a2 cfu tae articolo eccellenze aa e sfide mii 2015

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a2 cfu tae articolo eccellenze aa e sfide mii 2015
PREPRINT AD USO ESCLUSIVAMENTE DIDATTICO-NON CITARE SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE
L’ARTICOLO USCIRA’ NEL NUMERO “CIBO E ALIMENTAZIONE” DI SETTEMBRE 2015 DELLA RIVISTA SCIENZA E SOCIETA’ ,
PUBBLICAZIONE SEMESTRALE DEL CENTRO PRISTEM DELL’UNIVERSITA’ BOCCONI
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LE ECCELLENZE AGROALIMENTARI DEL BELPAESE
e le prossime sfide del Made in Italy sui mercati globali
Anna Carbone1
Questo contributo offre alcune riflessioni sulle recenti tendenze della domanda di cibo e su come il sistema
agroalimentare italiano risponde a questa domanda.
L’attenzione si concentra sulla domanda di alimenti espressa da persone sazie e che possono
ragionevolmente contare di continuare ad esserlo nel futuro; ovvero, persone che non conoscono la
preoccupazione quotidiana di riempire la pancia, quella propria e quella dei propri figli. Infatti, a fronte di un
allarme crescente per la tragedia della fame e della capacità del pianeta di sfamare una umanità in crescita
esponenziale e con esigenze di consumo di beni di base anch’esse in espansione, il mondo conta oggi un
numero enorme e crescente di persone dai consumi opulenti e queste persone non si trovano solo nei paesi
relativamente più ricchi del mondo ma rappresentano fasce sociali sempre più ampie anche nei paesi a medio
reddito ed in crescita economica e, seppure in misura molto più limitata, nei paesi più poveri. La domanda di
cibo di cui parleremo, dunque, non è un fenomeno solo italiano o europeo ma è ben più ampio e trasversale.
Si tratta di una domanda sofisticata, in rapida e, talvolta, capricciosa evoluzione, che guarda a molti aspetti
dei prodotti e dei processi produttivi che li generano (Grunert, 2005) . Una domanda che si manifesta con
modalità molto lontane da quelle proprie di consumi di cosiddetta prima necessità, come tradizionalmente
veniva inquadrata nella teoria economica che ne derivava la conseguenza di una notevole stabilità, ovvero di
una elevata disponibilità a pagare, una scarsa reattività rispetto a riduzioni dei prezzo e/o a variazioni del
reddito.
Questa domanda cosi complessa - accanto ad aspetti più materiali e concreti: come quelli sensoriali,
nutrizionali e relativi alla salubrità dei cibi - è attenta ad altri caratteri che esercitano una notevolmente
importanza nel determinare le scelte di acquisto alimentare (Carbone, 2010). Tra questi, il cosidetto
contenuto “di servizio”, ovvero lavorazioni, trattamenti o tipi di confezionamento che rendono più facile
l’acquisto, la conservazione, la preparazione, il consumo dei cibi. Ma anche aspetti sostanzialmente
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Anna Carbone è professore associato all’Università della Tuscia, Viterbo, dove insegna Economia del Settore Agroalimentare ed
Economia ed Organizzazione dei Mercati agroalimentare ed enologico. I suoi interessi di ricerca si concentrano sull’evoluzion e della
domanda di alimenti tipici e di altaè qualità; sul funzionamento delle filiere agroalimentari ed in particolare su quelle inserite nel
sistema europeo di certificazione delll’origine geografica; sulla competitività internazionale dei prodotti del Made in Italy. Negli
ultimi anni si è dedicata in particolare al mercato vitivinicolo ed a quello oleario. Oltre alla pubblicazione di contributi scientifici
collabora alla produzione di analisi e rapporti settoriali con INEA, ISMEA ed ICE-ITA. È vicedirettore del Centro Ricerche
economiche e sociali Manlio Rossi-Doria presso l’Ateneo di RomaTre.
