Santòn-attack

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Santòn-attack
Santòn-attack
Giorno 1
Marco affrontò l’ultima curva molto tranquillo, e fermò la moto con una dolce
frenata: era stanco dopo aver fatto tutta quella carraia a manetta. Appoggiò il
manubrio dello YZ 250 ad un albero, scese dalla sella per sgranchirsi le gambe
e si tolse il casco apprezzando la frescura alla testa sudata. Lì vicino c’era una
fontanella, e Marco si avvicinò per bere. Si dissetò con quell’acqua fresca,
quindi rimase in piedi a stirarsi i muscoli. Poco più in là si trovava un melo
selvatico che aveva quasi ricoperto il terreno con un tappeto di piccoli ma
saporiti frutti caduti, e Marco pensò di mangiarsi pure una mela. Si avvicinò
facendo scappare il solito nugolo di vespe e mosche, ma mentre si chinava a
raccogliere una mela, udì alla sua destra un frullo mai sentito prima. Si voltò e
vide una grossa forma colorata, ad un paio di metri da lui.
“E questo che cazzo è?” pensò, quindi considerò se poteva trovarsi sotto
l’effetto di droghe allucinogene: no, era passato troppo tempo dall’ultima volta.
Si rialzò in piedi stupito, e realizzò che quella bestia assomigliava proprio ad un
calabrone, con il suo ventre a strisce gialle e nere. Soltanto che era lungo un
buon mezzo metro. Marco rimase quasi paralizzato, mentre il mostruoso insetto
si posava a terra smuovendo le foglie con lo spostamento d’aria; quindi
addentò una mela intera, la masticò brevemente e la mangiò. Marco iniziò ad
indietreggiare verso la moto, ma il calabrone si alzò in volo, fece un mezzo giro
indolente e poi cominciò ad avanzare verso il ragazzo.
“Porca troia questo ce l’ha con me…”
Marco poteva vedere i grandi occhi compositi dell’insetto, le sue fameliche
mandibole… intanto si voltò e con pochi balzi salì in sella alla Yamaha, infilò il
casco, con un preciso colpo di pedale accese il motore e partì impennando e
bestemmiando.
Il mostro accelerò il volo puntando direttamente verso Marco, che spostò tutto
il peso avanti per tenere giù la ruota anteriore. Ormai il calabrone era vicino,
un metro, e puntava dritto verso la testa del ragazzo.
“Ora ti fotto santone del cazzo!”
Marco si scansò all’ultimo momento, e si lasciò l’insetto alle spalle mentre
accelerava per la carraia.
Arrivò sulla strada comunale, e si diresse giù verso il bar del paese, appoggiò la
moto al muro ed entrò. C’erano il barista, due o tre avvinazzati del posto che
bevevano malvasia ed il suo amico Cisco che giocava a flipper.
"Ciao Cisco." lo salutò ancora un po’ scosso.
"Ciao… dai… cazzo no! Flipper di merda!" imprecò Cisco mentre la pallina
scendeva mestamente per il canale laterale.
"Non hai idea di cosa ho appena visto su alla Fontana del Partigiano…."
"Cosa, una bella figa in topless?"
"No… aspetta…"
Marco si avvicinò al bancone, chiese una Heineken in bottiglia e ne bevve una
buona quantità prima di continuare il suo racconto.
"Allora, cosa c’era su?" chiese Cisco incuriosito.
"Non ci crederai… un santone gigante! Cazzo, sarà stato lungo mezzo metro…"
"Dì la verità, ti sei fumato un babbione?" lo interruppe Cisco.
"No! C’era davvero, ti assicuro. Mi è anche corso dietro…"
"Ti do un consiglio da amico, smetti di bere."
"Va bè allora non crederci…"
"Ci credi invece che la Molinari mi ha telefonato, ha detto se stasera vado a
casa sua… che con il braccio rotto non ha voglia di uscire, ma vuole
compagnia…"
"Certo che ci credo, lei la dà via come il pane!"
Poco dopo Marco se ne tornò a casa, per uscire soltanto dopo cena.
Quella sera di fine agosto era umida e fredda, quindi tutta la compagnia rimase
rintanata al bar a cazzeggiare, eppure Marco era sicuro di aver visto quel
mostro là nel bosco.
Giorno 2
Mirco guidava la sua nuova Punto Sporting su per la stradina del Partigiano…
lentamente perché era impegnato a carezzare la generosa coscia di Ada, e
perché con l’assetto che aveva fatto rischiava di toccare su quel fondo
dissestato. Lei ridacchiava sentendo la mano che le scorreva sulla pelle nuda, e
la respingeva scherzosa quando tentava di intrufolarsi nella minigonna di jeans.
"Fammi sentire la canzone di Moony, dai è bellissima." chiese Ada, e senza
indugio fece scorrere le tracce sul lettore CD fino a trovare quella giusta, quindi
alzò il volume, e l’impianto da trecento watt iniziò a far sentire la sua potente
voce, mentre i bassi del woofer facevano tremare tutta la macchina.
"Sembra di essere in disco qui!" gridò felice Ada ed iniziò a canticchiare.
Anche Mirco si esaltò, e pestò sull’acceleratore… peccato che lo stereo copriva
il rombo dello scarico sportivo OMP.
In breve tempo raggiunse il solito spiazzo, quello dove si appartavano da
settimane ormai. Iniziarono a pomiciare e spogliarsi, poi Mirco ebbe un’idea:
"Dai, facciamolo sul cofano…"
"Ma dai… e se ci vede qualcuno?"
"Qui non c’è nessuno…"
"Ma tu mi ami, Cicci?"
"Si che ti amo!"
Ada quindi lo guardò malizioso e si sfilò il tanga violetto tenendo su la gonna,
quindi usci dalla Punto e si sdraiò sul cofano, le gambe piegate ed aperte con i
piedi sul paraurti. Mirco alzò ancora il volume, perché gli piaceva un totale
scopare a ritmo di musica, ed uscì pure lui dalla macchina, a dorso nudo.
Si mise davanti a lei che lo attendeva eccitata, represse il fuggevole timore di
graffiare la vernice color rosso fiammante, aprì la patta dei jeans a zampa
elasticizzati e lo tirò fuori. La penetrò ed iniziò a pompare… Ada godeva ad
occhi chiusi, e non poteva vedere l’essere che stava arrivando col suo volo
pesante alle spalle di Mirco. Il ragazzo non udì nulla, ma sentì una fitta immane
fra le scapole, ed un bruciore come se gli ardesse la carne.
"Aaahhhhhhhhh…." gridò di dolore e paura.
"Si godi così amore…" lo incitò Ada, ma subito lo sentì uscire.
