Cassazione: l`abbandono del posto di lavoro senza che

Transcript

Cassazione: l`abbandono del posto di lavoro senza che
Cassazione: l'abbandono del posto di lavoro senza che siano state
concesse le ferie legittima il licenziamento
di Marco Massavelli - Corte di Cassazione Civile, sezione Lavoro, sentenza n. 22869 del 8
ottobre 2013. Non può trovare accoglimento la domanda inefficacia del licenziamento e il
conseguente risarcimento dei danni, se il dipendente straniero ha abbandonato il posto di lavoro
per recarsi nel proprio Paese d'origine, senza la concessione delle ferie da parte dell'azienda.
E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza 8 ottobre 2013, n.
22869.
Il datore di lavoro aveva escluso, in sede di giudizio di merito, di aver concesso un periodo di ferie
al lavoratore e aveva precisato che in caso di attribuzione delle ferie, veniva consegnata al
lavoratore una lettera scritta ai fini doganali: a seguito dell'iniziativa del lavoratore di allontanarsi
volontariamente dal luogo di lavoro è scattata l'estinzione del rapporto di lavoro. La Suprema Corte
chiarisce che nel caso di specie le dichiarazioni rese dai testi e da legale rappresentante della
società in sede di interrogatorio libero comprovano che fu il lavoratore spontaneamente a
lasciare il luogo di lavoro e che non risponde al vero che gli fu concesso un periodo di ferie. Le
dichiarazioni rese dai testi unitamente ad altri elementi come la mancanza di documentazione
doganale per prassi predisposta per i lavoratori che rientrano nel paese di origine per ferie hanno
condotto la Corte territoriale ad escludere che al lavoratore fossero state concesse le ferie e a
stabilire che il posto di lavoro era in realtà stato spontaneamente abbandonato dal lavoratore.
La prova di un licenziamento "orale" dedotto dal ricorrente non è stata offerta, mentre le
dichiarazioni rese dai testi e quelle del legale rappresentante conducono unitamente ad altri
elementi, a ritenere, cioè che sia stato il lavoratore ad abbandonare spontaneamente il luogo di
lavoro. Infine, la mancanza di una documentazione doganale è da ritenersi elemento comprovante
la mancata fruizione nel periodo di assenza dal lavoro delle ferie che peraltro non risultano, dalle
risultanze istruttorie, in alcun modo richieste.
Vai al testo della sentenza 22869/2013
Cassazione: sanzioni civili applicabili al datore per il ritardato
pagamento dei contributi tra il licenziamento illegittimo e la reintegra
"Il ritardo nel pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali, relativi al periodo di tempo
intercorso tra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro,
comporta l'applicazione delle sanzioni civili previste dai commi 8° e 9° dell'art. 116 della legge
388 del 2000".
Questo il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 23181 dell'11
ottobre 2013, ha accolto il ricorso dell'Inps cassando con rinvio la sentenza dei giudici di merito i
quali avevano negato che il datore di lavoro dovesse anche versare le sanzioni civili per il ritardo
nella corresponsione dei contributi.
La Suprema Corte ha precisato che l'art. 18 st. lav., in caso di accertamento della illegittimità
del licenziamento, prevede, fra l'altro, la condanna del datore di lavoro "al versamento dei
contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento della
effettiva reintegrazione".
"Da tale previsione e, più in generale, dalla efficacia retroattiva della condanna prevista dall'art. 18
st. lav., la consolidata giurisprudenza di questa S.C ha desunto che, nel periodo di tempo tra il
licenziamento illegittimo e la reintegrazione, il rapporto previdenziale continua."
La sentenza delle Sezioni unite già richiamata (n. 15143 del 2007) - precisano i giudici di legittimità
- ha infatti affermato, riallacciandosi ad alcune affermazioni della Corte Costituzionale (sentenza n.
7 del 1986), che in tale periodo il rapporto di lavoro è quiescente ma non estinto e rimangono
in vita il rapporto assicurativo previdenziale ed il corrispondente obbligo del datore di lavoro di
versare all'ente previdenziale i contributi assicurativi per tutta la durata di tale periodo.
Questa ricostruzione conferma che il mancato versamento dei contributi implica un ritardo
nell'adempimento, distinto problema è quello della possibilità di considerare giustificato il ritardo.
Possibilità che deve essere esclusa in quanto il pagamento tardivo è determinato da un atto
illegittimo, che quindi è intrinsecamente inidoneo ad assurgere a causa di giustificazione.
