Luca Beatrice - Andrea Chiesi
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Luca Beatrice - Andrea Chiesi
Luca Beatrice TEMPO Quando entra a far parte in maniera evidente di un’opera d’arte, il tempo le attribuisce quel valore concettuale e teorico che di norma sfugge alle soluzioni meramente rappresentative e visive. Se lo spazio è un’immagine il tempo è un’idea, e senza un esplicito rimando spaziale in grado di contenere il tempo in maniera figurata, quest’ultimo risulta pressoché irrappresentabile. In parole povere ciò che accade con l’acqua, che si può visualizzare solo attraverso masse e non scomposta in unità, perché l’acqua, come il tempo, non ha colore, spessore e neppure corpo. Il tempo dunque concettualizza l’opera d’arte perché le offre l’inafferrabile restando sospeso ai margini dell’incertezza. Ciò accade soprattutto per la pittura (in parte per la fotografia), che tra tutti i linguaggi si manifesta come il più ancorato alla limitatezza della rappresentazione bidimensionale: è diretta e non ellittica, nel senso che l’immagine si pone nella sua subitanea evidenza senza un prima né un dopo; è sincronica e non diacronica, perché teoricamente inadatta a presentare simultaneamente più accadimenti sullo stesso piano e corrisponde perciò alla formula dell’hic et nunc; e infine pone all’osservatore un problema di immediatezza percettiva, mentre l’esperienza cinetica presuppone l’attraversamento, quindi una durata, un protrarsi. “Un quadro, un disegno, una fotografia – ha scritto lo storico dell’arte Jean-Pierre Criqui (1)- non fissano alcuna posologia quanto alla percezione che dovremmo averne, contrariamente a un film o a una composizione musicale che ci dettano immediatamente le loro condizioni a riguardo. Quanto tempo si deve guardare un quadro per poter affermare di averlo visto, nel senso in cui diciamo uscendo dal cinema –ho appena visto questo film?”. Come concetto applicato a una soluzione estetica –lo spiega Daniel Soutif (2)- il tempo risulta molto lontano dall’idea assoluta di esso. “Per i fisici o i matematici, che lo misurano attraverso unità sempre più piccole (gli orologi al cesio ricostruiscono il secondo attraverso la moltiplicazione di un battito che corrisponde al suo nono miliardesimo!), il tempo finisce per ridursi al numero, che per natura è astratto, immaginabile ma non per questo più facilmente accessibile alla percezione. Per i comuni mortali, invece, il tempo sembra semplicemente scorrere, più o meno vuoto o pieno a seconda del passare degli stati e degli avvenimenti più o meno palpitanti, più o meno intimi, che fanno e scandiscono la nostra vita soggettiva”. Pur consapevoli dell’inarrestabile irreversibilità fisica del tempo, la qualità che gli attribuiamo ne può falsare la percezione: si dice infatti che i momenti belli volano via mentre la noia corrisponde al tempo che non passa mai. L’arte, come tutti i meccanismi di finzione, è ancorata su un’idea di relatività che pure si modella sull’esperienza reale e biografica della vita vissuta: a essa non potrà corrispondere il tempo astratto iperveloce della comunicazione, ma qualcosa di ben più rallentato (come lo slow motion al cinema) che permetta di cristallizzare le emozioni e la memoria di esse. Non c’è epoca o stile nella storia dell’arte che non abbia individuato nel tempo un fondamentale cardine teorico. Non c’è opera che non ne risulti in qualche modo influenzata, direttamente o indirettamente. Alighiero Boetti realizzò, nel 1977, un orologio a tiratura limitata che segna l’ora e l’anno. Sul quadrante al posto delle consuete cifre 