellřopera sebaldiana attraverso il pensiero di Adorno ed Horkheimer è stata dominante nella
ricezione critica di Secondo natura. Pur non tacendo in questa sede lřimportanza del pensiero dei francofortesi sulla
poetica della memoria e della natura sebaldiane, si è operata la scelta di concentrarsi sugli aspetti antropologici di
Secondo natura, mentre per una riuscita lettura in chiave adorniana del poema si rinvia a P. Wampfler, »blind /ein
wüstes Experiment«. Bricolage und Experiment in W.G. Sebald »Nach der Natur«, in M. Bies Ŕ M. Gamper (a cura di),
»Es ist ein Laboratorium, ein Laboratorium für Worte«: Literatur und Experiment III 1890-2010, Wallstein, Göttingen
2010, pp. 202-233 (in particolare, cfr. pp. 202-216).
(16) Cfr. G. Bond, On the Misery of Nature and the Nature of Misery: W.G. Sebald‟s Landscapes, in Jonathan J. Long Anne Whitehead (a cura di), W. G. Sebald. A Critical Companion, Edinburgh University Press: Edinburgh 2004, pp. 3144. Per una lettura del poema segnatamente orientata dalle teorie dellřetica eco-centrica, cfr. C. Riordan, Econcentrism
in Sebald‟s After Nature, ibidem, pp. 45-57.
(17) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 35. Sullřinflusso melancolico di saturno sul temperamento individuale e
collettivo, non si può dimenticare qui il fondamentale R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia.
Studi su storia della filosofia naturale, medicina, religione e arte, trad. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1983, per la
cui non trascurabile genesi dai fondamentali scritti di Carl Giehlow, cfr. L. Crescenzi, Melancolia occidentale. La
montagna magica di Thomas Mann, cit., pp. 27-37.
(18) M. Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia. Da Machiavelli a Hegel, trad. it. di G. Backhaus,
Einaudi, Torino 1978, p. 2.
(19) W.G. Sebald, Wie Tag und Nacht Ŕ Über die Bilder Jan Peter Tripps, in Id., Logis in einem Landhaus, Fischer,
Frankfurt am Main 20034, p. 181.
(20) Per una cartografia dei pre-testi sebaldiani, cfr. S. Schedel, »Wer weiß, wie es vor Zeiten wirklich gewesen ist?«
Textbeziehungen als Mittel der Geschichtsdarstellung bei W.G. Sebald, Königshausen & Neumann, Würzburg 2004, p.
36 e seg.
(21) A. Vigliani, Storia naturale della sofferenza. Tracce di pessimismo cosmico nell‟opera di W.G. Sebald, in ŖNuova
correnteŗ, n. 146 (2010), pp. 291-292.
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(22) Sulla centralità del Polittico di Isenheim nella tradizione letteraria tedesca fra Espressionismo e secondo
Novecento, cfr. M. Cervi, Il Polittico di Isenheim nella poetica di Erik Neutsch, in R. Calzoni (a cura di), Forme del
sacro. Numero monografico della rivista ŖElephant & Castle. Laboratorio dell'immaginarioŗ, n. 2 (2010):
http://cav.unibg.it/elephant_castle/web/saggi/il-em-polittico-di-isenheim-em-nella-poetica-di-erik-neutsch/35
(23) Il termine si esplicita in Die Beschreibung des Unglücks, il titolo di una raccolta di saggi dedicata da Sebald nel
1985 alla letteratura austriaca che si richiama al romanzo del 1972 Wunschloses Unglück di Peter Handke (Infelicità
senza desideri, trad. it. di B. Bianchi, nota di G. Cusatelli, Milano, Garzanti 1976). Volutamente si rende qui il tedesco
Unglück con Ŗsventuraŗ (in luogo di Ŗinfelicitàŗ, Ŗsciaguraŗ, Ŗdisgraziaŗ), poiché in questo termine italiano si ravvisa
una stratificazione semantica che bene si accorda alla poetica elementare di Sebald. ŖSventuraŗ raccoglie in sé
lřŖinfelicitàŗ quasi ontologica dei personaggi del trittico lirico e, al contempo, veicola il fatalismo che caratterizza la
percezione della storia dello scrittore e dal quale dipendono pure le Ŗsciagureŗ e le Ŗdisgrazieŗ di cui cadono vittima i
protagonisti delle sue prose.
(24) W.G. Sebald, Secondo natura. Un poema degli elementi, cit., p. 28.
(25) Ibidem, p. 29.
(26) Ibidem, pp. 29-30.
(27) Come nella mitologia classica, il tempo si configura ancora in Austerlitz come una divinità: nella modernità esso è
la divinità attorno alla quale Sebald costruisce il proprio mito della distruzione in immagini e parole. Sin dallřinizio del
romanzo lřattenzione dellřio narrante si rivolge a questa divinità, sulla quale Austerlitz e il suo interlocutore si
confrontano durante il loro primo incontro nella stazione di Anversa. Da esperto di storia dellřarchitettura, Austerlitz
conosce nel dettaglio le fasi di realizzazione della stazione, nei punti elevati della quale - egli osserva - Ŗvengono
introdotte in ordine gerarchico le divinità del XIX secolo: la miniera, lřindustria, il traffico, il commercio e il capitaleŗ
(W.G. Sebald, Austerlitz, cit., p. 109). La lunga descrizione dellřampio atrio della stazione si conclude con un
riferimento allřorologio della stazione, attraverso il quale Austerlitz propone un significativo parallelo: ŖE fra queste
figure simboliche, disse Austerlitz, quella che sta al vertice è il tempo, rappresentato dalle lancette e dal quadrante. Una
ventina di metri al di sopra della scalinata a forma di croce che unisce lřatrio ai binari (unico elemento barocco
nellřintero complesso), là dove nel Pantheon si poteva vedere lřimmagine del sovrano a diretto prolungamento del
portale, proprio là si trova lřorologio; in quanto governatore della nuova onnipotenza, esso è situato ben al di sopra dello
stemma reale e del motto Eendracht maakt machtŗ (ibidem, p. 112).
(28) Ibidem, p. 33.
(29) Ibidem, p. 32.
(30) Ibidem, p. 30.
(31) Ivi.
(32) W. G. Sebald, Austerlitz, cit., p. 31.
(33) E. Canetti, Il frutto del fuoco: La scuola dell‟ascolto. Vienna 1926-1928, a cura di G. Cusatelli, Bompiani, Milano
1993, pp. 1031-1032.
(34) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 60.
(35) Ibidem, p. 42.
(36) Sui diversi significati del Ŗviaggioŗ nellřopera di Sebald e sul rapporto dellřautore con la tradizione della letteratura
odeporica tedesca, cfr. M. Zisselsberger (a cura di), Undiscover'd country: W.G. Sebald and the poetics of travel,
Camden House, New York 2010.
(37) Sulla tecnica poetica associativa e à la bricoleur di Sebald, cfr. B. Hutchinson, W. G. Sebald, Die dialektische
Imagination, Walter de Gruyter, Berlin 2009, p. 54 e seg. e S. Seitz, Geschichte als bricolage – W. G. Sebald und die
Poetik des Bastelns, Vandenhoeck & Ruprecht Unipress, Göttingen 2011.
(38) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 58.
(39) Ibidem, p. 70.
(40) Ibidem, p. 70-71.
(41) Cfr., a tale proposito, R. Bonadei, I sensi del viaggio, Franco Angeli, Milano 2007, in particolare p. 21 e seg.
(42) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., pp. 68-69.
(43) Steller diventa, così, antesignano di un metodo scientifico improntato allřideale della Humanität che più tardi
Goethe, pur nellřassenza di una prospettiva teologica, avrebbe saputo elaborare compiutamente per condurre uno studio
della natura rispettoso della molteplicità dei sue manifestazioni fenomeniche. Mi permetto di rimandare, a tale
proposito, a R. Calzoni, L‟esperimento di Goethe fra scienza e “Humanität”, in ŖTesti e linguaggiŗ, n. 5 (2011), pp. 8196.
(44) Lřesergo tratto da I mondi (1746) di Frierch Gottlieb Klopstock recita: ŖIn alto, sempre più in alto, onda, tu ti
innalzi! / Ah, lřultima sei, lřultima! La nave sřinabissa. / E mentre continua cupa nel canto suo di morte, / Sullřimmane
fossa, sempre aperta, va ululando la tempestaŗ .
(45) Ibidem, p. 61
(46) Cfr., a tale proposito, T. van Hoorn, Auch eine Dialektik der Aufklärung. Wie W.G. Sebald Georg Wilhelm Steller
zwischen Kabbala und magischer Medizin verortet (Nach der Natur), in ŖZeitschrift für Germanistik. Neue FolgeŖ, n.
19 (2009), pp. 108-120.
(47) La Ŗcontrizione del cuoreŗ e la Ŗmelanconiaŗ come forma di resistenza al tempo e alla distruzione emergono
esplicitamente come Leitmotiv delle interpretazioni sebaldiane dellřopera di Peter Weiss, cfr. Die Zerknirschung des
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Herzens. Über Erinnerung und Grausamkeit im Werk von Peter Weiss, in ŖOrbis Litterarum: International Review of
Literary StudiesŖ, n. 41 (1986), pp. 265-278; reprint in W.G. Sebald, Campo Santo, a cura di S. Meyer, Hanser, WienMünchen 2003, pp. 128-148.
(48) Cfr. W.G. Sebald, Asuterlitz, Adelphi, Milano 2002, p. 104: ŖE proprio in questi fenomeni irreali […] in questo
balenio dellřirreale nel mondo reale, in questi particolari effetti luminosi nel paesaggio che si stende davanti a noi o
nello sguardo di una persona amata, proprio qui si accendono i nostri sentimenti o, in ogni caso, quelli che noi riteniamo
taliŗ.
(49) H. M. Enzensberger, Mausoleum. Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso, cit., p. 33.
(50) E. Agazzi, Il collezionista di ricordi. La lotta contro l‟oblio nella scrittura di W. G. Sebald, in Id., La memoria
ritrovata. Tre generazioni di scrittori e la coscienza inquieta di fine Novecento, Bruno Mondadori, 2004, p. 58. Si veda,
con particolare riferimento alle descrizioni delle opere dřarte offerte in Secondo Natura intese come espediente retorico
autobiografico, C. Albes, Porträt ohne Modell. Bildbeschreibung und autobiographische Reflexion in W.G. Sebalds
›Elementargedicht‹ Nach der Natur, in C. Öhlschläger Ŕ M. Niehaus (a cura di), W.G. Sebald. Politische Archäologie
und melancholische Bastelei, Erich Schmidt, Berlin 2006, pp. 47-75.
(51) Sebald assume così nella narrazione i tratti riconosciuti da Bachtin allřautore «dialogico» che, allřinterno di un
testo polifonico, non rinuncia alla propria Ŗsuperiorità articolato riaŗ: ŖIl nostro punto di vista non afferma affatto una
passività dellřautore, il quale non farebbe altro che operare un montaggio degli altrui punti di vista, delle altrui verità,
rinunciando del tutto al proprio punto di vista, alla propria verità. Non si tratta affatto di questo, ma di unřinterazione
completamente nuova, particolarmente tra la propria e lřaltrui verità. Lřautore è profondamente attivo, ma la sua attività
ha un carattere particolare, dialogico. [...] Si tratta di unřattività che interroga, provoca, risponde, acconsente, obietta
ecc., cioè di unřattività dialogica, non meno attiva dellřattività che conferisce compimento, deifica, dà spiegazioni
causali e uccide, cioè soffoca la voce altrui con argomenti sprovvisti di senso. […] È per così dire lřattività di Dio nei
riguardi dellřuomo che permette allřuomo di svelarsi da solo fino in fondo (nello sviluppo immanente), di giudicarsi da
solo, di confutarsi da soloŗ, M. Bachtin, L‟autore e l‟eroe. Teoria letteraria e scienze umane [1979], trad. it. di G.
Garritano, Einaudi, Torino 1988, p. 322. Per una articolata definizione di Ŗsuperiorità articolatoriaŗ dellřautore, non
solamente in riferimento alla teoria letteraria di Bachtin, cfr. G. Bottiroli, Teoria dello stile, La Nuova Italia Scientifica,
Firenze 1997, pp. 236-242.
(52) W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, trad. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2004, pp. 74-75.
(53) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 75 (Ŗe già fumano i tetti dei casolari che spuntano in lontananza / e più grandi
calano dallřalto dei monti le ombreŗ).
(54) Ibidem, pp. 77-78.
(55) Per unřarticolata biografia dellřautore, cfr. J. Catling Ŕ R. Habbitt (a cura di), Saturn‟s Moons: W.G. Sebald – A
Handbook, Legenda, Oxford 2011.
(56) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 102.
(57) Ibidem, p. 90.
(58) Ibidem, p. 81. Lřattenzione posta da Sebald alla propria carta astrologica ricorda segnatamente lřesordio di Aus
meinem Leben. Dichtung und Wahrheit, lřautobiografia di Goethe del 1811, in cui si legge: ŖA mezzogiorno del 28
agosto 1749, con il dodicesimo tocco della campana, venni al mondo a Francoforte sul Meno. La costellazione era
favorevole; il Sole si trovava nel segno della Vergine e aveva raggiunto lo zenit nella giornata; Giove e Venere lo
guardavano amichevolmente, Mercurio senza ostilità, Saturno e Marte tenevano un contegno indifferente. Solo la Luna,
che in quel momento era piena, esercitava una forza contraria tanto maggiore, in quanto allo stesso tempo era entrata la
sua ora planetaria. Essa si oppose quindi alla mia nascita, che non poté avvenire se non dopo passata tale ora. A questi
aspetti favorevoli, di cui in seguito gli astrologi seppero valutare lřalta portata, devo probabilmente la mia salvezza….ŗ,
J. W. von Goethe, Dalla mia vita. Poesie e verità, trad. it. e cura di A. Cori, 2 voll., UTET, Torino 1957, Vol. I, p. 63.
Si tratta di un riferimento nascosto che conferma lřattenzione di Sebald per lřopera di Goethe e per la cultura ermetica,
che lo stesso autore di Dalla mia vita. Poesia e verità frequentò in gioventù, cfr. M. Freschi, Goethe. L‟insidia della
modernità, Donzelli, Roma 1999, p. 9 e seg.
(59) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 82.
(60) W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Rachetti, Einaudi, Torino 1997, p. 21.
(61) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 82.
(62) Esemplificativo di questřultima è, nellřultimo romanzo di Sebald, Ŗil modo in cui Austerlitz costruiva i suoi
pensieri nellřatto stesso di conversare, come riuscisse a sviluppare le frasi più armoniose da una sorta di svagatezza e
come la trasmissione delle sue conoscenze attraverso il racconto rappresentasse per lui lřavvicinamento graduale a una
sorta di metafisica della storia, in cui il ricordo tornava ancora una volta a vivereŗ, W. G. Sebald, Austerlitz, cit., p. 19.
(63) W. Benjamin, Sul concetto di storia, p. 121
(64) W. G. Sebald, Secondo natura, p. 83.
(65) Sullřelaborazione sebaldiana di questa lingua della sventura, che trova i suoi presupposti nel culto
hofmannsthaliano della Ŗtradizione esicastica dellřortodossia, basata sulle tecniche esoteriche incentrate sul cuore e
sulla conoscenza del cuoreŗ (M. Freschi, La Vienna di fine secolo, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 48), cfr. R. Calzoni,
La lingua del fuoco di W.G. Sebald, in ŖNuova Correnteŗ, cit., pp. 225-257.