Aprì gli occhi e vide Mirco che si afflosciava all’indietro rantolando, e davanti a
lei un enorme oggetto volante colorato, come se fosse un calabrone gigante.
"Aiutoooo!" gridò la ragazza, e tentò di scendere dal cofano per scappare via.
Ma il mostro la anticipò e le piantò il lungo pungiglione proprio fra i seni.
Ada cadde sopraffatta dal dolore, ma era ancora viva; il petto le si era gonfiato
orribilmente per l’azione del veleno, ma con le ultime forze strisciò fino alla
portiera e l’aprì, recuperò il cellulare dalle borsetta e chiamò il 118. Riuscì
soltanto a sussurrare dove si trovava, poi cadde soffocata.
I militi della Pubblica Assistenza che arrivarono sul posto si trovarono davanti
ad uno spettacolo orribile e grottesco: due cadaveri mezzi nudi e rigonfi intorno
ad una Punto con lo stereo ancora acceso. Ma loro dovevano seguire le
procedure, quindi iniziarono le manovre di rianimazione e chiesero l’intervento
dell’Elisoccorso e dei Carabinieri, visto che la situazione era molto sospetta.
Il fattaccio era successo nel primo pomeriggio, ma i cadaveri vennero rimossi
soltanto a sera inoltrata, alla sinistra luce dei fari. Il medico legale rilevò su
ognuno dei due cadaveri una ferita da punta, e valutò che la morte era stata
causata da shock anafilattico.
Naturalmente la notizia si sparse rapidamente in paese, e quasi tutti gli abitanti
prima o poi fecero il loro piccolo pellegrinaggio su luogo della disgrazia.
Anche Marco e Cisco diedero un’occhiata, insieme a Laura, che sfoggiava quasi
orgogliosa l’ingessatura al braccio destro.
"Brutta storia." commentò Marco mentre osservavano da lontano il lavoro dei
Carabinieri e del magistrato.
"Lui era un tauro da cine. Lei una bella fighetta" osservò Cisco.
"Meglio morire scopando che morire cagando." chiosò Laura.
Quella sera al bar non si parlava d’altro: i più giovani con timore, i ragazzi con
interesse, e gli avvinazzati con fervore, fino a rischiare lo scontro fisico fra uno
che sosteneva fosse colpa dei rapinatori albanesi ed un altro che pensava fosse
stato il raptus di un guardone locale.
Solo Marco continuava a rimuginare su quello che aveva visto il giorno prima, il
calabrone gigante avvistato ad un centinaio di metri di distanza da dove era
successo il casino. Alla fine decise di parlarne con Laura: lei era quasi laureata
in biologia, e negli anni precedenti aveva vissuto avventure quantomeno
bizzarre.
Così la chiamò fuori dal locale fumoso ed affollato, e cominciarono a
passeggiare per il paese. Lui le raccontò il suo incontro alla fontana, e lei
ascoltò senza commenti.
"Curioso… tu dici di aver visto un calabrone gigante poco lontano da lì, ed il
giorno dopo due imboscati muoiono di shock anafilattico, senza una causa
plausibile. A parte il calabrone gigante. Sembra l’inizio di un film horror di serie
B, uno di quelli con i mostri mutanti." disse lei.
"Cosa facciamo?"
"Aspettiamo: non mi sembra il caso di raccontare ai caramba la tua storia."
"Sì, non è proprio il caso."
"Mi hai portato fin qui solo per chiacchierare?" gli chiese quindi lei prendendogli
la testa… con una mano sola, perché l’altra ce l’aveva ingessata.
Marco decise che bè, ormai che erano lì sarebbe stato uno spreco parlare
soltanto.
Giorno 3
Giovanón si era alzato alle sette di mattina per andare a caricare la legna
tagliata nei boschi e portarla giù per tagliarla a pezzi col bindello. In tutta la
mattina aveva fatto diversi viaggi, e verso mezzogiorno di diresse verso casa
col trattore, perché aveva una fame terribile. Mangiò lautamente, e mentre si
riposava dopo pranzo sua madre lo chiamò:
"Giovanón, va a catér su al peri, che s’no al magnan tüt i santòn!"
E Giovanni, non proprio di buon grado, prese una cassetta di plastica e si avviò
a raccogliere le pere Williams che erano cadute in abbondanza dall’albero nel
prato dietro la fattoria.
Iniziò il lavoro, ma presto venne disturbato da un potente battere d’ali che
veniva dall’alto dell’albero. Iniziò a guardare in su, ma non riuscì a vedere
nulla, quindi tornò alle sua faccende. Poco dopo udì ancora quel rumore,
stavolta più vicino. Si voltò e vide un grosso insetto alato, giallo e nero, che
scendeva lentamente verso di lui.
“’io cane, co el cöl bagaj lì?” pensò.
L’animale aveva un aspetto minaccioso, perciò Giovanni arretrò tenendolo
d’occhio. Il santone esplorò un ramo basso dell’albero, divorò rapidamente una
pera e si mise ancora alla ricerca di cibo.
“Adës t’meta a post mi…” pensò tornando lesto verso casa.
Prese l’automatico calibro 12 e lo caricò con cinque cartucce a piombo grosso,
di quelle che usava contro le volpi, quindi tornò di corsa verso l’albero. Il
calabrone era ancora lì, intento a mangiare, quindi Giovanni prese
accuratamente la mira e sparò. L’insetto cadde fulminato, ed il ragazzo andò
soddisfatto a recuperare il suo trofeo.
Poggiò l’insetto morto in un angolo in garage, e quindi risalì a bordo del
trattore, perché aveva ancora due carichi di legna da portare a casa.
Più tardi, verso le tre del pomeriggio, nei boschi lì intorno Sergio e Sozzi
stavano cercando funghi. Non era un periodo molto buono, ma qualche porcino
spuntava, e loro erano esperti fungaioli che conoscevano una per una tutte le
migliori fungaie. Stavano cercando fra i castagni della Costa del Partigiano, e si
erano allontanati un po’ uno dall’altro.
Ad un tratto Sozzi sentì Sergio che gridava allarmato:
"Aahh… Vieni qua… aiuto!"
Sozzi scattò di corsa: probabilmente il suo amico era stato morso da una
vipera.
L’uomo schiantò spini e rami secchi, e trovò l’amico disteso a terra, ansimante,
che si stringeva il polso sinistro con la destra. La sua mano sinistra era
incredibilmente gonfia, deforme.
"Cos’è stato, una vipera?" chiese Sozzi, anche se gli sembrava strano che una
vipera facesse quell’effetto.
"No… un santone…"
"Mettiamo un laccio dai" rispose Sozzi; tirò fuori di tasca il laccio emostatico
che teneva proprio per quell’evenienza e lo mise poco sopra al gomito di
Sergio.