12,3,6,9 sono inscritti i quattro numeri che indicano l’anno in corso. In base a questo principio, solo la morte dell’artista, nel 1994, ha fermato la produzione di un orologio nuovo ogni anno (3). I Perfect Lovers (1987-1990) di Felix Gonzalez-Torres sono invece due orologi a muro perfettamente sincroni come lo sanno essere soltanto gli amanti. On Kawara ha dedicato tutto il suo lavoro al tempo, eliminando dall’arte qualsiasi valore connotativo, qualsiasi pulsione descrittiva, e accettando la sfida all’interno della pittura: uno sfondo uniforme con unicamente la data impressa, l’hic et nunc in cui principia e finisce l’arte in quanto certificato contingente di esistenza. Le fotografie di Hiroshi Sugimoto –sale cinematografiche, drive in, viste sul mare- sono catalogate dall’autore sotto la definizione di Time Exposed, “casi tra i più spettacolari di contrazione di una durata all’interno di un’immagine unica, perché Sugimoto non registra uno schermo vuoto ma la proiezione di un lungometraggio dall’inizio alla fine. Il tempo di posa delle sue vedute corrisponde esattamente alla durata del film proiettato, che si condensa nella fotografia risultante in una superficie bianca dalla luminosità intensa e quasi ipnotica.” (4). Forse meno conosciuta, ma altrettanto importante, è l’incidenza del tempo nella pittura della grande artista lettone Vija Celmins a partire dai quadri delle autostrade (1966), oceani (1969), deserti (meta ’70), cieli stellati (dagli anni ’80 in poi). “Creati lentamente durante periodi di tempo prolungati esigono un’evidente lentezza di percezione.” (5), una pittura che infatti registra soltanto gli impercettibili cambiamenti che l’occhio nudo, svogliato e disattento, non riesce a catturare. Finora Andrea Chiesi è emerso come un pittore di spazi. Lo spazio veniva descritto dopo essere stato scelto mediante un attento immergersi nelle sue dimensioni qualitative, connotanti ed esistenziali che non ne tralasciava il forte valore simbolico (6). In questo nuovo ciclo di lavori, dove il tempo ha preso il sopravvento sullo spazio, la pittura ha proseguito in direzione di una sintesi sempre più evidente, di una secchezza emotiva e una maggior consapevolezza concettuale. Questa volta Chiesi non è andato in giro a cercare materia d’ispirazione nei luoghi ma è partito dal sé, dall’unità di spazio in cui vive e lavora con coerenza quotidiana: la casa, termine oggi svilito da operazioni voyeuristiche di reality show tipo Grande Fratello, unicamente un’unità di misura dove ogni cosa rimanda alla normalità, all’abitudine, alla regola e mai all’eccezione, anche se l’artista ha parlato di esilio volontario, di necessario autorecludersi per non cadere vittima delle insidie e dello suggestioni dello spazio esterno. La casa dunque, l’unità interiore e intima che possiede, come tutte le case, aperture (finestre e balconi) per guardare fuori. Può accadere qualcosa che turbi la quiete dell’ordinario (un incidente stradale, un assembramento inconsueto di persone, la caduta di un oggetto pesante), ma in genere il tempo scorre senza mutamenti rilevanti. Andrea Chiesi ha aggiunto al suo sguardo da pittore l’occhio meccanico di una macchina fotografica trattenendo ciò che avveniva oltre i vetri delle sue finestre in diverse ore del giorno, in diversi momenti della giornata, riprendendo in immagini fisse il fluire del tempo. Ai circa trenta dipinti prescelti al termine di questa “operazione”, realizzati con un sistema scalare dal più grande al più piccolo e viceversa, non può però corrispondere un istante preciso, vero o fittizio che sia: se si