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immateriali che coinvolgono le sfere psicologica, culturale, morale, sociale, assieme ad aspetti che possono
essere definiti di edonismo e convivialità, in un elenco che probabilmente non esaurisce tutti gli aspetti che,
di volta in volta, possono rivelarsi importanti agli occhi dei consumatori, tanto è variegato il mercato. Proprio
come accade per il consumo di tutti gli altri tipi di beni. Gli esempi di quest’ultimo punto sono davvero
disparati, includendo le preoccupazioni per l’impatto ambientale della produzione di materie prime agricole e
della loro trasformazione, e, giù giù, fino a quello connesso al consumo dei beni ed allo smaltimento dei
residui. Ma si puó citare anche la curiosità per i cibi esotici, etnici e per le novità in generale, in quanto la
noia per i sapori noti e ricorrenti è un tratto comune ai consumatori sazi. O ancora: il desiderio di accostarsi a
tradizioni alimentari o gastronomiche diverse da quella di appartenenza è una delle forme che assume la
curiosità culturale di persone più istruite e più abituate a viaggiare ed a venire in contatto con mondi diversi
(Fischer, 2004).
Il moltiplicarsi dei bisogni e dei desideri che ci spingono a consumare beni alimentari, cosi’ come
l’ampliarsi delle inquietudini e delle preoccupazioni legate al cibo, si accompagna alla frammentazione della
domanda e degli stili di consumo. Questo, a sua volta, induce una segmentazione dei prodotti ma anche dei
mercati e dei canali commerciali. Un esempio efficace di questa galassia sempre più affollata è fornito dalla
crescita davvero esponenziale del numero di referenze offerte nei supermercati ed ipermercati le cui
dimensioni già pachidermiche sembrano non finire mai di crescere. Ma anche le tendenze evolutive degli
esercizi commerciali mostrano con chiarezza questa crescente varietà. Infatti, -dopo una fase di
semplificazione, orientata alla prevalenza assoluta delle grandi superfici della GDO (Grande Distribuzione
Organizzata)- la distribuzione commerciale oggi conta su di un ventaglio di canali che include gli spacci
aziendali ed i farmers’ markets; i negozi di vicinato aperti 24 ore 7 giorni alla settimana e le catene di
specialità alimentari; i GAS (Gruppi di Acquisto solidali) e l’e-commerce; le Superette (o Convenience
Store: piccoli supermercati nei centri cittadini) e le catene di consegna a domicilio di cibi Bio come di pasti
pronti per il consumo; e molto altro ancora. E sono pochi i consumatori fedeli ad uno stile di acquisto e di
consumo, nella società liquida, ciascuno nuota disinvoltamente e “laicamente” nel mare magno del
consumismo (anche) alimentare, passando dalle sobrie acque dell’ “ideologia” del Bio o del Commercio
Equo e solidale a quelle più opulente dell’alta gastronomia, del “fuori stagione” e dell’esotismo culinario.
Tutta questa varietà genera possibilità di scelta davvero enormi per i consumatori, ma in un certo senso, crea
anche confusione e disorientamento: è sempre meno facile per il consumatore orientarsi sui mercati e fare
scelte pienamente informate e che rispondano ad istanze precise e convinte (Verbeke, 2005). Dunque ai
produttori, ma anche al sistema normativo, è richiesto uno sforzo crescente per produrre informazioni di
quantità e affidabilità adeguate e corredare il funzionamento dei mercati con un sistema di controlli sempre
più esteso e complesso.
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Ad ogni modo, per il sistema agroalimentare italiano questa frammentazione dei mercati, questa ricerca di
varietà, di qualità, di eccellenza, di tradizione cosi’ come di novità, rappresentano una straordinaria
opportunità. È infatti ben noto che il nostro paese è in grado di offrire tutto ció grazie ad una felice
combinazione di varietà ambientale e socio-culturale che nel corso del tempo hanno sedimentato
biodiversità, processi e ricette in numero elevatissimo e dallo straordinario valore sensoriale. Tutto questo è
all’origine della altissima reputazione di cui gode nel mondo il Made in Italy agroalimentare.