(66) R. J. A. Kilbourn, ŖřCatastrophe with Spectatorř: Subjectivity, Intertextuality and the Representing of History in
Die Ringe des Saturnř, in A. Fuchs Ŕ J. J. Long (a cura di), W.G. Sebald and the Writing of History, cit., p. 141.
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(67) Ibidem, p. 93.
(68) Innegabile, nellřultimo passo citato, lřinflusso sul poema sebaldiano del Pensiero selvaggio di Claude LévyStrauss che, per enucleare le caratteristiche del bricoleur, mette come il nostro autore questřultimo in relazione
allřingegnere: Ŗil bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, a differenza
dellřingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la
realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nellřadattarsi
sempre allřequipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via «finito» di arnesi e materiali, peraltro eterocliti,
dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né dřaltronde con nessun
progetto particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o arricchire lo
stock o di conservarlo con i residui di costruzioni e di distruzioni antecedentiŗ, C. Lévy-Strauss, Il pensiero selvaggio,
trad. it. di P. Caruso, il Saggiatore, Milano 2010, p. 30. Si ricorda, inoltre, qui che lo stesso Sebald in unřintervista ha
dichiarato di Ŗlavorare secondo il sistema del bricolage Ŕ nel senso di Lévy-Straussŗ (S. Löffler, Dienst unter dem
Schlot. Ein Schriftsteller wird entdeckt. Mit Interview: Wildes Denken, in ŖProfilŖ, n. 19 (1993), p. 106.
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INCURSIONI
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Nota su Spostamento, una piccola „Georgica‟ per la memoria
ŖIn Spostamento Frene manifesta in modo particolarmente profondo il collassare dellřanimo con la
tragica scomparsa di un parente carissimo, quasi nel percorso di una paventata a pur necessaria
maniera di sincrono annichilimento. Gentile e improbabile 'psicopompo' il suo animo accompagna
quella discesa che pur non può non avere in filigrana una scommessa di rivalsa o addirittura una
furia nel confronto con la testa di Medusa che rimane allřangolo, non eliminabile relitto, ma pur
confinato in una marginalità.ŗ Queste parole di Andrea Zanzotto, che risalgono a circa dieci anni fa,
descrivono alla perfezione la tensione che aveva mosso la mia mano, alla fine degli anni Novanta,
nel momento in cui iniziai la scrittura di questo testo, che reca per sottotitolo Poemetto per la
memoria, pubblicato nel 2000. Nella mia memoria culturale, in quel momento stavano agendo i
ricordi di testi poematici essenziali nella mia formazione, come Dei Sepolcri e The Waste Land, ma
devo dire che quello che più mi ha mossa è stato il ricordo della IV Georgica, con la carica possente
della bugonia, laddove si realizza al massimo grado la capacità virgiliana di trasformare l'elemento
didattico-didascalico in elemento ontologico. La bugonia ritorna come citazione in maniera esplicita
alla fine di Spostamento, precisamente nel testo X. Finali, dove appunto parlo di un'Ŗape lucigufaŗ
che Ŗfinge per ognuno il regno futuroŗ; ebbene, quell'ape è anche la stessa, però, che l'apicultore
deve spostare dall'arnia quando questa è invasa da parassiti (Ŗlucifugaŗ infatti designa la malattia
dell'ape, diventata fotofobica), che a qual punto va trattata in maniera specifica. Dunque, è alla fine
che risulta chiaro come io esprima una speranza-disperata o un disperazione-sperante, per ciò che
concerne la materia trattata - morte e resurrezione. Non a caso ho iniziato dal fondo del libro, per
parlare del suo contenuto, perché questo libro è stato progettato come struttura vuota in maniera
precisa, e le sua varie parti, numerate con numeri romani, non sono state scritte in ordine; avevo
solo presente una struttura speculare con un picco centrale, corrispondente in questo caso al testo V.
Dell'irradiazione, vero fulcro tematico del poemetto con la sua focalizzazione sulla luce, attorno al
quale andavano via via a formarsi, o incasellarsi in maniera tematica e formale, gli altri testi: il IV
che richiama il IX (sono le due sequenze del libro, entrambe polifoniche, accomunate da una
particolare vicinanza, o empatia, col soggetto descritto), il III che richiama l'VIII (comune il
richiamo al superamento, all'altezza, al concetto dell'andare oltre), il II che richiama il VII (che
parlano entrambi dell'impatto simbolico del tempo, cronologico e meteorologico), l'I che richiama il
VI (due riflessioni, particolari e generali, sull'esistenza); il testo V, invece, è insieme centro del
poemetto e speculare al testo X (ritornano, tra l'altro, parole chiave come Ŗluceŗ e Ŗcranio opacoŗ);
infine, la Definizione in apertura è speculare alla Clausola. Attorno alla classicità del poemetto
virgiliano, ho imperniato tutta una serie di altre citazioni classiche, usate però ancora in maniera più
spinta, nel senso che il retroscena ironico è ancora più esplicito: penso per esempio al tacitiano
Ŗorme del vincitoreŗ, ma anche al Seneca dell'epigrafe finale, o all'Orazio del Ŗmonumento più
immortale della cartaŗ in Clausola, e via dicendo. In questo senso, Spostamento è nato come
poemetto didascalico, ma anche ipertestuale, citazionista; insomma, è nato come un vero e proprio
palinsesto. Scrivo tutto questo per significare che nella mia poetica la forma poematica corrisponde,
in definitiva, alla massima tensione compositiva, perché la esprime all'ennesima potenza, direi in
una sorta di moltiplicazione speculare; e in questo senso è da sempre presente, a più riprese, nella
mia scrittura, se non altro come frutto del tentativo di fissare almeno qualcosa di quella terribile
fluidità che è il reale. E proprio ora che purtroppo la testa di Medusa mi ha sottratto la persona a cui
dissi quelle parole, su questo fatto privato non rimane ormai se non la discesa del giusto silenzio, un
pudore che è apertura al mondo.
Giovanna Frene
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In dialogo con Marco Giovenale
Alessandro Broggi: Come hai strutturato le tue raccolte recenti, per esempio La casa esposta o
Criterio dei vetri o Shelter ?
Marco Giovenale: Rispetto a La casa esposta e Shelter, di fatto Criterio dei vetri si presenta come
una raccolta strutturata secondo una non imprevedibile struttura a sezioni definibili in linea di
massima progressive: da ambienti interni a esterni e di nuovo a interni (ma la descrizione è
incompleta). Questo tipo di struttura si ripeterà in altre opere in uscita prossimamente. La stessa
disposizione dei materiali in sezioni ha in generale, a prescindere dalla funzione che si attribuisce a
ciascuna sezione in particolare, qualcosa che offre da una parte organizzazione e dallřaltra
Řfissazioneř in forma nota. Le sezioni sono insomma vulnerabili a una precisa critica: quella di
funzionare da facili scatole ordinatrici, eventualmente anche estrinseche rispetto al complesso (e
alla complessità) dei materiali che ordinano. Possono essere sprovviste di quella plasticità in grado
di replicare o mutare o contrastare su un piano architettonico alcune peculiarità testuali.
Detto in breve: in generale ci possono essere partizioni interne ai libri che specchiano le scelte
formali di questi; e ci sono invece partizioni che funzionano come lineari pareti divisorie. Criterio
dei vetri si avvale di questřultima modalità. Diverso il caso de La casa esposta e di Shelter. Non so
quanto (entrambi i libri) possano cadere nella definizione di poema; certo sono Ŗopereŗ (o fotografie
di esplosioni di opere).
La casa esposta è costituita da una sequenza di sezioni di poesie e (poche) prose, seguita da una
sequenza di fotografie priva di titolo, e si conclude con delle note esplicative, per poi riaprirsi (come
un arco che si stacca da una struttura apparentemente finita) con una sezione ulteriore ed estrema di
prose Ŕ di diverso font Ŕ scalene e fortemente spiazzanti rispetto allřorganizzazione sintatticamente
meno franta e disorientante del resto del libro. La Ŗforma del poemaŗ Ŕ o meglio la forma dellřopera
Ŕ è in questo caso ad arcate successive, tutte diverse e in sostanza pensate per disegnare una figura
incompiuta, addirittura fallata, aperta su un fianco (di conclusione che non conclude) o più fianchi
(se pensiamo pure alla sezione muta di fotografie).
Shelter presenta una macrostruttura ancora diversa: si tratta di una serie di sezioni tutte
invariabilmente intitolate Ŗclinica 1ŗ. Ci sono sì tre blocchi principali, segnati con numeri romani.
Ma la scansione vera (non una banale sottoscansione) è data dalle ricorrenze, entro i blocchi, di
Ŗclinica 1ŗ.
Questo ritorno-fuga ingabbiante nella clinica (sempre Ŗ1ŗ, sempre Ŗprimaŗ, senza progressione
dunque) ha dellřisteria, della disperazione e dissipazione. Sisifo occupa uno spazio orizzontale. Non
ha rupi che ne elevino lo sguardo più di tanto. Il tema dello Ŗshelterŗ, ossia riparo ma anche
prigione così esibisce in unřaltra accezione la sua tastiera: non solo le poesie parlano di questo, di
chiusura entro cliniche, luoghi ostili o salvifici e comunque imprigionanti, ma anche le fughe di
stanze che a loro volta imprigionano le pagine e il flusso completo del libro traducono un ritorno
nellřidentico. (E non un vero Řeterno ritorno dellřidenticoř, perché in verità è ancor più disperante
che variazione si dia, esista, entro i confini del cerchio, dellřiterazione, del tornare ossessivo).
AB: Le strutture che descrivi sono nate come griglie preesistenti rispetto ai testi, o si sono fatte a
loro volta modificare dai materiali? E quelle intervenute erano modalità organizzative a cui
pensavi da tempo oppure sono stati proprio i testi a richiederle?
MG: La casa esposta era un libro in fondo già pronto da qualche anno, o formatosi come classica
raccolta Řa sezioniř, come Criterio dei vetri. Allřaltezza del 2005 circa era diverso da come poi è
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divenuto. Al tempo era principalmente testuale. Sono state da un lato la nascita delle fotografie che
ne costituiscono la parte centrale, e dallřaltro la nascita e crescita delle prose (contrastanti,
diversissime da quel che il libro già era), a rivoluzionare tutto. Foto e prose hanno scardinato la
struttura costituendone unřaltra. Riformulando il libro. Alcune foto del resto erano già entrate come
parte di una piccola sequenza pubblicata come plaquette a fogli sciolti (o cartoline) indipendenti per
la Camera verde nel 2006: Superficie della battaglia. Quindi un concorso di cose, lřemersione di
differenti materiali, visivi e testuali, ha oggettivamente riorientato il libro; che, per inciso, non
sarebbe nato se non avesse avuto lřopportunità di venir ospitato dalla collana fuoriformato diretta da
Andrea Cortellessa per Le Lettere. Proprio lřinteresse di Cortellessa per le fotografie ha anzi, e
gliene sono tuttřora grato, innescato il progetto che è diventato poi il libro La casa esposta.
I testi fondanti di Shelter sono nati nel 2003, e a quellřaltezza lřidea della Ŗclinica 1ŗ non si era
presentata allřorizzonte. Ma già tra 2004 e 2005, con lřaumentare del numero dei testi, quella
soluzione mi sembrò il criterio di ordinamento e proprio di strutturazione forte del libro. Anche in
questo caso i testi hanno agito da codificatori e co-edificatori della struttura entro cui si sarebbero
trovati raccolti. Ma Ŕ appunto Ŕ il criterio è stato interno. I testi del libro hanno portato a pensare le
sezioni dello stesso. Mentre per la Casa erano state foto e prose Ŕ in qualche modo Řesterneř Ŕ a
modificare la macrostruttura.
Se passo a uno sguardo complessivo, più ampio, devo dire che poi delle costanti o isotopie
tematiche (che sono Ŕ in quanto isotopie Ŕ strutturali e strutturanti) attraversano molti dei testi scritti
a partire dal 2000-2001 e molte delle raccolte che li tengono assieme (uscite fra il 2003 de Il segno
meno, il 2007 di Criterio dei vetri e La casa esposta, e il 2010 di Storia dei minuti e Shelter): la
malattia mentale e fisica, lo spostamento forzato da abitazione ad abitazione (ma come scasamento,
rivoluzione, non banale Ŗtraslocoŗ), lřinappartenenza a certi luoghi, la clinica, la chiusura o
reclusione, il senso di separazione ma anche la necessità di separazione dai Řsimiliř e pure dal simile
in generale Ŕ come categoria. Queste le isotopie tematiche, le ricorrenze Ŕ a loro volta ossessive.
AB: Pensi che ci sia dialogo e comunicazione tra i vari modi tuoi di strutturazione dei libri? I tuoi
vari libri, in qualche modo, “comunicano” fra loro, e a che livello? Tematicamente la cosa è
chiara, ma formalmente?
MG: Una forma di comunicazione tra modi o tempi o libri, comunicazione assolutamente non
progettata ma che vedo Ŕ perfino con una certa sorpresa Ŕ attuarsi a ogni nuovo volume, è
lřinclusione ogni volta di uno o perfino più testi appartenenti ad altro libro precedente. Lřesempio
più cospicuo potrebbe essere Il segno meno, che pressoché integralmente è riportato nella Casa
esposta e ne diventa sezione quasi dřavvio. Ma da quel punto in avanti gli esempi si moltiplicano.
In ognuno dei libri che seguono ci sono prestiti, ritorni, echi, variazioni rivariate, eccetera.
Su un piano forse più ampio, e da rilievi meno meccanici, una serie di dati costanti nelle cose che
vado scrivendo soprattutto dalla fine degli anni Novanta a oggi è certo rilevabile. Riguarda la
sintassi costantemente spezzata-ricostruita, lřombra o latenza e il non detto, il procedere così per
lacune, la modalità di scrittura che ho pensato di definire (altrove) Ŗdelle allegorie caveŗ,
lřiperframmentazione narrativa, la tendenziale riduzione della presenza grammaticale dellřio, e altri
dispositivi su cui il troppo autoannotarmi fin qui dimostrato mi impedisce di insistere. (Solo una
postilla, però: le opere che ho fin qui citato non sono opere di cut-up: nessuna. Lo ripeto perché mi
sono trovato di fronte a fraintendimenti Ŕ spesso Ŕ di recente. Nessuno dei libri citati fin qui, esclusa
la sezione intitolata tranne un oggetto, ne La casa esposta, sono esito di cut-up, sought poetry,
eavesdropping, e di tutti i meccanismi che invece un libro come Quasi tutti, pubblicato da Polimata
nel 2010, raccoglie).
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AB: Le singole raccolte tue si inseriscono in un progetto più ampio? E come comunicano, sia le
raccolte singole, sia il progetto (se c‟è), con i modi di costruzione del macrotesto che pensi di
riscontrare nella poesia o nella prosa contemporanea italiana?
MG: Il progetto ampio a cui penso ha un nome, per certi aspetti, paradossale: Delle restrizioni. Il
paradosso è apparente, se si pensa che la varietà di stili in campo, le tante o troppe linee aperte (da
una parte lřasse Criterio-Casa-Minuti-Shelter, dallřaltra Numeri primi, in altro versante ancora
Quasi tutti, e poi ancora LIE LIE) configurano una raggiera di limiti, non di accumuli. Di negazioni
di quel motto che dice che Ŗtutto è permessoŗ, solitamente attribuito/riportato alle scritture di
ricerca o perfino di avanguardia. So e sento che davvero tutto è permesso (avendo criteri nel
permettersi tutto o troppo). Allora la poetica consisterà precisamente nellřapplicare delle restrizioni
al tutto. Farne un complicato Ŗquasi tuttoŗ. Dove il quasi è dirimente. Ma il titolo Delle restrizioni
non è (solo) tendenzialmente metatestuale. Le restrizioni anzi sono principalmente di carattere
biografico, reale: ti stringe e blocca un luogo, un dolore che è indissipabile, è soffocazione.