Cassazione: Lavoratore lento? Giusto il licenziamento
di Temistocle Marasco - La lentezza nell'attività lavorativa e l'insubordinazione legittimano il
licenziamento del lavoratore: tale comportamento, infatti, interrompe il vincolo fiduciario con il
datore di lavoro. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con una recente sentenza [1].
La Suprema Corte ha così ritenuto legittima la cessazione del rapporto di lavoro, dovuta alle
manchevolezze del lavoratore, alla scarsa efficienza e affidabilità, in quanto idonei a
compromettere il rapporto fiduciario tra le parti. Nel caso di specie, l'attività del dipendente era
caratterizzata dalla lentezza nell'assolvere i compiti assegnatigli, frequenti irreperibilità, rifiuto di
usare il computer, incapacità di lavorare in gruppo, inosservanza della sanzioni disciplinari
ricevute.
Si è sempre discusso sulla legittimità del licenziamento per scarso rendimento, in quanto non
sempre è facile stabilire se la insufficiente produttività del dipendente sia dovuta alla mancanza di
impegno oppure a fattori contingenti, che vanno al di là delle singole capacità.
In linea generale, ciascuna prestazione lavorativa deve essere eseguita con la professionalità e la
diligenza richieste dal tipo di attività svolta.
Per dimostrare le manchevolezze del dipendente, è necessario individuare dei parametri in merito
alla prestazione che il datore di lavoro può legittimamente esigere. Ciò è possibile tramite l'analisi
delle prestazioni medie dei lavoratori adibiti alle medesime mansioni [2]: attraverso questa
valutazione, si può dimostrare, in via presuntiva, la negligenza del lavoratore, risultante dalla
sproporzione tra gli obiettivi fissati nei programmi di produzione e quelli effettivamente raggiunti.
Temistocle Marasco
[1] Cass. Sent. n. 23172 dell'11.10.2013.
[2] Cass. Sent. n. 6747 del 3.05.2003.
Cassazione: illegittimo il licenziamento del lavoratore in malattia che
svolge attività lavorativa occasionale altrove
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 23365 del 15 ottobre 2013, ha affermato l'illegittimità
del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore per avere esercitato attività lavorativa
mentre si trovava in malattia, se l'attività è del tutto saltuaria e compatibile con la malattia
sofferta e quindi non sia pregiudicato in alcun modo il recupero delle normali attività lavorative.
Nel caso di specie era emerso che il lavoratore era andato nell'Agenzia immobiliare di un proprio
congiunto per soli tre giorni svolgendo prestazioni varie e non per tutto il tempo dell'apertura e la
Corte territoriale aveva verificato che la condotta addebitata era caratterizzata da occasionalità
e sporadicità sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo e si doveva escludere che fosse
stata espletata una attività qualificabile come di tipo "lavorativo".
Inoltre alla luce di tali risultanze istruttorie, il giudice di merito affermava che "i canoni di
correttezza e buona fede non fossero stati violati in quanto lo stato di malattia era indubitabile e le
marginali attività espletate non avrebbero, in realtà, potuto rendere più difficile il processo di
guarigione, anzi poteva affermarsi che tali attività potevano avere un'incidenza funzionale e
positiva per la stessa guarigione."
La Suprema Corte, rigettando il ricorso dell'Azienda datrice di lavoro, ha precisato, seguendo
l'orientamento della Corte d'Appello, che era emersa solo un'attività sporadica ed occasionale e
non durante l'intero orario di apertura dell'Agenzia da parte dell'intimato, non assimilabile ad una
prestazione lavorativa e certamente poco impegnativa dal punto di vista fisico e psichico che, anzi,
non solo - stante la sua dimensione qualitativa e quantitativa - era del tutto compatibile con la
malattia sofferta, ma addirittura poteva dirsi funzionale ad una più pronta guarigione.
La motivazione - concludono i giudici di legittimità - appare congrua e logicamente coerente e
strettamente ancorata alle risultanze probatorie; la Corte territoriale ha esaurientemente motivato
in ordine alla mancanza di un pericolo che l'attività contestata, cosi come emersa in base alle
prove, potesse pregiudicare o rallentare il processo di guarigione.
Cassazione: responsabilità penale del datore di lavoro che non esibisce
la documentazione richiesta dall'Ispettore del lavoro
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 42334 del 15 ottobre 2013, ha affermato la penale
responsabilità, per il reato di cui all'art. 4 della legge n. 628 del 1961, di un datore di lavoro (nella
sua qualità di presidente di una cooperativa) per non avere fornito all'Ispettorato del lavoro la
documentazione relativa al rapporto di lavoro dei dipendenti, benché sollecitata.