Ora il gonfiore si stava estendendo al braccio, e Sozzi chiamò di nuovo il 118
col cellulare. Poi tornò ad occuparsi dell’amico:
"Ora dobbiamo andare sulla strada.. dai alzati."
"Si… ce la devo fare."
Sergio iniziava ad avere difficoltà respiratorie, ma Sozzi lo prese sottobraccio e
lo sorresse mentre camminava incespicando. La strada non era lontana, solo
un duecento metri, ma Sergio peggiorava a vista d’occhio.
Dopo un tempo che sembrava eterno arrivarono in vista della strada, e
contemporaneamente giunse pure la Panda 4x4 del medico di guardia. Sozzi lo
chiamò a gran voce, ed il medico li raggiunse.
"Cos’è successo?" chiese.
"Dice che l’ha punto un santone…" rispose Sozzi scosso.
Sergio respirava a fatica, con gli occhi chiusi, ed anche il braccio, su fino al
gomito, si era gonfiato a dismisura.
"E’ in shock anafilattico.", commentò il medico frugando nella sua borsa, "Altro
che un calabrone, lo devono avere punto in dieci…"
Il medico preparò un’iniezione, e gliela iniettò nel deltoide.
<Adrenalina… questo lo dovrebbe salvare." disse con un tono non troppo
rassicurante.
Sozzi si guardò intorno sconfortato, e gli sembrò di sentire uno strano frullo
d’ali e di vedere una forma che spariva dietro un albero in lontananza. Ma non
ci fece caso, perché aveva altri pensieri in testa.
Arrivò pure l’ambulanza, ed i militi caricarono Sergio solo per portarlo al luogo
del rendez-vous con l’elicottero. Lo portarono via che era in coma.
Da casa sua Marco sentì l’elicottero che si avvicinava, quindi uscì a vedere cosa
succedeva, e vide il velivolo che atterrava nel piazzale del campo sportivo del
paese. Qualcuno stava male, pensò, e subito il suo pensiero corse al calabrone
gigante: aveva colpito ancora?
La risposta arrivò presto, con una telefonata di Laura: Marco rispose e la
ragazza partì subito senza salutare:
"Sembra che i tuoi calabroni giganti si stiano dando da fare: Sergio, l’uomo del
pinot grigio, è in coma per uno shock anafilattico."
"Cazzo…" mormorò Marco.
"Vieni giù al bar? Credo che dovremo discutere della cosa."
"Si, Laura, arrivo subito." concordò Marco.
"Ci vediamo lì." concluse lei.
Mentre Marco indossava le scarpe, arrivò sua madre:
"Hai visto l’elicottero? Era proprio il 118?"
"Si, era il 118. Mi hanno detto che hanno portato via Sergio… Sergio Franchi:
sembra che l’abbiano punto i santoni."
"Anche lui! Prima quei due poveri ragazzi… oh Dio!"
"Secondo me non sono calabroni normali.", ventilò Marco, "Devono avere
qualcosa di particolare per essere così pericolosi."
"Non lo so… ma come sta Sergio?"
"Sembra che sia in coma."
"Oh Dio…"
"Io esco ora."
"Si… stai attento ai santoni, eh."
"Si mamma." E non era una risposta di circostanza.
Marco arrivò al bar, ma Laura non c’era ancora. Era un placido e fresco
pomeriggio di fine estate, tutto nel paese procedeva quietamente. Troppo
tranquillamente… era la tipica atmosfera dei film americani, proprio quando
nella solita, placida, cittadina in culo al mondo sta per scoppiare il casino. Per
ingannare il tempo Marco accese la televisione (tanto ormai loro ragazzi del
paese erano di casa al bar)… e ci trovò il trailer di un nuovo filmaccio dove i
mostri di turno erano ragni giganti… Arac-Attac, Mostri ad Otto Zampe.
Demoralizzato, il ragazzo spense il televisore e prese una birra al banco.
Mentre sorseggiava la Heineken seduto indolentemente su una delle sedie
davanti al locale, iniziò a chiedersi perché Laura tardava tanto, lei che era una
delle rare donne puntuali. Poi iniziò a pensare ai fatti suoi, ma presto la sua
meditazione venne interrotta dal rumore rombante e sferragliante di un
trattore con carro da legna che si fermò davanti a lui sull’altro lato della strada.
Dal mezzo scese Giovanón vestito da lavoro, e si avviò a grandi passi verso il
bar. Ne uscì fuori poco dopo, con un bicchiere da vino riempito di birra. Quella
era una misura speciale che veniva servita solo nella zona. Giovanón si
avvicinò a Marco con chi ha l’aria di voler raccontare qualcosa, e Marco si
rassegnò ad ascoltare le ultime notizie dal fronte degli agricoltori. Ma invece
Giovanón aveva una storia molto più interessante da raccontare.
"Ciao… sai cosa al m’è capité s’tmateina? C’era un santòn grös acsì che
mangiava le pere del mé albero!" iniziò a raccontare l’agricoltore allargando le
mani ad un mezzo metro una dall’altra.
Marco rischiò di soffocarsi con la birra, la sputò e scattò in piedi:
"Cosa hai visto?"
"Ah, gh’era un santòn long méz meter…"
"E cos’hai fatto?"
"Sono andé a tor il fucile e l’ho mazé."
In quel momento arrivò Laura, vestita di anfibi, pantaloni mimetici lunghi fino al
polpaccio, truce maglietta dei Cannibal Corpse e giubbetto jeans senza
maniche, in piena tradizione metallica.
"Ciao Marco, ciao Giovanón." li salutò lei.
Giovanni la salutò, ma Marco attaccò subito:
"Giovanón ne ha visto uno, e l’ha pure ammazzato!"
"Uno cosa, un calabrone gigante?" chiese Laura già incuriosita.
"Si, un santòn di du’ chilo! C’ho sparato col sciöp, con le cartucce da gurpa!"
confermò Giovanni.
"Interessante… un cadavere di calabrone gigante è la prova che serve."
"Serve… sì, ma a cosa?" interloquì Marco.
"A dimostrare che esistono davvero, e quindi ottenere aiuto se è necessario."
Laura continuò:
"Voglio vedere il calabrone morto. Dov’è?"
"L’è a ca’ mia, in garage." spiegò Giovanón.
"Allora andiamo, forza."
"Sa, vena tüt sul tratore che andema." acconsentì Giovanni.
Laura entrò nel bar e prese al volo una bottiglia di birra da bere durante il
viaggio, quindi si sistemarono come meglio si poteva sul trattore, e Giovanni
partì verso casa. Un trattore è costruito per portare una sola persona, quindi
Marco e Laura non stavano per niente comodi, ma la loro curiosità era tanta
che sentivano a malapena gli scossoni e le vibrazioni.
