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ELENA CHIESA Io non scrivo poesie, le immagino soltanto il FILO editore, Roma 2009, pp. 59, € 11.50 *** di Domenico Donatone «La storia di me non vale un museo La memoria si merita fine migliore». (E. Chiesa, da Io non scrivo poesie, le immagino soltanto, ed. il FILO, p. 19, 2009) Quella sottile e intensa linea dell’esistenza di chi non cede A guardare il curriculum artistico di Elena Chiesa (nata a Genoa nel 1963) si rimane in qualche modo ammirati nel vedere il tipo di attività artistica e lavorativa che questa donna svolge. Riporto dalla sua biografia: «Videopittrice, videopoetessa, videodesigner. Studia Arte e Fotografia al Massachussetts College of Art di Boston. Allieva di Lele Luzzati al C.A.M.S. di Roma (Centro Arti e Mestieri dello Spettacolo) si forma nei migliori studi italiani di animazione tradizionale, quindi si specializza in computer animation presso la Scuola di Computer del Politecnico di Milano».i Riceve premi da prestigiosi festival internazionali di video poesia, diventa art director free lance tra Milano, Roma, Londra, Parigi, Atene e Copenhagen; nel 2000 fonda a Roma la Epics (Extraordinary Pictures) uno studio di progettazione e animazione videografica facente capo alla Interactive Group di Milano. Finalista al Premio Internazionale di Video Poesia di Roma nel 2005 e nel 2006; nello stesso anno inaugura la sua prima mostra personale al museo Luzzati di Genova e nel 2008 è tra i vincitori del Premio Massenzio Arte. Insomma, un curriculum che non accade spesso di leggere tra gli artisti e i poeti in circolazione. Oltre all’ammirazione per la capacità di sapersi inserire all’interno dei programmi e dei progetti di arte e di letteratura più innovativi e avanzati, come la videopoesia, (di cui Gianni Toti è stato un promotore e un inventore a Roma, qualcosa che fa parte di una tradizione ormai, non dirò conclamata, ma in ogni caso, oggi, organica al mondo della creazione artistica), si deve riconoscere a Elena Chiesa la capacità di interpretare la poesia con purezza, andando al di là di un mero sentimentalismo lirico e anche, sarebbe più corretto affermare, superando lo sterile nozionismo sperimentale. Ciò che colpisce di questa esperienza poetica è il fatto che la nostra poetessa (alla sua prima pubblicazione poetica) innesti nella sua visione d’arte e letteraria elementi figurativi, visivi, propri dell’immagine, e dell’immaginazione soprattutto, con elementi di racconto lirici, esistenziali, che conducono ad una interessante miscela tra vita e arte, qualcosa che in questo senso determina una curiosa frizione tecnico-semantica. Cosa vuol dire? Vuol dire che un curriculum così pieno di esperienze e di sperimentazioni artistiche tecno-visive, letterarie e pittoriche, viene a diramarsi sulla pagina, se non quasi a risolversi, in purezza del tratto poetico, in maniera equilibrata, senza protagonismi e feticci della scrittura. Un tratto poetico che esprime con senso una leggera e lineare semiotica di una poesia lirica a cui oggi difficilmente si ha ancora accesso. La silloge poetica di Elena Chiesa, dal titolo Io non scrivo poesie, le immagino soltanto, fornisce al lettore questo specifico bagaglio tecnico-formativo che nella poesia si mostra in veste tutt’altro che ostica, esprimendo una elasticità lirico-formale e una duttilità speculativa del verso che consente a chiunque di ricredersi che non tutto ciò che proviene da una formazione così moderna e intessuta di video arte e di sperimentazione, non possa altresì diluire il suo primato compositivo a favore di una linearità semantica, a favore di un tratto poetico puro, consequenziale alla vita della scrittrice. Una purezza che fa riferimento all’intima introspezione di molti versi, non solo lirici e sentimentali, ma anche civili, impegnati a far emergere quel complesso intreccio che c’è tra vita privata e pubblici dinieghi, che sono affronti che vanno oltre il tema della persona. Ecco in cosa consiste questa curiosa contraddizione tecnico-semantica, in una duplice bravura della poetessa nel saper essere sia lirica e sia sperimentale. Per questa caratteristica tecnico-stilistica, Elena Chiesa è una poetessa che piace per la sua capacità eteromorfa di offrirsi al lettore. La sua poesia, raccolta in questa silloge dal titolo colloquiale, affettivo, confidenziale e ammiccante alla