trattasse di una riproduzione meccanica il tempo dello scatto potrebbe determinare l’hic et nunc dell’inquadratura e restituire perciò l’origine del tempo reale. La pittura, invece, si fonda sull’inganno: all’istante in cui cessa la visione va aggiunto il tempo necessario per cui questa stessa visione si trasformi in pittura. Ecco l’enigma del dipingere, e ancora una volta si parlerà di post metafisica: ciò che noi vediamo corrisponde al tempo dell’istante in cui l’occhio ha catturato il fermo immagine oppure, piuttosto, al tempo lento della pittura che deve necessariamente tener conto del tempo rallentato dell’esecuzione? Questo ciclo di opere è un terminus ab quo o un terminus ad quem? Il tempo quindi, nell’istante in cui entra a far parte di un processo di natura estetica (qui è la pittura, ma potrebbe essere anche scrittura, considerati gli scarti temporali messisi in moto dal momento della mia presa visione delle opere di Chiesi, dell’ideazione del testo e della sua definitiva stesura che QUI e ORA non si è ancora compiuta), è una finzione che non può affatto soddisfare il desiderio di realtà e verosimiglianza. Nel tentativo, ai limiti dell’utopia, di dipingere il tempo, Andrea Chiesi rende scarni dettagli e colori, sceglie una tonalità bassa e uniforme con cromie ridotte all’osso. Dopo gli azzurri grigi e plumbei dei paesaggi, dopo i bianchi accecanti e irrealistici dei cieli, Chiesi compie una sorta di “back in black” assecondando la sua natura originaria: il nero è l’elemento unificante dei nuovi quadri, il non-colore che tutto avvolge a seguire un tempo crepuscolare e notturno, quando l’osservazione è realmente avvenuta. Spogliata dei dettagli eroici, in alcune tele l’inquadratura mantiene minime tracce di vissuto (un parco giochi per bambini, automobili al lato della strada, lampioni illuminati e poco più); in altre si accentua la componente del lirismo poetico, da sempre presente sotto traccia nell’artista modenese, ad esempio nell’analisi estremamente particolareggiata del movimento delle foglie al vento, nei fuochi d’artificio che colorano il cielo, lontani, o nell’incombenza di un temporale. In particolare questa serie sembra riallacciarsi a un’ossessione di Chiesi, già affrontata nel breve ciclo Factor (2001-2002), in cui la landa desolata di un parcheggio in periferia diventava, quasi per magia, il teatro di un contemporaneo Lighting Field, ispirato alla celeberrima installazione di Walter De Maria. L’artista americano, infatti, aveva lavorato sullo spazio prevedendo l’azione del tempo: conficcare una serie di pali con punte acuminate nel deserto, un posto in cui piove raramente. Ma se per caso fosse sopraggiunto il miracolo del temporale, non si sa se, non si sa quando (come nel caso della Lampada annuale di Alighiero Boetti, 1966, che si sarebbe accesa inaspettatamente per undici secondi all’anno), si sarebbe verificato quel cortocircuito elettrico capace di modificare la percezione dello spazio. Dalla sua finestra sulla piana modenese la memoria di Andrea Chiesi ha fermato quel preciso momento e ce lo restituisce attraverso una suggestiva immagine in grado di abbagliare la memoria di ciascuno. Time can’t wait, il tempo non può aspettare, cantava Tom Waits. “La coscienza –o quel qualcosa in essa che persiste e che cambia senza cambiare completamente- scopre molto presto la propria finitezza e conduce alla scoperta di un altro genere pittorico, quello della vanità” ha scritto ancora Soutif (7). In un precedente ciclo di opere, esposte un po’ in sordina all’inizio del 2004, Chiesi ha lavorato sul tema del Memento