Se a ció si aggiungono le considerazioni che seguono, si comprende ancor meglio quanto la sfida della
qualita’ sia importante per il sistema agroalimentare italiano. Questo, infatti, da un lato è caratterizzato da
una elevata frammentazione – le imprese sono piccole e piccolissime, quasi sempre dalle dimensioni
economiche tanto piccole da risultare poco efficienti – e dall’altro, da condizioni ambientali che
contribuiscono a limitare la produttività ma, in molti casi, enfatizzano la qualità dei processi produttivi. Si
tratta, quindi, di caratteristiche che impediscono di competere sul terreno della convenienza, tanto più nei
mercati globali e sostanzialmente liberalizzati, ai quali, come noto, hanno largo accesso sistemi produttivi
che godono di forti vantaggi competitivi rispetto al nostro, derivanti dal minor costo delle materie prime e/o
del lavoro e dalla realizzazione di economie di scala e di scopo legati alla maggiore concentrazione.
Dunque, produrre alimenti di alta qualità e venderli su mercati dove la disponibilità a pagare dei consumatori
è maggiore, rappresenta al tempo stesso una opportunità ma anche una via obbligata per l’Italia. È
opportuno, quindi, capire, in quali delle molte nicchie esistenti nei mercati agroalimentari di qualità le nostre
imprese sono collocate o si possano collocare e quali siano i loro punti di forza e gli eventuali svantaggi che
ne limitano l’accesso e la competitività.
Non è necessario soffermarsi in questa sede, su quali siano le punte di diamante dell’agroalimentare italiano
in termini merceologici; a tutti sono noti, infatti, i prodotti che compongono il Made in Italy che ha reso
famosa nel mondo l’enogastronomia del Belpaese: dalla pasta ai formaggi, dal vino ai salumi, dall’olio di
oliva alla pasticceria, dal caffè ai pomodori pelati, dall’aceto balsamico ai kiwi, la lista potrebbe davvero
allungarsi e ramificarsi a piacere. Le esportazioni italiane di prodotti agroalimentari nel mondo contano 3032 miliardi di Euro (valori medi degli utlimi 4 anni, con oscillazioni dovute alla naturale variabilità delle
produzioni agricole e dei prodotti da esse derivati), pari ad una quota dell’8-8,5% dell’export italiano
compessivo e ad una quota dell’40% del fatturato del settore (INEA, 2013). Un valore davvero elevato se si
pensa che l’Italia è caratterizzata da una strutturale carenza di risorse naturali (in primis di terra coltivabile)
idonee alla produzione di materie prime agricole. Di questi 30-32 miliardi,
circa i due terzi sono
rappresentati proprio dal Made in Italy con il vino in testa. Inoltre, la quota del Made in Italy è in crescita
grazie a tassi di espansione dell’export superiori alla media anche se non sempre in linea con il vivace ritmo
di crescita del commercio agroalimentare mondiale che negli ultimi 10 anni è più che raddoppiato.