sua arte primaria di riferimento (la video arte), dispone, al suo interno, un’estensione della misura poetica che è anche della persona che scrive, che immaginiamo, pur non conoscendola, sicuramente affabile e gentile. Una donna!, e questo per noi (e per me) è un presupposto d’intesa. Ma lasciamo che la poetessa ci parli della sua poesia e della sua poetica. Dalla Introduzione al libro si legge: «Io non scrivo poesie, le immagino soltanto perché mi piace pensarle innanzitutto come quadri che si muovono. Immagini virtuali in animazione». ii Tutto questo conferma quello che si stava dicendo, ovvero che in questo presupposto colloquiale del titolo, ci sono riferimenti espliciti alla video arte, a qualcosa che intende catturare in maniera definitiva, forse, il fulcro di un pensiero, facendo sì che questo stesso continui a fluire, incessante, implacabile, come una immagine che scorre sullo schermo. «Mi piace» – continua a scrivere la poetessa – «coniugare parole e immagini in un flusso visivo continuo, come a riprodurre quello stato di rapimento che si prova se chiudiamo gli occhi ascoltando un brano musicale, un mantra o una poesia».iii Questo “scioglimento pittorico in pixel” (MeltingPixels), tecnica basata sulla modifica progressiva dei singoli pixel che compongono ogni fotogramma-quadro, consente che dalla tecnica pura, dalla materialità visiva, si possa passare ad una lirica pura, ad un sentimento sensoriale, (del cuore, della vita), senza particolari strappi. Passare, ovvero giungere o raggiungere, una zona poetica d’equilibrio che accresce il significato sperimentale dell’opera. «Ricreando ciò che avviene nella nostra mente […] do origine a ciò che io chiamo, forse immodestamente “videopoesie”». C’è un elemento che si aggiunge a quanto detto, un elemento di sospensione della stessa immagine della poesia (o di lack of balance, come direbbero gli inglesi), che motiva anche un’altra ulteriore figurazione della poetica della nostra scrittrice, quando afferma che forse questa tecnica oculata, iv così disgiunta dalla tradizione lirica italiana, da un fare letterario collaudato da secoli, può essere «un pretesto per liberare la mente dalle cianfrusaglie che si sono stipate dentro…». Questo è interessante, perché filosoficamente è come se si evidenziasse una certezza poetica incerta, multifonica, sospesa, di chi guada il proprio fiume d’immagini per riannegarvi nuovamente. La poetessa afferma che ci troviamo di fronte a delle «non-poesie», e che quello che lei vuole comunicare nasce da un mantra che supporta la sua ispirazione. Certamente il tutto qui pare venga detto anche con modalità ironica, come se lo stesso sperimentalismo desiderasse ridere un po’ su di sé e affrontare con maggior distensione e pacatezza le questioni inerenti la tecnica compositiva. Questo lirismo schietto, sincero, audace, ma mai imbarazzante, anzi, semmai occorrerebbe che quello che si legge diventasse di più autentica parafrasi dell’essere, inquadra in maniera mirabile il tema dell’esistenza della donna. Un tema che non è banalmente fatto di amori, bensì intessuto di una trama che potremmo definire “corporea”, un appello esplicito alla «fica» (La ferita, così la chiama la poetessa), che non è la chiave di lettura del mondo secondo l’ottica maschile o courbettiana, ma l’elemento di un corpo ragionante in cui passano emozione e ragione, libertà e schiavitù, ma soprattutto dolori, immensi dolori, molto profondi, lancinanti, che scuciono la femminilità della donna e stabiliscono il segnale di un fronte interno che la abita. La vagina è intesa non come elemento attrattivo ma pensante, luogo fisico di un’identità specifica da cui la donnapoetessa non esprime la sua forza ma la sua fragilità: «Non è mai uscito pus | da quella fessura | è rimasta vuota | una gola e fa paura || Da quel buio profondo | come il male che ho dentro | non è mai uscita vita | ma sangue rosso | ora spento || Più nulla avrà luogo | in quei meandri di me | ora che potrei | fare a meno di te! ||».v Da lì, dalla vagina, la poetessa dichiara al mondo il suo più intimo e delicato, nonché legittimo, punto di riflessione, diventando per chi legge motivo di assoluto rispetto. Dal suo preciso alveo corporeo, punto focale di un’intelligenza fisica ed emotiva, Elena Chiesa delinea con forza i contorni di una sofferenza che lascia emergere una maternità mancata, o