Giovanni li accompagnò nel garage e mostrò loro il cadavere: Laura lo alzò con
la mano sana e lo esaminò accuratamente.
Nel frattempo arrivò anche la madre di Giovanón:
"Eh, ragäz, volete qualcosa da bere, una bottiglia d’ven?"
Poi vide il santone:
"Ohimé Dio, e co’ el?"
"L’è ‘n santòn…" disse Giovanni come se fosse frequente vedere calabroni di
quella taglia.
Marco pensò per l’ennesima volta che se gli agricoltori avevano una qualità da
ammirare era proprio quella, ovvero non scomporsi davanti a nulla. Potevano
ribaltarsi giù per una scarpata con la macchina, oppure trovarsi davanti un…
un mostro mutante senza fare una piega, e dieci minuti dopo erano di nuovo al
bar a bere come niente fosse.
Mentre Giovanni e sua madre erano impegnati in una conversazione in puro
dialetto, Laura schiacciò l’addome dell’insetto per fare uscire il pungiglione: era
una sorta di stiletto di dura materia cornea, lungo cinque centimetri buoni.
"Possente, eh?" disse mostrandolo a Marco con uno strano ghigno sul volto.
"Cosa facciamo?" chiese il ragazzo.
"Torniamo in paese con questa bestiaccia, e cerchiamo di convincere qualcuno
perché ci aiuti a trovare il nido e distruggerlo." annunciò decisa Laura.
Spiegarono la questione a Giovanni e sua madre. La donna si rifugiò in casa ed
iniziò a cercare di contattare suo marito e l’altro figlio che erano in giro a
lavorare.
Giovanón invece parcheggiò il trattore e prese l’Alfa 75 per portare in paese i
suoi amici. Mentre scendevano per la strada bianca, asfaltata solo a tratti,
videro due calabroni giganti che volavano verso il paese.
"Merda!" commentò preoccupato Marco.
"’orco dio!" gli fece eco Giovanón.
"In un film di serie B, a questo punto si scatena l’attacco in forze dei mostri…"
considerò Laura per nulla rassicurante.
Giovanni accelerò, e raggiunsero rapidamente il bar. Nella piazza del paese
c’era già una pattuglia di carabinieri – dopo gli ultimi fatti, erano sempre in
allarme.
I ragazzi parcheggiarono vicino all’Alfa 156, Laura uscì e salutò sorridente i
militari. Il graduato seduto al posto del passeggero uscì a sua volta dall’auto, e
le chiese:
"Cosa c’è, signorina?"
"Penso di sapere cosa ha ucciso quei ragazzi nel bosco." disse lei sicura di sé.
Il carabiniere sbarrò gli occhi:
"Cosa sta dicendo?"
"Venga a vedere…" lo invitò Laura.
Come concordato, in quel momento Marco scese dalla macchina tenendo il
corpo del calabrone in bella vista, su un telo di plastica come fosse una piatto
da portata. Il brigadiere si avvicinò al fianco di Laura, e l’altro carabiniere li
seguiva a breve distanza.
Quando il primo militare vide l’insetto, rimase per un attimo interdetto.
Poi, già un po’ adirato, disse:
"Avete voglia di scherzare? Perché io…"
"Non è uno scherzo, è un vero calabrone gigante." affermò decisa Laura.
Si era avvicinato pure Giovanni, e confermò la versione della ragazza con la
sua voce profonda.
Il brigadiere li squadrò uno per uno senza parlare, poi infilò i guanti ed allungò
titubante una mano verso il calabrone.
Lo tastò, lo guardò bene, poi si rivolse al suo sottoposto:
"Chiama il maresciallo…"
Laura ghignò soddisfatta, ed anche Marco aveva un’espressione sollevata.
Giovanón invece mostrava sempre la solita faccia.
Quindi il brigadiere iniziò ad interrogarli sul come dove e quando avevano
trovato quella bestiaccia: Giovanni raccontò la sua parte di storia, e Marco
aggiunse di come aveva avvistato il primo calabrone.
Presto si radunò un capannello di curiosi, e poi arrivò anche il maresciallo.
Esaminò a sua volta il calabrone gigante, che nel frattempo era stato
appoggiato sul cofano della 156, e decise che doveva chiamare in causa sfere
ancora più alte.
Comunque fece ancora qualche domanda ai ragazzi, e quindi li lasciò andare,
raccomandando loro di tenersi a disposizione. Laura propose ai carabinieri di
non perdere tempo e partire subito alla ricerca del nido, ma il maresciallo
obbiettò che prima dovevano esaminare il reperto eccetera eccetera. Quindi
Giovanni ed i suoi compari lo presero in parola, e fecero tappa al bar per bere
un bianco prima di tornare a casa.
Quella sera il paese era tutto in subbuglio: erano arrivati i carabinieri del RIS, il
magistrato, giornalisti. I ragazzi invece erano rimasti a casa a spiegare tutti gli
strani fatti alle loro famiglie, e ce n’era da raccontare. Solo Laura venne
contattata da un giornalista, ma lei gli rispose beffarda che avrebbe venduto
l’esclusiva soltanto a Cronaca Vera, per tremila euro. Al bar non si parlava
d’altro, e mentre si parlava scorrevano fiumi di alcool
Giorno 4
Era di nuovo una mattina fresca di fine agosto, e Laura uscì presto: voleva
vedere cosa dicevano i giornali della vicenda. I suoi le avevano raccomandato
di fare attenzione, e quindi lei era uscita di casa con una sciabola da collezione,
un cimelio di famiglia, appesa alla cintura. Non c’era molta gente in giro,
quella mattina, ed i pochi avevano un’aria guardinga. La Gazzetta sparava un
titolo a tutta pagina con tanto di foto a colori del calabrone gigante. Presto
arrivò pure Marco, anche lui per leggere i giornali. Erano le nove, e nel bar non
c’erano altri clienti, quando spuntò una Suzuki verde oliva della Polizia
Provinciale, e si fermò davanti al bar. I due agenti scesero, e si guardarono
intorno, mostrando fieri le loro divise e pistole. Poi uno sbarrò gli occhi,
spintonò l’altro ed insieme corsero verso il bar. I ragazzi scattarono in piedi e la
banconiera iniziò a blaterare.
C’era un calabrone gigante che inseguiva i due Provinciali. Il primo di loro aprì
di schianto la porta a vetri e saltò dentro. Il suo collega perse una frazione di
secondo, ed il calabrone era già quasi su di lui, quando il primo agente si lanciò
contro la porta e la richiuse. Il calabrone rimase imprigionato fra la porta e lo
stipite, ma la violenza del colpo lo tranciò in due; la testa cadde dentro al bar e
l’addome fuori.