Mi sento in frontale contrasto con i modi di costruzione di raccolta di gran parte dei materiali che
vedo uscire in lingua italiana. Ma su questo aspetto preferisco non diffondermi.
AB: A tuo modo di vedere, una persistenza e rinascita di epica e narratività investe le forme (e la
plausibile sostanza) della poesia e/o prosa contemporanea italiana? Vedresti collocato in qualche
modo il tuo lavoro, anche a contrasto o in posizione defilata, in quegli ambiti? Come,
eventualmente?
MG: Daccapo preferirei glissare. Dico solo che non mi interessano tante forme neoepiche,
neonarrative, neomelodicanzonettistiche e neopoematiche. Non dico che Ŕ certo a mio gusto Ŕ in
tutte sia ravvisabile una contrazione e castrazione di ogni possibile nuovo o inedito o sensato. Forse
però sì.
AB: Ci sono esperienze e scritture recenti non italiane che ti hanno influenzato, o verso i cui
risultati guardi con interesse, in questo senso? E sul piano progettuale, sia in rapporto al contesto
italiano sia in rapporto a quello in altre lingue, a cosa stai lavorando? Quali direzioni ti sembrano
prendere le (nuove o rielaborate) strutture e scritture tue in fieri?
Devo dire che poche volte mi sono sentito altrettanto libero (e confermato nella mia ricercaattestazione-felicità di libertà), e contemporaneamente grato e in sintonia, come nelle ore di lettura
di Rodrigo Toscano, Christophe Tarkos, Jean-Marie Gleize. Tuttavia questo senso di libertà (e di
assorbimento di suggestioni) riguarda, devo dire, principalmente la prosa. Come autore di versi non
penso di aver fatto molto altro, negli anni, che modificare (e perfino corrompere) una certa mia
Řricezione di Eliotř (e Ashbery), imprinting di troppi anni fa.
Sulle direzioni imminenti della scrittura e della ricerca, posso dire che la forma avviata con LIE LIE
(La camera verde, 2011) ossia la forma del poemetto-prosetto apparentemente dislessico e proprio
come tale fortemente politico, sembra funzionare per me come possibile nuova traccia di ricerca.
Tanto che un secondo testo, scritto in omaggio a una ancor più estrema poetica delle lacune, nasce
in queste settimane recenti precisamente nella stessa direzione. Ed fra lřaltro legato (dunque
sottoposto a una ulteriore restrizione) a/da una sequenza di composizioni e video di un musicista
che stimo molto: il mio testo ne deriva. Per scriverlo ho lavorato sia con testi pensati=nati
direttamente, cioè non citati, non prelevati da alcuna fonte, sia con ricerche su google, ma con una
particolarità: ho ogni volta omesso il centro della ricerca stessa, nei materiali (e nellřuso dei
materiali) in campo. Lacuna, mancata nominazione, deviazione di itinera narrativi: sono questi i
modi e moti che formano-deviano il testo (quello, almeno).
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Accanto a una maniera simile, nellřintendere e praticare il googlism statunitense (molto poco flarf
in verità), continuo a scrivere poesie Řdirettamenteř, o a raccoglierne di scritte e pubblicabili in
future sistemazioni di sequenze passate. Altrettanto, continuo a lavorare a frammenti (iperŖcoltiŗ, e
brevi) che ho chiamato Ossidiane, e che costituiscono un libro parallelo e un costante a parte di tutti
questi anni, avendo iniziato a raccoglierne nel 2001 e avendone accumulate molte, meglio
moltissime, in questi dieci anni. Ma questa è vicenda ancora diversa, di cui ho parlato in sedi come
questa oppure questa.
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Pensare in poema
Un cerchio in forma di parole
Ordine/disordine
Spontaneismo
Linguaggio
poetico
Dal momento in cui lřintelletto è chiamato in causa, tutto è in causa; tutto è disordine
ed ogni reazione contro il disordine è della sua stessa specie. Del resto questa
confusione è la condizione stessa della sua fecondità: ne contiene la promessa poiché
questa fecondità dipende dallřinatteso piuttosto che dallřatteso, e per il fatto stesso che
lřignoriamo, piuttosto che da ciò che sappiamo. […] Mi sforzo di non dimenticare mai
che ciascuno è la misura delle cose.
Paul Valéry(1)
[…] sospetto perfettibile qualunque cosa venga di getto. Lo spontaneo, anche se
eccellente, anche se incantevole, non mi sembra mai abbastanza mio.
Paul Valéry(2)
Si può dire senza esagerare che il linguaggio comune è il frutto del disordine della vita
in comune […]; mentre il linguaggio del poeta, per quanto utilizzi necessariamente
elementi forniti da questo disordine statistico, costituisce, invece, uno sforzo
dell‟uomo isolato per creare un ordine artificiale e ideale, per mezzo di una materia di
origine ordinaria.
Paul Valéry(3)
Fare della
poesia
Ho sempre fatto i miei versi osservandomi farli […] (TDP,p. 49)
Intuizione
Intenzione
Il poeta ha essenzialmente «lřintuizione» di un tipo di combinazioni a parte. Una certa
combinazione di oggetti (di pensiero) che non ha valore per lřuomo comune, ha per lui
unřesistenza e si fa notare. (TDP, p. 47-48)
Lřincerto
dellřopera che
viene
Resti del futuro
[…] personaggi, paesaggi, aspetti, atteggiamenti; le altre, voci informi, note…
Le parole per ora non sono altro che cartigli.
Altre parole o brandelli di frasi non hanno un loro ruolo, ma vogliono essere utilizzati
e fluttuano.
Vedo tutto e non vedo niente.
Altre immagini mi fanno vedere condizioni del tutto diverse. Sembrano presentare gli
stati di un individuo che subisce la poesia, le sue illuminazioni, le sue attese, le sue
ansie, i suoi presentimenti che devono essere creati, stimolati, ingannati o soddisfatti.
Ho quindi diversi livelli di idee, le une di risultato, le altre di esecuzione; sopra di tutte
lřidea dellřincerto; ed infine quella della mia attesa, pronta a cogliere gli elementi già
realizzati, scrivibili, che si concedono o si concederebbero, anche se non limitati
allřargomento. (TDP, pp. 41-42)
Esiste quasi sempre un primo stato, una fase emotiva che non tende ad alcuna forma
finita, determinata e organizzata, ma che può produrre elementi parziali di espressione,
frammenti, che troveranno, un giorno, - o forse mai - il loro tutto… In questo stato
appaiono una parola, una formula, unřimmagine, un dispositivo, che, ritrovati più
tardi, verranno a collocarli in una composizione, a servire inopinatamente da genere, o
da soluzione… posso chiamare questi frammenti: resti del futuro…
Paul Valéry(4)
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Il potere del cerchio, la forza del limite, lřequilibrio degli estremi sono i punti sui quali la
progettualità del poema si fonda. Una misura che sfida lřinconsapevole e lřimpreciso con la
testimonianza e lřazione di un fare, che si concretizza lentamente nellřopera a venire. È questo per
me il senso di un pensare in poema, o meglio di un dettare in poematicità.
Ho sempre pensato/costruito/architettato le mie raccolte poetiche seguendo la misura della
poematicità, percorrendo la strada lunga dellřassemblaggio e del montaggio, più che quella della
raccolta di poesie. Ho sempre realizzato il libro di poesia più che una silloge di poesie, cercando di
restare fedele al mio respiro che, nella lunghezza dellřespressività, più che nella agilità delle
correlazioni oggettive o soggettive, si è fatto concreto.
Lavorare nellřidea del poema è come restare in compagnia di un evento creativo che lascia
Ŗconnessoŗ lřautore al proprio progetto costantemente, perpetuamente, dandogli lřopportunità di
agire e realizzare il proprio principio di realtà, comunque e dovunque. Lavorare per poema non è
cercare di perpetuare un tema, non è restare ancorati passivamente ad un argomento scelto, ma è
lasciarsi trasferire dalla scrittura e dalla poetica, tra gli innumerevoli strati dellřesperienza che si
depositano intorno e tra i fatti emotivi e concreti della vita di tutti i giorni, innestandovi
particelle/bolle di grazia che determinano quello stato poetico che produce piacere.
Il poema e lřidea di poematicità ha quindi a che fare, nella mia operatività scrittorea, con una sorta
di stato emotivo/percettivo, che si rende fattivo per quiete e passione, ma anche reale per pensiero e
progetto.
Lavorare in poema significa dunque presentare/rappresentare una visone laboratoriale della poesia e
del suo linguaggio; è come ebbe a dire più volte Antonio Porta: ŖMettersi a bottegaŗ. Un'officina
scritturale e operativa, dove la materia e il materiale sanno come essere compresenti sul tavolo della
lingua e del linguaggio, sparsi e impilati tra gli attrezzi del mestiere, che ogni poeta dovrebbe
possedere e saper adoperare. È proprio un dedicare tempo anche alla lingua poetica di farsi più
aderente a ciò che si dovrà portare alla luce, che dovrà mostrarsi.
Pensare in poema significa anche rimanere connessi al Ŗluogo dell'elaborazioneŗ, in quell'esatto
punto in cui la lingua e il linguaggio si installano e precisamente, tra l'esperienza e la sua
decifrazione/trans-posizione in parola.
La lunghezza, la misura, il tema come la vita esperita e la sua stessa storia/narrazione, sono gli
elementi principali con i quali il poeta ha che Ŗfareŗ.
Un Ŗfareŗ che si concreziona proprio in virtù di quella speciale Ŗconnessioneŗ al proprio stato
ispirativo ed esperienziale che, insieme, fanno da eco alla dettatura poetica che accade, o meglio che
è a- venire.
Non sono mai riuscito ad esaurirmi/terminarmi in una singola poesia, in un unico testo. Preferisco
lo spazio poematico, dove la lunghezza e la durata del testo mi corrobora, collocandomi in un tempo
sempre in movimento, in un tempo narrativo capace di resistere alla sua stessa consapevolezza.
Antonio Porta Ŕ maestro a cui devo molto Ŕ scriveva così a tale proposito:
ŖCosa significa scrivere una poesia lunga? Significa non potersi fermare al
momento lirico, continuare il discorso e svilupparlo, con gli stessi
personaggi, con le stesse situazioni, ricavarlo e svilupparlo, perché questo fa
il linguaggio della poesia così come lřho concepito […].ŗ(5)
Il bisogno di spazio e di tempo hanno sempre avuto per me la necessità di una Ŗconnessioneŗ, sia di
tempo che di spazio.
Feci un sogno molto tempo fa; un sogno ad occhi aperti. Uno di quegli strani momenti in cui sai che
a rivelarsi sono delle intenzioni, più che delle evidenze: una sorta rêverie.
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Lavoravo in un campo di fogli come fossi in un campo seminato a grano, al tempo della mietitura.
Percorrevo dunque con un rastrello l'intera area, facendo mucchi/covoni di fogli che poi,
diligentemente, ponevo sopra un carro e li trasportavo in una sorta di fienile rialzato, quasi un piano
da terra.
Quel luogo era per me il Ŗfogliaioŗ: un posto asciutto dove stipare quella strana raccolta/raduno di
fogli che, presumibilmente, mi sarebbero serviti per l'inverno, per il tempo della Ŗnon raccoltaŗ, per
riempire lo spazio della mancanza o della futura assenza.
Al risveglio da quella blanchottiana rêverie, mi è risultato chiaro il disegno/significato ultimo di
quell'esperienza onirica e fantasmatica: era il mio modo procedere nella creatività poetica, era il mio
metodo di scrittura, era il mio Ŗfareŗ poesia.
Raccogliere frammenti e stiparli in un luogo sempre possibile, riparato, al sicuro.
Raccolgo infatti frammenti, resti, residui di ispirazione e di idee in un quaderno/fogliaio che porto
sempre con me, ovunque vada, riparandolo e proteggendolo gelosamente.
Da questo Ŗmagazzinoŗ riprendo, risistemo, riguardo, ma soprattutto rimonto la consequenzialità
della parola depositata, dei frammenti salvati dal loro stesso corrompersi.
Questo materiale fatto di urgenze emotive, sbadigli lessicali, interruzioni filosofiche, lapsus volitivi
e parole trascelte, decantate nel tempo, lo centellino/assaporo, sapendo che in realtà esso non è altro
che un distillato d'esperienza, colto nell'angolo esatto di un'intersecazione tra il caso e il puntuale,
tra la volontà e il desiderio, tra il rumore e il silenzio di una parola originaria che rimpatria.
Un angolo d'incidenza Ŕ come ebbe a dire Vittorio Sereni Ŕ tra la vita e la poesia su e col quale
gestire tutto lřintero dettato poetico che accade nel passaggio del mondo.
Un passaggio che si farà inquadratura del vero e che implica realtà ed esistenza, respiro e fiato,
azzardo e paura.
Alla domanda ŖCome scrive le sue poesie?ŗ amo rispondere: ŖCome un regista con la sua macchina
da presaŗ. Non scrivo poesie ma Ŗgiroŗ poesie. La teoria del montaggio di Sergei M. Ejzenstejn o la
maestria cinematografica di Jean-Luc Godard, mi hanno sempre affascinato, diventando questi
riferimenti, i cardini portanti che da sempre abitano la mia poesia, scorgendo in loro il fulcro del
mio discorso poematico.
Cřè un testo, nel mio ultimo libro Interni con finestre (ed. La Vita Felice, 2009), nel quale il nome
di Godard compare come elemento tracciante, lasciandolo gravitare nei versi come un omaggio, un
segno di riconoscenza e di ammirazione:
*
Sapevo
come
diventare
grande, come stare qui. Lo
dicevo alla luce e al buio e
neanche sottovoce.
È come abitare una camera oscura. Ci si fa
notte intorno e un occhio solo fruga la via, la
scuola, il parco e in lontananza, il cubo bianco
della casa appena fatta. C‟erano gli orti qui,
le strade senza uscita, il doppio senso delle
macchine. Sono così le due o tre cose che so di
lei: le prove accumulate, prese di mira, le
scene montate fuori, portate dentro. E intanto
dalla stanza Godard fuggiva via.
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Il montaggio è dunque per me, il terreno soggiacente al pensare in poema. Un terreno sul quale
impostare un lavoro di assemblamento riflessivo ed emozionale, oltre che percettivo, che sappia
farsi carico sia del materiale, che della materia alla quale si deve riferire/ancorare.
Il pensare in poema chiede coerenza e durata. Saranno queste le sue marche e le sue misure prime.
L'idea centrale di una raccolta, infatti, è ciò che ossessiona e preme al poeta alle prese con la sua
opera. Un'idea che non è un tema da svolgere o un compito da eseguire, per forza e a tutti i costi,
ma una sorta di predisposizione intenzionale/percettiva, ma anche uno stato dell'animo colto in un
preciso momento ed in una precisa epoca della propria vita.
Il pensare in poema porta/trascina con sé tutta unřoperatività che lo sostiene e lo corrobora nel
tempo.
Una prima fase inizia con una raccolta di dati, impressionismi, stupori che diventano elementi
concreti o metafore di istanti quotidiani, ma anche riflessioni, capaci di costruire il perimetro
circolare del poema e infine, ma non ultimo, la gestione dell'incerto che sostiene sempre un'opera
che avviene.