un infortunio che ha interrotto l’esistenza di un figlio, o un figlio che le è stato strappato. In un’altra poesia afferma, parlando di un ipotetico figlio di cui si chiede se è stato magari più fortunato e che rivede specchiato in un ragazzo seduto in treno di fronte a lei: «Sì, doveva essere così se fosse il mio [figlio ndr] | staremmo andando a Roma insieme | dopo una visita alla nonna | e recalcitrante mi avrebbe seguita | nella spedizione obbligata | mi avrebbe mal sopportata | perché non trovavo il biglietto da timbrare».vi Una donna senza figlio è una donna incompleta. Ecco perché dalla vagina la donna può dire non solo cosa sente dentro, ma come si sente dentro, una introspezione acuta del proprio essere, del proprio Io. Qui non ci troviamo di fronte a dei monologhi della vagina, – ci ha già pensato l’opera teatrale di Eve Ensler ha darle voce – ma di fronte ad una intensa linea esistenziale di cui la poetessa ci rende partecipi. Una lettura culturale e vitale della donna in termini non di femminismo, ma di valori femminili, un po’ come direbbe Tomaso Binga (altra poetessa) di vero e proprio «valore vaginale»: un narrare, un raccontare, un dialogare con l’intero sistema-mondo che vede la donna muoversi e agitarsi con la peculiarità del suo taglio narrante e della sua intensa esperienza di vita. Le poesie di Elena Chiesa ci mostrano esattamente questo. Ci mostrano la trama della sua vita, i dolori, le distanze, gli attraversamenti, (come meglio specifica in un suo testo), che fanno sì che chi legge non cade, ma piuttosto si erga a difesa della propria esistenza. È tutto un tracciato esistenziale materialistico e al contempo spirituale, vivo nei ricordi (i termini “buco” e “vuoto” sono fondamentali nell’opera): ricordi che sono immagini da cui la poetessa trae le sue poesie che non scrive ma descrive. La poetessa afferma di sé quello che ogni donna direbbe in virtù di un’identità culturale. La bellezza di questi versi sta nel fatto che la poetessa narra di sé facendoci capire quello che l’uomo fa su di lei inconsciamente o volutamente, parla di sé per non dire dell’uomo che la ingabbia. Questa piramide semantica, che si rivolge alla sua vetta, è tale perché consente che in ogni singola poesia, anche nelle meno “agguerrite” e combattive, si spalanchi da una parte un lirismo esistenziale leopardiano, in cui gli anni segnano il cammino della nostra esistenza sempre in controtempo (si vedano i testi Candeline, L’età, Memoria, 40 anni), ovvero tutta una serie di componimenti in cui la poetessa si confronta con un tema universale della letteratura: la vita e il tempo («Quarant’anni sono il centro di un quadrato. | Stanno in mezzo a quell’ipotenusa | che si tende verso il mistero dell’angolo opposto ||» vii; «Non ho più memoria di promesse fatte | di desideri da realizzare | di sogni infranti | del male che ho fatto o che ho sentito | non ricordo chi ero o chi dover diventare | chi sono non ha peso | ed è tutta la mia vita. ||» viii; «Il tempo di clessidra che ci è concesso | è una montagna di sabbia sottile | che impercettibilmente | il vento degli attimi | porta via | ad uno ad uno | in minuscoli granelli ||»ix). Dall’altra parte, abbandonato un lirismo di maniera, vi è l’ascesa vera e propria di una lirica così introspettiva che seduce davvero. Il fulcro di questa ragione è nella visione totalizzante della donna, come sopra si diceva, raggiunta con l’efficacia dell’auscultazione, del vergare versi che rimangono a guardia dei sofismi e delle abnegazioni. Una sottile linea esistenziale piena di solitudine, di sofferenza, di angoscia, di consapevolezza così amara che annulla l’efficacia di ogni illusione. È questa l’Elena Chiesa migliore del suo libro Io non scrivo poesie, le immagino soltanto. Si è detto che la poetessa si apre anche a riflessioni sociali politiche e generazionali, in testi quali Adolescenti moderni, Aspirante immigrato, Il poeta (Il tuffatore), Un morto sull’asfalto, Al kamikaze, Donne alla moda, Ho deciso. Testi che non sono esigui, timidi, inefficaci, anzi sviluppano temi scottanti, di attualità politico-sociale: temi che dichiarano l’esigenza di maggiore solidarietà femminile (come in Donne alla moda: «Avanzate in bilico | tra un sanpietrino e un buco | come stambecchi su rocce montane || […] Ma il suono che accompagna questo incedere strano | è un gemito muto di piedi | è