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Ció che, invece, vale la pena di approfondire nel poco spazio a disposizione, è il ruolo assunto da una tra le
molte declinazioni possibili dell’eccellenza agroalimentare del Belpaese: la tipicità. Una caratteristica che si
trova, in un certo senso, a monte di molte altre che da essa discendono. Con il termine tipicità si intende il
carattere peculiare, e spesso esclusivo, di un alimento influenzato, ma spesso addirittura determinato,
dall’area geografica di provenienza. Come ricordato poco sopra, i territori dello Stivale –con la loro marcata
mutevolezza sia di ambienti naturali che di storia e civiltà – offrono una varietà di materie prime agricole e di
prodotti trasformati davvero ineguagliata per quantità e qualità. Dunque, l’agroalimentare italiano si
compone in larga parte di prodotti tipici dove la tipicità si declina di volta in volta su territori più o meno
circoscritti ma sempre dalle caratteristiche decisamente peculiari. È cosi che, ad esempio, il prosciutto di San
Daniele prende il nome da un territorio le cui condizioni ambientali rendono possibile la sua stagionatura
dagli esiti unici; o che l’aceto balsamico tradizionale di Modena viene fatto maturare in piccole botticelle che
la tradizione familiare emiliana ha tramandato nei secoli; o che i limoni di Sorrento vengono coltivati in
terrazze dal valore paesagistico unico al mondo e che contribuiscono a creare un microclima che li rende
unici; o ancora che il caciocavallo Silano si ottiene dal latte delle vacche Podoliche - che resistono
nell’Appennino dell’Italia meridionale grazie alla pazienza ed al sacrificio degli allevatori di quell’area- che
per loro natura e per il tipo di alimentazione rendono cosi particolare il sapore del formaggio. In tutti questi
casi il territorio regala al prodotto anche qualcosa in più: il nome. Infatti, attraverso il nome del territorio da
cui origina, il prodotto si rende riconoscibile e comunica al consumatore l’essenza stessa della sua natura,
della sua qualità; gli comunica la sua unicità (Josling, 2006).
La relazione tra cibo e territorio è virtuosa da più di un punto di vista. Innanzitutto, se il territorio di origine
conferisce ai suoi prodotti il loro carattere unico e gli consente di comunicarlo attraverso l’uso del suo nome,
dal canto suo il prodotto, diventa ambasciatore del territorio, portando il suo nome su tutti i mercati dove
riesce a giungere ed affermarsi. E nella misura in cui si afferma, puó contribuire a realizzare un circolo
virtuoso, attivando l’economia locale, sia in via diretta, per la produzione che corrisponde alla domanda del
prodotto tipico, che in via indiretta, se si genera un flusso di presenze a seguito della maggiore notorietà dei
luoghi, Naturalmente, in molti territori italiani (se non in quasi tutti), questo potenziale sinergico è
accresciuto da un patrimonio paesaggistico e culturale straordinario e capillarmente diffuso.
Un altro elemento, spesso citato, di questo connubio virtuoso tra cibo e territorio, sta nelle virtù ambientali
dell’agricoltura e dell’industria di trasformazione dei prodotti tipici. Si tratta, infatti, spesso, di produzioni
che utilizzano specie e varietà “antiche”, che sono rimaste escluse durante il processo di industrializzazione e
modernizzazione dell’agricoltura avvenuto grosso modo negli anni ‘60-‘80 e che rischiano l’estinzione a
detrimento della biodiversità, patrimonio del mondo e delle generazioni future, senza la quale la forza
creatrice dell’evoluzione non potrebbe esistere. Inoltre, si tratta di prodotti a carattere artigianale che
utilizzano in modo estensivo le risorse naturali e che consentono di evitare l’abbandono anche di terreni poco
produttivi che non sarebbe remunerativo utilizzare per produzioni più standardizzate. Infatti, i prodotti tipici
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sono generalmente prodotti per i quali la trasformazione avviene o nelle stesse aziende agricole o in piccole
strutture dal carattere artigianale e tradizionale, a forte radicamento territoriale.
Le politiche agricole e di sviluppo rurale dell’Unione Europea hanno dato e danno un certo spazio e molta
enfasi a tutti questi aspetti fin da quando, agli inizi degli anni ’90, è stato introdotto un sistema di protezione
delle indicazioni geografiche (Reg, CE 2081/92) comune a tutti gli Stati Membri (Carbone et al., 2014). Da
allora, l’interesse del pubblico e degli operatori per i prodotti tipici è senz’altro molto cresciuto, cosi’ come è
molto cresciuto il numero dei prodotti la cui origine è certificata ad uno dei due livelli ammessi dal
Regolamento2 . Oggi questi prodotti sono oltre 1200 (http://ec.europa.eu/agriculture/quality/door/) e l’Italia
vi contribuisce con 273 tra DOP e IGP (numero ufficiale di registrazioni al 18/5/2015).