Posizionando tali paletti/confini il creatore del poema si abbandona all'invasione del mondo e alla
cosiddetta Ŗispirazione poeticaŗ, procedendo poi nell'affondo verticale della temporalità e della
profondità emotiva, che saprà come distillarsi in parola. Attraverso questi due stadi del pensare in
poema lo spazio creativo incomincia la sua sedimentazione, partecipando a quello che Maria
Zambrano ha definito essere uno Ŗstato di graziaŗ.
È in questo processo che poeticamente abito il mondo, entrando in diretta compagnia con le parole
che sanno come restarmi accanto e leali. Parole capaci di farsi interpellare, rispondere, mettere in
forma. Parole in grado di restare ospiti e rendere ospitalità al senso e a una lingua che, nella sua
dinamicità, opererà nel suo dettato scritturale, inverandosi.
Una seconda fase del pensare in poema è proprio il lavoro di Ŗmontaggioŗ, la parte che considero
essere la più decisiva e la più creativa.
La moviola - che nel lavoro cinematografico era il quaderno/video operativo del regista, lo
strumento magico per la resa finale (purtroppo ormai obsoleto) - anche in poesia e in chi pensa in
poema è mentale; è come se girasse alla velocità desiderata e i frammenti di versi radunati e
trattenuti da un'intenzionalità operativa e scrittorea, si installano uno nell'altro e uno dopo l'altro
creando l'immagine, raccontando una storia, facendo una narrazione capace di rendere in chiaro la
soggiacente idea originaria.
Il montaggio è la resa del pensare in poema; è il suo mantenimento: la sua sfida.
È dunque lřintenzionalità ad essere il motore della creatività poematica, il suo adamitico gesto
iniziale al quale prestare fede e attenzione. Un ascolto che riesce addirittura ad essere rintracciabile
nel tempo. È sempre Porta che rende chiaro quanto detto:
ŖEcco io non potrò mai spiegare che cosa significa la mia poesia, ma vi
posso dire invece con che intenzione è nata, con che intenzionalità, quale
progetto le è sotteso e che tipo di organizzazione della percezione ho
scelto.ŗ (6)
È dunque unřorganizzazione della percezione questa, che si procura il tempo e il corpo del tempo,
facendo del linguaggio una taratura esistenziale necessaria e utile alle sua tracciablità.
Ma è anche il corpo della resistenza dei versi che si fanno via via espressione, senso e significato di
ciò che l'opera compone: mette insieme.
Il poema gestisce la forza di una natalità continua, festeggia al suo interno, una ricorrenza
battesimale.
Esso porta in sé anche la forza continua del rimpatrio, la determinazione del riconoscimento e della
sua memoria, innestando nella sua progettualità una narrazione incessante, proprio tra il suo restare
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in connessione con il poema e il suo allontanarsi per sussistenza Ŕ e cioè nel procedere fattivo e
quotidiano di una vita activa in movimento. Nel poema infatti, lřautore opera una serie di
avvicinamenti e allontanamenti continui dai propri temi e dalle proprie impressioni, restituendoci
poi una serie di visoni e punti di vista cariche del loro stesso deambulare.
Il poeta infatti deve potersi portare lontano da sé, dalla sua terra, dal suo orizzonte percettivo per
poterli realizzare e ancora scrutare, inverando in sé la radicalità del movimento stesso, il dolore
della lontananza e dellřallontanamento e il piacere del ritorno. Un piacere questo che è la
realizzazione di un ritrovamento memoriale della parola esatta. Una parola capace di farsi testimone
e testimonianza nella carità del suo rimpatrio.
Egli nel suo ritorno a casa opera una scelta di dati e provviste colte durante il suo viaggio/viaggiare.
Nella raccolta dei dati sarà dunque - oltre lřesperienza vissuta, e la vita - anche lřesperienza della
letteratura a farsi vivente ed agente. Molte sono le fonti che in questa procedura del pensare in
poema rientrano a far parte del corpo centrale dellřopera messa in poema.
Molte sono le Ŗguideŗ, in stile zambraniano a fare di questo procedere per stratificazioni, una via
dove installarsi per illuminare e condurre. Autori, passi, citazioni che accanto a i miei versi
proemiali, diventano stati di meditazione allertati, capaci cioè di recuperare unřinformazione, un
accenno che sappiano predisporre lřintenzione, accomodare la comprensione del testo che si
squaderna.
Ma un punto chiave del pensare in poema è proprio ciò che Antonio Porta mřinsegnò essere: il
potere della progettualità.
Una condizione dello scrivere e del pensare la scrittura poetica che Antonio Porta sottolineava
essere Ŗun tipo di organizzazioneŗ, un modo di Ŗorientare il materialeŗ percettivo del reale. A
proposito del suo poemetto Airone dice:
Ŗ[…] è un tipo di progetto, un tipo do organizzazione, che consente un
orientamento preciso, un modo di orientare il materiale che la mia
percezione raccoglie, o ha raccolto in un lungo periodo.ŗ (7)
Ma è soprattutto il potere della sua bellezza nel Ŗfareŗ del procedere, la compagnia del suo
Ŗpensamentoŗ, ma anche la sua sana difficoltà di resistere nel tempo, ad essere unřevidenza positiva
per comprendere la concretezza del suo Ŗfareŗ e lřoperatività del suo lavoro artigianale: un autentico
Ŗandareŗ a tentoni tra le intenzioni, ma anche quellřandare in bottega, quale luogo della formazione
della vita.
In questo luogo/fucina del Ŗfareŗ della poesia ci sono attrezzi sparsi sul banco dellřartigiano, vicino
al tornio, alla grata, al foglio bianco, al lapis: il diario di lavoro.
Un quaderno nel quale e con il quale poter gestire il progetto e il suo concrezionarsi nel tempo e
nelle idee. Un luogo della laboriosità, dove trovare e governare lřimpianto emotivo della lingua e la
sua devozione grammaticale nel senso.
Un diario che nella sua quotidianità e nella sua costante connessione al reale, permette che il
Ŗmondo della vitaŗ proceda senza farsi interrompere. È proprio il potere della progettualità a creare
quello spazio esatto della sopravvivenza, il calco misurato nel quale poter restare ed avere sempre
unřimmedesimazione nel testo. Un collegamento che si concretizza nellřidea del poema e che può
continuare la sua Ŗruminazioneŗ, nonostante il quotidiano fare delle cose e della vita posti altrove.
Infatti il progetto permette la conservazione del poetico in ogni istante, in ogni momento, inverando
il mantenimento di quello stato di grazia, nel quale la visone dřinsieme si carica di istanti fondativi
di pensiero e sensazioni, di esperienza e desiderio, di azione e utopia.
Il poema si pone dunque in ascolto e si direziona allřascolto, impostando traiettorie pensabili,
portando alla luce una scrittura che Roland Barthes definirebbe essere Ŗun compromesso, un atto di
libertà e un ricordo”, che si realizza in definitiva, in quel segno che impone la sua forma col senso
e il suo contenuto col suono di un puro dire per necessità e verità: la parola.
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Una parola messa appunto in forma di poema, capace di espandersi e incamminarsi scalza in un
cantiere aperto, coraggiosa e decisa a Ŗfareŗ di sé, qualcosa di stabile e visibile: portare da sé a sé la
testimonianza del suo Ŗpassareŗ e del suo Ŗessereŗ ad un interlocutore: allřAltro.
Il pensare in poema ha in sé, infatti, una carica e unřimpostazione intenzionale, che lo rende sempre
in movimento verso qualcosa, verso qualcuno, sia esso una visone, una cosa, un affetto o solo
unřidea. Esso si pone in movimento per trovare e mai per cercare. Trovare ciò che si dispone e non
cercare ciò che non si conosce. Infatti è proprio nel trovare che si va a creare quellřorizzonte
dřattesa che lřopera invera facendosi, restando nella cerchiatura dellřintenzionalità creatrice, capace
di saper gestire anche la parola poetica nata dalla sua fuga.
Dice José Angel Valente in Letteratura e ideologia:
ŖLřoggetto della poesia impone alla parole capace di ospitarla la sua
condizione di legge. In definitiva, ciò che chiamiamo forma non è altro che
il destino che la realtà impone alla parola. […] Il tema è intenzionale, si
cerca, si propone o si impone. Lřoggetto è sovraintenzionale, si incontra, è
la zona di realtà che la parola inventa, cioè, trova.ŗ (8)
Nel poema, dunque, ma soprattutto nel pensare in poema tutto parte e inizia con un salto
spericolato, per concludersi con un balzo saldo a terra e questo perché, pensare in poema, è anche
un estremo tentativo di ordine e misura; è un porsi nella mediazione tra due termini decisivi: lřuomo
e il reale.
È in questo spazio che il pensare in poema attualizza un incamminamento capace di diventare una
presa visone sui resti di un futuro ancora posto alle spalle. Di un tempo che restando indietro, resta
infarcito di passato e memoria. Ma in realtà esso è già un residuo di avvenire che fa capo alla sua
possibilità dřesistere oltre sé e mediante sé. Un residuo già parlante e ancora dicente che si fa carico
di una storia che dal proprio territorio interviene, per penetrare nello spazio che ancora deve
Ŗavvenireŗ, come un accadimento improvviso.
Pensare in poema è un poř come restare allertati dallo stupore; uno stupore che deve esplodere
nellřimmediata prossimità e che ancora non è prossimo a nulla. Lřadiacenza è la strada del poema, è
ciò che ci pone vicino alla storia e alla narrazione di una condizione, che fa del parola una poesia
connessa al proprio tempo e al proprio stupore: unřattesa.
Pensare in poema è porsi in attesa dunque, lasciando che il tutto accada nella sua destinazione e
causa, trovando nella sua tracciabilità esistenziale, un senso possibile come impossibile, credibile
come incredibile capace di farsi ascoltare ma soprattutto, in grado di Ŗfarsi credereŗ.
Stefano Raimondi
Note.
(1) Paul Valéry, ŖPrima lezione del corso di poeticaŗ in La caccia magica, Guida Editori, Napoli 1985, p. 144.
(2) Paul Valéry, ŖIntorno al «Cimetére marin»ŗ in La caccia magica,op. cit.,p. 78.
(3) Paul Valéry, ŖTaccuini di un poetaŗ in La caccia magica, op. cit., p. 57. Per comodità dřora in poi le citazioni
provenienti da questo testo saranno segnalate dalla sigla TDP con la relativa numerazione di pagina.
(4) Paul Valéry, ŖLa creazione artistica»ŗ in La caccia magica,op. cit.,p. 34.
(5) Antonio Porta, Il progetto della poesia, in Ŗil Verriŗ n.1, nona serie. p. 21.
(6) Antonio Porta, Il progetto della poesia, in Ŗil Verriŗ n.1, nona serie. p. 19.
(7) Antonio Porta, Il progetto della poesia, in Ŗil Verriŗ n.1, nona serie. p. 19.
(8) Cfr. in Maria Zambrano, I luoghi della poesia, Bompiani, Milano 2011, p. 153.
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LETTURE
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Fabiano Alborghetti
SEZIONE DEL LAVORO
"Gondrano era sempre stato un forte lavoratore, ma ora sembrava che in lui vi fossero non uno ma tre cavalli: vi erano
giorni in cui tutto il lavoro della fattoria sembrava pesare sulle sue possenti spalle. La sua risposta a ogni problema, a
ogni difficoltà era: "Lavorerò di più!" frase che aveva adottato quale suo motto personale."
G. Orwell, La fattoria degli animali.
La vita è atomi e vuoto
di cui non dovremmo temere (…)
Tony Harrison, Vuoti.
Quanto sei piccolo, quanto infantile al confronto
con lui, la sua maestà, la ricchezza.
Hans Magnus Enzensberger, Aesculus hippocastanum.
anni 72, ex perito meccanico
Ogni tanto stař a Mendrisio
per trovare un poř di pace:
con le Benzodiazepine stař tranquillo
fino a che non sale lřansia
e si mette a far qualcosa, ogni cosa
a dire il vero e una volta lřhan trovato
che spostava le panchine perché fossero ordinate
e parlava con la gente
per spiegare dettagliato come fare quel lavoro
come senza un buon lavoro
ogni uomo non è niente.
Dirigeva con le mani una squadra di persone.
Sono scesi in ambulanza per convincerlo a tornare
stare fermo, riposare. Ripeteva: la pensione!
è la mensa dei battuti ed arrendere
è un morire, è il perdere sé stessi, impazzire.
*
anni 52, impiegata d‟ufficio
Hai la testa come un ceppo di castagno
te lo dico onestamente
che non puoi ogni week-end ammazzarti di lavoro
ramazzare il giardinetto, fare almeno tre bucati
ripassare i pavimenti riordinare nellřarmadio
ogni tanto puoi star ferma ma è come un dire al muro
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anche se lřaltra domenica di lavori non ce nřera
e sei stata sul divano a guardare fissa il niente
come chiusa in una gabbia come se subissi un torto.
Ripetevi un poř scontenta: ma qualcosa c‟è da fare…
*
anni 37, operaio
Posso fare ciò che vuole assicuro allřimpiegato
mentre scorre il mio C.V. e rispondo pertinente
a ogni sorta di domanda, mentre fingo sicurezza
e mi spingo appena indietro, accavallo anche le gambe
mentre so che la cravatta è perfetta col vestito
mentre so che lřapparenza è il biglietto del successo
e nascondo il tremolare delle mani, per la fame.
*
anni 31, montatore elettricista e custode
No, non sogno la pensione
né una rendita sommaria
sogno proprio dřesser ricco, cosi ricco
da far schifo, suscitare delle invidie:
è per questo che io gioco, gioco tutto
quel che posso. Ogni sabato cřè il Lotto
lřEuromillion, il Totogoal e se posso a Ponte Tresa
vado poi alla sala corse.
La domenica a Lugano vado al Kursaal per il poker
a Mendriso per le Slot ma non vinco mai abbastanza
troppo spesso anzi perdo e mi sono indebitato.
Ora faccio due lavori
per coprire il buco in banca ma lo so che manca poco
tra non molto sarò ricco
credo proprio sia stasera
ma stasera faccio il tardi. Da domani mi rifaccio.
*
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Anni 22, accompagnatrice
Da sei mesi sono in proprio
sono in tutti i siti web
con le foto fatte bene da un fotografo mio amico
che ho pagato con lřamore
ma non è un mio cliente. Ora alzo mille franchi
ogni giorno di lavoro
e metà va dritta a casa, dove studiano i miei figli
un pochino nei vestiti, nellřaffitto e nei locali
dove vado per lavoro perché il business va cercato.
I mie figli stanno bene e li chiamo ogni sera
gli ripeto che poi torno ma che devo lavorare
e poi chiudo col magone, e poi bevo del liquore
che mi aiuta a mascherare quella voglia di star sola
senza un corpo che mi preme che mi spinge dentro il seme
ma poi penso che ogni colpo fa star bene i miei bambini
ed allora io sorrido e al cliente questo piace
sembra quasi che io godo, sembra tutto naturale.
Eř per questo che lavoro molto più di altre amiche:
quel sorriso cambia tutto, sembro quasi la ragazza
sembro amica o fidanzata, sembra tutto naturale
sembra che cřè un bel rapporto e non sia a pagamento
sembra che io son felice, e il cliente è più contento…
*
anni 24, ricezionista d‟albergo
Mentre provo lřuniforme guardo attorno il guardaroba
con le pile di tovaglie ed i sacchi di lenzuola
e le donne affaccendate che discendono dai piani
e qualcuna mi saluta con lo sguardo indagatore
per sparire appena dopo e lasciarmi alla misura
a quel panico sottile di chi inizia un posto nuovo
alle cose da imparare per far parte del sistema.