un rumore sordo di plastica calpestata | è un dolore inutile quello che non potete urlare | nei vostri occhi la tristezza di un sospetto | “non sono unica” | ma non siete sole.»x), oppure temi politico-religiosi letti nell’immagine-ruolo del kamikaze («Se solo tu sapessi che anch’io vorrei morire | non di cancro alle mammelle | o di incidente stradale | né per una caduta dal terrazzino || […] Ma non mi dai il tempo di capire. | Decidi di esplodere qui accanto | per mischiare i nostri miseri corpi disfatti | confondere la tua morte con la mia | e meritarti un premio per questo ||»xi), fino a dare voce alle generazioni moderne degli adolescenti che non vivono ma spiano quello che accade, tutti intrisi di solitudine collettiva, marziani agghindati di cuffiette e ipod, voraci divoratori di notizie che assaltano da blog a blog («generazione cresciuta a dismisura | in una bulimica sovreccitazione | fame insaziabile | di condivisione. ||»xii). Temi che si affrontano con intelligenza e coraggio, temi che stabiliscono il gioco simmetrico che compie la Chiesa tra lirica e poesia civile, in un dualismo che mira all’univoca condivisione. C’è, però, che questo aspetto del poeta impegnato non regge il confronto con la pura immersione dell’Io nel mondo del sé stesso, dell’identico e dell’uguale, perché la poetessa lo sollecita in tutta l’opera, raggiungendo così il risultato migliore di una strategia comunicativa che qui si esprime senza inquinamenti di forma o di contenuto retorico. Perché la duplice lezione poetica di Elena Chiesa consiste nello stabilire che quello che ci appartiene davvero non è solo la politica o il sociale, bensì è la moltitudine che si fa Io, che si fa pellicola collettiva su cui riflettere la nostra identità, la nostra natura: «E sciogliendo sagome | di vapore acqueo | cerchiamo nei riflessi | quanto affiora || Desiderio di apnea | che emerge | ad ogni battito di ciglia || Pellicola sottile | le nostre proiezioni || Alternanza d’io, te | noi, film muto | sequenze d’ombra e luce | attrazione e rifiuto. ||».xiii L’essenza dell’opera sta in questa figurazione liquida, che sfugge alla roccia della materia delle congetture e s’incunea con metodo dentro fessure, spazi, crepe, incrinature di una collettività che vive in frantumi, spezzata e lacerata. L’ordine dinamico dei versi di Elena Chiesa sta nell’attuare il proprio Io dinanzi alle evidenze specifiche di un «noi», dinanzi a quelle istanze collettive che mutano immancabilmente e che lei intercetta fornendo l’immagine solida di equilibri squilibrati e di desideri amorosi niente affatto desiderati. Guidata da una versificazione per lo più breve (senari, settenari e ottonari), anche se non mancano versi più distesi e classici come l’endecasillabo, il ritmo scandito da questa metrica procede con la misura regolare e simmetrica di parole piane che dettano con semplicità concetti complessi, espressi con un’abilità stilistica che più convenzionalmente devierebbe verso artifici metrici astrusi e che qui, invece, preferisce mostrarsi come facoltà della parola che si palesa immediata, tenace, semplice, nuda. Elena Chiesa è una brava poetessa, capace di saper tessere elementi dell’esistenza con lo slancio della parola ordinaria, consueta e non adusa ad una retorica sperimentale e astratta, costruendo poesie che danno la sensazione palpabile di una fine imminente, di una cessazione totale e filosofica dell’essere che, in strati ben concisi della sintassi, ammicca in parte alla resa, alla morte, alla sconfitta, e in parte alla stupenda grazia del vivere: in sintesi, un canto purificatore di chi non desidera cedere. Sulla punta della sediaxiv Sulla punta della sedia dondolo piano in una vertigine che sfiora la fine di tutto Una sfida sottile con la gravità del fato un gioco raffinato da equilibrista Presente alla catastrofe ma completamente assente aspetto paziente di vedere dove cade questo niente. i Vedi Io non scrivo poesie, le immagino soltanto, di E. Chiesa, ed. il Filo, Roma, 2009. Cit. op. p. 13 iii ibidem iv Cit. op. p. 13: «In pratica ho inventato, o forse solo applicato per la prima volta all’animazione, lo “scioglimento pittorico di pixel” (MeltingPixels)». v Cit. op. p.16 vi Cit. op. p. 46 vii Cit. op. p. 18 viii Cit. op. p. 19 ix Cit. op. p 31 x Cit. op. p.45 xi Cit. op. p. 43 xii Cit. op. p. 38 xiii Cit. op. p. 37 xiv Cit. op. p. 26 ii