DANTE NELL`INFERNO MODERNO: LA LETTERATURA DOPO

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DANTE NELL`INFERNO MODERNO: LA LETTERATURA DOPO
Dante nell’inferno moderno :
la letteratura dopo Auschwitz
 
Rossend Arqués
1. L’ Inferno dantesco nella letteratura moderna
I
l processo di riscoperta di Dante e, in particolare della prima cantica della Commedia, ad opera dei romantici ha reso l’Inferno dantesco il paradigma per la descrizione di ogni trista realtà sia terrena che ultraterrena. Lamartine affermava che
Dante è il « poeta nel quale la nostra epoca ravvisa la propria immagine », e non
a caso Balzac intitola la sua opera Comédie humaine. « Dante – scrive Sozzi – è per
tutti il poeta dell’umanità dolorante, del male del mondo, dell’indicibile pena, più
che il poeta dell’ebbrezza, dell’ineffabile allegrezza, del riso dell’universo ». 1 Victor Hugo, oltre a citarlo nel poema La Vision de Dante all’interno della Légende des
Siècles, ne usa struttura e modi in Les Misérables, perché legge l’Inferno dantesco in
termini realistici, cioè come oggettiva trascrizione dell’umana vita qual è : « L’Enfer
c’est la vie », come scrive lo stesso Hugo nella poesia iniziale di Voix intérieures. Le
anime morte di Gogol corrispondono alla prima cantica, cioè all’Inferno, di un suo
peculiare progetto di Commedia slava, che mai porterà a termine. Nella letteratura
del xx secolo, poi, sono tanti gli scrittori, più o meno realistici, che si misurano con
l’Inferno dantesco, da Unreal City del The Waste Land di T. S. Eliot con echi baudelairiani, alle molte opere di Beckett in cui sono evidenti i riferimenti agli aspetti infernali e purgatoriali, senza tralasciare il filone assai ricco dei romanzi del cosidetto
splatterpunk che hanno fatto un uso esplicito, ma anche superficiale e spettacolare,
della prima cantica dantesca, e ai quali si possono ricondurre numerosi film che ne
hanno tratto ispirazione. 2
Ma non solo, molte sono le opere italiane del dopoguerra che hanno ben presente i moduli della Commedia. Cito, tra le tante, quelle in cui è più manifesto
questo tributo, e cioè La luna e i falò di Pavese, da lui stesso considerata la sua
Commedia, Conversazione in Sicilia di Vittorini, racconto del viaggio nel dolore
siciliano e nella personale infanzia dell’autore in compagnia di una sorta di duca
virgiliano, rappresentato dalla madre Concezione, in cui alcuni personaggi (e
non solo il Gran Lombardo) hanno i loro omologhi in altrettanti personaggi
della prima cantica dantesca. Per non parlare de La pelle di Curzio Malaparte,
 
 
 
 
 
 
 
Rossend Arqués, Universitad Autonoma, Barcelona....... [inserire indirizzo completo]. E-mail: [email protected].
1
  L. Sozzi, La letteratura francese e l’Italia, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato, vol. xii : La
letteratura italiana fuori d’Italia, Roma, Salerno, 2005, pp. 643-646.
2
  Mi riferisco a autori come C. Barker (Books of Blood), Th. Harris (dal cui romanzo, The silence of the
innocents è tratto il film The silence of the lambs di J. Demme) e il film Seven di D. Fincher, per citare solo i
capostipiti.
 