Alcuni di questi prodotti sono notissimi in Italia e nel mondo. Alcuni erano noti ben prima che entrasse in
vigore la normativa europea. Altri, nel corso degli ultimi venti anni, sono riusciti a farsi largo, per cosi’ dire,
non solo nel mercato italiano, ma anche nell’arena sempre più vasta e competitiva dei mercati agroalimentari
internazionali.
Molte altre DOP ed IGP registrate da anni, tuttavia, non riescono a portare prodotto certificato sul mercato e
restano praticamente lettera morta. Non si tratta di eccezioni ma della quota di gran lunga prevalente della
lista dei 273 prodotti registrati, dei quali i primi 20 in ordine di fatturato, rappresentano circa il 90% del giro
d’affari complessivo delle DOP/IGP italiane. Si tratta perlopiù di certificazioni scaturite dalla volontà di
politici ed amministratori dove è mancata una analisi di mercato che indicasse le condizioni della domanda e
dell’offerta favorevoli all’inserimento del prodotto sul mercato. Solitamente, inoltre, si tratta di prodotti che
fanno capo ad imprese troppo piccole per riuscire ad andare oltre i limiti del mercato locale, ovvero laddove
la certificazione dell’origine potrebbe esercitare il suo ruolo informativo e di garanzia e quindi portare valore
al territorio (Carbone, 1997).
Inoltre, non tutti i prodotti che arrivano effettivamente sui mercati come DOP/IGP rispecchiano davvero e
pienamente quelle caratteristiche di tradizionalità e legame con il territorio che si è prima ricordato e che è
proprio dello spirito della normativa, in modo chiaro ed esplicito. Si pensi, a titolo di esempio, a prodotti
oramai relativamente strandardizzati come il Parmigiano Reggiano DOP ed il Grana Padano DOP o il
Pecorino Romano DOP, per il quale, peraltro il nome indicherebbe un territorio di provenienza che è ben
lontano e diverso da quello effettivo (attualmente si produce per oltre il 95% in Sardegna) (Carbone, 2003), il
prosciutto di Parma e quello di San Daniele DOP (prodotti con cosce di suino che provengono,
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Si tratta delle DOP (Denominazioni di Origine Protette) e delle IGP (Indicazioni Geografiche Protette). In estrema sintesi: l e prime
rappresentano il livello più alto della relazione tra prodotto e territorio, con il vincolo per ogni fase del processo produttivo di essere
realizzata nel territorio stesso; viceversa, le seconde prevedono una relazione meno stretta tra prodotto e territorio, includendo la
possibilità che una o più fasi avvenagno al di fuori di esso. Si noti bene che solo recentemente ( Reg. 1051/12) anche il comparto dei
vini è stato incluso all’interno di questo schema unificato al quale si potranno adeguare gradualmente e volontariamente i signoli
paesi che fino ad oggi hanno certificato l’origine territoriale dei propri vini secondo schemi propri e notevolmente differenziati.
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rispettivamente, da 11e 10, regioni italiane) o la Mortadella di Bologna IGP. Prodotti che, al di là della loro
indubbia qualità e valenza commerciale, difficilmente possono essere considerati artigianali o di nicchia o
frutto di processi produttivi non intensivi. In alcuni di questi casi ed in altri ancora, il legame tra l’industria di
trasformazione e la componente agricola locale della filiera di produzione è molto labile o assente e gli
approvvigionamenti di materia prima avvengono a scala globale con criteri ed incentivi non dissimili da
quelli usati per i prodotti di massa di carattere schiettamente industriale. In altri casi ancora, la governance
dell’intera filiera è in mano a grandi industrie a carattere ormai multinazionale o alla GDO (è il caso per
certi versi della Mozzarella di Bufala Campana). Queste, forti del proprio ruolo dominante, riescono a
modificare le rigide regole produttive e gestionali previste dai disciplinari di questi prodotti in base ad
esigenze commerciali che possono contrastare con la natura artigianale e tradizionale del prodotto. Con il
risultato di generare una forte confusione su quale sia la “vera” natura del prodotto che arriva sui mercati con
la certificazione DOP/IGP e di creare una concorrenza che puó spiazzare i produttori più piccoli e più
radicati sul territorio ma meno visibili sui mercati al di fuori dalla sfera strettamente locale. Proprio quella
tipologia di produttori che il Regolamento europeo vorrebbe raffozare sui mercati.
