AZ - Arturo Zavattini fotografo Viaggi e cinema 1950-1960

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AZ - Arturo Zavattini fotografo Viaggi e cinema 1950-1960
AZ - Arturo Zavattini fotografo
Viaggi e cinema 1950-1960
Presentazione di Francesco Faeta (co-curatore della mostra con Giacomo Daniele Fragapane)
Questa mostra presenta 178 fotografie in bianco e nero di Arturo Zavattini riguardanti un
arco temporale che va dal 1950 al 1960; si tratta di immagini, tratte da negativi su pellicola 35mm.
o medio formato, scattate con l’ausilio della sola ottica normale (50 o 80 mm), ottenute attraverso
un processo di scelta, sull’inquadratura originale, effettuato dall’autore.
Costituiscono, nell’insieme, un’ampia selezione di quanto presente nell’archivio del
fotografo, regesto significativo della sua produzione che comunica all’osservatore, con
immediatezza e chiarezza, le idee della fotografia e della realtà che egli custodì, e la sua postura
intellettuale, in anni di intensa e complessa vicenda culturale italiana. Benché le immagini iniziali di
Arturo Zavattini, nate nello straordinario crogiolo di presenze e idee che gravitava attorno a suo
padre Cesare, nella casa (laboratorio e studio) di Via Santa Angela Merici, in Roma, possono essere
datate al 1950, è con la partecipazione alla inaugurale spedizione scientifica effettuata da Ernesto de
Martino a Tricarico, in Lucania, nel giugno del 1952, che abbiamo una prima serie sistematica di
fotografie, utili nel documentare il Mezzogiorno italiano in quegli anni e indispensabili nel
ricostruire la vicenda dell’etnografia visiva del grande antropologo.
Da quel momento, la macchina fotografica segue costantemente Zavattini, compagna di
viaggio e taccuino di appunti, sia nei suoi spostamenti personali, sia nei momenti di riposo o di
pausa durante le riprese dei film, con attenzione particolare per la realtà etnografica, prima
ispiratrice delle sue immagini (oltre il lavoro demartiniano, a esempio, si ricordi la documentazione
dell’allora assai noto mago di Pico, in Ciociaria, cui vanno ascritte le due immagini di bambina con
ciocie e cartella visibili in mostra), e per la realtà sociale, quale veniva riverberata nel complesso
movimento di cultura politica, letteraria, artistica e visiva noto come Neorealismo. Zavattini, però,
mantiene una cifra intellettuale e figurativa meno pesante, ideologica e gridata, rispetto al grande
movimento coevo e la sua produzione sembra inscriversi dentro le linee di un più pacato realismo
etnografico, distinto da grande attenzione alla vicenda umana (in particolare a quei “bambini [che]
ci guardano”, scaturiti dalla fantasia del padre sceneggiatore e di Vittorio De Sica), da una più libera
costruzione figurativa, da un’attitudine a vedere la strada e la sua vicenda, in modo assieme sicuro e
leggero, come documentano le immagini qui esposte. Immagini che conservano un'impronta
cinematografica, nel loro farsi vicenda, personaggio, intreccio, nel loro costruirsi spesso in sequenza
e secondo le regole compositive del mezzo. Al cinema, infatti, Zavattini dedica il suo tempo e la sua
attenzione professionali, ponendo alternativamente il suo occhio dietro l’obbiettivo della
fotocamera e della cinepresa.
Compagna costante delle sue passeggiate e dei suoi incontri, strumento di una passione che
lo riconnette con le regioni profonde della vita, la macchina fotografica, che dona all’autore una
divertita e intensa occasione di misurarsi in modo nuovo con la realtà, produce tuttavia immagini
che vengono sovente dimenticate, riposte in cassetti più tardi svuotati con disattenzione, donate con
generosa leggerezza, sovrastate da quel più debordante interesse per la fotografia nel cinema,
ragione di vita materiale oltre che di passione. Così, il decennio qui documentato è stato ricostruito,
per la prima volta nel suo complesso, tassello per tassello, attraverso un lavoro di scavo nella
memoria, di impegno filologico, di confronti e rinvii, in un gioco continuo di apparizioni e
sparizioni fotografiche.