«rassegna europea di letteratura italiana» · 33 · 2009
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romanzo uscito contemporaneamente in Italia e in Francia, che esordisce con
un esplicito riferimento a Inf. iii, 22 ss., a sua volta contenente molti altri che per
ragioni di tempo non posso qui affrontare, in cui la « terribile folla […] squallida,
sporca, affamata, vestita di stracci » convive con i soldati vincitori che « urtavano
e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo ». 1 Voglio inserire
in questo elenco incompleto anche il breve testo di Buzzati, Viaggio agli inferni del
secolo (1966), così pure il denso dialogo che Manganelli stabilisce con la visione
dantesca dell’inferno in molte delle sue opere, come il romanzo Dall’inferno in
cui l’Ade non è più un luogo ultraterreno, ma occupa tutto quello che noi chiamiamo vita oppure realtà.
Contemporaneamente a questi testi più o meno realistici (per quanto largamente simbolici) ci sono quelli dei protagonisti, se non dei sopravvissuti, dei
grandi drammi che hanno sconvolto l’Europa e il mondo nel xx secolo. Valerio
Marucci sostiene che « la memoria strutturale della Commedia presiede e sottende
le opere epiche che cercano di rappresentare la tragedia bellica del secolo e in essa
la ricerca della salvezza, individuale e/o collettiva (in Italia ne è un esempio il
libro di Primo Levi Se questo è un uomo) : basti citare Una giornata di Ivan Denisovic
(1962), di Aleksandr Solzenizin ; La narrazione di Kolyma Varlam Chalamov ; 2 Der
Untergang der Titanic, di Hans Magnus Enzensberger, come pure il dramma di Peter Weiss, Die Ermitlung (‘L’indagine’), tragico confronto tra le vittime dei lager
e i loro aguzzini, ispirato alla Commedia per dichiarazione dello stesso autore ».
Dante, scrive Eugenio Montale, « non può essere ripetuto […]. Poeta concentrico,
Dante non può fornire modelli a un mondo che si allontana progressivamente
dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò la Commedia resterà l’ultimo
miracolo della poesia mondiale ».3 Ciò, però, non impedisce che la Commedia sia
ancora un testo con il quale confrontarsi, anche per coloro che hanno in mente
il suo superamento o addirittura la negazione del suo riflesso nella letteratura
attuale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1
  Molti sono i parallelismi fra Malaparte e Dante : Inf. v, 35 : « quivi le strida, il compianto, il lamento » ; che
associa strida e al pianto compassionevole (compianto), è quasi identico al passo di Malaparte che dice : « uno
stridor di denti, un pianto soffocato » oppure Inf. xii, 102 : « dove i bolliti facieno alte strida », in cui il termine
‘strida’ è associato a una situazione vicina a quella descritta da Malaparte nella quale i « bolliti » sono i tiranni
immersi in un fiume di sangue bollente (« Or ci movemmo con la scorta fida / lungo la proda del bollor vermiglio, / dove i bolliti faceano alte strida. // Io vidi gente sotto infino al ciglio […] »). Per non parlare delle
« orribili teste » che affiorano dall’acqua o dal terreno « mozze dalla mannaia », che nell’infernale dimensione
straniata, sembrano avere una vita propria, quasi mostruose realtà artificialmente separate dal corpo (« Per
tutto il giorno quelle teste parlaron tra loro »), che ricordano immagini dantesche : da Gerione che affiora nel
buio (Inf. xvii, 8 : « sen venne, e arrivò la testa e ’l busto ») ai corpi lacerati dei seminatori di discordie e l’invenzione del poeta Bertran de Born con la testa retta col braccio (Inf. xxviii, 129 : « levò il braccio alto con tutta la
testa / per appressarne le parole sue »).
2
  V. Chalamov, Récits de la Kolyma, nouvelle édition, préf. de L. Jurgenson, postf. de M. Heller, Paris, Verdier, 2003.
3
  E. Montale, Esposizione su Dante (1965), in Idem, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori,
1976, pp. ? ? ?.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
     