Infine, come è ben noto, la piaga dell’Italian Sounding - ovvero l’immissione sul mercato di prodotti che non
essendo italiani evocano falsamente una origine italiana come, ad esempio, il Parmesan o il Parmigianito, o
anche prodotti con nomi del tutto di fantasia ma insierti in una bandiera tricolore o che includono nel Brand
nomi di localita’ italiane famose - non solo toglie enormi fette del mercato ai prodotti genuinamente italiani;
ma ben più subdolamente, inquinando il mercato di prodotti che sembrano italiani ma non lo sono, mina la
reputazione dei prodotti autentici e di effettiva elevata qualità e dal genuino radicamento con i territori dai
quali dichiarano di provenire (Canali, 2012).
Tutto questo costituisce un complesso di elementi di debolezza e sfida alla posizione che il Made in Italy ha
saputo nel tempo conquistarsi su molti mercati internazionali. La sfida puó e deve essere colta. Non è certo
questa la sede per una discussione degli ingredienti che auspicabilmente una politica di tutela delle
eccellenze agroalimentari dei nostri territori dovrebbe includere, tuttavia, si puó certo chiudere questa breve
riflessione delineando la natura di due ingredienti necessari di intervento efficiace. Si tratta innanzitutto di
abbandonare la visione un poco ingenua secondo cui i prodotti tipici sono essenzialmente prodotti agricoli,
ignorando la dimensione di filiera come l’entità rilevante dal punto di vista della gestione dei processi e della
valorizzazione commerciale di questi prodotti. I policy makers europei sembrano iniziare a mostrare una
certa consapevolezza in questo senso ma occorre fare presto molto di più ed in termini più decisi. In secondo
luogo, occorre anche coraggiosamente, prendere atto che allo stato attuale nel sistema delle denominazioni di
origine convivono realtà commerciali troppo differenti per dimensioni e natura e che ció finisce per rendere
il sistema stesso poco funzionale ad entrambe, probabilmente con svantaggio soprattutto per le DOP/IGP più
piccole e più radicate sul territorio (Rama, 2010). Un paradosso, se si pensa che questa è la natura più vera
della tipicità e che la protezione di questi prodotti e dei loro produttori è il primo obbiettivo della normativa
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europea. Un ripensamento del sistema con una sua probabile maggiore articolazione interna si rende, quindi
necessario.
Canali G., 2012, Falso Made in Italy e italian sounding: le implicazioni per il commercio agroalimentare, in
Il commercio agroalimentare italiano: luci e ombre di una storia di successo, a cura di F. De Filippis, Tellus
Roma, 181-198, (scaricabile da http://www.gruppo2013.it/quaderni/Pagine/default.aspx)
Carbone A., 1997, Problems with 'Shared Brand Names' for the Food Sector, in G.Schiefer e R.Helbig (a
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Carbone A., 2003, Le denominazioni di origine tra legislazione e mercato: il caso del Pecorino Romano”,
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Carbone A., 2010, La qualità alimentare è un caleidoscopio, in Qualità, sicurezza e controllo dei prodotti
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http://dspace.inea.it/handle/inea/821)
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(scaricabile
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Agriregionieuropa n.6/20 (scaricabile da http://agriregionieuropa.univpm.it/)
Verbeke W., 2005. Agriculture and the Food Industry in the Information Age, European Review of
Agriculture Economics 32, 347-368
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