"’orco dio…" commentarono all’unisono i due ragazzi.
Ma il peggio era appena iniziato: dalla finestra potevano vedere molti calabroni
giganti che vagavano minacciosi per il paese.
Si guardarono in faccia straniti, loro ed i Provinciali.
"Ora sono cazzi amari." commentò Laura.
"Chiediamo rinforzi…" disse uno degli agenti mettendo mano al walkie-talkie.
"Si, ne serviranno molti. Perché dobbiamo trovare e distruggere il nido, se
vogliamo risolvere il problema." considerò Laura ad alta voce.
"Posso chiamare mio papà ed i suoi amici cacciatori." propose Marco.
"No, ci pensiamo noi a risolvere questo problema." intervenne l’altro agente.
"Questo è il mio, il nostro paese!", ribatté Marco, "Abbiamo il diritto di
difenderci!"
"Serviranno tutti gli uomini e le armi che abbiamo a disposizione, non credete?"
lo sostenne Laura.
Il Provinciale bofonchiò qualcosa, e lasciò cadere la discussione.
"Ci vorrebbero i tuoi amici folli per risolvere questa situazione…" considerò
Marco rivolto a Laura.
"Testa è ad Amsterdam… chiamo Bruno." rispose lei.
Col suo cellulare chiamò Bruno a casa, e dopo parecchi squilli le rispose una
voce trafelata. Laura rimase in conversazione per meno di un minuto, e
concluse con:
"Ce la caveremo da soli…"
Tutti la guardarono, desiderosi di sapere:
"Anche la fattoria di Bruno è sotto attacco. Là si stanno difendendo bene, ma
non possono venire ad aiutare noi."
A quel punto incominciarono a risuonare gli spari: in paese molti avevano un
fucile, cacciatori e non, ed iniziarono ad abbattere gli insetti giganti.
Mentre gli altri esultavano e continuavano a vociare, Laura prese una bottiglia
di birra e si mise in un angolo a pensare.
Poco dopo giunse Marco a dirle qualcosa.
"Sto pensando…", rispose lei.
"Ah…"
"Il nido è vicino alla Fontana del Partigiano, no?"
"Credo di sì… il primo santone l’ho visto lì."
"Dobbiamo setacciare la zona, e trovare il nido."
"Vuoi andare là fuori?" chiese lui allarmato.
"No… questa volta dovrò restare nelle retrovie." spiegò lei sventolando il
braccio ingessato.
Poi continuò:
"Sarà pericoloso… bisogna studiare un modo per proteggersi."
"Certo… bé, i caschi da moto." suggerì Marco.
"Si caschi, pettorine e stivali. Ma dobbiamo anche proteggere gli arti. E ci vuole
un’arma… un fucile almeno."
"Sì… dunque, io ho l’attrezzatura da cross a casa. Fucili… li possiamo
rimediare."
Mentre parlavano, un Defender dei Carabinieri arrivò nella piazza deserta, ed i
due militari scesero guardandosi intorno. Tre calabroni piombarono verso di
loro, ed i carabinieri riuscirono per un pelo a rientrare nel veicolo. Un calabrone
sfondò il finestrino del passeggero nell’impeto dell’assalto, finì dentro il veicolo,
ma il carabiniere riuscì in qualche modo a buttarlo fuori. L’insetto rimase
intontito, e strisciava a terra poco lontano dal fuoristrada. Il militare impugnò la
sua Beretta e finì il mostro con due colpi, quindi ripartirono decisi,
probabilmente verso la caserma.
"Ci serve una squadra di almeno due persone… tocca a te Marco." continuò
Laura.
"Io… non so…"
"Lo sai che ti aspetta una congrua ricompensa…" aggiunse lei maliziosa
indicando sé stessa.
"Secondo te qual è il sistema migliore per distruggere il nido?", chiese più che
altro a sé stessa Laura.
"Rondi, l’apicultore, una volta è venuto ad estirpare un nido vicino a casa mia…
l’ha bruciato con una fiaccola a gas." raccontò Marco.
"Già, una fiaccola… è l’arma giusta per la squadra di ricognizione! Però il nido
di questi calabroni sarà molto grosso, abbiamo bisogno di qualcosa di più
potente… un lanciafiamme, per esempio. O una bella bomba al Napalm!"
I due Provinciali aggrottarono le ciglia ascoltando Laura, ma non dissero nulla.
I carabinieri tornarono in azione, ma questa volta erano quattro, e scesero
decisi dal Defender, tutti in tenuta antisommossa. Due di loro portavano
addirittura gli scudi, e gli altri impugnavano le mitragliette. Ispezionarono la
piazza coprendosi le spalle a vicenda, parlarono con qualche persona
attraverso i citofoni, e finalmente entrarono anche loro nel bar. Chiesero se
c’erano feriti, quindi si misero a confabulare con i Provinciali, e Marco si
avvicinò.
Laura invece rimase in disparte, ed iniziò a scrivere su un foglio di carta.
Dopo qualche minuto i carabinieri se ne andarono, Marco tornò verso Laura.
"Presto arriveranno i rinforzi…" annunciò il ragazzo.
"Ecco il nostro piano…" gli rispose invece la ragazza mostrando ciò che aveva
scritto.
In teoria era tutto molto semplice: Marco ed una seconda persona – uno dei
provinciali, si sperava – dovevano andare in ricognizione, armati di fucile e
fiaccola a gas. Nel frattempo, Laura e Cisco avrebbero fabbricato una bomba
incendiaria. Dopo sarebbe bastato collocare la bomba sotto al nido e farla
saltare.
Marco si trovò d’accordo, anche se non ne era proprio entusiasta. Però
qualcosa dovevano pur fare, contro i calabroni giganti.
E poi c’era la lussuriosa promessa di Laura…
"Agenti, abbiamo un piano." annunciò Laura ai due Provinciali.
Ma in quel momento la radio dei Provinciali emise il segnale di chiamata, e
l’agente rispose.
Dialogò brevemente col suo interlocutore, quindi annunciò:
"Ci è stato ordinato di raggiungere il bivio con la statale, dove è stata allestita
una sala operativa. Voi restate al riparo."
"Ma noi…" obbiettò Marco.
"Voi dovete restare qui!. Arrivederci." replicò il Provinciale seccamente.
Quindi si guardarono intorno, corsero fuori, saltarono sul loro fuoristrada e
partirono lasciando i ragazzi soli nel bar.
Marco si adirò:
"Ma guarda quei coglioni, se ne vanno così…"
"Risolveremo la cosa per conto nostro, allora…" commentò Laura quasi
sollevata.
