PRIMA PARTE PERCORSI TEMATICI 3. La notte Come per i poeti

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PRIMA PARTE PERCORSI TEMATICI 3. La notte Come per i poeti
PRIMA PARTE
PERCORSI TEMATICI
3. La notte
Come per i poeti romantici, la notte è per Manzoni il momento in cui l’individuo si confronta con se
stesso, lascia emergere i pensieri più segreti e mette a nudo la propria interiorità.
Tutti i principali personaggi dei Promessi sposi, nel corso del romanzo, sono protagonisti di una notte in
cui la loro interiorità emerge in primo piano.
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La notte di don Abbondio
La prima notte del romanzo (quella tra il 7 e l’8 novembre 1628) ha come protagonista don Abbondio,
turbato dall’incontro con i bravi.
Il narratore si sofferma prima sui suoi pensieri di insonne, tutti rivolti al giorno dopo, poi racconta i suoi
sogni confusi, da cui si capisce quanto profondamente il parroco sia stato turbato dalla brutta avventura
del giorno prima.
Una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell'intimazione ribalda, né
delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in deliberazione.
Confidare a Renzo l'occorrente, e cercar con lui qualche mezzo... Dio liberi! - Non si lasci scappar
parola... altrimenti... ehm! - aveva detto un di que' bravi; e, al sentirsi rimbombar quell'ehm! nella mente,
don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell'aver ciarlato con
Perpetua. Fuggire? Dove? E poi! Quant'impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava,
il pover'uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di
guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al
tempo proibito per le nozze; "e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi
due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose". Ruminò pretesti da metter in campo; e,
benché gli paressero un po' leggieri, pur s'andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli
avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un
giovanetto ignorante. "Vedremo, - diceva tra sé: - egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più
interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso,
non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo". Fermato così un poco l'animo a una deliberazione,
poté finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi,
fughe, inseguimenti, grida, schioppettate. (cap. II, pag. 48)
La notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi
Tutto il capitolo VIII è dedicato al racconto di una notte, quella fra il 10 e l’11 novembre 1628.
È la notte durante la quale Renzo e Lucia tentano il matrimonio di sorpresa e i bravi al servizio di don
Rodrigo tentano di rapire Lucia.
Entrambe le imprese si risolvono in un fallimento e hanno come conseguenza la fuga dei due promessi e
di Agnese dal paese natale.
Manzoni si sofferma in due occasioni sulla descrizione della notte.
La prima volta quando, nel momento più drammatico della vicenda, mentre don Abbondio attacca a
gridare dalla finestra di casa per chiamare gente, interrompe la narrazione per descrivere il chiaro di luna:
L'assediato, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che guardava sulla
piazza della chiesa, e si diede a gridare: - aiuto! aiuto! - Era il più bel chiaro di luna; l'ombra della
chiesa, e più in fuori l'ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso
e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo
sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto
dal lato che rispondeva verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva
il sagrestano. Fu questo riscosso da quel disordinato grido, fece un salto, scese il letto in furia, aprì
l'impannata d'una sua finestrina, mise fuori la testa, con gli occhi tra' peli, e disse: - cosa c'è? (cap. VIII,
pag.154)
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La seconda volta, ancora in un momento di forte tensione emotiva, quando i due promessi sposi stanno
per imbarcarsi e attraversare il lago:
Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il
tremolare e l'ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S'udiva soltanto il
fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell'acqua rotta tra le pile del
ponte, e il tonfo misurato di que' due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un
colpo grondanti, e si rituffavano. L'onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una
striscia increspata, che s'andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata
indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand'ombre. Si
distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato
sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in
mezzo a una compagnia d'addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì;
scese con l'occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all'estremità, scoprì la sua
casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua
camera; e, seduta, com'era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la
fronte, come per dormire, e pianse segretamente. (cap. VIII, pag. 164)
Per approfondire il valore simbolico di queste descrizioni, e in particolare della luce, nel capitolo VIII,
link Percorso 14. I simboli del romanzo.
La notte di Renzo
Un altro capitolo quasi interamente occupato da una notte (quella tra il 12 e il 13 novembre 1628) è il
XVII. Protagonista, in questo caso, è Renzo, in fuga verso l’Adda.
Renzo arriva verso sera a Gorgonzola, si ferma a mangiare in un’osteria e riparte che è ormai buio.
