E` vero, al telefono non mi trovo a mio agio, il più

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E` vero, al telefono non mi trovo a mio agio, il più
GLI EDIFICI DI ANDREA CHIESI E L’INTERMITTENZA DEL REALE
di Alberto Fiz
Lo diceva già Platone che il reale è invisibile. A ribadirlo, verso la fine del ‘600,
è stato Leibniz. Ora, intorno a questo principio, si sviluppa la consapevolezza
della società contemporanea che naviga, non senza difficoltà, tra l’idea della
forma pura e la disintegrazione progressiva della materia. Fare pittura oggi
significa sviluppare queste capacità cognitive legate al concetto stesso della
rappresentazione: le cose non esistono di per se stesse ma s’impongono solo
in base all’aggressione che hanno già subito. E questo consente all’immagine di
diventare non un raddoppiamento del reale, bensì d’imporsi come oggetto
autonomo e individuale. Solo partendo da questi presupposti chi utilizza i
mezzi tradizionali può giungere ad un allargamento progressivo della visione
evitando di finire impantanato nel groviglio della tecnologia e del cyberspazio.
La sfida, insomma, è quella di cogliere l’enigma del visibile interpretando la
complessità del reale. Andrea Chiesi, dopo un breve ma intenso percorso
formativo, nei dipinti più recenti esposti in quest’occasione è riuscito ad andare
oltre l’oggetto cogliendone l’aspetto immutabile, punto terminale di reti
multiple dove realtà e virtuale si congiungono.
Il giovane artista emiliano è partito da una pittura simbolica e rituale dove la
musica rock e il teatro assorbivano la componente mistica. L’Apocalisse di
Giovanni, s’intitolava una curiosa mostra organizzata nel 1998 a Reggio Emilia
dove dietro ad un procedere in apparenza gestuale , si nascondeva una precisa
costruzione compositiva con riferimenti all’arte classica, dagli affreschi di
Giovanni da Modena nella Basilica di San Petronio a Bologna, passando
attraverso Hieronymus Bosch e Max Beckmann.
Chiesi, tuttavia, si muoveva ancora nell’ambito di una pittura didascalica dove
la componente ideologica aveva il sopravvento.
Da allora l’artista ha iniziato un percorso interno alla pittura, raffreddando la
componente viscerale ed espressionista a favore di una sempre maggior pulizia
formale progressivamente accompagnata dal tentativo d’interrogarsi sul
significato autentico dell’immagine, al di là del piano narrativo.
Così nel 2000 è nato il ciclo delle G.R.U. (Grande Rumore Universale)
caratterizzato dalla presenza di giganteschi uccelli meccanici, gru invadenti e
visionarie, vere e proprie presenze fisiche del paesaggio postindustriale.
La svolta, dunque, era imminente e Chiesi, negli ultimi lavori, si confronta con
lo spazio inteso come l’orizzonte aperto dell’architettura: abbandona il luogo
per entrare in una zona nuova dove il confine è rappresentato dalle strutture in
ferro che delimitano gli edifici industriali di inizio ‘900, veri e propri simulacri di
un passato-presente che spesso accettiamo con maggior difficoltà rispetto ai
reperti di migliaia di anni fa. Questi dinosauri che giacciono nelle periferie
urbane non hanno ancora smesso di respirare. Eppure sono già stati seppelliti
e la loro morte prematura crea un senso di disagio che si propaga lentamente
nell’ambiente.
“Attraverso la pittura”, ha spiegato Chiesi durante una conversazione con Luca
Beatrice avvenuta due anni fa, “trasfiguro questi luoghi, li elevo a soggetti
protagonisti, fuori dal tempo. Diventano creature vive e indipendenti. La luce
sorge da corridoi ciechi, apre porte mistiche, illumina gli interni, sgorga da
pareti scrostate, modifica la percezione dello spazio, altera lo scorrere del
tempo. I luoghi diventano misteriosi, ancestrali, siderali, fotogrammi di un
sogno o di un incubo”.
Tuttavia, come spesso accade, non conviene accettare acriticamente le
dichiarazioni degli artisti: credo che, fondamentalmente, il problema centrale
della pittura di Chiesi non sia il luogo, bensì il suo superamento, nel tentativo
di cogliere l’aspetto illusorio del reale.
L’artista, infatti, attraverso un abile gioco di pieni e di vuoti, di trasparenze e
opacità, di luci e ombre, prende le distanze dalla componente materiale per
sottoporla ad un processo di virtualizzazione che mette in discussione lo spazio
come totalità unificante.
