Cacciare il coniuge da casa è reato. Si tratta di violenza

Transcript

Cacciare il coniuge da casa è reato. Si tratta di violenza
Cassazione: Cacciare il coniuge da casa è reato. Si tratta di
violenza privata
Avv. Barbara Pirelli - "Vattene via!!! Tu qui non entri più!" Parole semplici da dire quando si litiga
con il proprio partner. Ma cacciare il coniuge da casa configura il reato di violenza privata. Parola
di Cassazione.
"Siamo due cuori affetti dallo stesso male. Non c'è niente da dire,niente più da fare. Portati via le
tue valigie, il tuo sedere tondo, i tuoi caffè..."
Questo brano di Mina rappresenta molto bene i livori e le ruggini che si creano nelle coppie che
non si amano più che sanno solo detestarsi e farsi del male.
Quando la convivenza diventa insopportabile spesso si commette l'errore di cacciare il coniuge
da casa ma un simile atteggiamento configura il reato di violenza privata; lo ha stabilito la Corte di
Cassazione con la sentenza n. 40383/ 2012.
Ai sensi dell'art. 610 c.p. commette violenza privata: Chiunque, con violenza o minaccia
,costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro
anni.
La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall'articolo 339 c.p.
Il caso specifico ha ad oggetto un burrascoso rapporto di coppia che ha comportato al marito
una condanna per i reati di violenza privata, lesioni personali, danneggiamento e ingiuria ai
danni della moglie.
In buona sostanza la moglie, in seguito ai continui litigi con il marito, aveva momentaneamente
deciso di trasferirsi dai propri genitori per riappropriarsi di una certa tranquillità. Dopo un po' di
tempo decideva di fare ritorno presso l'abitazione coniugale ma ,una volta ritornata sul posto,
incontrava l'ostilità del marito il quale la cacciava di casa e ,in seguito alla discussione che ne era
sorta, rompeva degli oggetti che erano in comunione dei beni e sferrava una manata sul naso per
impedirle di chiamarme i carabinieri.
L'uomo in sede di giudizio si difendeva affermando che, al momento del fatto, la moglie era tornata
a vivere dai suoi genitori e, pertanto, la casa familiare era «in uso» soltanto a lui.
La Corte d'Appello di Palermo,considerata la grave condotta posta in essere
dall' uomo, lo riteneva responsabile di violenza privata, lesioni personali, danneggiamento e
ingiuria ai danni della moglie.
Il reato di violenza privata gli veniva contestato proprio per aver mandato via di casa la donna.
La Suprema Corte rigettava poi il ricorso proposto dal marito chiarendo che:"la donna, anche se
temporaneamente trasferitasi presso i genitori, aveva il diritto di tornare, nè il marito poteva
escluderla
dalla
casa
coniugale non
essendovi "provvedimenti
di
assegnazione" dell'abitazione stabiliti dal giudice. Avv. Barbara Pirelli del Foro di Taranto
Via Mignogna n.2 / 74100 Taranto
Tel. e fax 099.4539733.
E.mail [email protected]
https://www.facebook.com/barbara.pirelli
https://www.facebook.com/page
Cassazione: non è valido il testamento olografo se la mano
del testatore è stata guidata
di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione sesta, ordinanza n 24882 del 6 Novembre
2013. Già soccombente sia in primo che in secondo grado di giudizio, l'interessato beneficiario del
lascito risultante da testamento olografo - cioè un particolare tipo di testamento che per legge
deve avere tre requisiti: l'olografia, cioè deve essere scritto di pugno dal de cuius; la data certa;
la sottoscrizione del de cuius - ricorre in Cassazione avverso la sentenza d'appello che
confermava l'invalidità dello stesso.
Dagli atti di causa (in particolare sia per stessa ammissione dell'interessato che a seguito di
esperimento di consulenza tecnica d'ufficio) era emerso che la redazione del testamento era stata
posta in essere grazie all'aiuto di un soggetto che materialmente aveva guidato la mano del
testatore. Ebbene, per i giudici di merito e per la Suprema Corte tanto era bastato per escludere
l'olografia del testamento. Tale orientamento è ormai consolidato; infatti, "in presenza di aiuto e di
guida della mano del testatore da parte di una terza persona, per la redazione di un testamento
olografo, tale intervento del terzo (...) si per sé escluda il requisito dell'olografia di detto
testamento, a nulla rilevando l'eventuale corrispondenza del contenuto della scheda alla volontà
del testatore". Sarebbe stato possibile "salvare" il testamento soltanto nel caso in cui l'aiuto non
avesse riguardato l'intero documento ma soltanto una parte precisa e limitata dello stesso (come,
ad esempio, la data).