"Tu chiama Giovanón, e digli di venire qui. Io metto in allerta Cisco." continuò
la ragazza.
Marco chiese se poteva usare il telefono del bar, e la banconiera gli disse,
sconvolta, di fare quello che voleva. Quindi scappò verso il bagno,
probabilmente a piangere.
Marco rimase un attimo titubante, poi impugnò il telefono.
Laura, incurante, chiuse la sua chiamata e spiegò:
"Cisco ha tutto l’occorrente in casa… si mette subito al lavoro."
Giovanni rispose sul cellulare, e Marco sentiva in sottofondo il rombo del
trattore. Lui era ancora in giro per lavoro, e non aveva saputo nulla. Comunque
disse che sarebbe arrivato lì il prima possibile.
Marco riferì, poi prestarono orecchio ai singhiozzi della banconiera.
"Ora le porto conforto io…" decise Laura.
Prelevò dallo scaffale una bottiglia di Amaro Montenegro, la portò alla tizia e
tornò sventolando la chiave di una macchina.
"Ci presta la sua Y." spiegò la ragazza.
Mentre aspettavano Giovanón, si versarono altre due birre alla spina e
discussero ancora dei dettagli del piano: non sapevano ancora esattamente
come completare l’abbigliamento protettivo. Poi finalmente ebbero l’idea:
fasciarsi gambe e braccia col geotessile; quel robusto tessuto avrebbe bloccato
il pungiglione di quelle bestiacce. Arrivò anche Giovanni, sempre col suo
trattore: parcheggiò davanti al bar, scese brandendo una marasä ed entrò di
corsa nel bar.
Si soffermò a guardare i resti del calabrone tagliato in due dalla porta, quindi
volse lo sguardo verso i ragazzi e commentò:
<’orco dio…"
Laura e Marco gli narrarono rapidamente i fatti della mattina, e gli esposero il
loro piano.
"Andéma, andéma; io li voglio amazër tüt quei santòn là…"
"Bene, andiamo!" convenne Laura entusiasta.
"Si, lo dobbiamo fare." concluse Marco, un po’ meno entusiasta ma deciso.
Lasciarono la banconiera sola col Montenegro, ed uscirono circospetti, quindi
presero posto sulla Lancia Y azzurra della tipa.
Giovanni andò dietro, Marco al posto di guida e Laura di fianco a lui. Partirono
verso casa di Marco, e Laura iniziò a frugare fra le cassette con la sola mano
buona.
"Ma che merda ascolta questa… Festivalbar… Hit Mania Dance… cazzo…
Tiziano Ferro."
"Ce l’ho io una cassetta per fortuna…" continuò Laura; tirò fuori di tasca una
cassetta, estrasse con disprezzo quella che si trovava nello stereo
(l’abominevole compilation di Saranno Famosi) ed inserì la sua.
Subito dagli altoparlanti si diffuse il suono di moto che sgassavano.
"No, i Manowar!" protestò Marco.
"E’ la musica giusta per andare in battaglia…" si difese la ragazza.
Comunque, arrivarono a casa di Marco che il cantante ancora farneticava sulle
Ruote di Fuoco. Avvistarono giusto uno o due santoni, che comunque volavano
lontani, disinteressati alla macchina. Nessuna persona in giro per le strade,
solo qualcuno alle finestra col fucile.
La madre di Marco era fuori a lavorare, ma suo padre, Roberto, era lì col fucile
spianato, ed aveva già abbattuto due calabroni.
Un po’ preoccupato per la sorte di suo figlio, si rallegrò quando lo vide sano e
salvo insieme agli altri due. Gli spiegarono il piano, e Roberto decise che ci
sarebbe andato lui in ricognizione assieme a Marco. Si trattava di suo paese e
suo figlio, e sarebbe morto combattendo per salvarli, disse.
Marco indossò l’abbigliamento da cross, quindi presero due fucili, tre scatole di
cartucce, le radio da caccia e si diressero a casa di Cisco, questa volta con il
vecchio Pajero di Roberto, che odorava di cane e cinghiale.
Cisco era solo a casa, i suo genitori tutti e due a lavorare. La notizia si era
sparsa, e gli avevano telefonato già diversa volte per sapere se stava bene.
Certo che lui stava bene, si era rintanato in casa senza mettere il naso fuori. Gli
altri lo trovarono in cantina, che stava trafficando con benzina e sapone liquido
per confezionare la bomba incendiaria.
Anche lui aveva l’attrezzatura da motocross, e la prestò a Roberto per
l’occasione. La bomba sarebbe stata pronta entro un’ora, comunicò Cisco,
quindi il gruppo di Marco decise di cominciare l’esplorazione. Sarebbero tornati
a prendere l’ordigno una volta localizzato il nido. L’ultima tappa del loro
percorso, prima di entrare in azione, era la ferramenta di Saglia: lì dovevano
procurarsi il geotessile, la fiaccola a gas e la relativa bombola.
Ancora una volta scesero di corsa dal Pajero, mentre Roberto li copriva col
fucile spianato. Avvistò un santone che si avvicinava troppo, e fece fuoco, ma
l’insetto riuscì a volare via sbilenco.
"Padella, maledizione!" imprecò Roberto, e poi si avvicinò alla porta insieme
agli altri. Dovettero bussare e prendere a calci la porta per farsi aprire, con il
timore di essere attaccati dai calabroni. Finalmente Saglia venne ad aprire,
visibilmente ubriaco. Non accolse cortesemente i visitatori, ma anche loro
entrarono senza tanti complimenti.
Nel vasto magazzino trovarono anche il figlio di Saglia, che aveva una trentina
d’anni, stava per rilevare il negozio e seguiva la carriera etilica del padre. Poi
c’erano altri due tizi, avvinazzati del posto, tutti intorno ad una tavolo con carte
da briscola, pane, salame e bottiglie di vino. Per loro i calabroni giganti
esistevano a malapena, almeno finché durava il vino.
Senza dare troppe spiegazioni scelsero una fiaccola di medie dimensioni, una
piccola bombola di quelle ricaricabili da campeggio, ed iniziarono a fasciarsi di
geotessile. Saglia li osservava torvo, gli altri straniti fra un bicchiere di vino ed
una fetta di salame. Laura e Giovanni trovarono il modo di imbragare la
bombola così che Marco se la potesse caricare sulle spalle ed impugnare la
fiaccola come un lanciafiamme.
Quando furono pronti, Roberto disse al vecchio Saglia che avrebbero restituito
tutto alla fine dell’impresa, e che comunque avrebbero pagato il dovuto.