 
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2. Dante nella letteratura dopo Auschwitz 1
La letteratura dei campi di sterminio nazisti 2 pone diversi problemi ai critici, dovuti soprattutto al fatto che sono dei testi che parlano di un vissuto ancora così
lacerante. L’enormità di questa tragedia umana fece che molti di questi testimoni,
nel momento di scrivere le loro esperienze, non si ponessero neanche il problema
di come scriverle, giacché ciò che a loro stava a cuore era cosa dire e chi lo dice. Per
loro, dunque, l’unico stile possibile era strettamente legato a quello che avevano
vissuto e all’urgenza e alla necessità di comunicare i fatti nella loro tragica e disumana realtà. 3 Non avevano tenuto conto, però, che le loro narrazioni, per così dire
ingenue, si dovevano scontrare con due ostacoli : da una parte l’incomunicabilità
dell’esperienza sotto forma di racconto realistico, dall’altra la tesi, di cui si servono
non soltanto i negazionisti dell’olocausto, secondo cui i sopravvissuti non possono essere considerati dei veri e propri testimoni, non erano cioè musulmani. La
questione era e rimane molto più complessa. In anni recenti vi è stato un intenso
dibattito, nel quale non sono mancati insulti tra le parti, sul come comunicare – nonché sulla valenza etica della verità – ma anche su che cosa comunicare e chi lo comunica. In relazione al come il dibattito era iniziato subito dopo la fine della guerra,
aprendo anche la strada al paradosso negazionista per cui non possono esser veri
testimoni quelli che narrano sotto forma di fiction gli orrori pur vissuti in prima
persona. Considerati, invece, come opere di letteratura, i testi perdono, secondo
questa lettura negazionista, la loro forza denotativa e di denuncia, per diventare
frutto dell’immaginazione dei loro autori. « Il ne peut avoir échappé – scrive Paul
Rassinier, fondatore del moderno negazionismo – à l’opinion que l’imagination
du romancier, les excès de lyrisme du poète, la partialité intéressée du politicien
ou les relents de haine de la victime, servent tour à tour ou de concert, de toile de
fond aux récits jusqu’ici publiés ». 4 Questo è il secondo dei due paradossi – essendo
il primo quello dell’incomunicabilità – che ci proponiamo di trattare in questo arti 
 
 
1
  Si vedano tra le altre le seguenti opere : T. Todorov, Face à l’extrême, Paris, Seuil, 1994 ; Z. Bauman, Modernidad y Holocausto, Madrid, Sequitur, 1997 ; A. Bertoni, L’Olocausto e l’identità letteraria, in Mappe della letteratura europea e mediterranea. iii : Da Gogol al Postmoderno, a cura di G. Anselmi, Milano, Bruno Mondadori, 2001,
pp. 198-252 ; G. Grass, Escribir después de Auschwitz, Barcelona, Paidos, 1999 ; S. L. Kremer, Women’s Holocaust
Writing. Memory and Imagination, Lincoln-London, University of Nebraska Press, 1999 ; A. Parrau, Écrire les
camps, Paris, Belin, 1995 ; M. Pollak, L’expérience concentrationnaire, Paris, Ed. Metailié, 1990 ; A. Reiter, Narrating the Holocaust [1995], London-New-York, Continuum, 2000 ; M. Rin, Les récits du génocide. Semiotique de
l’indicible, Paris, Delachaux et Niestlé, 1998 ; E. Traverso, Le passé, modes d’emploi. Histoire, mémoire, politique,
Paris, La Fabrique, 2006 ; P. Vidal Naquet, Réflexions sur le génocide. Les juifs, la mémoire et le présent iii, Paris,
La Découverte, 1995.
2
  E degli altri orrori derivati dal gulag, dal genocido degli Armeni, dalle depurazioni nella Cina di Mao, dalla
guerra di Ruanda, dallo sterminio dei gulag, e da un lunguissimo ecc. Per una visione globale degli stermini
nel mondo moderno con le loro stupefacenti cifre, si veda il sito : http ://www.liceolevi.it/GENOCIDI/home.
htm.
3
  Ricordiamo che secondo gli storici le vittime del genocidio sono le seguenti : 5,6-6,1 milioni di ebrei ; 3,5-6
milioni di prigionieri slavi ; 2,5-4 milioni di prigionieri di guerra ; 1-1,5 milioni di prigionieri politici ; 200.000800.000 migliaia di Rom e Sinti ; 200.000-300.000 migliaia di portatori di handicap ; 10.000-250.000 migliaia di
omosessuali.
4
  P. Rassinier, Mensonge d’Ulysse, Paris, Librairie Française, 1950 (si veda http ://www.vho.org/aaargh/
fran/archRassi/prmu/prmu1.html).
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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colo : se chi scrive cerca il realismo, allora il suo racconto non è creduto in quanto
è impensabile che si sia potuto salvare, se invece indulge al ‘romanzo’, allora non è
più credibile, in quanto ‘inventa’. Un passo del libro di Delbo spiega molto bene il
primo di questi paradossi :
 