Una selezione indicativa del lavoro complessivo realizzato da Zavattini con de Martino, già
visto in altre occasioni espositive e oggetto di attenzione critica da parte degli studi di settore,
costituisce la prima sezione di questa mostra e appare nella prima sala, con il titolo Viaggio in
Lucania. Nella seconda sala, invece, sono esposte le altre quattro sezioni che comprendono
fotografie eseguite nel decennio preso in considerazione, tutte inedite (salvo sporadiche apparizioni
sulla stampa quotidiana e periodica).
La seconda sezione, dunque, dal titolo Viaggi in Italia, è organizzata come un ideale
itinerario dal nord al sud, con alcuni scivolamenti offerti da associazioni di senso logico o di
carattere formale, e pone assieme immagini scattate durante tutto il decennio, in tempi diversi.
Centrali appaiono le osservazioni relative a Roma e Napoli, ma sono numerose le città e contrade
italiane che vengono fotografate con un occhio attento, consapevole, socialmente impegnato; ne
scaturisce un ritratto complessivo del Paese, di rilevante pregnanza culturale e visiva.
La terza sezione, dal titolo Viaggio in Thailandia, comprende le immagini riprese da
Zavattini a Bangkok e nella provincia di Phetchaburi, all’estremità nord della penisola malese, in
particolare lungo l’omonimo fiume e i suoi canali, nel 1956, nei ritagli di tempo lasciati dalle
riprese del film La diga sul Pacifico di René Clément, tratto dal romanzo di Marguerite Duras,
uscito nel 1957. Film girato con un largo coinvolgimento della produzione italiana (De Laurentis,
Cinecittà) e con l’impiego di operatori e fotografi italiani (Otello Martelli, Goffredo Bellisario, oltre
lo stesso Zavattini, che partecipò come assistente operatore). Le fotografie documentano aspetti
contrastanti della vita del Paese, con una doppia focalizzazione sulla dimensione urbana della già
degradata e difficile capitale, con ampi riferimenti alla commistione tra tradizione e mutamento e
tra cultura thai e culture cinesi, e sulla dimensione rurale delle campagne e dei villaggi posti a sudovest di Bangkok. Si tratta di immagini rare, di particolare acutezza antropologica, che si pongono
tra le prime realizzate da un Italiano nel Paese dell’estremo Oriente, durante l’immediata transizione
post-coloniale che attraversava l’intera area indocinese.
La quarta sezione, dal titolo Viaggio a Cuba, mostra le immagini fatte nel 1960 nell’isola,
poco dopo la rivoluzione castrista, a margine delle riprese del film Historias de la revolución di
Tomás Gutierréz Alea, cui gli Italiani, e in particolare Martelli (direttore della fotografia di due dei
tre episodi di cui il film si componeva) e Zavattini (operatore alla macchina negli stessi episodi),
partecipavano a sostegno della nascente cinematografia, priva di mezzi e di esperienze. Sono
realizzate soprattutto a La Habana e sul set del film, posto in una località impervia della Sierra
Maestra. In quell’occasione lì giunse, in visita cordiale, Ernesto “Che” Guevara, che allora ricopriva
importanti incarichi nell’attività di governo politico e sociale di Cuba e si apprestava a divenirne
Ministro dell’Industria e dell’Economia. Il suo sopralluogo è documentato nelle immagini, coeve
rispetto a quelle più conosciute di Alberto Díaz Gutiérrez, noto come Alberto Korda, e non meno
efficaci di quelle, comprese nella sezione seguente, che chiudono la mostra (l’ultima di tali
immagini, di Martelli, ritrae proprio Guevara e Zavattini che discutono assieme di macchine
fotografiche).
La quinta sezione, dal titolo Backstages, raccoglie le immagini create in tempi diversi lungo
l’arco del decennio, in alcuni dei set cui Zavattini partecipò, a volte a lato e a margine dell’intensa
attività culturale paterna, da quello di Paul Strand a Luzara, in Emilia, per la realizzazione della
nota inchiesta che trovò esito editoriale nel libro Un paese, a quello di Federico Fellini per La dolce
vita, a Bassano di Sutri, nel Lazio, a quello, appunto, di Historias de la revolución, sulla Sierra
cubana. Molte di queste fotografie raffigurano, con ironia e divertita partecipazione, personaggi
quali Strand e Fellini, Vittorio De Sica, Cesare Zavattini, Marcello Mastroianni, Sofia Loren, colti
per lo più nei momenti di pausa durante le riprese cinematografiche o fotografiche, ma tutte, nel
loro complesso, documentano comunque un contesto culturale irripetibile, una funzione e un ruolo
della cultura italiana attenuato negli anni seguenti.