Saglia accettò malvolentieri, ma il gruppo uscì senza stare a sentire le sue
lamentele.
Risalirono lesti sul fuoristrada e partirono per la loro destinazione: ormai era
arrivato il momento. Intorno ad una delle ultime case, era successo qualcosa di
brutto: molti calabroni giganti turbinavano nel giardino, intorno a quello che
sembrava un cadavere, ed una donna urlava dentro la casa. Il gruppo si fermò
per il tempo necessario a sparare due fucilate dai finestrini, ma poi ripresero la
loro strada. Roberto guidò il Pajero su per la carraia fino alla fontana, e si fermò
lì dove era iniziato tutto.
Indossarono i caschi, ma subito Roberto rinunciò all’Axo integrale, e preferì il
casco da operaio con visiera che teneva nel fuoristrada. Si guardarono
attentamente in giro, tendendo le orecchie: nessun calabrone in vista, nessun
rumore sospetto. Solo un paio di spari che venivano dal paese.
L’uomo accese la radio e scese per primo, con il fucile spianato. Marco uscì
pochi secondi dopo, ed accese la fiaccola, mentre Laura e Giovanni si
spostavano sui sedili anteriori. Marco e Roberto si allontanarono guardinghi di
qualche metro, e provarono le radio: il CB del fuoristrada li riceveva benissimo.
Quindi partirono in ricognizione, attenti, coprendosi le spalle a vicenda, e
presto sparirono nel bosco.
"Ora comincia il bello…" commentò eccitata Laura.
"Ah si…" fece eco Giovanni.
I due ragazzi sul Pajero quindi si accesero una sigaretta, e per tutto il tempo
che impiegarono a fumarla il CB restò muto.
Laura aveva messo su di nuovo la cassetta dei Manowar, a basso volume, ed
ora i quattro guerrieri stavano cantando Hail and Kill. Laura canticchiava,
quando finalmente Marco chiamò:
"Hei voi… penso che ci stiamo avvicinando al nido, c’è pieno di santoni qui! Ma
per ora non ci cagano nemmeno."
"Bene!" commentò Laura, ed alzò lo stereo quasi a manetta, così che anche
Marco potesse sentire i Manowar.
" Li stermineremo!" chiosò infine Laura.
"Tu sei fuori di testa…" protestò Marco, e chiuse la conversazione.
Poco dopo, prima che finisse la canzone, il CB ricominciò a gracchiare.
Giovanón abbassò all’istante il volume dello stereo, ed i due si misero in
ascolto: era Marco, con la voce decisamente concitata.
"L’abbiamo trovato!" gridò.
"Ma adesso ci stanno attaccando… merda…cazzo… porca troia."
E mentre Marco imprecava, potevano sentire in sottofondo il rumore di spari,
ed il potente sibilo della fiaccola a gas.
"State pronti, ‘orco dio, stiamo arrivando!" annunciò Marco, poi la trasmissione
si interruppe.
Quindi Laura e Giovanón scesero dal Pajero, il primo col fucile spianato;
prepararono le porte aperte ed i sedili ribaltati in avanti.
Non passò molto tempo che Marco e suo padre apparvero alla loro vista:
correvano attraverso il bosco, schivando gli alberi e travolgendo i cespugli. Nel
frattempo imprecavano e bestemmiavano. I calabroni li inseguivano ancora,
alquanto incazzati. Giovanón sparò due colpi di fucile, così che i due fuggitivi
potessero prendere un po’ di respiro. Marco in qualche modo era riuscito a
tenere la fiaccola accesa: riaprì il rubinetto del gas ed iniziò a brandire la
fiamma blu e sibilante, lunga quasi un metro, verso gli insetti che lo
attaccavano. Bruciò le ali ai due più vicini, che caddero a terra. Marco ne prese
uno a calci, e gli altri si allontanarono, ma non più di tanto. Mentre Giovanni lo
copriva, Roberto ricaricò il fucile e sparò a sua volta. Laura rimase in disparte,
ma per buona misura impugnò la sua sciabola con la mano sinistra. Un
calabrone all’improvviso partì diretto verso di lei, dritto verso il suo petto.
Laura alzò d’istinto il braccio ingessato per proteggersi: sentì una sorta ti tonfo
sordo, ed una vibrazione che le scuoteva il braccio. Il fottuto santone aveva
piantato il pungiglione nel gesso, ed era rimasto imprigionato. Laura per un
momento fissò stranita quella scena sorprendente, poi alzò l’altra mano e vibrò
un fendente che decapitò il calabrone. Con un secondo colpo staccò anche la
testa del calabrone, ma conservò il pungiglione per ricordo.
"Tutti in macchina, dai!" gridò Roberto, mentre i calabroni si erano dispersi.
Saltarono tutti sul Pajero, Laura e Giovanón dietro, Roberto alla guida. L’uomo
accese il motore e partì sgommando, mentre gli insetti si radunavano per un
nuovo assalto; curvando per tornare sulla carraia il fuoristrada travolse un paio
di giovani piante, ma proseguì senza danno.
Roberto guidava veloce, ed in breve tempo arrivarono di nuovo a casa di Cisco;
lì iniziarono a suonare il clacson per richiamare la sua attenzione. Finalmente
Cisco aprì la porta di casa il minimo indispensabile per mettere fuori la testa e
guardarsi intorno.
Marco abbassò il finestrino:
"Apri il cancello, cazzo, facci entrare!"
Cisco annuì e rientrò in casa, quindi il lampeggiante giallo si accese ed il
cancello automatico iniziò a scorrere di lato. Roberto entrò appena possibile,
strusciando lo specchietto sinistro contro il cancello, e percorse la breve
discesa fino all’ingresso del garage. Cisco aprì, guardingo come prima, anche il
portone del garage, e fece segno agli altri di entrare. Roberto scese per primo,
e si mise di copertura col fucile imbracciato. Marco scese subito dopo e corse
dentro, quindi arrivò il turno di Laura… ed in quel momento arrivarono pure i
calabroni, un folto stormo che puntava dritto verso di loro. Roberto imprecando
scaricò tutti i tre colpi del suo fucile contro gli insetti; Laura saltò dentro al
garage; Giovanni scese dal fuoristrada e sparò due colpi mentre anche Roberto
si metteva al riparo. I calabroni erano molto vicini a quel punto, solo pochi
metri.
"’orco dio!" chiosò Giovanón, e sparò l’ultima fucilata prima di raggiungere il
garage. Dietro di lui, Cisco chiuse violentemente il portone, e nell’improvviso
silenzio riecheggiarono i tonfi metallici degli insetti che urtavano le lastre di
lamiera.
"Bé cazzo, lo sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata!" commentò
Laura rompendo il silenzio.