 
Vous ne croyez pas ce que nous disons
parce que
si c’était vrai
ce que nous disons
nous ne serions pas là pour le dire
il faudrait expliquer
l’inexplicable
expliquer
pourquoi viva qui était si forte
est-elle morte
et non pas moi
[…]
Pourquoi
Pourquoi
Parce que tout ici est inexplicable. 1
Si può accedere alla vera esperienza dei campi attraverso le parole ? E se la risposta è
sì, quali sono i possibili modi di comunicare il vissuto di ognuno ? Quali le inevitabili
trappole che ciascuno di questi modi porta con sé ? Lungo questo articolo cercheremo
di analizzare i meccanismi e le strategie testuali che alcuni scrittori-testimoni hanno
adottato, mettendo in risalto nei testi in cui tentano di trasmetterci l’orrore dei campi
di concentrazione i paradossi derivati dalla presenza della tradizione letteraria, e in
particolar modo degli inferi danteschi. Ben conosciamo il ginepraio di controversie
che è sorto dall’interpretazione delle narrazioni del lager con la discesa negli inferi di
Dante, a partire dall’affermazione di Steiner secondo la quale : « the bibliography of
the concentration camps is quite extensive, but nothing in it equals the fullness of
Dante’s observations ». 2 Per cercare di trovare alcune risposte possibili al ruolo dell’estetica nelle narrazioni dell’esperienza dei campi di concentramento, 3 ci siamo rivolti a un gran numero di autorevoli scrittori : Antelme, 4 Gradowski, 5 Kertész, 6 Levi, 7
 
 
 
 
 
 
 
1
  Ch. Delbo, Auschwitz et après, to. 1 : Aucun de nous ne reviendra ; to. 2 : Une connaissance inutile ; to. 3 : Mesure
de nos jours, Paris, Minuit, 1970.
2
  G. Steiner, In Bluebeard’s Castle. Some Notes Towards the Re-definitions of Culture, London, Faber & Faber,
1971, e la critica di F. Rastier, Ulises en Auschwitz. Primo Levi el sobreviviente, trad. de A. Nuño, Barcelona, Reverso, 2005, pp. 98-101.
3
  Cfr. l’interesantissimo libro di P. Mesnard, C. Kahan, Giorgio Agamben à l’épreuve d’Auschwitzk, Paris, Kimé, 2001 e di Rastier, op. cit., pp. 67-108. Si veda anche C. Wardi, Le génocide dans la fiction romanesque, Paris,
Puf, 1986.
4
  R. Antelme, La specie umana [1957], trad. it., intr. di A. Cavaglion, Torino, Einaudi, 1997.
5
  S. Gradowski, Sonderkommando. Diario da un crematorio di Auschwitz, 1944, a cura di Ph. Mesnard e C.
Saletti, Venezia, Marsilio, 2002.
6
  I. Kertész, Essere senza destino, Milano, Feltrinelli, 1999 ; I. Kertész, Kaddish pel fill no nascut, trad. Eloi
Castelló, Barcelona, Quaderns crema, 2004.
7
  P. Levi, Informe sobre Auschwitz, a cura di L. Debenedetti e Ph. Mesnard, Castelló, La trossa, 2005 ; P. Levi,
Se questo è un uomo ; La tregua ; Sommersi e salvati, in Idem, Opere, vol. i, a cura di C. Cases, Torino, Einaudi,
1988.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Rousset, Wiesel, per quanto si sia tenuto conto dell’opera di altri scrittori come
Semprún, Perec, ecc. 3
1
2
2. 1. Indicibilità dell’esperienza
La domanda sull’indicibilità si pone anche per Dante e la sua esperienza ultraterrena. Sono molti gli esempi della Terza cantica in cui il poeta si lamenta dell’impossibilità di dire in modo adeguato ciò che vede affinché il lettore possa rappresentarlo
nella sua mente. Basti una per tutte :
 
Perch’io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami,
sì nol direi, che mai s’imaginasse ;
ma creder puossi e di veder si brami.
 