Mori attraverso la sua rappresentazione più ovvia, la natura morta con teschio, contaminando il motivo iconografico all’interno del proprio vissuto autobiografico. Ancora una volta la “sua” storia, quella di un ragazzo cresciuto con la musica alternativa, le esperienze movimentiste, un credo un po’ laico e un po’ mistico, gli viene in soccorso come l’orologio che segna il tempo della personale vanità. Da qui il guardarsi retrospettivo allo specchio, da qui i sorprendenti nuovi quadri dedicati all’autoritratto, non come è oggi, ma di quel ragazzo e dei suoi sogni negli anni ’80, elaborati da certe vecchie fotografie dimenticate in qualche cassetto. Suona falso, infatti, che l’autoritratto corrisponda a un sottile bisogno autobiografico dell’autore:è quanto di più narcisistico si ritrova nell’arte, la voglia di raffigurarsi nei panni in cui il soggetto vorrebbe che noi lo vedessimo. Di primo acchito questi lavori di Chiesi, a tratti duri e respingenti, mi hanno fatto venire alla mente gli straordinari Self Portraits di Robert Mapplethorpe, capaci di esorcizzare la morte nella sua imminenza, un inno alla vita possibile solo nell’arte. Perché l’arte si sottrae al tempo, o forse no, ha soltanto un altro tempo, è bene ricordarlo, sennò a cosa sarebbe servito tutto questo esistere… Note 1) Jean-Pierre Criqui, “L’arte, una questione di impiego del tempo”, in Tempo!, cat. mostra Centre Pompidou, Parigi, Palazzo delle Esposizioni, Roma, Centre de Cultura Contemporanea, Barcellona 2000-2001, ed. Castelvecchi, Roma 2000. 2) Daniel Soutif, “Esporre il tempo all’accelerazione della velocità”, in ibidem. 3) Cfr. Alighiero Boetti 1965-1994, cat. mostra GAM, Torino 1996, ed. Mazzotta, Milano 1996. 4) Criqui, cit, nota 1. 5) Neville Wakefield, “Temps Morts”, in Vija Celmins, cat. mostra ICA, Londra, Centro de Arte Reina Sofia, Madrid, Kunstmuseum, Winterthur, Museum fur Moderne Kunst, Francoforte, 1996-1997. 6) Cfr. Luca Beatrice, “Per un amico”, in Andrea Chiesi, Lipanjepuntin arte contemporanea, Trieste, Silvana editoriale, Milano 2003. 7) Soutif, cit. nota 2. HOME -Un ritratto- di Simona Vinci Home is where one starts from. T.S.Eliot, Four quartets Time present and time past Are both perhaps present in time future, And time future contained in time past. If all time is eternally present All time is unredeemable. T.S.Eliot, Four Quartets Quattro stanze- e finestre Questa casa è alla sua quinta vita. La prima vita era quella di una famiglia. C'ero io, c'era mia madre, mio padre, mia sorella. Nella seconda vita, mia sorella non c'era più. Poi non c'è stata più mia madre. Né mio padre. Non è rimasto più nessuno. Solo io. E poi è arrivata lei. Una donna. Un giorno se n'è andata. E adesso è la quinta vita. Io da solo. E le gatte. Prima stanza- e finestra Uscire di casa, spalancare la porta, camminare e poi prendere lo slancio, correre. Perdersi nel bosco. Ma non c'è nessun bosco, qui. Solo un alternarsi disteso e infinito di campi, fabbriche abbandonate, villette a schiera, parcheggi, giardinetti pubblici deserti. Non è neanche un paese, questo, solo una frazione: Tre Olmi, nome evocativo per una strisciolina di campagna stretta tra il fiume Secchia, la tangenziale e l’autostrada. Un posto insano, con le esalazioni venefiche del fiume, un fiume serpente che si snoda dalle ceramiche sassolesi al dio Po, un tragicomico cuore di tenebra emiliano. Fabbriche abbandonate, appunto, fabbriche nuove, allevamenti di maiali, villette a schiera, parcheggi, giardinetti deserti. E cosa c'è di più triste di un giardinetto pubblico deserto? Di un luogo