Notizia.
Fabiano Alborghetti nasce nel 1970, vive in Cantone Ticino. È direttore artistico di PoesiaPresente
per la Svizzera e del festival MONZAPOESIA; cura la sezione poesia del Magazine UNO; ha
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creato e conduce il programma La Voce di Gwen per Radio Gwen (lřunico programma di diffusione
della poesia in una web-radio svizzera).
Ha pubblicato Verso Buda (LietoColle2004), L‟opposta riva (ibid. 2006 Ŕ in traduzione per la
Marick Press di Detroit, USA), le plaquette dřarte lugano paradiso (Osnago, Pulcinoelefante, 2007)
Ruota degli esposti (Mendrisio, edizioni fuoridalcoro, 2008, con chine di Gianni Bolis), Registro
dei fragili (Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2009 Ŕ prefazione di Fabio Pusterla - in traduzione
francese per le Editions DřEn Bas di Losanna) e Supernova (Forlì, LřArcolaio, 2011). Sue poesie
sono state tradotte per rivista in una decine di lingue. Grazie a Pro Helvetia, ha rappresentato
ufficialmente la Svizzera negli USA, in Slovenia e in Colombia.
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Dina Basso
Aju mmiscatu bbadduzzi i ciraponga
ppi capiri cchì culuri niscissa
'mmiscannu i nostri occhi:
mi vinna na cosa
ca para un griggiu streusu,
u stissu 'i ma nanna.
Ci fussa cchì scantarisi d'on figghiu
ca ancora a nnasciri e già sapemu
c'avissa chiummu e ciniri 'nta l'occhi.
Ho mischiato palline di plastilina / per capire che colore verrebbe fuori / mischiando i nostri occhi: /
mi è venuta una cosa / che sembra un grigio strano / lo stesso di mia nonna. / Ci sarebbe da
spaventarsi di un figlio / che ancora deve nascere e già sappiamo / che avrebbe piombo e cenere
negli occhi.
*
Nun mi jettu mai a mmari
dře scogghi
ca ma scantu ca lřacqua
nun mi vola e mi sputa
e nun sapennu mancu
natari
provu a ghittarimi
sutta Řu piumoni
supra di tia
e arrivari di testa
malacavà, di panza.
Ppi fortuna nun si mari
e nunnřaju murutu
ancora
arrestu sulu sciancata
di na jamma
e di lřautra
macari.
Non mi tuffo mai nel mare / dagli scogli / ché ho paura che lřacqua / non mi voglia e mi sputi / e
non sapendo nemmeno / nuotare / provo a buttarmi / sotto al piumone / sopra di te / e arrivare di
testa / mal che vada, di pancia. / Per fortuna non sei mare / e non sono morta / ancora / resto solo
zoppa / da una gamba / e dallřaltra / pure.
*
Třassumigghiunu lřomini
ca Řncontru ppa strata
tři fazzu tutti
assumigghiari:
Ŗsuddu avissa a varva
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forsi lřocchi cchiù scuri
putissa essiri idduŗ
e unu ava i ta scarpi
unu a ta bborsa
u barista u ta accentu
mentri mi duna u rrestu;
aju ttruvatu macari
i ta stissi ucchiala,
Řnta fotu di unu ca morsa
cumbattennu no quarantacincu.
Mřammanca sulu
di dariti Řna ucca
e poi quasi quasi
třaju ricugghiutu tuttu
suddu nun fussa ca
a mo addizzioni
nunnřarrisulta
mancu unu.
Ti assomigliano gli uomini / che incontro per strada / te li faccio tutti / assomigliare: / Ŗse avesse la
barba / forse gli occhi più scuri / potrebbe essere luiŗ / e uno ha le tue scarpe / uno la tua borsa / il
barista il tuo accento / mentre mi porge il resto; / ho trovato anche / i tuoi stessi occhiali / nella foto
di uno che è morto / combattendo nel quarantacinque. / Mi manca soltanto / di darti una bocca / e
poi quasi quasi / ti ho raccolto tutto / se non fosse che / alla mia addizione / non risulta / nemmeno
uno.
*
A Renata
È tuttu
un rapa e chiuda
di cirneri, u campeggiu
a tenda è un furnu
o centru o cauru
niautri fatti i crita
(di quali costa na staccammu?)
ni lassamu cuciniari
Ŕ ma nuddu ni misa accura
né prima né ddopu.
Ninnřaccurgemu
niscennu allřaria
allřacqua e o ventu
ca moddu è u Řintra
ma fora cchiù ddura
e bbruciata e sarbaggia
a peddi supecchiu
sřha fattu crusta.
Coccadunu ni parra
ggiustu ppi dirini
ca ni sta troppu bbona
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lřabbronzatura
ma cchiù ca autru fujunu
appena capisciunu
ca chidda ca toccunu
è terracotta.
È tutto / un apri e chiudi / di cerniere, il campeggio / la tenda è un forno / nelle ore centrali / noi
fatte di creta / (da quale costola ci siamo staccate?) / ci lasciamo cucinare / Ŕ ma nessuno ci aveva
avvisate / né prima né dopo. / Ce ne accorgiamo / uscendo allřaria / allřacqua e al vento / che
morbido è il di dentro / ma fuori più dura / e bruciata e selvaggia / la pelle in eccesso / si è fatta
crosta. / Qualcuno ci parla / giusto per dirci / che ci sta troppo bene / lřabbronzatura / ma più che
altro scappano / appena capiscono / che quella che toccano / è terracotta.
*
Sudili sula
suda i linzola
sbatta u peri
cerca di nesciri
da visioni
ca torna a Řuastari:
u ventu malignu
ca isa a vistina
i culonni, cchiù ddřuna
lassati a mità
u diavulu cancia
faccia tri vvoti
(du omini prima
e ppoi si fa nicu)
cancia culuri
partennu do iancu
i Řssorba tutti
anzemi o caudu
e nun si po teniri
mancu ntè vrazza
e nun si po mancu taliari
ma cunta
cuntulu a ttutti chiddu cřha vistu
ca nun si dicissa
ca hai sulu u bbeni
e ccu sřamprissiona
sřarripassassa
u signu da cruci
e ppi precauzioni
ccřaricchi Řntuppati.
Sudali sola / suda i lenzuoli / sbatte il piede / cerca di uscire / dalla visione / che torna a guastare: / il
vento maligno / che alza il vestito / le colonne, più dřuna / lasciate a metà / il diavolo cambia /
faccia tre volte / (due uomini prima / e poi si fa piccolo) / cambia colore / partendo dal bianco / li
assorbe tutti / assieme al caldo / e non si può prendere / nemmeno in braccio / e non si può
nemmeno guardare / ma racconta / raccontalo a tutti quello che hai visto / che non si dicesse mai /
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267
che hai solo il bene / e chi sřimpressiona / si ripassasse / il segno della croce / e per precauzione /
con le orecchie tappate.
*
Tagghiu a striscia di Gaza
ca è a toř strata:
furtinu addiventa u quartieri
carru armatu lřautobussu
e surdati i kebabbari
ca tenunu a ccura
u ta purtuni
e u ta silenziu
cingolatu.
Ma u ma arsenali è chiddu
de surdati simpliciunazzi:
cioccolatta
un pezzi Ři sapuni
i ggettoni da ggiostra
a sciallina niura
ca quannu unu morsi
daveru, Řn Palestina
sřarraccumannau
dřarristani cristiani
e ju dda matina
taliannuti bbonu
mi misi anticchia a chianciri
e u pigghiai Řn parola.
Taglio la striscia di Gaza / che è la tua strada: / fortino diventa il quartiere / carro armato l'autobus /
e soldati i kebabbari / che fanno la guardia / al tuo portone / e al tuo silenzio / cingolato. / Ma il mio
arsenale è quello / dei soldati semplicioni: / cioccolata / un pezzo di sapone / i gettoni della giostra /
lo scialle nero / che quando uno è morto / davvero, in Palestina / si è raccomandato / di restare
umani / e io quella mattina / guardandoti bene / mi sono messa un poco a piangere / e lřho preso in
parola.
*
Hanu dittu i colonnelli
a tilivisioni
ca sta brruciannu tuttu
e i previsioni su
di ventu ca scunocchia:
cancia sulu a ddirezzioni
poi è u stissu
u fetu i stirpagghia
cocca caserma
ppi fari, macari i fimmini
u militari
i tagghi dře provincii
ca aju Řncuminciatu
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livannu a to supra a cartina
e ripizzannu u vacanti
cca masticogna
ca i moli stissi asputunu:
nřarrinesciunu
a maciniari;
no senti u caudu?
sulu u gestu fa sudura!
Spartemuni lřurtimu
Řmuccunieddu Ři bbirra
e suddu arresta
un muzzicuni Ři ventu.
Hanno detto i colonnelli / in televisione / che sta bruciando tutto / e le previsioni sono / di vento da
spezzare le gambe: / cambia solo la direzione / poi è uguale / il puzzo di sterpaglia / qualche
caserma / per fare, anche le donne / il militare / i tagli delle province / che ho cominciato / togliendo
la tua dalla cartina / e rimpiazzando il vuoto / con la gomma da masticare / che i molari stessi
sputano: / non riescono / a macinare; / non senti il caldo? / solo il gesto fa sudare! // Dividiamoci
lřultimo / sorso di birra / e se ne resta / un morso di vento.
*
Třavanzunu
i mo jammi
chiddi ca ora cchiù nun sentu
e ogni passu para ca nunnřè u mia.
U rrestu, Řnveci mu tegnu
ca ccřè dda linia
supra cui nun si va
allřaltezza di nřossu
- u nnomi dillu tu:
è na specii i duana
di dda si passa
a nautru statu
e i forzi armati su sparmati
mura mura
isati nta na para dřuri.
U sacciu ca a mappa
nunnřè u territoriu
ca lřAfrica nunnřè
spartuta cca squadretta
ma cu studia a cartina
e poi nun parta
sřaccuntenta da latata
unni cumparunu
sulu i cunfini.
Ti avanzano / le mie gambe / quelle che ora più non sento / e ogni passo pare che non sia il mio. / Il
resto, invece me lo tengo / che cřè quella linea / sopra cui non si va / allřaltezza di un osso / - il
nome dillo tu: / è una specie di dogana / da lì si passa / a un altro stato / e le forze armate sono
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spalmate / lungo i muri / alzati in un paio dřore. / Lo so che la mappa / non è il territorio / che
lřAfrica non è / divisa col righello / ma chi studia la cartina / e poi non parte / si accontenta del lato /
dove compaiono / solo i confini.
Notizia.
Dina Basso è nata nel 1988 ed è cresciuta a Scordia, in provincia di Catania. Nel 2002 ha pubblicato
alcune sue poesie in dialetto siciliano sulla Gazzetta ufficiale dei dialetti per la casa editrice Prova
dřAutore; l'anno dopo ha curato, sempre per la stessa, il volume di fotografia O scuru, di cui è stata
autrice di didascalie e di una poesia. Sue poesie sono state pubblicate dalle riviste ŖLe Voci della
Lunaŗ, ŖTrattiŗ, ŖPeriferieŗ, ŖFermentiŗ, ŖLa Terrazzaŗ. È arrivata seconda al ŖPremio
MezzagoArteŗ 2009 e i suoi testi sono stati pubblicati nell'antologia del premio ŖQuesto dolore che
mangiaŗ. Con la sua opera prima, Uccalamma – Bocca dell‟ anima (Le voci della Luna, 2010) ha
vinto per la sezione ŖAutore Giovaneŗ il premio Gozzano 2010 e la IX edizione del Premio D. M.
Turoldo, sezione under 25. Dal 2007 vive a Bologna, dove lavora e studia Scienze dell'educazione.
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Francesco Filia
Da La neve
(I frammento, Napoli 2007)
…noi siamo già quel che voi
sarete domani.
La neve, quella vera, non lřabbiamo mai vista
se non nella bocca a nord del vulcano
nei pochi giorni di cristallo dellřinverno come una minaccia
che ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza
ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa
e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa
fino al midollo. Ce ne accorgiamo dai sorrisi tirati
dei passanti, dai gesti circospetti di chi vive per strada
dalle urla dei ragazzi impresse nellřaria, dal nostro esitare.
E non ci sono di conforto i nostri sogni agitati in piena estate
lo scambiare la notte per il giorno o il ricordo di una madre
il tepore della sua ombra. E se anche qualcuno di noi
si chiede qual è il respiro di queste strade, del loro teso
vibrare, della luce che apre spazio tra palazzi e i nostri
incerti passi affrettati rimarrà come un brusio di fondo
tra risate e un colpo di clacson. Tra misericordia
e cielo non cřè più tempo per esitare. Lřassedio
è dentro le case. Eř tra la mano e il buio di stanze abbandonate
e non serve ritrarsi di scatto, anche le mura sapranno chi siamo
scrutando la paura nei nostri occhi e allora potremo solo obbedire
ascoltando il silenzio che si insinua tra il vocio e il magma di piazze
e strade, che invade portoni e giardini a mezzacosta, che copre
frammenti di dialoghi affamati di bocche e cuori e allora, tra vestiti
gettati e lřodore di arance cadute, saremo veri e senza età
come chi dovrà morire sul serio.
(XXII frammento, Napoli 2007)
Una riflessione
In attesa che i conti tornino, moriremo, lo sai
aspettando la risacca del nuovo giorno saremo
condannati a raccattare unřombra che custodisca
i nostri passi, dal rumore di serrande abbassate.
In attesa che lřaria faccia di nuovo attrito
con la nostra pelle bruciata, con il respiro
soffocato di ogni cellula non potremo che annuire
al più lento dei nostri esitare, allo sbaglio
che sapevamo di compiere, che non abbiamo
evitato. Ogni gesto è il suo contrario come
un mai e un sempre, le due facce di un foglio
soffiato, del rumore e del silenzio, da due labbra
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che non possiamo separare che non sanno
intonare neppure un tenue canto di morte che
non sanno più consolarsi con un lontano
c‟era una volta…
(XXV frammento, Napoli 2007)
La madonna della neve
Cřè giunto in sogno con la forza di un respiro brinato
il luogo delle promesse non mantenute dei prodigi
mai compiuti, di una rosa che sboccia di sole spine.
Che ad agosto non nevica si sa, i miracoli non esistono
se non nella gioia dei semplici, di noi che aspettiamo
un passato che riscatti il perimetro delle nostre attese.
Con uno scongiuro non riuscito abbiamo predisposto
il rituale per salvare le nostre facce davanti, quelle
che abbiamo offerto allřoffesa di ogni giorno al rito
di sangue e purezza di ogni nascita allřattimo che trasforma
il più nudo dei casi in ciò di cui non si è potuto mai fare a meno.
La cenere dei falò i copertoni delle auto abbandonate
la scaramanzia dei nostri cellulari accesi tutto è pronto
per un oltre di forme geometriche e cristalli da sciogliersi
al sole per essere nel silenzio di esagoni poggiati uno
sullřaltro di fiocchi che definiscano il recinto
delle nostre preghiere, per un dono che non chiede
nulla in cambio, se non lřultimo dei nostri respiri.
(XXVI frammento, Napoli 2010)
Desiderantes
Osserveremo il colmo di questo cielo, il silenzio
graffiato di stelle, la carovana dei pianeti, il buio
al bordo di un desiderio senza rimedio.