Se Luca Pancrazzi crea i non luoghi intesi come tracce artificiali dell’esistente,
Andrea Chiesi svuota le cose reali dal loro peso sino a renderle immateriali.
In un’intervista apparsa nel 1999 sulla rivista virtuale MediaMente, Jean
Baudrillard affermava: “La realtà è già scomparsa in certo modo. Perché essa,
in fin dei conti, non è mai altro che l’effetto di uno stimolo, di un modello”. Ma
subito dopo aggiungeva: “Ciò che viene chiamata la realtà virtuale ha senza
dubbio un carattere generale e in qualche modo ha assorbito, si è sostituita
alla realtà nella misura in cui nella virtualità tutto è il risultato di un intervento,
è oggetto di varie operazioni. Insomma, tutto si può realizzare di fatto, anche
cose che in precedenza si opponevano l’una all’altra: da una parte c’era il
mondo reale, e dall’altra l’irrealtà, l’immaginario, il sogno, eccetera. Nella
dimensione virtuale tutto questo viene assorbito in egual misura, tutto quanto
viene realizzato, iper-realizzato”.
Il tentativo di Chiesi è proprio quello di giungere ad un’iper-realizzazione
superando la distinzione tra reale e virtuale. Solo il corpo della pittura, la sua
essenza fisica, il colore, la sovrapposizione dei piani, consentono di evidenziare
la dimensione metamorfica e ambigua della visione. Nulla è esattamente come
appare e in un abile gioco di dissolvenze, Chiesi ci fa intravedere la forma che
sta dietro alla materia sapendo che, come ha scritto Paul Virilio, “inseguire la
forma non è altro che inseguire il tempo”.
Reale e virtuale, dunque, vanno considerate come due facce di una stessa
medaglia e questo emerge proprio dal progressivo svuotamento del luogo fisico
che Chiesi compie con insistenza sino a giungere all’aspetto essenziale della
costruzione, alla sua proiezione utopica. E’ proprio l’intermittenza del reale a
caratterizzare una parte significativa della ricerca pittorica contemporanea.
Accanto a Chiesi e Pancrazzi, si potrebbero citare Alessandro Pessoli, Cristiano
Pintaldi, Margherita Manzelli e Pierluigi Pusole. È proprio il superamento dei
confini e l’affermazione di una sfera individuale che conducono li artisti ad
allargare la loro visione trovando una dimensione autonoma dove le cose
semplicemente accadono e si collocano tra reale e virtuale, tra presenza e
assenza, tra finito e infinito.
Ciò che conta è individuare una nuova dimensione del tempo e dello spazio
senza prescindere dalla pittura. Del resto, è la forma pura ad affascinare
Chiesi, sempre più propenso a individuare le molecole dell’edificio
protoindustriale in un’astrazione progressiva che lo rende enigmatico,
misterioso, alieno.
“L’opera d’arte deve richiamare un aspetto che non si manifesta
semplicemente nella forma visibile dell’oggetto rappresentato”, scriveva
Giorgio De Chirico e le opere recenti di Chiesi sono proprio il tentativo di
rendere evidente la dimensione altra dello spazio. I lunghi corridoi, le
costruzioni circolari dove da un momento all’altro potrebbe comparire un
ottovolante, gli incastri delle strutture in ferro simili a vere e proprie texture,
non hanno elementi divisori e i muri sono sostituiti da ipotetici vetri
trasparenti. La finestra non trova più il muro, ma fluttua liberamente nello
spazio.
Le architetture di Chiesi, in fondo, non sono altro che archetipi, scheletri,
totem di un sistema che ha perso la connessione con l’uso originario, forme
oggettive, primarie sviluppate in autonomia inseguendo il paradosso che
consente al reale di sparire e al virtuale di diventare visibile.
Le sue sono entità ambigue che disorientano e disaggregano facendo vacillare i
confini tra esterno ed interno, tre soggetto e oggetto, tra reale e immaginario,
sino a trasformare le cose in pura assenza e citando Paul Virilio si potrebbe
concludere affermando che “il mondo è un’illusione e il fine dell’arte consiste
nel presentare l’illusione del mondo”. A dimostrarlo sono proprio gli edifici
vaporizzati di Andrea Chiesi.
Testo tratto dal catalogo Generazioni/2, Galleria Civica, Palazzo Santa
Margherita, Modena, novembre 2002/gennaio 2003