L’ultima parte del suo percorso è scandito da ampi monologhi, in cui il personaggio ripensa agli
avvenimenti appena trascorsi.
Dunque la sua avventura aveva fatto chiasso; dunque lo volevano a qualunque patto; chi sa quanti birri
erano in campo per dargli la caccia! quali ordini erano stati spediti di frugar ne' paesi, nell'osterie, per
le strade! (cap. XVII, pag.322)
"Io fare il diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io! I miei compagni che mi stavano a
far la guardia! Pagherei qualche cosa a trovarmi a viso a viso con quel mercante, di là dall'Adda (ah
quando l'avrò passata quest'Adda benedetta!), e fermarlo, e domandargli con comodo dov'abbia pescate
tutte quelle belle notizie. Sappiate ora, mio caro signore, che la cosa è andata così e così, e che il diavolo
ch'io ho fatto, è stato d'aiutar Ferrer, come se fosse stato un mio fratello; sappiate che que' birboni che, a
sentir voi, erano i miei amici, perché, in un certo momento, io dissi una parola da buon cristiano, mi
vollero fare un brutto scherzo; sappiate che, intanto che voi stavate a guardar la vostra bottega, io mi
faceva schiacciar le costole, per salvare il vostro signor vicario di provvisione, che non l'ho mai né visto
né conosciuto. Aspetta che mi mova un'altra volta, per aiutar signori... (cap. XVII, pag. 322)
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Man mano che si allontana dai luoghi abitati, Renzo si sente preda di un terrore inesplicabile, che viene
meno solo nel momento in cui scopre l’Adda, cioè il confine tra il Ducato di Milano e la Repubblica di
Venezia.
Tirava una brezzolina sorda, uguale, sottile, che doveva far poco servizio a chi si trovava ancora indosso
quegli stessi vestiti che s'era messi per andare a nozze in quattro salti, e tornare subito trionfante a casa
sua; e, ciò che rendeva ogni cosa più grave, quell'andare alla ventura, e, per dir così, al tasto, cercando
un luogo di riposo e di sicurezza. (cap. XVII, pag. 323)
S'accorse d'entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro voglia
andò avanti; ma più che s'inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi
che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l'annoiava l'ombra delle
cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar
delle foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che
d'odioso. (...) A un certo punto, quell'uggia, quell'orrore indefinito con cui l'animo combatteva da
qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che
d'ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così
rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare (...). E stando così fermo, sospeso il fruscìo
de' piedi nel fogliame, tutto tacendo d'intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un
mormorìo d'acqua corrente. Sta in orecchi; n'è certo; esclama: - è l'Adda! - Fu il ritrovamento d'un
amico, d'un fratello, d'un salvatore. (cap. XVII, pag. 324)
La notte è il momento in cui si compie anche la maturazione interiore di Renzo, il suo riscatto morale,
dopo la caduta dei giorni precedenti (link Percorso 10. Renzo e il suo Bildungsroman).
Prima però di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi s'inginocchiò, a
ringraziarla di quel benefizio, e di tutta l'assistenza che aveva avuta da essa, in quella terribile giornata.
Disse poi le sue solite divozioni; e per di più, chiese perdono a Domeneddio di non averle dette la sera
avanti; anzi, per dir le sue parole, d'essere andato a dormire come un cane, e peggio. (cap. XVII, pag.
326)
Ma appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua memoria o nella sua fantasia (il luogo preciso non
ve lo saprei dire), cominciò, dico, un andare e venire di gente, così affollato, così incessante, che addio
sonno. Il mercante, il notaio, i birri, lo spadaio, l'oste, Ferrer, il vicario, la brigata dell'osteria, tutta
quella turba delle strade, poi don Abbondio, poi don Rodrigo: tutta gente con cui Renzo aveva che dire.
Tre sole immagini gli si presentavano non accompagnate da alcuna memoria amara, nette d'ogni
sospetto, amabili in tutto; e due principalmente, molto differenti al certo, ma strettamente legate nel
cuore del giovine: una treccia nera e una barba bianca. (cap. XVII, pag. 326)
La notte dell’innominato e di Lucia
Nel cap. XXI, Manzoni descrive in che modo trascorrono la notte l’innominato, che ha appena fatto rapire
Lucia per conto di don Rodrigo, e Lucia stessa, prigioniera nel suo castello.