La mostra, dunque, si pone come invito a rileggere aspetti importanti e peculiari della
vicenda culturale e sociale degli anni Sessanta, a scoprire un autore importante della fotografia
italiana dell’epoca, a riflettere sulle ragioni profonde del suo realismo, a ripensare gli angusti limiti
teorici e storiografici dentro cui è sovente serrata la fotografia italiana.
Biografia
Arturo Zavattini, figlio di Cesare, fotografo, operatore cinematografico e direttore di
fotografia, è nato a Luzzara, in provincia di Reggio Emilia, nel 1930. Trasferitosi a Roma con la
famiglia, nel 1941, e conseguito il diploma di maturità classica, s’iscrive alla Facoltà di Lettere e
Filosofia de’ “La Sapienza” ma, iniziando a lavorare, non porta a compimento i suoi studi
universitari. Comincia, infatti, su sollecitazione del padre, a interessarsi di cinema, esercitando,
prima, come aiuto-operatore e assistente, poi, come operatore, infine come direttore di fotografia:
Otello Martelli, il prolifico e geniale direttore della fotografia di tanti film di Federico Fellini e
Roberto Rossellini, gli fa da maestro e mèntore. La sua professione prende concretamente avvio, nel
marzo del 1951, sul set di Umberto D di Vittorio De Sica (il regista lo presenta ad Aldo Graziati,
che aveva l’incarico di direttore della fotografia per quel film) e prosegue poi, nell’ottobre dello
stesso anno, con Roma ore undici di Giuseppe De Santis. Nel corso del tempo Zavattini lavorerà
ancora con De Sica e De Santis e, tra gli altri, con Alessandro Blasetti, René Clément, Luigi
Faccini, Federico Fellini, Giuseppe Ferrara, Tomás Gutierréz Alea, Franco Indovina, Alberto
Lattuada, Paolo Nuzzi, Luigi Magni, Luca Ronconi, filmando anche l’unica regia di lungometraggio
curata dal padre, La Veritàaaa, del 1982. Amico dell’operatore Pasqualino De Santis, che lo
introduce ai segreti della camera oscura, attento lettore della pubblicistica italiana e straniera
dell’epoca, in particolare di “Life”, manifesta un vivo interesse per la still photography, che
condivide con suo padre. È Cesare, infatti, che regalandogli la sua prima macchina fotografica, una
Ferrania Condor, lo introduce in una dimensione nuova di vita, mentre le sue conoscenze di tecnica
fotografica si vanno formando sul manuale, Il libro della foto di Alfredo Ornano, all’epoca assai
letto. Al di la della vocazione e dell’esperienza autodidatte, tipiche dei fotografi italiani dell’epoca,
in casa Zavattini, in Via Sant’Angela Merici, passano, tra numerosissimi altri, portando il loro
contributo d’immagine e discussione, Paul Strand, Herbert List, Ernst Haas. Una relazione di stima,
inoltre, legava Cesare con Heenri Cartier-Bresson, che rimane un punto di riferimento e un maestro
inimitabile anche per Arturo (una fotografia del maestro francese, con dedica a quest’ultimo, viene
portata come regalo da Parigi). Arturo conosce anche Strand per il tramite del padre (che lo aveva
incontrato nel settembre del 1949, a Perugia, nell’ambito del congresso internazionale di cinema,
dove erano convenute personalità quali Rossellini, Jean Renoir, Vsevolod Pudovkin, e che lo aveva
ritrovato poi, su di un piano di più personale frequentazione, tramite il comune amico Virgilio Tosi,
cui largamente si deve la mediazione per la messa a punto del libro Un paese, che i due
realizzeranno insieme). Strand, giunto in Italia con la moglie, la fotografa Hazel Kingsbury, ha,
come punto di riferimento, Cesare, il cui lavoro del resto era noto negli Stati Uniti, e progetta con
lui di condurre a buon fine quella che era stata, per anni, una sua aspirazione: un’inchiesta
fotografica di comunità. Del rapporto tra suo padre e Strand, e dello stesso Strand, Arturo è
testimone sin dai primi contatti dell’estate del 1952 e, nel 1953, mentre si stava svolgendo la
campagna di ricerca di Strand a Luzzara, fotografò, come si osserva nelle immagini comprese nella
quinta sezione della mostra, il fotografo in azione; poco più tardi gli prestò la propria camera