Cassazione: valida la sentenza ecclesiastica di nullità del
matrimonio basata su 'fragilità emotiva' del coniuge
di Marco Massavelli - Corte di Cassazione Civile, sezione I, sentenza n. 24967 del 6 novembre
2013. Deve essere riconosciuta l'efficacia della decisione ecclesiastica basata sul rilievo che i
tratti della personalità del coniuge configurano una condizione psicoemotiva di fragilitàche
compromettono significativamente le sue facoltà intellettive-volitive, impedendogli di assumere e
realizzare gli obblighi essenziali del matrimonio. E' il principio di diritto stabilito dalla Corte di
Cassazione Civile, con la sentenza 6 novembre 2013, n. 24967.
Il caso in oggetto riguarda la richiesta, proveniente da uno dei due coniugi, di riconoscimento
dell'efficacia nello Stato italiano della sentenza emessa dal Tribunale Apostolico della Rota
Romana - procedimento per cui, nonostante l'entrata in vigore della legge 218/1995, vige ancora
l'istituto della delibazione ad opera della Corte d'appello territorialmente competente - e resa
esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, con la quale, riformando la decisione
del Tribunale di Appello, era stata dichiarata la nullità "per incapacità di assunzione degli obblighi
matrimoniali da parte della convenuta" del matrimonio concordatario contratto dai due coniugi.
Dopo aver risolto una questione di rito (nella specie, validità della notifica della sentenza
effettuata al coniuge personalmente e non presso il procuratore costituito) la Corte esamina
il merito della questione: il giudice ecclesiastico avrebbe disatteso le risultanze peritali
affermando la necessità di valutare i comportamenti della donna, in virtù dei quali, con
particolare riferimento a determinate condotte, ha ritenuto che ella versava in una
condizione che le impedì di assumere e di realizzare le obbligazioni essenziali del
matrimonio, soprattutto il bene della prole e il bene dei coniugi, integrando ipotesi di nullità
del vincolo matrimoniale con necessarie ripercussioni sul piano civilistico.
Cassazione ed rc auto: se la riparazione del mezzo è troppo
onerosa l'assicurazione paga solo il valore commerciale del
veicolo
di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione sesta, ordinanza n. 24718 del 4
Novembre 2013. In materia di risarcimento del danno provocato dalla circolazione di veicoli e
di natanti - come tali sottoposti all'assicurazione obbligatoria - l'art. 2058 cod. civ. espone una
facoltà per l'assicuratore, il quale non può essere chiamato a corrispondere all'assicurato un
risarcimento che provochi in quest'ultimo in ingiustificato arricchimento. Da qui due tipologie di
liquidazione del danno: il risarcimento in forma specifica e per equivalente. Il primo indica un
rimborso integrale corrispondente all'entità effettiva del danno; il secondo, invece, è basato
sul valore effettivo del bene, valore calcolato sulla base del prezzo di mercato che il veicolo
possiede in un determinato momento storico.
Si intuisce come il secondo metodo di liquidazione previsto per legge sia sostanzialmente più
vantaggioso per le Compagnie poiché permette di tenere conto della svalutazione del
bene causata dal tempo e dall'uso.
Applicando il principio sopra sinteticamente esposto appare chiaro come sia possibile per le
Compagnie, nel caso in cui il costo delle riparazioni necessarie per riportare il mezzo sinistrato alla
condizione antecedente il sinistro siano troppo onerose rispetto al valore effettivo dello stesso,
procedere ad una liquidazione per equivalente, il cui importo è di fatto inferiore rispetto al
risarcimento in forma specifica. Infatti "in caso di notevole differenza tra il valore
commerciale del veicolo incidentato ed il costo richiesto dalle riparazioni necessarie, il giudice
potrà, in luogo di quest'ultimo, condannare il danneggiante al risarcimento del danno per
equivalente".