Lucia, in preda a un profondo terrore, rifiuta di stendersi sul letto insieme alla vecchia che le fa da
carceriera: spossata e in preda a mille pensieri confusi, si assopisce, poi si risveglia d’un tratto e si mette a
pregare.
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Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri,
d'immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a se stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori
veduti e sofferti in quella giornata, s'applicava dolorosamente alle circostanze dell'oscura e formidabile
realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si
dibatteva contro i fantasmi nati dall'incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest'angoscia; alfine, più
che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto
in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma tutt'a un tratto si risentì, come a una chiamata interna,
e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come,
perché. (...) L'infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell'orribil giornata
trascorsa, tutti i terrori dell'avvenire, l'assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante
agitazioni, quella specie di riposo, quell'abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e
fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen
pregare... (cap. XXI, pag. 393)
È in questo momento drammatico che Lucia pronuncia il voto di verginità, sacrificando la cosa per lei più
cara, e cioè l’amore di Renzo.
Tutt'a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e
più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di
quello che aveva di più caro (...) S'alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle
quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: - o Vergine santissima! Voi, a cui mi
sono raccomandata tante volte, e che tante volte m'avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e
siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da
questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner
vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d'altri che vostra. (cap. XXI, pag.
393)
Nello stesso momento, l’innominato è in preda ai rimorsi e si ripromette di liberare Lucia all’alba. Ma la
sua mente, di pensiero in pensiero, lo costringe a rimettere in discussione non solo quell’azione, ma tutta
la propria vita.
Il tormentato esaminator di se stesso, per rendersi ragione d'un sol fatto, si trovò ingolfato nell'esame di
tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di
scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all'animo consapevole e nuovo, separata da'
sentimenti che l'avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que' sentimenti
non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di questo pensiero,
rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S'alzò in furia a
sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... (cap. XXI,
pag. 396)
L’innominato non si uccide, ma resta angosciato dal pensiero del futuro, e in particolare della notte, cioè
del momento in cui si troverà di nuovo solo con se stesso, di fronte alla propria coscienza.
Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di
refrigerio e di vita; s'immaginava di condurla lui stesso alla madre. "E poi? che farò domani, il resto
della giornata? che farò doman l'altro? che farò dopo doman l'altro? E la notte? la notte, che tornerà tra
dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!" E ricaduto nel vòto penoso dell'avvenire, cercava indarno un
impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. (cap. XXI, pag. 397)
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La notte di don Rodrigo
Anche il “cattivo” del romanzo, don Rodrigo, ha la sua notte, il suo momento di debolezza, il suo
confronto con la propria coscienza.
È infatti in una notte di metà agosto del 1630 che don Rodrigo scopre di essere ammalato di peste.
Manzoni, per la prima e unica volta, racconta in maniera distesa un sogno.
Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s'addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del
mondo. E d'uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di
trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo
specialmente; e n'era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert'occhi
incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da'
rotti si vedevano macchie e bubboni. - Largo canaglia! - gli pareva di gridare, guardando alla porta,
ch'era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi
ristringendosi, per non toccar que' sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma
nessuno di quegl'insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d'avere inteso; anzi gli stavan più
addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a
sinistra, tra il cuore e l'ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per
veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle
metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di
quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una
trafitta più forte. Strepitava, era tutt'affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que'
visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su
un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due
occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra
Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l'uditorio, parve a don Rodrigo che lo
fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell'attitudine appunto che aveva presa in quella sala a
terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi
ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola,
scoppiò in un grand'urlo; e si destò. (cap. XXXIII, pag. 605)
Il sogno fa emergere il senso di colpa di don Rodrigo, ancora angosciato dal lontano scontro con fra
Cristoforo. È quindi un sogno “letterario”, come i sogni premonitori della tradizione antica e moderna.
Ma Manzoni coglie anche un elemento di verità psicologica più originale. Il sogno è infatti legato a una
sensazione fisica reale (il doloroso gonfiore sotto l’ascella) e l’inconscio di don Rodrigo elabora una
“storia” per spiegare quella sensazione.
Nota che, quando don Rodrigo si sveglia, la notte è finita: le fantasie dell’inconscio cedono alla luce del
giorno, che rivela la terribile verità (link Percorso 14. I simboli del romanzo).
La luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il
suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era
sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. (...) Esitò qualche momento, prima di
guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un'occhiata paurosa; e vide un sozzo
bubbone d'un livido paonazzo. (cap. XXXIII, pag. 606)
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