La difesa dell'imputato sosteneva che "la norma in questione non sanziona qualsiasi
inottemperanza del datore di lavoro a prescrizioni o richieste dell'Ispettorato del lavoro, ma soltanto
le condotte di coloro che, legalmente richiesti, non forniscano le notizie richieste o le forniscano
scientemente errate o incomplete.
Da tale fattispecie deve ritenersi esclusa - prosegue la difesa - l'omessa esibizione della
documentazione eventualmente richiesta dall'ispettore del lavoro, le cui facoltà di richiedere
l'esibizione di documenti con sanzioni per il relativo rifiuto sono collegate esclusivamente alle
indagini di polizia amministrativa previste dall'art. 8 del d.P.R. n. 520 del 1995, senza possibilità di
estensione alle generali attività di vigilanza affidate agli ispettori del lavoro dell'art. 4 della legge n.
628 del 1961.".
Non è dello stesso parere la Suprema Corte che, ritenendo il ricorso inammissibile perché basato
su un motivo manifestamente infondato, ha precisato che "l'art. 4, ultimo comma, della legge n,
628 del 1961 punisce «coloro che, legalmente richiesti dall'Ispettorato di fornire notizie a norma del
presente articolo, non le forniscano o le diano scientemente errate od incomplete». Si tratta secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte - delle richieste di notizie concernenti
violazioni delle leggi sui rapporti di lavoro, sulle assicurazioni sociali, sulla prevenzione e l'igiene
del lavoro, che assumono valore strumentale rispetto alla funzione istituzionale di controllo
esercitata dall'Ispettorato del lavoro. Si è più volte specificato, inoltre, che il reato in questione si
configura, non soltanto nel caso di richiesta di semplici notizie, ma anche nell'ipotesi di omessa
esibizione della documentazione che consenta all'Ispettorato del lavoro la vigilanza del 1955."
Tali principi - si legge nella sentenza dei giudici di legittimità - sono stati correttamente applicati
dalla Corte d'appello, perché essa ha preso le mosse dal risultati dell’istruttoria, da cui si evince
che la documentazione richiesta all'imputato era quella necessaria per l’espletamento dei compiti
istituzionali dell’Ispettorato definiti dal richiamato art. 4 della legge n. 628 del 1961 e, in particolare,
della verifica della sussistenza di irregolarità nelle assunzioni dei dipendenti.
Cassazione: cessione del ramo d'azienda e limiti di sindacabilità della
sentenza d'appello
di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza n. 23357 del 15 Ottobre
2013. E' illegittimo il licenziamento del dipendente intervenuto a seguito di cessione del ramo
d'azienda se il lavoratore, di fatto, viene comunque mantenuto in forze nello stesso reparto ceduto
e se lo stesso reparto, prima della cessione, ha subito un mutamento ad hoc che di fatto non ha
mutato l'assetto organizzativo ma ne ha solo cambiato la denominazione; a maggior ragione se il
dipendente, prima che fosse perfezionata l'operazione, ha espresso il proprio dissenso circa la
stessa cessione.
Il lavoratore ha impugnato il licenziamento, ottenendo dal giudice di primo e secondo grado
la reintegrazione in azienda nonché il risarcimento del danno per il torto subito. La Suprema Corte
rigetta il ricorso proposto dall'azienda, limitandosi a confermare la logicità della
motivazioneredatta dal giudice d'appello: la Cassazione è infatti giudice di legittimità e non ha
potere di sindacare il merito delle scelte effettuate dal giudice di secondo grado nel pronunciare la
sentenza impugnata, se non nei limiti di cui all'art. 360 c.p.c. Il ricorso in Cassazione è infatti c.d. "a
critica vincolata" e la Suprema Corte ha soltanto il potere di sindacare laddove ravvisi, al limite,
carenza o contraddittorietà di motivazione dovuta ad erronea interpretazione ed applicazione di
norme giuridiche. Circostanza che, nel caso in oggetto, non si è verificata.
Vai al testo della sentenza 23357/2013
Cassazione: l'architetto che non rispetta la normativa urbanistica deve
risarcire il danno al committente
di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione seconda, sentenza n. 23342 del 15
Ottobre 2013. E' dovere dell'architetto, ai fini dell'adempimento a regola d'arte, tener conto nella
propria opera sia della conformità alle regole tecniche che della compatibilità con le regole
giuridiche. Ciò poiché, in caso contrario, potrebbe essere compromessa la possibilità per il
costruttore di ottenere i relativi titoli amministrativi necessari ad eseguire i lavori (nella specie, il
permesso di costruire).