Attenderemo i tanti non più tornati, anche per chi
non attende più, nessuna promessa nulla
restituirà le parole mai dette, la linea
che ci congiunge allo strappo
in fondo a questo gelo, che ci lega
al vento che ci travolgerà, a questřimperio dřamore
e morte, al respiro che scende sempre più al fondo
di strade impazzite tra porfido e sangue, allřofferta
quotidiana di ferite senza redenzione. Non cřè pace
che tenga tra le ombre di questa piazza
che scivola lungo mura sprofondate, un buio
di costellazioni abita nascosto tra conchiglie
e pietre, tra sentinelle e un domani che sfugge
alle nostre spalle. Fiocchi si sciolgono tra le dita
un ultimo barlume nel fondo di questa pupilla.
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da “Gli anni sottratti”
Aprile 2009 – Aprile 2010
Prima o poi pagheremo per questo silenzio
Di fogli bianchi e posate. Pagheremo
Per non aver detto la parola che ci avrebbe
Salvato, urlare lřerrore che ci ha trascinato
Al fondo di noi stessi, tra strade
Interrotte e una carezza. La gioia sarebbe
riascoltare la mia voce senza vergogna.
Un muto assenso o un mugugno, il non detto
Da noi condiviso, un affondo nel nero di fari
E siepi, nel pasto comune di madri e figli.
Porto tutto alla bocca come un bambino
Che impara a conoscere. Ricordo solo
Un monologo senza senso di lalie e parole
Spezzate, un nemico senza volto, un buio.
Continuo a tormentare con i denti la lingua
Quel pezzo di vita tra una poppata e un letto
Di formiche e non potrò che essere travolto
Da una valanga di coperte e buio e cadere, ancora,
Cadere, dove un viso non ha più contorni ma ghigni
Fino a quel centro di fuoco e luce, di sangue
E mito, quel centro che chiamano inizio.
Dove tutto è iniziato, quando un prima e un dopo
Coincisero. Ogni cosa è in ordine: il grigio
Scrostato di queste mura, la bolla dřaria
Sotto al pavimento, la morte composta
Di un padre in un letto. Ci sono cose
Che non sřimparano. E adesso ricorda
Di nuovo, cosa significa gioire.
La pietra viva delle ore taglia
Memoria e pelle ustionata.
Implode lřargento dei minuti
Non averlo capito lo chiamo colpa
Lo spazio vuoto tra un desiderio
E la sua immagine. Unřattesa
Una vertigine di sedimenti e vie di fuga.
(epilogo)
Ogni tentativo dřordine è fallito
Vigerà un ricordo, unřattrazione
Limature di ferro polarizzate
Un non luogo a procedere
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Il profumo di un ospite andato via.
Lřinquietudine sarà un domandare
Ulteriore, forse un riserbo.
Notizia.
Francesco Filia vive e insegna a Napoli, dov'è nato nel 1973. È stato vincitore della sezione inediti
del premio Dario Bellezza (edizione 2001) e finalista di altri premi, tra cui il premio Città di
Tortona 2008. Sue poesie e recensioni dei suoi testi sono apparse sulle riviste ŖLa Clessidraŗ,
ŖCapoversoŗ, ŖLa Mosca di Milanoŗ, ŖTrimbiŗ, ŖPoesiaŗ e su vari blog e riviste on-line, tra cui
ŖNazioneindianaŗ, ŖVDBDŗ, ŖPoieinŗ, ŖPoetrydreamŗ, ŖPoetry Waveŗ, ŖSagaranaŗ e ŖSinestesieŗ;
nelle antologie "Periferie", a cura di Michele Sovente (Napoli, 2004); "Città sotto l'apparenza"
(Milano, 2004); "Armi di pace" e "Oltre la pace" (Il Laboratorio, 2005 e 2006); "Subway- Poeti
italiani Underground", a cura di Davide Rondoni e con introduzione di Milo De Angelis (Net,
2006); nell'antologia "Da Napoli, verso", a cura di Antonio Spagnuolo e Stelvio Di Spigno (Kairos,
2007); nel catalogo di artisti e poeti per i sessant'anni della Repubblica Italiana (Il Laboratorio,
2006), con una poesia visiva in collaborazione con Gabriele Illiano; nel libretto "La città comune"
(Il Laboratorio, 2007); nell'antologia "Il miele del silenzio", a cura di Giancarlo Pontiggia
(Interlinea, 2009); nellřantologia ŖParole in circuitoŗ, a cura di Raffaele Piazza (Fermenti, 2010).
Ha pubblicato il poema in frammenti "Il margine di una città" , con prefazione di Raffaele Piazza e
dieci tavole di Pasquale Coppola (Il Laboratorio, 2008).
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Giuseppe Fonte
Da Ruggero
IV
Ruggero dřintanto, ignaro dei fatti,
bazzica ancora lontano dagli altri.
Appena il vecchiardo scompare lontano,
indossa i calzoni tenendoli in mano.
Adesso un sollievo, neanche a sperarlo,
rinfresca ancor più il suo docile sguardo.
Non ha più problemi, non ha impedimenti,
è pronto a battaglie e a combattimenti.
Eppure nel mentre cercava le braghe,
fuggendo da donne, fuggendo da spade,
dimentico era di una grande questione:
aiutare di certo, ma quali persone?
Appurato che guerra vuole portare
a padroni dispotici e briganti fermare,
riman da chiarire chi sia chi tra molti
è ferito di più e abbisogna soccorsi:
ŖIl mondo è in pericolo sempre costante,
ma io sono solo, e da solo soř errante.
Il mondo mi cerca, di eroi ha bisogno,
ma solo non posso, altrimenti mi infogno.
Occorre capire, il più presto che posso,
chi è bene che aiuti, a chi dare soccorso.
Già unřesperienza mi ha fatto capire
che a caso, così, non si può intervenire.
Certo non posso soccorre i bruti,
il premio sarebbe una pioggia di sputi.
Ma come riuscire, ma come si sceglie?
qui accade che notti diventino veglie!ŗ
E preso da questi pensieri che ha in mente,
ritorna a far cerchi con passo furente.
Cammina nervoso, e sta sulle sue,
tantřè che alle dieci si aggiungono due.
Intanto allřopposto di quella vietta,
quella in cui sřapre la chiesa che svetta,
una donna leggera, vestita di fiori,
arriva col passo chřè dei corridori.
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Ha capelli ondulati, castani e vivaci;
occhi gentili, ma occhi rapaci.
È snella, elegante nel modo di fare,
sotto quel sole è onde nel mare.
In mano trasporta, e sono ingombranti,
cartoni con scritte, non certo pesanti.
Ruggero è pensoso, Ruggero cammina,
non nota la dama che gli si avvicina.
Invero la dolce e leggera ragazza,
anchřessa è impegnata, diretta alla piazza.
Per questo anche lei, che certo è in ritardo,
cammina veloce ed è basso lo sguardo.
Non nota Ruggero finché non ci sbatte,
i cartoni che cadono simili a carte.
Persino Ruggero, che ha in mano lo scudo,
cade per terra sbattendoci il muso.
Gli sanguina il naso, e lřelmo gli casca,
una scena mai vista da torre Velasca.
Senza pensarci nemmeno un istante
si leva di colpo e si mostra prestante.
Alza lřombrello, per fare spavento,
il sangue gli cola a fiotti sul mento.
Vorrebbe dar pane per quella focaccia,
lavare lřoffesa e spaccare una faccia.
Ma i conti che ha fatto non tornano tutti,
non sa che davanti non ha farabutti,
ma una dolce donzella, serena e leggiadra,
il cui intento non era sbarrargli la strada.
Quando sřaccorge di quel lieto volto,
non pensa più al naso, ma resta sconvolto.
Creatura più bella, più chiara, più lieve,
visto non ha, in trentřanni di pene.
È come stordito, che dico è ammattito,
la bocca spalanca ed è ammutolito.
Il sangue continua a sgorgare copioso
e a terra egli cade, con botto mostruoso.
Non sa quanto tempo è rimasto sdraiato,
ma appena apre gli occhi è così illuminato;
non è tanto il sole, che pure è di fronte,
ma è quella splendida, candida fronte.
La povera donna è un poř imbarazzata,
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sventola carte per lřaria strozzata,
appena Ruggero si desta stordito,
lei subito china, con fare impaurito,
con un fazzoletto lo asciuga dal sangue,
la mano gli pone a sfiorargli le guance:
ŖTi prego perdonami, sono distratta,
oggi fa caldo e la testa mi smatta,
poi sono in ritardo e non ti ho notato,
scusami, scusami, se ti ho calpestato.ŗ
Ruggero che ancora non pare ripreso
dallřurto, dal sangue, dal naso ormai offeso,
non sa cosa dire, e non dice niente,
la guarda arrossendo, incredulamente.
ŖOddio che sbadata che sono, perdona.
Ma qui non accade che passi persona,
così io correvo, correvo veloce,
ahimè cřeri tu, ti ho colpito feroce.
Ma adesso che cřè che non parli, che hai?
Oddio! Oddio! Che guai! Che guai!
ŖNo, prego, tranquilla, non è certo nienteŗ
Ruggero ormai desto si alza imponente.
Cerca lo scudo che è insanguinato,
riprende la lancia e lřelmo piumato.
ŖÈ solo un graffietto, non fartene cura,
son altre le cose di cui avere pauraŗ,
dice cercando di dar lřimpressione
di esser guarito, ma la confusione
si affolla continua per quelle cervella,
peggio di un fabbro che forte martella.
Allora la dama, che si è sollevata,
gli tende la mano e gli dice ammantata:
ŖPiacere, mi chiamano tutti Isidoro,
è un nome gentile, fa rima con oro.
Sai, stavo andando, e molto di fretta,
qui dietro, sai, dove cřè una piazzetta…ŗ
Così si interrompe, non chiude la frase,
qualcosa la svia, la cambia di fase.
ŖChe stupida sono, non ho fatto attenzione,
forse anche tu sei pronto allřazione.
Bene! E che bravo, ci hai proprio azzeccato,
un elmo, una lancia, uno scudo ammaccato.
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È tutto appropriato alla nostra battaglia,
forse ti manca una corazza di maglia.
Eccola tieni, non è molto dorata,
ma certo alle vesti che porti è adeguata.ŗ
Gli dice porgendogli due larghi cartoni,
annodati con spago con su paroloni:
in uno cřè scritto con nero dřinferno:
ŖPrecario sarà chi detiene il governoŗ
Nellřaltro di contro, scritto di rosso:
ŖPrecario vuol dire abitare in un fossoŗ
Ruggero la indossa, leggera armatura,
con questa non può più temere paura.
Nel mentre Isidoro con alta protesta:
ŖEvviva! Evviva! Si va in manifesta!
Ruggero non sa che cosa è accaduto,
se è un sogno, se è sveglio, se è ancora svenuto.
Eppure una cosa gli appare lampante
ha capito che aiuto portare allřistante.
ŖSarò paladino di queste persone,
alle quali appartengo per mia vocazione,
che ormai mi son posto, che lieta fortuna!
Arrivo schiavisti, abbiate paura!ŗ
Mentre a ciò pensa la dama lo prende,
lo porta con lei dovřè lřaltra gente.
Ruggero di fianco a quella donzella,
non può non notare che il sedere scodella.
Assieme si partano, lascian la chiesa,
che povera, sola, da anni indifesa,
in Ruggero sperava di avere un amico,
ma in lei sfuma il sogno, poiché si è partito.
Notizia.
Giuseppe Fonte è nato a Vimercate nel 1987. Studia Lettere Moderne a Milano. Nel 2008 ha
partecipato al concorso Subway-Letteratura con la poesia Ultima tratta, classificandosi secondo.
Ha collaborato con lřassociazione A.P.E. alla stesura e alla realizzazione di spettacoli-lezione gioco.
Nel 2010 ha pubblicato, per AbsoluteVille, Il poema di Isidoro (un estratto) – Giuseppe Fonte e la
nuova narrazione in versi, a cura di Vincenzo Frungillo, contenente anche un componimento
poetico intitolato Oltre la siepe.
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Luca Minola
Il silenzio dei grigi
da ascoltare.
La sera e gli strappi
dei colori, un tramonto.
Liscia la mano
lisce le dita che muovono
i pastelli.
La punta che vedi,
sei cielo a secondi.
*
Mattino sulle labbra.
Apri le finestre,
gli anni sbocciano
in superficie.
Vivremo respirando
va sempre lřunghia a scavare.
Terra su terra.
Radice su radice.
Sarà eterno il nostro mattino.
*
E quando la luce nelle insegne luminose
esplose, ci fece di cera il petto
(tornando da occidente, i fuochi
di una guerra ingiusta).
Dai sensi persi a raffica
la sabbia di cui mi lavo
ancora solo.
Come la nascita.
Lřelettricità delle foglie in autunno.
*
Parola cortese si dice il buio
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con le spalle a punte
di stelle illuminate.
Il tavolo della cucina:
misura umana.
Cicatrici dei punti, spazi
aperti nelle frasi,
il tempo offeso
lasciato con lo sguardo.
*
Dei propri polmoni fumare
la cenere residua,
inalati i gesti.
Secondi da buttare
gli orologi fissano tempi nuovi.
Ti crescerà nella testa
la luna e vissuta e nel profondo
e mangiata avrai la lingua.
*
La lingua mancata,
carta vetrata dei sogni.
Il taglio delle cartilagini,
ai piedi i cuori del combattente.
Il battere armato della sveglia
( tutto esplode).
Viene giù la terra.
*
Dopo cřè la stanza dei ricami,
la toppa del maglione
da ricucire ( il tuo incubo),
lacci, cotone, il viso che hai
mostrato per rendermi
le ossa al tempo, credi
la frammentazione della lana.
*
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Donami uomini
da illuminare
nelle bombe dei mercati
resi luce dalla luce.
Miccia accesa, rumori
di corpi che strisciano
sul balzo della strada.
Ancora ali fatte di cera,
si fa ancora la carne.
*
Scheletri dei corpi.
Il ribollire dellřautunno
negli abiti il cotone freddo.
Mani di garze, foglie
di garze: i castagni.
*
Non ero io
oltre la penombra
a portarti le mani lì,
verso il seno
stupendo e rifatto.
Notizia.
Luca Minola è nato a Bergamo nel 1985, dove tuttora vive. È iscritto alla facoltà di ŖScienze
Umanisticheŗ ad indirizzo letterario nella stessa città. Ha pubblicato alcune sue poesie sulla rivista
ŖPoeti e Poesiaŗ. Altri suoi lavori sono apparsi su riviste on-line quali ŖAbsolute Poetryŗ, ŖLa
Rechercheŗ e Ŗ Poetarum Silvaŗ.
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Luciano Neri
PRIME FIGURE MANCANTI
I.
(scontri ad Exharia)
La loro testimonianza una casa diroccata,
ad ogni rincorsa una stanza buia: immagini
perse senza commento mentre ai colpiti
unřoffesa vera, la morte di un innocente.
II.
(espatriati)
Fuga dai luoghi, dal collasso bianco.
Non si riusciva a trovarli nella memoria urbana
dei disarmi. Era necessario vagare per i vialetti alberati
nelle vicinanze di Ermou, oppure il tragitto partiva
dagli scavi del quartiere fantasma di Omonia.
In aiuto potevano arrivare i cani di strada
dal Pireo, tracce infantili marine come argine
senza adulti.
III.
(giorni a Berlino con D. nel ř97)
Si parlava di venire allřEvangelico a trovare un simulacro.