pensato-per-i-bambinisenza-i-bambini? Di più, disertato dai bambini? Non uscire di casa dunque, sbarrare la porta, perdersi dietro i vetri. Nascondersi. Nascondersi al mondo. Evitare ogni contatto, soprattutto con i vicini di casa. Sbarro le porte, le finestre, zitto, muto. Ho il freezer e il condizionatore. Non mi prendono né per fame né per canicola. Sto nascosto, e guardo. Guardare. Il mondo osservato dalle finestre è già un quadro. Dentro questa cucina. Stesso lavello, stesso tavolo, stesse sedie. Stessa disposizione dei mobili nello spazio, stessa luce a illuminare le pareti. Luce elettrica di sera. Luce elettrica nei pomeriggi d’inverno. O luce naturale, luce estiva, da canicola di luglio, che sfonda le tapparelle e scoppia dentro la stanza, la incendia. Dentro questa stessa stanza ci sono tutti i tempi, tempo passato tempo futuro tempo presente. Quale di questi è il Tempo? Il fuoco acceso sotto la pentola, acqua che bolle, fiamme azzurre e arancio. Il sale grosso che si scioglie e gli spaghetti da buttare. Odore di pomodoro e basilico, di parmigiano grattuggiato. Odore semplice di casa viva, di pranzi e cene, di caffé la mattina, di lasagne nel forno. Questo è il tempo passato. Di schiena, davanti al fornello, una donna. Anzi, sono due le donne, due tempi passati differenti. Due schiene, due fonti aggrottate, quattro mani e quattro gomiti affaccendati a pelare, mondare, affettare, pesare, controllare, mettere e togliere coperchi, mescolare, assaggiare. E questo è il tempo futuro: buio indistinto, una schiena sottile di ragazza, due mani e due gomiti affaccendati a pelare, mondare, affettare, pesare, controllare, a mettere e togliere coperchi, mescolare, assaggiare. Una schiena sottile di ragazza, una nuca scoperta sulla quale posare le labbra, piccoli fianchi da stringere in silenzio. Una ragazza che ancora non conosco. Forse avrà un nome che mi piacerà pronunciare. Di certo, solo il tempo presente. Il frigorifero stipato di bottiglie di birra. Una carota morente. Olive. Da solo, mangio cose pratiche, veloci. Insalate già lavate, frutta. Surgelati. Spaghetti alle vongole precotti. Oppure, non mangio affatto. Dalla finestra: un vialetto che si apre davanti al cancello di casa. Le fronde di due pini di pianura spelacchiati, malmessi. Una ringhiera di ferro. Una siepe. Un cane pauroso che si affaccia a spiarmi e subito ritrae il muso, si nasconde. Lungo il vialetto, nessuno. Né un passante. Né un’automobile. Niente. Tempo immobile. Cielo coperto da temporale estivo in arrivo. Fremiti nell’aria. Elettricità covata nella pancia immensa del cielo. Tra le tempie, un battito sordo: tutte le parole chiuse dentro la gola. Quanti giorni sono che non parlo con nessuno? Seconda stanza – e finestra Questo letto è un letto bianco. Una stanza, tutta bianca. Nessun segno alle pareti, nessuna immagine, nessun ricordo. Come in una stanza d’albergo, entro e mi spoglio di tutto, anche di me stesso. Nel sonno affondo senza ricordi, senza immagini, senza voci. Poi mi sveglio di colpo: dormire da soli è difficile. Ricordo l’onda morbida di un fianco di femmina sotto le dita, la sagoma dolce di un seno addomentato, un soffio di capelli sul cuscino. L’impronta di un corpo. Ora le lenzuola non odorano di niente. Fresche in ogni punto. Allargo braccia e gambe e copro tutto lo spazio. Tempo presente: una notte d’agosto, un temporale che tarda ad arrivare. Mi affaccio alla finestra. Il buio strappato da uno squarcio velocissimo nel cielo. Una sventagliata di mitraglia. Bellissima. Luce bianca lontana che illumina a giorno ogni cosa: altalene, alberi