Nel caso in oggetto, proprio a tale omissione è conseguito il diniego della pubblica
amministrazione al rilascio degli opportuni provvedimenti, non avendo il progetto edilizio tenuto
conto della vigente normativa antisismica.
Nonostante il rigetto nei precedenti gradi di giudizio, la Suprema Corte ha confermato che tale
comportamento, addebitabile al progettista, costituisce senza dubbio colpa grave ed è quindi
sicuramente fonte di responsabilità nei confronti del committente, il quale ha dovuto
necessariamente ritardare l'inizio dei lavori. Ha errato il giudice del merito nell'affermare
che "l'assunzione della direzione dei lavori da parte del professionista comprendeva ogni attività
necessaria ad assicurare la realizzazione dell'opera, mentre per gli adempimenti di ordine
burocratico l'adozione degli atti necessari rimaneva riservata alla committente proprietaria". Infatti,
senza dover necessariamente qualificare la prestazione come di mezzi oppure di risultato,
conferma la Cassazione che "il progettista deve assicurare la conformità del progetto alla
normativa urbanistica ed individuare in termini corretti la procedura amministrativa da utilizzare,
così da assicurare la preventiva e corretta soluzione dei problemi che precedono e condizionano la
realizzazione dell'opera richiesta dal committente".
Vai al testo della sentenza 23342/2013
Cassazione: se l'immobile assegnato è in comodato l'affidatario del
minore è comunque tenuto al suo rilascio
di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione sesta, ordinanza n. 23567 del 16 Ottobre
2013. Sul caso in oggetto si pronuncia direttamente, con ordinanza, la sesta sezione della
Suprema Corte, nominata "sezione filtro" proprio perchè preposta - nel caso fossero integrati i
requisiti di legge - alla rapida risoluzione della controversia per manifesta o non manifesta
fondatezza della questione.
Nel caso di specie, a seguito di intimazione di rilascio di immobile concesso ad uso comodato, la
resistente (coniuge separato assegnatario della casa familiare ottenuta in comodato) ha eccepito
la necessità che tale comodato, al contrario, a seguito di assegnazione, avrebbe
dovutoprotrarsi per tutto il tempo necessario a soddisfare le esigenze familiari sue e del minore
a suo carico.
Respinta la domanda in primo e in secondo grado, la soccombente ha dunque esperito ricorso in
Cassazione. La Suprema Corte ha tuttavia avallato la soluzione già adottata dal giudice del merito,
sottolineando che "quando il bene immobile oggetto di comodato sia stato destinato ad abitazione
della famiglia, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa ad uno dei coniugi resta
regolato dalla disciplina del comodato, negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della
comunità domestica, nella fase fisiologica della vita matrimoniale". "Di conseguenza, ove il
comodato sia stato concluso senza determinazione di durata, ai sensi dell'art. 1810 cod. civ., il
coniuge assegnatario è tenuto, quale comodatario, a restituire il bene non appena il comodante lo
chieda". A maggior ragione se, come nel caso in oggetto, il comodante non è una persona fisica
(ad esempio, genitore o parente dell'ex coniuge) ma una società. Il ricorso è dunque rigettato
poiché la questione in oggetto è già a suo tempo stata risolta da altre pronunce della Suprema
Corte, né il ricorso presentato ha fornito ipotesi giuridiche di modifica del consolidato orientamento.
Vai al testo della sentenza 23567/2013
Pedone cade nel tombino per negligenza: si verifica un'ipotesi di caso
fortuito che libera il custode dalla responsabilità di cui all'art. 2051 c.c.
di Luigi Del Giudice - La cassazione con ordinanza 22684/2013 precisa che circa la
responsabilità civile per i danni cagionati da cose in custodia, con riferimento alla fattispecie di cui
all'art. 2051 c.c., il consolidato orientamento della stessa Suprema Corte, individua un'ipotesi di
responsabilità oggettiva, essendo sufficiente per l'applicazione della stessa la sussistenza del
rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all'evento lesivo. Pertanto non
assume rilievo in sé la violazione dell'obbligo di custodire la cosa da parte del custode, la cui
responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non ad un comportamento del
responsabile, ma al profilo causale dell'evento, riconducibile in tal caso non alla cosa che ne è
fonte immediata ma ad un elemento esterno.