Questa la scena vera: nel circolo sanguigno un cimitero
di globuli rossi, una memoria zuppa di nutrienti ospedalieri
in un corpo quasi luce. Tra il respiro e le vene unřinfermiera
di guardia: dal greto inquinato della rimozione fino alla veglia
un sentiero funereo. Ogni avventura rianimata cambiando ago
nel sangue, scenario, da lì passa la voce.
IV.
(timidezze di D. e rimozione fino a Kreuzberg)
dal greto del fiume fino al sentiero funereo
della rimozione una dama in pelle nera…
mentre quellřaltra gente a chiedere dove era finita
e noi italiani a dire la povertà ti tramortisce
al buio del quartiere orientale… Ŕ ma quelli ci guardavano
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fissi anche anni dopo denutriti perché avevano fame,
il carrello della spesa vuoto, senza promemoria.
V.
(partita a scacchi)
Le stagioni rigenerate sul corpo della povera Ana,
il mondo esterno a scrutare un dolore ormai autoimmune… Ŕ
una scacchiera a grandezza dřuomo al centro del parco.
Ai quattro lati panchine gremite e dietro solo di pochi anni
tribune di soldati e civili Ŕ i confini presidiati dalle armi
a 30 Km, intorno lřeconomia della ricostruzione,
mentre poco più lontano, lungo i binari, il tunnel
sotto colate di cemento Ŕ le mosse dei fanti nel pensiero
comune di ogni giocatore, il rancore sepolto nellřaria
attraverso il cifrario degli scomparsi.
VI.
(primo viaggio di Leo)
Sei in ogni bambino, al parco con la mamma
dentro un aneddoto a colori dellřHaggadah,
al Consiglio di Jajce: esatte le parole a una terra
lontana. Ora tra le memorie adulte un sonno pesantissimo
lo distoglieva, i passeggeri impietriti. Vedeva la rotta
marina irreale nelle loro pagine deserte, un fantasma
alla ricerca di luce. Il labiale degli insonni era la lettura
scomparsa che preferiva, sembianze bianche inconsolabili
private di corpo.
VII.
(correzione del tema)
Nel luogo della fuga e in quello della cattura
posto di blocco e fine della corsa. Ecco lřepilogo:
scambio di persona nella cella di un camion.
Poi i chilometri fino allřItalia. Ora la sembianza
del morto nel corpo del giovane un campo minato
di segni Ŕ nel bianco del racconto un trasporto dřacqua,
una vita al buio.
VIII.
Una casa in piedi per miracolo, ancora segnata
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dai colpi di mortaio, le rose sui muri, il suo scheletro piegato.
Ora il tema di quelle memorie è scontato senza velature
fino al riparo della scrittura, tanto che il loro confine
si riduce a una fiammella di candela, giusto per lo sguardo
dei senza perdono gli interni muti rassegnati dei paesaggi.
IX.
(il fuoco amico)
Malgrado due figli vitali e una casa ricostruita
fa fatica a ricordare i nomi sotto i colpi
del fuoco amico Ŕ il mio affittuario era tra gli ottimisti
pensava che lřassedio sarebbe durato poche ore.
Ora non distingue il presente dal passato,
quello che dice dal futuro. La sua vita è una linea
stesa disarticolata: senza inizio né fine è come fosse
già morto senza il conteggio di tempi, luoghi e ricordi.
X.
(itinerario e mappa con ritratto)
Ragazza russofinnica in partenza
nel soggiorno il deserto delle ombre
in mezzo alle ombre il giovane soldato
luce bassa itinerario interno mappa
dopo anni di assedio tutto come prima
inalterato Ŕ dallřanticamera risvegli
e fughe, scarpe disordinate di bambini
e adulti. Il soggiorno comunicante
con la cucina isolata (strettoia ospitale)
intorno le camere, tre, a ripostiglio.
Dalla cucina una fabbrica abbandonata,
pozzanghere e fango, due macchine bruciate,
altre ombre profughe appartate Ŕ da lì
la vista dei fumatori (marca Drina)
e le colline sovrastanti Ŕ intorno ancora
la natura, oltre le finestre e le fessure
delle crepe Ŕ nel bianco di notte soldati
fantasmi odorano di grappa imbracciano
fucili, camminano dispersi senza confini.
Notizia.
Luciano Neri (1970) vive a Genova, dove lavora come insegnante. Ha pubblicato Dal cuore di
Daguerre (Firenze 2001), La spedizione del controtempo (in ŖNono quaderno italiano di poesia
contemporaneaŗ, Milano 2007) e Lettere nomadi (Novi 2010). Suoi testi sono presenti su varie
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riviste e blog di letteratura. I testi qui proposti sono parte di una raccolta inedita dal titolo Figure
mancanti.
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Gilda Policastro
I cari altri
Non come vita
Gli altri sono:
mangiare il panino a morsi,
gridare al telefono e
sputare
mentre lo fanno
I gesti che non durano,
la bambina dire ciao dalla porta,
e lui che ci hai dormito, una notte,
la mattina non ne sai il nome più
- ma non è come pensi
Gli altri sono:
il ventre che spinge
sotto le calze, e sopra i seni
le mani,
ma pensare che non resiste,
e okey, ci sentiamo domani
Unřunica forma, o misura, ha il fare,
il resto è represso
dal vestito di madre,
dal divieto,
e più chiedono, gli altri, più ingombrano,
meno ci stai
con gli altri sono:
i figli, morire, tu-figlia-loro-morti,
e le coperte, e il velo
e i pigiami e le giacche
gli altri le porteranno, le butteremo,
e quel giorno non verrai
nel sogno a rimproverare
non come vita, ma più di dormire o meno,
adesso non ricordare, non dire il nome, che non sai
degli altri, che a te chiedono, loro,
di non andartene
e che hanno paura,
non vanno a letto, non si sdraiano come dřamore,
eppure non passa, non va-e-non-viene, e sono a metà
*
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All‟ombra
non eri quando hai
chiamato che
il resto dellřattendere,
o lřombra,
che risana
di poco, ancora Non fa
ponti, ma barriere
lřandarsene
è stabile, stabilire la cura se
dura chiamami, quando sai
qualcosa, anche tardi
ho spento o si è spento:
nel cellulare dei morti
arrivano i messaggi
e nei messaggi dei vivi,
le condoglianze
ne conto trentacinque,
di amici che stringono forte,
che abbracciano stretto,
che comprendono
la pena e noi
mangiamo il riso al buffet dřospedale,
guardiamo nei piatti, ridiamo
perché se nřè andato il rantolo,
i piedi a terra
come fanno,
tutti, ha detto la zia, che piange
Che piangono gli altri, sempre,
e non vedi che hai bloccato la fila,
allřamica, che muoiono sempre
gli altri
e noi, a consolarci
*
Il conto dei morti
Seconda, la nonna Sabella chřè dritta
di fronte al fuoco:
lřhanno imbalsamata nella coperta di pelliccia,
se no ci ricasca
come le ruscedde
per il nonno Peppino,
chřè primo, e che siede di spalle
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di fronte al tiggì delle sette
le sere, e nessuno può andarci davanti
tranne le volte che chiede Ma li compri i carciofi,
tu, a Roma,
che sono grandi, e se ci vado
la domenica a passeggio
in via Nazionale
che pure quella
è grande,
ma dopo
è lo zio che spinge
davanti al tiggì delle cinque, mentre
la nonna, per dormire, si prende la ragazza
Marianna, poi lřultima lřha fatta cadere
dentro al bagno del femore rotto,
e la madre si è depressa di quei pomeriggi
che sedeva sul portico
al mare,
che i morti sono statici,
non si muovono mai
dalle foto dal basso,
in mezzo ai fiori, e sopra ai lumini
- li cambia il padre ogni cinque giorni, regolareMa che dopo cambia i treni,
o gli auto, a tre per volta,
e quando scendi, ancora viali,
e corridoi,
lunghissimi - Percorso giallo-,
fino alla sera che è in un posto fuori dal Gra,
che si va:
ci arrivano in tre, con la Clio rotta
e che cosa ce lřavete portato a poi muoiono anche altri, certi che non conosci o parenti degli amici
(il padre Simone, la mamma Dora),
che è questo che dicono vivere,
quando certe volte ti scrivi con qualcuno:
sai chi è morto
*
La cottura del pesce
ti odiano perché sei viva
le ottantenni delle amiche, in eurostar, e
a una certa età tutto è invidiabile, aggiunge, mentre
dei figli si raccontano poi o del pesce, che va bollito
nella sua stessa acqua, per insaporire:
le ascoltiamo ne ridiamo,
continuiamo lui a leggere io a dormire,
guardando i prati, le montagne, i porti
coi primi bagnanti al sole di pasqua
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abbiamo cercato le tracce
nei conti da pagare, nei soliti fiori,
li metti tu, che ho sfondato la sedia, lřultima volta e
poi dalle cartelline sono emersi
i romanzi, che iniziava quellřanno,
mentre i parenti debitori sono in vacanza, al mare,
e, ci sentiamo, state tranquilli, la prossima volta
sei stai bene è peggio, perché fai la tua vita
vuota di ombre,
e se male ti ci pare di sprecarla, proprio perché
il prete dice che non si vive per poco e si muore per sempre
ma il contrario, o ci si rincontra, e quasi
vien da sperare di no, per loro
che potrebbero ricominciare a litigare,
dei parenti debitori, o dei romanzi
ti odieranno finché sei vivo o vorranno
sentire della musica, ballare perfino
(lui va a scuola di tango)
come si può adesso in noi che stiamo
oppure smettere le corse, i romanzi
e andare a vivere dove non siamo che nati,
ricomprare la sedia, bollire il pesce nella sua stessa acqua,
leggere coi cugini chřè morta la vecchia, bruciata
mentre era fuori per la spesa la badante, e
dire che è tutto inutile, le scelte, quando il destino bussa,
e passa
Notizia.
Gilda Policastro è nata a Salerno, cresciuta in Basilicata e vive attualmente a Roma. Italianista,
critica, scrittrice, ha pubblicato libri di critica e di teoria letteraria e il romanzo Il farmaco
(Fandango, 2010). In versi ha esordito con la raccolta Stagioni e altre, nel Decimo Quaderno di
Poesia (Marcos y Marcos, 2010). Ha partecipato a rassegne e performance, vincendo, tra lřaltro, il
premio ŖAntonio Delfiniŗ, edizione 2009, e il premio Mazzacurati-Russo con il prosimetro La
famiglia felice (dřif, 2010). Il suo ultimo libro in versi è Antiprodigi e passi falsi (2011), con cd
realizzato insieme al musicista e compositore Massimiliano Sacchi per la collana "Inaudita" di
Transeuropa.
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Andrea Raos
Da Lettere nere. Un'autografia (13 marzo 1996 - 21 gennaio 1999)
et je ne puis approuver que ceux qui cherchent en gémissant.
Pascal
2.
LA VENUTA DELLřAMANTE MERAVIGLIOSO
fantasma della prima persona
e spina singolare nella carne,
è indubbio che potrebbe ricordare ogni dettaglio. e dunque, o è pura e semplice finzione o sta
evitando di scontrarsi con qualcosa che già sospetta essere troppo doloroso per lui. osservato a
lungo, in questi giorni, non sembra che sia poi così cambiato rispetto a come lo si ricordava. pure è
certo che lentamente, forse troppo lentamente, si sta avvicinando al cosiddetto punto-limite. lo si
può notare da certi scatti dřumore inusuali, una voracità accresciuta. il sogno, la piaga. tuttavia, non
può ancora dirsi lo stato alterato, lřanimo convulso a pareggiare i conti, dřun ricordare completo.
constata almeno che ha prodotto ferite profonde con tradimenti e menzogne della specie più banale,
facendosi adatto ai contesti o alla sua percezione di ciò che ci si aspettava da lui in quel momento.
vie dřuscita non ne ha. non ne vede, cosa chiede. non mostra esitazioni, dřaltra parte, quando si
tratta di rivivere certi eventi particolari, purché a lui favorevoli. ha già tentato di definirlo un gettare
luce su fatti ignoti a tutti. favorevoli nel senso più concreto, come potrebbe esserlo il prestito a
fondo perduto di una somma di denaro, o un regalo imprevisto. questo non molto spesso. non è mai
stato molto abile, dice, con i regali. o troppo o troppo poco. come che sia, di fatto non è la prima
cosa alla quale si pensa quando si pensa a lui. si visualizza piuttosto una presenza incostante ma
florida, lucida e vivace. che sono tanti aggettivi per non dire nulla. una sola traduzione del suo
volto, una pazienza illimitata, è messa in dubbio dalla piega angolosa dellřorecchio sinistro, dallo
scattare improvviso e frenetico, spesso, delle palpebre. non può credere che sia vero ciò che dicono
di lui. rifiuta di accettare la malvagità, è così che la definisce con il tono di chi vuole insultare,
lřoggettività della statistica, lo stillicidio dellřinfinito potenziale, chiede a noi se non vediamo
numeri complessi che ruotano, sfere di cristallo sospese nel vuoto, saldate al buio incastrato a sua
volta dentro sfere dřalabastro, in eterno per simpatia vibranti per materia su materia, alle soglie
della coscienza, nellřanticamera della memoria, che scorrono a fluire lentamente finché sembrano a
guardarle palloni aerostatici di forma inusuale avvicinarsi e allontanarsi, ad inghiottirlo quasi od a
sfuggirgli, con la lentezza tremenda figlia della sua allucinazione. durante questo scorrere di tempo
considera le migliaia di secoli bambini che ha passato a navigare a vista in questo sogno. comunque,
rifiutare il riassunto di una vita è forse semplice istinto di sopravvivenza della maschera dellřio
individuale, quella riversata nellřoggi, lřattuale, della volpe che si recide la zampa per sfuggire alla
trappola, nel qual caso la metafora istantanea del sangue sulla neve avrebbe trasparenza superiore
ancora a quella della neve stessa, o in ogni caso per semplice lucidità di sovraffollamento, che
sarebbe allora mentale, dopo praterie per centinaia di chilometri, sino alla scogliera, con soste
irregolari e brevi, costellate di striduli richiami, scatti dettati dal panico, zigzag dopo zigzag sino ad
affastellarsi in un fantastico domino già afflosciato in forma di città luminescente, il lemming
insegue il picco più profondamente inciso per sbocciare a milioni, alla superficie dellřoceano a
milioni contro le onde, milioni di onde come solo movimento, grido il balzo banale già sbocciato
addosso all'acqua calcolabile allřimpatto. questa la certezza da uomo dřaffari della terra e sfigurato
da tagli coincidenti con la volta celeste che lo conduce per viottoli, volte e torrenti, autostrade e
rigagnoli, elettricità. un caso mai inventato. per questo non chiarire, mai, il campo dřesperienza. si
limita ad enumerare una serie di possibili fattori scatenanti. che cosa appunto nasca da ciò, non lo
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dice, oppure tenta forse di comunicarlo per vie meno diritte. movimenti di una spalla, sguardi
diretti, sguardi, sguardi di sfuggita, il suo gesto abituale di sfregarsi la fronte. una cosa che racconta
spesso, probabilmente per sviare lřattenzione, è unřaccurata descrizione del giardino della casa in
cui è cresciuto fino ai cinque anni. fatto sorprendente, forse al limite dell'attonita mistificazione, per
chi sostenga la fallacia, la morte implicita in qualsiasi vita vista in forma di autobiografia, sarebbe
in questa luce veramente questa vita in quanto cuore vuoto e colmo di un fango acidulato e grigio,
pulsante con la regolarità di unřinfezione, ogni mattina da riconcepire in quanto contraddizione e
vanità di ogni cercare, voler cadere nella tentazione del piede in fallo, del vuoto ricco di senso che
dovrebbe nutrire, dissetare chi, e parla di chiunque, ma al posto suo pensando sempre, forse, e poi
ancora, basandosi sul suo valore e la miseria altrui, su chi frequenta i cuori di coloro che eccellono e
degli umili, a chi col cuore vuoto cerca pace fra tutti costoro, chi dice di riuscire a rimanere, in
quellřeredità detta, navigante a vista nel male originato dalla fine del male, ma sa bene che in fondo
non è nulla, invece, e in ogni modo, e non è lui, ma in particolare, ed è sorprendente vedere come si
accalora, allřimprovviso, per sottolineare, è questo, con veemenza, lřaspetto estraneo, quasi ostile,
degno di una giungla inesplorata, rivestito nella sua immaginazione dalla serra in rovina nellřangolo
più lontano dallřabitazione vera e propria. una serra piuttosto grande, se i suoi ricordi sono esatti.