(Par. x, 43-45) 4
Bisogna ricordare, comunque, che l’intera Commedia è un viaggio ‘fantastico’, « un
viaggio compiuto con l’aiuto dell’immaginazione, nel mondo aperto a Dante da
un’eccezionale visione, da un’eccezionale capacità visiva » 5 grazie al quale egli ha
accesso al mondo visibile e anche a quello invisibile. E questo risulta particolarmente difficile da intendere per noi moderni occidentali, abituati soltanto a ciò che
è visibile e per i quali l’invisibile è un elemento puramente decorativo. Le immagini
del viaggio dantesco erano prese molto sul serio, invece, dai primi commentatori
per i quali queste immagini non erano affatto strane, giacché l’invisibile era parte integrante della loro immagine del mondo, cioè della loro mentalità. Si deve
dunque parlare di una ‘realtà’ della visione dantesca e del suo tentativo di rendere tangibile, attraverso parole e figure, il viaggio dello spirito umano attraverso i
suoi diversi stadi fino alla contemplazione di Dio. Dante ha percepito con i suoi
sensi quanto racconta e ce lo può narrare perchè le cose sono proprio andate così.
Quando, invece, i suoi sensi non sono più capaci di decifrare l’esperienza né fisica
né mentale, allora viene meno anche la narrazione, cioè la trasposizione linguistica
dell’esperienza ultraterrena :
 
 
 
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto ! e questo, a quel ch’i’ vidi,
e tanto, che non basta a dicer « poco ». […]
Qual è’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
 
 
 
1
  D. Rousset, L’universo concentrazionnario 1943-1945 [1965], con un saggio di G. De Luna, Milano, Baldini &
Castoldi, 1997.
2
  E. Wiesel, La notte, trad. it., prefazione di F. Mauriac, Firenze, La Giuntina, 1980.
3
  Abbiamo anche tenuto conto di E. Bruck, Signora Auschwitz. Il dono della parola, Venezia, Marsilio, 1999 ; E.
Kogon, L’Etat SS [1950], Paris, Seuil, 1993 ; G. Perec, L.G. Une aventure des années soixante, Paris, Seuil, 1992 ; G. Perec, W ou le souvenir d’enfance, Paris, Denöel, 1975 ; J. Semprun, La Mort qu’il faut, Paris, Gallimard, 2001 ; Idem, Le
grand voyage, Paris, Gallimard, 1972 ; Idem, L’Écriture ou la vie, Paris, Gallimard, 1996 ; T. Borowski, Nuestro hogar es Auschwitz, Barcelona, Alba, 2004 ; A. Spiegelman, Maus : un survivant raconte, Paris, Flammarion, 1998.
4
  Anche Par. i, 4-6 e 70-71 ; xiv, 103-105 ; xxiv, 22-27.
5
  H.-R. Patapievici, Gli occhi di Beatrice. Com’era davvero il mondo di Dante ?, Milano, Bruno Mondadori, 2004,
p. 12 ; M. Bettetini, Figure di verità. La finzione nel Medioevo occidentale, Torino, Einaudi, 2004.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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tal era io a quella visione nova :
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova ;
ma non eran da ciò le proprie penne :
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa ;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
(Par. xxxiii, 121-123 e 133-145)
 
 
 
 
Solo in quel momento la mente di Dante – che è umana – è veramente sopraffatta
dagli eventi : quando cioè la virtù umana – che è anche umana esperienza – arriva
al suo limite. L’uomo può immaginare l’ineffabile perché le immagini per quanto appartengano all’invisibile (phantasmata) possono essere concepite dalla mente
umana, per quanto difficile possa essere la loro comprensione e quindi la loro conversione in parole. Solo l’assenza completa d’immagini determina l’impossibilità di
capire e quindi di verbalizzare.
Diversa, anche se in qualche modo simile, è la questione che ben presto si pongono i narratori dei campi di sterminio, circa la possibilità di immaginare e di spiegare1 le loro atroci esperienze. « A nous-mêmes – scrive Antelme (p. 9) –, ce que
nous avions à dire commençait alors à nous paraître inimaginable ». Quanto da loro
vissuto doveva essere spiegato, per quanto sembrasse a loro stessi incredibile, inconcepibile e quindi inenarrabile. David Rousset, un altro prigionero politico di
area comunista, insiste sull’impossibilità di trasmettere completamente gli orrori
dei campi :
 