Cassazione: legittimo il licenziamento dell'insegnante che
critica l'istituto
di Marco Massavelli - Corte di Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza n. 24989 del 6
novembre 2013. È legittimo licenziamento per giusta causa dell'insegnante che critica
aspramente e apertamente ai genitori la scuola dove lavora visto che le critiche mosse possono
provocaregravi danni al datore di lavoro. E' il principio di diritto stabilito dalla Corte di
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con la sentenza 6 novembre 2013, n. 24989.
Dagli atti di causa emergeva che all'insegnante era stato addebitato di aver affermato, parlando
con alcuni genitori, che l'istituto presso il quale lavorava era notevolmente inadeguato e che le
insegnanti erano didatticamente impreparate sotto ogni profilo, suggerendo anche di iscrivere gli
alunni altrove. Inoltre le era stato addebitato di aver dichiarato, al cospetto di terzi, che il
Commissario straordinario non era in grado di gestire alcunché e che, con una telefonata a
persone altolocate, lo si poteva mettere a tacere.
Tali comportamenti, in piena evidenza gravemente lesivi del decoro e della
reputazione dell'Istituto scolastico nel suo complesso e direttamente del suo Commissario
straordinario, sono stati correttamente qualificati come integranti una violazione dei doveri
fondamentali ed elementari di fedeltà e correttezza che gravano su un lavoratore in quanto in alcun
modo possono essere ricondotti ad una legittima critica anche dell'operato del datore di lavoro per
la loro offensività e per i termini utilizzati, tanto da culminare nel suggerimento ad alcuni genitori di
iscrivere altrove i loro figli, con potenziale gravissimo pregiudizio per l'Istituto scolastico. Si tratta
di inadempienze così plateali, gravi e radicalmente lesive di obblighi alla base del rapporto di
lavoro e della correlata fiducia tra le parti, da non necessitare di alcuna pubblicità disciplinare
essendo intuitivo il dovere di evitare simili comportamenti, derivante direttamente dalla legge.
Cassazione: la notifica è valida se a riceverla è un
collaboratore dello studio legale, anche se di ordine diverso
di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione sesta, ordinanza n. 24502 del 30 Ottobre
2013. L'art. 139 c.p.c. consente all'ufficiale giudiziario di perfezionare la notifica anche nel caso
in cui il diretto interessato non sia presente presso la sua abitazione o il suo domicilio o, come nel
caso in oggetto, presso lo studio professionale. Secondo la lettera della legge sono infatti ritenuti
soggetti idonei alla ricezione "una persona di famiglia o addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda,
purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace", se non addirittura "al portiere
dello stabile dove è l'abitazione, l'ufficio o l'azienda, e, quando anche il portiere manca, a un vicino
di casa che accetti di riceverla". Per analogia, dunque, nel caso in cui l'atto da notificarsi sia una
sentenza, l'ufficiale giudiziario può correttamente consegnare tale documento al praticante
avvocato presente nello studio, il quale dichiari "di essere addetta all'ufficio o abilitata o
incaricata a ritirare l'atto". Ma che accade se il praticante risulta iscritto al registro praticanti
avvocati di un ordine diverso rispetto a quello di appartenenza del procuratore domiciliatario?
La Suprema Corte si esprime decisamente nel senso della validità della notifica, spettando al
destinatario della notificazione "dimostrare l'inesistenza di qualsivoglia relazione di collaborazione
professionale e la casualità della presenza del consegnatario presso lo studio del procuratore
destinatario della notificazione". Spetta quindi all'interessato - gravando decisamente su questo
soggetto l'onere della prova - dimostrare l'insussistenza di qualsiasi tipo di rapporto professionale
intercorrente tra lo stesso e il soggetto terzo ricevente.
Il fatto che il praticante avvocato fosse iscritto in albo professionale differente rispetto a
quello dell'avvocato destinatario dell'atto non implica, di per sé, decisività della
prova, "essendo la residenza di un professionista in un dato luogo e la collocazione di un
suo studio professionale in tale luogo non incompatibili, di per sé, con la collaborazione
con altro studio professionale". Nel caso di specie, dunque, non essendo stato fornito
alcun ulteriore elemento probatorio, idoneo a verificare l'effettiva insussistenza di rapporto
professionale tra i due soggetti, la Suprema Corte ha ritenuto il ricorso manifestamente
infondato, rigettandolo con ordinanza emanata dalla sezione filtro.
Cassazione: le radici di un albero non costituiscono insidia
di Luigi Del Giudice - Corte di Cassazione sentenza 24744/2013.