magri, sassi, panchine, i giochi dei bambini, solitari, immersi in una luce livida. Altalena, cavalluccio, castello per arrampicarsi. La linea ferma degli alberi, coltre oltre la quale accadono le cose. Cose dalle quali sono escluso, tempo che non mi sfiora. O forse, neanche là accade nulla, e tutto è sempre, comunque, già accaduto o ancora da venire? Tempo passato. Da questa stessa finestra ho guardato i bambini. Neve, era inverno. Tre bambine e uno non classificabile. Giocavano, si rincorrevano. Un po’ le ho guardate, ma non tanto. In fondo non era interessante. Si tiravano palle di neve- ma per loro probabilmente era bellissimo. Tempo di passi che disegnano reticolati invisibili sul pavimento. Io, dentro la casa, misuro le distanze in passi, da muro a muro. Ossessivamente percorro il perimetro delle stanze. In diagonale. Avanti e indietro. Salgo e scendo le scale, conto gli scalini, 36, e li conto ogni volta, e verifico, verifico che siano sempre gli stessi, che non siano aumentati o diminuiti. Nessuno telefona e io non telefono a nessuno, mutismo ostinato che serve alle cellule per rigenerarsi. Sonno profondo di gola, corde vocali, orecchie. Solo gli occhi mi tradiscono e continuano a guardare. Chiuderli non serve, come i gatti, da sempre vedo anche al buio. Certi giorni, immagino di vedermi da fuori: un uomo solo che guarda il mondo dalle finestre. Mondo intelaiato, angolatura ferma. Ecco, è già un quadro. Immagino di vedere la mia casa, da fuori. Un’ombra pallida affacciata alla finestra, nascosta dietro il vetro. Un ombra vestita di nero, le spalle una curva malinconica, una mano attorno al mento, l’altra posata contro il muro. Immagino e basta. Potrei uscire, lasciare la luce accesa e correre a spiare la mia vita. Restare fermo in mezzo al parco deserto e osservare le mie finestre illuminate. Il mio mondo senza me. Domandarmi, da fuori, cosa potrebbe accadere dentro, cosa accade, spiare come a volte si spiano, passando lungo una strada, le stanze degi altri: una tovaglia plastificata, un tavolo, la luce rossoarancio di un vecchio lampadario, le mani che stringono le posate, i profili dei componenti di una famiglia con la testa chinata sui piatti, un poster appeso ai muri, il bagliore di uno schermo televisivo che incendia le pareti, l’angolo massiccio di un armadio. Come vive la gente, come mangia, si annoia, ama, muore. Come si muove dentro le case, come sposta gli oggetti, quante volte sale e scende le scale. Forse qualcuno ha osservato così questa casa, e anche me. Cosa sta aspettando quell’ombra con le spalle incurvate appoggiata al telaio di una finestra? Cosa sto aspettando? Che il tempo passi, forse. Tempo. Stagioni. Movimenti minimi che indichino una direzione. Ma non c’è una direzione, non c’è mai una direzione. Non c’è altro che il fermo immagine dietro i vetri. Tempo presente. Accaduto o ancora da venire. Tutto quello che accade, accade dentro. Terza stanza- e finestra Questa adesso è una cantina. File ordinate di vecchi fumetti. Panni stesi ad asciugare: magliette, calzini, mutande, tutto rigorosamente nero. La cassetta delle gatte e lei, la gatta più vecchia, che dorme su una lavatrice. E’ umida questa stanza. E triste e fredda. Una volta, era qui che lavoravo. Al piano di sopra, c’erano i passi delle donne. Prima una. Poi l’altra. Poi un’altra ancora. Passi solidi di femmina che solca la casa e le dà un senso, la fa viva, la nutre. Gli uomini non danno il sangue, alle case. Gli uomini dormono, si fanno la doccia, si nascondono nella casa, scappano dalla casa. Stanze gelate, quelle degli uomini. Caos orrendo o ordine