oscura, a Roma, per lo sviluppo di parte dei suoi materiali. Ancora nel 1952, e ancora per il tramite
del padre che intratteneva importanti rapporti con l’antropologo, conosce Ernesto de Martino, che lo
invita a far parte della prima spedizione etnografica da lui diretta nel Mezzogiorno italiano, nel
giugno. Dopo questa esperienza l’attività fotografica si affiancherà stabilmente a quella
cinematografica con frequenti rilievi in Italia e all’estero, di cui si dà conto nel corso di questa
esposizione. Ma la fotografia continua a interessare Zavattini anche come progetto culturale, come
strumento democratico di scrittura, come veicolo di memoria, come mezzo di aggregazione civile.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, infatti, egli si fa promotore di una serie di iniziative
che sperimentano un coinvolgimento sempre più vasto e popolare, sia che si tratti delle piccole (e
pionieristiche, per l’epoca) monografie dedicate a fotografi, per la serie televisiva “Apriti sabato”,
con la regia di Luigi Martelli, a partire dal 1978; sia che si tratti di portare il lavoro fotografico a un
pubblico di non specialisti o addetti ai lavori come nel caso dell’attività, da lui promossa, del
Circolo Fotografico dell’Infiorata, a Genzano di Roma, con piccole mostre, semplici e poco costose,
tese a verificare cosa è possibile dire attraverso la fotografia, oltre che come è possibile farlo; sia
che si tratti dell’organizzazione di esposizioni, quale quella di Renzo Vespignani, sempre a
Genzano, nell’inverno del 1998, volte a saggiare usi ibridati del mezzo (in questo caso tra pittura e
fotografia) o quella di Francesco Maselli, con i suoi esperimenti di misurazione del tempo; sia che
si tratti, infine, di sperimentare l’uso della macchina fotografica nelle scuole (settantatre ragazzi
delle medie, che svolgono il tema dell’Infiorata, evento centrale della vita culturale e sociale
paesana), sempre nel 1998, o da parte di cittadini che non conoscono affatto il mezzo, invitati a
riprendere se stessi o un proprio gruppo familiare o amicale con una Kodak Istamatic loro regalata,
nel corso del 1999, sino a costruire la mostra “Ventimila volti: un paese” realizzata con la
collaborazione di tutti, per festeggiare l’avvento del 2000. Attualmente Arturo si dedica alla cura
dell’Archivio Cesare Zavattini in Roma e delle sue iniziative a sostegno della memoria del grande
scrittore, organizzatore di cultura e regista.
Specifiche tecniche
Arturo Zavattini ha impiegato, nel decennio documentato dalla mostra, molte macchine
fotografiche, con cui sono state realizzate le immagini presenti in mostra, dalla iniziale Ferrania
Condor con ottica Officine Galileo, Eliog, 50mm, f. 1.2; alla Rolleiflex con Zeiss Planar, 80mm, f.
2.8; alla Laica MP2 con Summicron, 50mm. f. 2.0; alla Nikon S2, con Nikkor 50mm. f.1.4; alla
Hasselblad 500 C, con Zeiss Planar 80mm, f. 2.8. Le pellicole più adoperate, oltre l’iniziale
Ferrania, sono state la Kodak Plus X Pan, l’Ilford FP4, la Gevaert 100 e la Dupont 100 Asa,
pellicola cinematografica da lui personalmente sbobinata. Le stampe presenti in mostra sono state
realizzate in Roma, su carta baritata Bergger, sotto la direzione dell’autore, da Roberto Bossaglia,
nell’inverno del 2003, quelle relative alla Lucania, cortesemente concesse per questa occasione dal
Centro di Documentazione "Rocco Scotellaro e la Basilicata del secondo dopoguerra" di Tricarico
(Matera); sempre in Roma, su carta baritata Ilford (sotto la direzione dei curatori, Francesco Faeta e
Giacomo Daniele Fragapane e con l’approvazione dell’autore), da Claudio Bassi per il Laboratorio
“Fotogramma 24”, di Marco e Simona Bugionovi, nell’estate-autunno del 2015, tutte le altre.
Catalogo, Contrasto, Roma, novembre 2015, a cura di F. Faeta e G. D. Fragapane, con testi di
Pietro Clemente, Emilia De Simoni, Francesco Faeta, Giacomo Daniele Fragapane, Maura
Picciau, Claudio Piersanti.