"Ho preparato tutto.", continuò Cisco mostrando un secchio di plastica da
pittura murale, da dieci litri. Il coperchio del secchio era forato, e da lì spuntava
una miccia. Il tutto emanava un vago odore di benzina e sapone.
Cisco spiegò brevemente:
"Non è difficile da usare… basta piazzarlo vicino al nido, accendere la miccia e
scappare. Dopo un mezzo minuto… boom, una bella palla di fuoco."
"Sei sicuro che funziona?" chiese Roberto dubbioso.
Cisco esitò, quindi ammise:
"Ho provato bombe più piccole… quelle funzionano bene. Penso che anche
questa farà il suo dovere."
Roberto non commentò, ma sembrava soddisfatto.
"Alóra andëma, sä!" li esortò Giovanni.
Marco non era proprio entusiasta:
"Cazzo, dobbiamo tornare là…"
"Si forza, finiamo questo lavoro… vieni anche tu, Cisco?" propose Laura.
Il ragazzo esitò, borbottò, poi rifiutò sostenendo che cinque erano troppi, su
quel fuoristrada, per muoversi agilmente.
"Non sai cosa ti perdi." lo salutò quindi Laura.
Giovanni prese la bomba per il manico, e tutti si avviarono verso il portone.
Cisco almeno socchiuse la porta e guardò fuori: niente calabroni, campo libero.
I quattro combattenti balzarono avanti e salirono rapidamente sul Pajero,
quindi Cisco aprì il cancello, e la squadra ripartì verso il viaggio della resa dei
conti.
Percorsero la strada principale del paese, e videro che finalmente stavano
arrivando rinforzi: molti carabinieri in tenuta antisommossa avanzavano
cautamente a piedi, seguiti dai loro Defender; più indietro venivano pompieri
ed agenti della Forestale. Qualcuno dallo schieramento iniziò a gesticolare
verso i quattro sul Pajero, ma Roberto non si fermò: sarebbe stato difficile
spiegare che la loro bomba al napalm casalingo serviva ad una nobile causa.
Videro diversi calabroni che svolazzavano intorno, ed all’improvviso uno di
questi si schiantò contro il parabrezza del fuoristrada. Il vetro s’incrinò, e
rimase ricoperto di fluidi vischiosi. Roberto quasi perse il controllo, e si fermò
bestemmiando. Quindi, azionò il lavavetri, e con un certo sforzo riuscì a ripulire
il parabrezza abbastanza da vederci attraverso. Proseguirono il loro viaggio
senza altri incidenti, fino alla fontana.
Lì si prepararono di nuovo a raggiungere il nido, più nervosi ma più determinati
di prima: era l’ultimo sforzo, quello per ottenere la vittoria finale.
Marco questa volta lasciò sul Pajero la fiaccola a gas, e si preparò a trasportare
la bomba, mentre Roberto come al solito portava il suo fucile.
"Va bene, andiamo!" annunciò Marco, e partirono spediti.
"Dai, cazzo, è l’ultimo sforzo… bruciamoli tutti!" sibilò Laura come augurio.
Marco e suo padre arrivarono facilmente al nido, una palla di quel materiale
simile a carta che producono i calabroni stessi. Stava dentro l’ampio tronco
cavo di un vecchio castagno. Una larga fessura nel tronco consentiva di
arrivare molto vicino al nido… anche a toccarlo, se uno ne avesse avuto il
coraggio. I due uomini rimasero un po’ a controllare a distanza il traffico di
insetti: passava solo un calabrone ogni tanto, senza considerarli nemmeno.
Quindi, decisero di agire. Mentre Roberto teneva il nido sotto tiro, Marco afferrò
saldamente il manico del secchio, lo sollevò da terra e corse verso il castagno,
come poteva correre un soldato in battaglia, sotto il fuoco nemico. Forte e
senza paura per l’adrenalina che gli scorreva in corpo, incastrò la bomba nella
fessura del tronco, pressoché a contatto col nido. Forse i calabroni si stavano
agitando, ma non ci badò. Estrasse il suo accendino Bic, ed accese la miccia.
Rimase a guardare se si era accesa bene… per meno di un secondo, anche se
gli sembrò un tempo interminabile. Poi corse via, verso suo padre che nel
frattempo si era preparato pure lui a scattare.
Quando lo raggiunse, sempre correndo, impugnò il walkie-talkie:
"Bomba innescata!"
"E vai!" esultò Laura.
"Va bén!" le fece eco Giovanón.
Passarono circa trenta secondi, ed i due ragazzi udirono il suono sordo di
un’esplosione, e dopo pochi secondi una colonna di fumo nero si alzò sopra le
cime degli alberi. Nessuno vide la palla di fuoco, ma fu abbastanza grande da
avvolgere tutto il nido, ed iniziò a bruciarlo. La vischiosa mistura ardente aderì
al nido ed al tronco continuando l’opera di distruzione. I calabroni superstiti
tentarono di sfuggire, ma si bruciarono le ali e caddero, bruciando nell’incendio
o rimanendo a terra quasi inoffensivi. Alla fine, solo pochi, feriti e storditi,
continuavano a volare disperatamente intorno alla loro dimora in fiamme.
Ed in quel momento, sentirono il rombo di un motore alle loro spalle: erano un
Defender dei Carabinieri, ed un altro della Forestale. Diversi carabinieri ed
agenti balzarono giù, in testa a tutti il maresciallo.
"Cosa ci fate qui!?" chiese piuttosto irritato ai due ragazzi.
"Abbiamo distrutto il nido." rispose Laura, come se fosse una cosa totalmente
ovvia.
Arrivarono correndo anche Marco e Roberto, trafelati ma contenti.
Il maresciallo chiese bruscamente cosa avessero combinato, ed i due glielo
spiegarono – ma non precisarono che avevano usato una bomba artigianale;
parlarono solo di benzina.
Finalmente, il maresciallo decise di andare avanti con i suoi uomini a vedere
cosa rimaneva del nido. Ordinò esplicitamente ai quattro montanari di
rimanere sul posto, e loro furono ben felici di obbedire: avevano già fatto anche
troppo per sistemare quella faccenda. Roberto frugò nel bagagliaio del
fuoristrada: ne tirò fuori una bottiglia di vino rosso fermo ed una confezione di
bicchieri di plastica.
Tutti furono d’accordo: era il momento giusto per brindare. Quindi Roberto
sturò la bottiglia e riempì i quattro bicchieri. Bevvero tutta la bottiglia per
celebrare la loro vittoria, ma quello era solo l’inizio: quella sera si prevedeva
festa grande al bar del paese. Una vera basa epica, e totalmente meritata.
Pimlico, Londra, 8 Febbraio 2003