maniacale. Fuori dalla porta finestra, i vecchi pini spelacchiati si agitano sotto un colpo di vento improvviso. Fremono beati, poi si immobilizzano un’altra volta, le fronde si piegano sotto il peso dell’afa che comincia comunque ad allentarsi. Arriva settembre. Notti fresche. Fuori, l’unico movimento è quello delle foglie spostate, dei rami degli alberi piegati dal vento. E nuvole. E cielo. Fuochi improvvisi che esplodono nella notte, movimento congelato. Tempo presente, ancora. Fuochi d’artificio lontani. Gocce rosse, bianche, girandole e spirali verdi e gialle. Il frastuono dei botti. Lontano. Davvero molto lontano da qui. un suono di cose rotte. Di cose già finite. Giusto un’eco. Quarta stanza- e finestra Tempo presente. Fuori dalla finestra del mio nuovo studio, al primo piano, c’è un balcone. Se mi sporgo oltre la ringhiera, riesco a vedere un campetto da calcio che ormai viene usato solo come parcheggio. Due macchine ferme: c’è qualcuno dentro? Ragazzi che si parlano attraverso i finestrini abbassati, mani che si sporgono per passare una birra, una canna, musica a palla dallo stereo. Niente di tutto questo. Nessuno. Silenzio e luce spettrale. Le macchine sono parcheggiate muso contro fianco. Le portiere serrate, le luci spente. Gli alberi bianchi intorno, illuminati dai lampioni. Ho chiuso gli occhi un istante, poi li ho riaperti e l’immagine era impercettibilmente cambiata. Come una visione gemella, ma più scura, della prima, con meno luce, come se stessi socchiudendo gli occhi, come se la notte si fosse fatta ancora più densa. Il cielo là sopra era nuvoloso, la luna piena. Un quadrato di buio tagliato da due fili della luce. Ho ripensato a una notte del tempo passato, camminavo in quel parcheggio tenendo per mano una ragazza sotto la luce bianca di quei lampioni. Ancora più indietro nel tempo, dentro una macchina parcheggiata, sotto una luce identica a quella, ho osservato le cosce, i seni, le labbra di una ragazza della quale non ricordo altro. Tempo in cui la casa era abitata da una folla e cercavo respiro fuori. Un fremito improvviso. Nuvole che rapide coprono tutto il cielo. La finestra è uno schermo sul quale convergono nuvole e lampi. Una tela. Stringo le braccia attorno al corpo, a proteggermi. Si è alzato un vento freddo, improvviso. Tuoni lontani. E’ il temporale che arriva. L’estate che sta per finire. Un’altra immagine arriva da lontano: il mio corpo disteso su una spiaggia invasa di luce accecante, un braccio sugli occhi a difendermi da quel taglio violento alla retina. Ancora il mio corpo: le spalle, una magra curva malinconica; l’acqua mi arriva a metà polpaccio. Acqua blu profondo che sotto il mio sguardo allucinato diventa rosso sangue. I tempi si intrecciano nella mia testa, si confondono, si sovrappongono. Forse un tempo unico non esiste. Un tempo certo, che progredisce con passo marziale. Adesso, un temporale violento. Acqua marcia sputata dal cielo, chiazze rotonde che si disegnano sull’asfalto e subito vengono assorbite. Il fiume serpente beve la pioggia, l’argine si copre d’acqua. In questa notte d’estate che finisce, mi chiudo la porta di casa alle spalle e vado a guardare la pelle del fiume che si spacca sotto le coltellate di una pioggia che è pioggia di ieri, uguale a sempre, uguale a quella di domani, pioggia che è pioggia, e basta. A questo punto, comincia la sesta vita. Casa è il posto dal quale si comincia. Casa è il posto dal quale si parte. fine Grazie a Andrea Chiesi, per il coraggio di non restare fermo sul picco conquistato. E a T.S.Eliot, per i Quattro Quartetti, e la Visione Assoluta.