La presenza di radici di un albero sul margine della strada, circostanza di fatto assolutamente
naturale, non costituisce insidia stradale, in particolare quando si tratta di dimensioni tali da poter
essere viste per tempo dall'utente della strada.
La Cassazione, in merito a quanto sopra, sottolinea che la responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c.
per i danni cagionati da cose in custodia presuppone la sussistenza di un rapporto di custodia della
cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di
controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto
con la cosa; detta norma non esonera il danneggiato dall'onere di provare il nesso causale
tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l'evento si è prodotto come
conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla
cosa mentre resta a carico del custode offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum
della sua responsabilità mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo
alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di
assoluta eccezionalità costituisce caso fortuito anche la riferibilità dell'evento a una condotta
colposa dello stesso danneggiato (Cass., 17 gennaio 2008, n. 858) e nella specie è stato escluso
un nesso causale tra la cosa in custodia e il sinistro occorso al ricorrente.
Inoltre precisa la Cassazione, il caso fortuito cui fa riferimento l'art. 2051 c.c. deve
intendersi nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso
danneggiato (Cass. 19 febbraio 2008 n. 4279). Deve ribadirsi -infatti - che nel caso in cui
l'evento di danno sia da ascrivere esclusivamente alla condotta del danneggiato, la quale
abbia interrotto il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, si verifica un'ipotesi di
caso fortuito che libera il custode dalla responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. (Cass. 19
febbraio 2008 n. 4279).
Cassazione: giudice può vietare al padre separato di portare
i figli alle celebrazioni dei Testimoni di Geova
Se in una famiglia di figli hanno ricevuto un'educazione cattolica, il giudice può vietare al padre
separato che sia diventato Testimone di Geova di portarli alle celebrazioni ("Adunanze del
Regno") della nuova fede a cui si è convertito.
E' quanto afferma la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 24683/2013 che ha così
confermato quanto precedentemente deciso dalla corte d'appello.
Secondo la Cassazione questo divieto non va a precludere la libertà del padre di compiere le
proprie scelte religiose ma pone delle giuste limitazioni per garantire una corretta formazione
psicologica dei minori.
Ciò di cui si è tenuto conto nel caso di specie è l'età delle figlie che, secondo i giudici di merito, non
avrebbe consentito loro di effettuare una scelta consapevole di una nuova fede.
La Corte d'Appello ha così ritenuto poco opportuno un totale stravolgimento del loro credo
religioso, cosa per la quale sarebbe richiesta un'adeguata maturità.
Nella sentenza di merito i giudici avevano anche stabilito che le bambine dovessero trascorrere
le principali feste religiose con la madre di credo cattolico.
Cassazione: niente attenuanti a chi spara al gatto del vicino.
di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Penale, sezione terza, sentenza n. 44422 del 4
Novembre 2013. Uccide il gatto del vicino con un colpo di carabina poiché l'animale lo
infastidiva. Nel caso in oggetto, dalla fattispecie chiara ed incontrovertibile, oltre all'integrazione
del reato dimaltrattamento di animali previsto dall'art. 544 del codice penale, la Suprema Corte
ha altresì ravvisato la presenza dell'aggravante della non necessità della condotta, pur
prendendo in considerazione l'ipotesi di "una reazione dell'imputato a situazione di fastidio". Al
contrario la difesa dell'imputato ricorrente si basava sulla circostanza dell'occasionalità della
condotta: a prescindere dal danno e dai comportamenti tenuti dall'animale, quand'era in vita,
controparte non avrebbe saputo dimostrare la ripetitività dell'atto offensivo, non potendo di
conseguenza il giudice ragionevolmente prevedere un probabile ripetersi del comportamento
doloso.
Di opinione diametralmente opposta è tuttavia la Cassazione, la quale, seppur non raggiunta piena
prova, dagli elementi emersi nel corso del giudizio ha ravvisato un aggravarsi in crescendo
dell'atteggiamento di ostilità covato dall'imputato nei confronti dell'animale, culminato nel suo
provocato decesso. Spiega la Corte che il giudice del merito "ha complessivamente ricostruito il
fatto nella prospettiva di una ripetizione di condotte aggressive che hanno in ultimo condotto
alla morte di un animale". Seppur limitandosi ad un pena pecuniaria, viene quindi confermata
l'ammenda di settemila euro già irrogata dal giudice del merito, senza alcuna possibilità di
applicazione di attenuanti di sorta.