 
 
 
Gli uomini normali non sanno che tutto è possibile. Anche se le testimonianze costringono
la loro intelligenza ad ammetterlo, il corpo si rifiuta. Gli internati sanno. Il combattente
che è stato per mesi al fronte ha conosciuto la morte. Ma gli internati hanno vissuto faccia
a faccia con la morte tutte le ore della loro esistenza. Essa ha mostrato loro ogni suo volto.
Ne hanno toccato con mano tutte le miserie. Ne hanno vissuto l’angoscia come un’ossessione costante. Hanno sperimentato l’umiliazione delle percosse, la debolezza del corpo
sotto la frusta. Hanno constatato la devastazione che produce la fame. Hanno camminato
per anni nello scenario indicibile della distruzione di ogni dignità. Sono separati dagli altri
da un’esperienza impossibile a trasmettersi.
(pp. 181-182) 2
Anche perchè i parametri di quelli a cui essi si rivolgono sono inadeguati alla comprensione degli orrori che riportano.
1
  Si veda L. Jurgenson, L’expérience concentrationnaire est-elle indicible ?, Paris, Éditions du Rocher, 2003 e
Wardi, op. cit.
2
  Rousset, op. cit., p. 123. Su questo tipo di affermazioni fonda Agamben la sua teoria dell’ineffabilità dei
campi, si veda G. Agamben, L’aperto, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 10 : « Così esattamente – scrive Lewental nel suo semplice jiddish – come gli avvenimenti si verificano non può essere immaginato da nessun essere
umano e infatti è inimmaginabile che si possa riportare così esattamente come accaddero le nostre esperienze », contro la quale hanno reagito tra gli altri, Mesnard, Kahan, op. cit. e Rastier, op. cit., pp. 149 ss.
 
 
 
 
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Questo non significa, però, che i campi siano incomprensibili in sé e per sé, o in
quanto atroce risultato di forze irrazionali. Non si può affermare, come vuole qualcuno, che per Auschwitz non c’è una spiegazione. Kertész nel romanzo Kaddish
per il figlio non nato è molto fermo su questo punto, soprattutto in una frase che ci
riporta alla mente la distribuzione razionale del male in Dante :
 
il male sempre ha una spiegazione razionale, può darsi che Satana stesso sia irrazionale,
come lo è Iago, ma le sue creature sono razionali, tutti i loro atti possono essere dedotti da
una formula matematica ; se ne può dedurre una specie d’interesse, di affanno di lucro, di
pigrizia, di desiderio di piacere e di potere, di codardia […].
 