purtroppo, dice, è su questi soli che può basarsi, perché è passato davanti al giardino, molti anni
dopo, ma i proprietari successivi lřavevano abbattuta. più nulla. a tal punto che non si nasconde il
timore che non sia mai esistita e che di conseguenza lui stia costruendo su fantasmi. ebbene, di quel
luogo in pieno decadimento, cui era proibito anche solo avvicinarsi a causa delle vetrate in pezzi
che disseminavano il prato di aculei trasparenti, lřimmagine più vivida che gli sia rimasta è quella di
un gatto, fulvo e bianco, che fu scoperto imprigionato negli angoli spioventi del metallo. un gatto
ferito, curato da tutti con grande attenzione e affetto. dal suo punto di vista, nellřottica delle sue
preoccupazioni attuali, lřaspetto più degno di interesse dellřintero episodio è che non ha
assolutamente alcun ricordo di che fine abbia fatto quel gatto. svanito nel nulla. per qualcosa vi è
qualcuno con memoria della fine? il salvataggio, lui, sì, forse proprio perché quellřatto aveva
racchiuso in sé la sensazione forte, lo strappo dellřavvicinarsi, attratti dal persistere del gemito, alla
zona proibita, ma non così la sorte successiva, nel quotidiano, dellřanimale. forse fuggito, lasciando
un ciuffetto di peli intricati in una cornice di rovi. oppure morto. anzi, oggi sicuramente morto,
soggiunge ridacchiando. mortissimo proprio. soffio che non trasporta più nulla, sarà a dir tanto
montagnola di sabbia fra altre mille, su una spiaggia deserta, allřombra di una schiera silenziosa di
pini marittimi, al massimo sarà lřincunearsi dřun aculeo fra la corteccia e il tronco, però allora
sullřorlo sfrangiato di un cecidio, che può chiamarsi anche galla, quel tumore che si forma nelle
piante come reazione allřintrodursi di un organismo, vegetale o animale, il penetrare di un
organismo estraneo, in cui a quel punto sarà qui, in compagnia sua, a respirare allora lřaria
ghiacciata del non respirare più, il capogiro del non potersi più dire per domani avrei voglia di
inventarmi una vita diversa. ma ben poca cosa, lui lo sa e lo ha sempre detto a chiunque volesse
ascoltarlo, sarebbe comunque sopravvivere a, grazie a una teoria di sinonimi in cui però restare
senza fiato anche solo per avere chiuso per la durata di un battito gli occhi. perché questo ricorda. il
timore di una cantina buia dal fondo sconcertante e immenso, i più orrendi pericoli. eppure questo
non gli serve che a sbloccare unřaltra idea che scorre da un fiume più lontano, un fiume calmo, dato
che sepolto in fondo alla memoria giace lì qualcosa che appartiene, il sangue e lřanima ed il
muschio venoso che di questo corpo bacia tutte, ognuna cavità, che appartengono, lui dice, allřoggi.
la pazienza che chiede per questa immagine abusata di oggi e ricordare è perché ritiene di poter dire
tramite essa una cosa importante, una cosa che potrebbe fargli attraversare indenne la fiamma di un
momento della vita. perché quando ci si trova immersi nel buio, questo è il punto, quando si sta
immobili nel fondo fisso dellřoscuro, viene spontaneo ritenere che la vista fra i sensi più di tutti sia
del tutto inutile, che si possano stringere le palpebre e affidarsi, nel difficoltoso incedere, allřudito e
al tatto, oppure attraversando i meandri dellřodorato leggere lřambiente. è vero, in fondo a cosa
serviva quel giorno guardare piangendo attraverso il vetro rigato di pioggia senza vedere nulla se
non ad aumentare il carico di sofferenza di ogni umano, a dare nostalgia, martoriarsi e palpitare di
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piaga per ogni breve accendersi del mondo visibile, dovunque e quale fosse in ogni istante? eppure
proprio in questo risiede, secondo lui, ciò che in fondo è forse proprio necessario: spalancare gli
occhi nellřoscurità, non cedere al non poter vedere. e non è questo un rivelarsi al vero o al vuoto,
non già toccare il fondo o spacciarsi per gioioso o per amante o disperato o lucido, no, ma prender
fuoco solamente, a partire dalle palpebre e allargarsi e tendersi scendendo sempre più veloce sino a
diventare guizzo e turbine nei punti che lambiscono lřesterno, sapere che non si vedrà mai di sé
questo lampo, non percepito e mai visto per converso allora il nero, nulla chiede, non cřè niente, e
da dietro le palpebre, da fusi alle pupille, divenuti per un attimo quel guizzo, navigare sino ai lembi
estremi del sistema nervoso centrale a vacillare sul bordo della pelle ed immediatamente su di
nuovo, risalire incespicando dalla periferia della mente contro il flusso del sangue e delle
sensazioni, tornare e ritrovarsi dopo ancora a quello stesso passo esitante nella stanza affondata
nellřoscuro. cosa è stato? dunque non vi sia posto qui per questo frammentario immaginare un rivo
dřacqua o di sudore, sentito scorrere sul dorso, modulato dalle pieghe della spina vertebrale,
generante un suo pensiero sulle sensazioni, in sé sgradevoli, ma che possono portare la
consolazione, amara e parziale, insapore e proprio poco sostanziale, il tempo che comunque scorre,
di questo e grazie a questo scorrimento, in questo corpo che lo prende e lo sopporta in pieno. no, ma
sia, che piaccia o no, sia questo nascere nel nero, dentro la felicità. e subito dopo, corpi semplici. ci
ha già provato innumerevoli volte, si è sgolato, ha pianto, ha annerito risme di carta - perché sono
queste le sue forme, le sue volte mentali a sesto acuto in geografia -, ma ancora adesso non rinuncia,
tenta ancora di raccontare questo sogno che ha fatto tempo fa, un rapporto diretto con la storia del
gatto. in realtà dunque quel felino minuscolo si è trovato coinvolto in un complotto internazionale,
il rapimento di un personaggio importante, anzi, ancora meglio, la figlia di uno scienziato, così è
perfetto nel suo immaginario. le autorità hanno messo al gatto un collare fosforescente per seguirlo
nel buio. amico da sempre della ragazza, compagno di giochi e miagolii colmi di ogni delizia,
lřintelligente bestiola lřha rintracciata allřolfatto nel labirinto della metropoli. lřindagine si conclude
con un pieno successo. o altri libri di questo tipo, che divorava con ansia ed affetto allřepoca degli
eventi. e dunque gatti come corpi semplici, le due parole che ha sognato, corpi anchřesse,
vividamente incise su un fondo scuro in modo da risaltare abbaglianti, fanno definizione del felino
minuscolo e mortale che cerca la ragazza attraverso lřurlare dei gas di scarico e il gemere sommesso
delle macchine umane. questo nostro stare inchiodati come mici su un albero, in questa metropoli, è
pertanto un lampeggiare di profili su un fondo bianco, rinascere aspirati da un tubo di scarico, una
sostanza che bacia la coscienza, non dire parolacce, trattenersi, sentirne colare lřabbraccio umido e
vischioso, di questa coscienza come di ogni altra, sotto la maglia di cotone che avvolge cosce e
polpacci, percorrerti ridacchiando la pelle. e poi un altro sogno di felicità bruscamente interrotta,
oppure dal finale interlocutorio. un uomo anziano, ovvia proiezione del sognante in un qualunque
decennio futuro, che cammina per raggiungere la sommità di una duna fra un numero incalcolabile
di altre, un paesaggio dolcemente scosceso. su questa, possiamo immaginare, intende assistere al
sorgere del sole, spettacolo che, come sa chi ci è stato, ha nel deserto un peso nuovo. in quel
momento, proprio nel preciso momento in cui ha finito di arrancare a fatica sul pendio e sta per
accovacciarsi tranquillo sulla sabbia ancora fredda dallřaver subito la notte qui al suo estinguersi,
viene punto da uno scorpione e muore prima di vedere il disco celeste spezzare la linea
dellřorizzonte per trasformare in nuovo giorno la danza ondulata, abituale, dei richiami a un altro
grido più contratto che un istante prima vi tessevano le rondini (chi avrebbe mai detto che è pieno di
rondini il deserto, ed è così eppure). la fine dellřuomo non fa parte del sogno, che si interrompe
appena prima giacché a quanto pare non è mai possibile sognare la propria morte, è invece una
proiezione pseudologica nata dal rimuginare ora colante tipico del risveglio dopo una notte
tormentata. lei invece, la ragazza adesso donna di stanotte, come tutti quelli che ha sognato, non è
come quelli che sognava, è ancora un altro e un altro ancora e viscido mai sempre non tornare, che
lemure di qualcosa di simile ad un incontro principe, un evento, agli occhi suoi ha in sé tutti gli
squarci e le prospettive possibili di unřevoluzione non inevitabile dellřesistenza. poteva non essere
quella che è. potrà non divenire quella che già fu. ovvero il cammino che si sarebbe potuto
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imboccare, tra i rovi con passo esitante, per uscire da una rumorosa assenza, individuare percorsi
per entrare nella serra fatiscente e uscirne con il gatto fra le braccia senza tremare e senza ferirsi o
perdersi. tracciare un cammino non mistico, non intellettuale o razionale, sola logica vitale, pensare,
sopravvivere, sé stessi, non questo sto per diventare. ovvero il saper vedere appena al di là, da
qualche parte, su un orizzonte poco o nulla definito, ma certo, ecco che cosa cercavo, ecco cosa
avrei sempre voluto fare, ecco che sto facendo ciò che sento. lui la chiama, cercando di riderci
sopra, quellřineffabile, rara e preziosa sensazione dellřessere dřaccordo con ciò che si fa o si dice, si
pensa o sente. ma deve stare invece attento a non tagliarsi, non un semplice soffio delle spine sulla
gamba indifesa nellřinventato sentiero inquinato da mali universali ed onniscienti, da serpenti, che
suonano per lui di richiami stridenti nella mente e si colorano nel nome della voce di chi lo mise al
mondo, per pomeriggi interminabili e calure prive di discorso o evoluzione lineare, ma veramente il
vetro rotto che lo accecherà nel sole e farà brillare, in seguito, la terra di un autunno più rosso e
denso in ogni zolla del più cattivo succo è cosa da dimenticare. sta cercando per vie impervie di
calcolare le potenzialità esplosive dřun fulmineo ritorno alla radice, uno scavare alla base del male,
valutando che questo potrebbe portare a un chiarimento, se non addirittura a una riparazione, una
scomparsa, un essere cancellata dalla terra e dalla memoria di una qualunque catena di eventi.
perché in quel sogno appariva tutto così semplice, così ovvio, così lontano dal tormentoso e
costante punzecchiare del reale, come se in un solo soffio appannato di respiro fosse rinato,
gloriante e luminosa questa vita, un trascorrere i propri giorni al mondo grazie al modo di una linea
unica, non retta ma continua, sottile ma non fragile, incostante nel costante mutare ma forte invece,
molto forte nel mostrare ridendo la propria direzione attraverso lřabbaglio quotidiano, e allora
questo e altro si domanda tormentandosi le mani tormentate, facendosi pesare la sua assenza
mentale di ali robuste a sufficienza per affrontare un tale immaginario volo immaginato in cui si sa
schiacciato da un teorema, sa da sempre e per sempre la vita un fascio di parallele, ma ecco
allřimprovviso due rette che lo intersecano. i segmenti di esistenza che ne risultano comunque
proporzionali, compi un gesto e non sfuggi alla conseguenza, allřeco, allřamplificarsi e ripercuotersi
che ti crolla addosso con lřimmensità di una colpa universale non tua ma proprietà di ognuno e al
tempo stesso solo tua per ciò che hai commesso non sapendolo, per ciò che hai ben fatto volendolo,
per ciò che non hai mai neppure pensato, ma che sicuramente ci pensavi in fondo, e hai solo da
sperare allora e speri in effetti che le rette siano composte di infiniti punti per sperare quindi di
dissolverti infine nel continuo e nel ruotare armonico di un qualunque infinito e cessare di esistere
come entità separata e condannata a sperare e, a tuo modo, come credi, se anche ti fa piacere
crederlo o anche se cerchi di non pensarci, tuttavia non ci riesci e resti sofferente di un dolore che le
parole non trattengono con sé, non in quanto troppo grande ma perché privo di nome, di che non
chiedere nientřaltro e poi cosa sperare più. a questo sostiene di essere giunto. vuole continuare e
quindi continuerà, dice parafrasando in modo più inconsapevole di quanto non creda, nel momento
in cui afferra unřasticella di legno leggerissima con la quale ha manifestato lřintenzione di tracciare
e traccia effettivamente segni criptati sulla sabbia, destinati ad eccitare la fantasia dei bambini che
potrebbero passare giocando su questa spiaggia. potrà sembrare strano ma lui sembra abbastanza
convinto che ce ne siano, sostiene di averne già visti che giocavano a rincorrersi, a una ragionevole
distanza da lui, apparendo e scomparendo dietro i ligustri sparpagliati a siepe e strangolati da
rizocarpi e licnidi, da geografici e canini che, si dice, possono volendo strangolare un uomo e anche,
poco più vicino al pulsare del mare, dietro i ciuffi di lavanda che costellano lřarea da lui prescelta in
quanto campo e in quanto immaginazione, solo come una minuscola immaginazione, scomparire e
riapparire pochi istanti dopo nuovamente al di là di quella stessa siepe di ligustri che contempla per
ore, mossi dolcemente dal vento, lui e lei, a velocità diverse ma degne nel tremante cercarsi, degne
di due amanti. ora che non sente né calma né sete, così afferma con il ritmare solito le frasi che gli
emerge dal rumore sordo rimandatogli da ogni passo o dal battere il circolo del fiato che mille e
mille volte al giorno gli concedono i polmoni, ora che né sonno né furia, adesso può pensare a
giocare a qualche indovinello con lřinnocenza dei suoi piccoli. i bambini. quelli che ha visto e quelli
che non ha visto, quelli che ha rifiutato con un moto di fastidio e quelli che ha accettato sorridendo
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un poř smarrito, ma che però, torna sulle sue frasi come ripensandoci, come per aggrottare
corrucciato la fronte, ma che però ha respinto forse anche loro, soprattutto loro, in un suo limbo di
gratuita violenza, quelli con cui non sa di che cosa discorrere e quelli che lascia invece andare
sullřonda dei loro magri ricordi e di aspettative sbilenche come quarti d