Ne consegue, l'inversione dell'onere della prova in ordine al nesso causale, incombendo
comunque sull'attore la prova del nesso eziologico tra la cosa e l'evento lesivo e sul convenuto la
prova del caso fortuito. Sia l'accertamento in ordine alla sussistenza della responsabilità oggettiva
che quello in ordine all'intervento del caso fortuito che lo esclude involgono valutazioni riservate al
giudice del merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da
motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 6753/2004).
L'attore che agisce per il riconoscimento del danno ha, quindi, l'onere di provare l'esistenza
del rapporto eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, mentre il custode convenuto, per
liberarsi dalla sua responsabilità, deve provare l'esistenza di un fattore estraneo alla sua
sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale (Cass. n. 858/2008; 8005/2010;
5910/11, ord., secondo cui la norma dell'art. 2051 cod. civ., che stabilisce il principio della
responsabilità per le cose in custodia, non dispensa il danneggiato dall'onere di provare il nesso
causale tra queste ultime e il danno, ossia di dimostrare che l'evento si è prodotto come
conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa).
La sentenza impugnata, ha invece congruamente spiegato le ragioni della propria decisione,
facendo corretta applicazione dei principi sopra enunciati.
Correttamente ha ritenuto non provato il nesso eziologico tra la cosa in custodia (tombino) e la
caduta della ricorrente, ascrivendo questa a sua negligenza, non risultando tra le altre cose,
nemmeno chiarita la condizione di lesività posseduta dal tombino in oggetto. In altri termini: la
responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia presuppone la
sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa
stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano
insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa; detta norma non esonera il danneggiato
dall'onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l'evento
si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva,
posseduta dalla cosa mentre resta a carico del custode offrire la prova contraria alla presunzione
iuris tantum della sua responsabilità mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del
fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di
imprevedibilità e di assoluta eccezionalità costituisce caso fortuito anche la riferibilità dell'evento a
una condotta colposa dello stesso danneggiato (Cass., 17 gennaio 2008, n. 858, cit.) e nella
specie è stato escluso un nesso causale tra la cosa in custodia e il sinistro occorso alla ricorrente;
Senza contare che il caso fortuito cui fa riferimento l'art. 2051 c.c. deve intendersi nel senso più
ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato (Cass. 19 febbraio
2008 n. 4279).
Deve ribadirsi -infatti - che nel caso in cui l'evento di danno sia da ascrivere esclusivamente alla
condotta del danneggiato, la quale abbia interrotto il nesso causale tra la cosa in custodia e il
danno, si verifica un'ipotesi di caso fortuito che libera il custode dalla responsabilità di cui all'art.
2051 c.c. (Cass. 19 febbraio 2008 n. 4279, cit.; v. anche Cass. n. 21727/2012).
Cassazione: Non è incompatibile la professione forense con la titolarità
di un distributore di carburanti
di Marco Massavelli - Corte di Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza n. 23536 del 16
ottobre 2013.
Deve escludersi che si possa configurare una incompatibilità con la professione forense con
la mera titolarità di una concessione economica come quella per la distribuzione di carburanti,
laddove l'impianto sia poi gestito da terzi, dal momento che (l'avvocato titolare) non è investito
di alcun potere di gestione dell'impresa né di rappresentanza: ne consegue che non si può
negare all'interessato l'iscrizione alla cassa forense.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza 16 ottobre 2013, n. 23536.
Il giudice di merito evidenzia come l'articolo 3, regio decreto legge 1578/1933, distingue
espressamente casi di incompatibilità con la professione di avvocato collegati all'esercizio di
attività, quali il commercio in nome proprio o altrui, da altri collegati, invece, all'assunzione di una
determinata qualità; inoltre, essendo documentalmente provato che la sola titolarità della
concessione faceva capo all'interessato, in quanto l'attività di gestione degli impianti era
affidata a terzi, non sussiste alcuna incompatibilità, stante la prevista scissione tra titolarità ed
esercizio della concessione da parte dell'articolo 16, decreto legge 745/70. La Corte di Cassazione
sottolinea ulteriormente che l'incompatibilità dell'esercizio della professione forense di cui
all'articolo 3, regio decreto legge 1578/1933, che preclude, ex articolo 2, comma 3 ,legge 319/75,
sia l'iscrizione alla Cassa, sia la considerazione ai fini del conseguimento di qualsiasi trattamento
previdenziale forense del periodo di tempo in cui l'attività incompatibile sia svolta, è quella con
l'esercizio del commercio in nome proprio o in nome altrui. La mera titolarità della concessione per
impianti di carburanti non è ostativa all'esercizio della professione forense.
Vai al testo della sentenza 23536/2013