« La terribile, la indicibile, la impensabile banalità del male », per dirla con la ormai
famosa frase di Hanna Arendt, diventa spiegabile e dicibile attraverso le immagini
della violenza cieca ma non gratuita, per quanto spesso incomprensibile, di cui
Dante si serve per rappresentare non solo la terribile giustizia divina che si abbatte
sui colpevoli, siano essi tiranni, omicidi, scialacquatori, o altro, ma anche le lotte
fra gli uomini nelle strade di Firenze e di tante altre città corrotte. Si può comprendere il rifiuto di Rastier verso il patetismo delle « orribili visioni infernali » e il
conseguente compiacimento letterario presente in alcune critiche alla letteratura
dello sterminio, soprattutto quella di Steiner. Ma non per questo si deve sottacere il
parallelismo esistente tra l’umanità degradata dalla sofferenza di questa letteratura
e la drammaticità altrettanto concreta ed espressiva con cui è fatta la prima cantica :
« genti dolorose » (Inf. iii, 17), « sospiri, pianti e altri guai / risonavan per l’aere senza
stelle » (Inf. iii, 22-23), « Diverse lingue, orribil favelle / parole di dolore, accenti d’ira
/ voci alte e fioche […] » (Inf. iii, 26-28).
Partendo da una riflessione di Primo Levi sulla parzialità del punto di vista di chi
è sopravvissuto, in quanto l’unico vero testimone forse può essere solo il « musulmano », 1 Agamben giunge a formulare come verità assoluta e universale l’impossibilità dei superstiti a testimoniare compiutamente quanto da loro vissuto.
Come scrivono paradossalmente Wiesel e Levi, chi è sopravvissuto « non ha toccato il fondo » e cioè « ha fruito di un qualche privilegio ». C’è, quindi, al centro di
ogni testimonianza un nucleo « in testimoniabile ». Tutta la letteratura « negazionista » ha preso spunto da qui per demolire la testimonianza dei « salvati », la cui
mezza verità non si può neanche avvicinare a quella totale dei « sommersi », gli
unici a detenerla veramente. Così facendo, il musulmano è diventato l’icona muta dell’orrore ed è stato usato per relativizzare e banalizzare la testimonianza dei
sopravvissuti, e la loro esperienza reale – questa sì, né mitica né mistificata – del
più imponente meccanismo di disumanizzazione e di sterminio che sia mai stato
pensato e realizzato. 2
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1
  Così erano chiamati nel gergo di Auschwitz quei deportati che fame, percosse, malattia e sofferenze
avevano consumato oltre ogni limite, fino a avviarli irrevocabilmente alla fase terminale della loro tragica
permanenza nel campo.
2
  Tuttavia questa opposizione non comporta la svalutazione di tutte le testimonianze. Scrivono Mesnard,
Kahan, op. cit., p. 78 che G. Didi-Hubermann « met en garde contre l’“adoration mystique” dont ferait preuve
le silence et, simultanément, il dénonce son excès contraire, la tentation de rendre “présentable” une image
insuportable qui, stylisée ou hypertrophiée, devient ainsi une “icone de l’horreur” ». Cfr. G. Didi-Hubermann,
Images malgré tout, Paris, Ed. Minuit, 2003.
 
 
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Credere e affermare che l’esperienza dei campi è « indicibile » ha aperto la strada
al concetto di punizione divina dei peccati umani ; non a caso dei termini usati dagli
storici ebrei uno, « olocausto », viene da olah, il sacrificio biblico, mentre shoa, che
significa « devastazione, catastrofe », nella Bibbia porta con sé l’idea della punizione
divina. 1
La caratteristica di indicibilità di questa esperienza limite di cui, come abbiamo
già detto, sarebbero veri testimoni soltanto i « musulmani » cioè i « sommersi », è
confutata dalla narrazione di un superstite che per alcuni momenti della sua vita
nei campi è stato un « musulmano » ma che è rientrato da questo punto di non ritorno per poterlo raccontare. Si tratta di Gyurka, il giovane personaggio nella cui
storia Kertész riassume la sua esperienza dell’universo del lager :
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Allora mi chiese se volevo crepare in questo posto, non tornare mai più a casa e non so che
risposta possa aver letto sulla mia faccia, ma sulla sua io vidi tutt’a un tratto una specie di
sgomento, di paura, quella stessa con cui generalmente si osservano gli sventurati che non
hanno più speranza, i condannati oppure, diciamo gli appestati : e allora mi tornò in mente
come si era espresso, una volta, a proposito dei musulmani.
(p. 146)
 
Ma l’indicibilità è messa in discussione anche e soprattutto dalle narrazioni dei pochi membri dei cosidetti Sonderkommando che, pur non essendo dei sopravvissuti,
sono riusciti a trasmettere le loro strazianti testimonianze. Testimoni, però, non
tanto della propria morte quanto di quella, da loro stessi resa possibile, delle migliaia di vittime dei gas e dei forni crematori fra le quali si contano sia persone appena
arrivate ai campi e subito destinate alla morte in quanto troppo giovani o troppo
anziani, sia antichi reclusi, i musulmani per l’appunto che, ormai inservibili come
bestie da soma, erano inseriti nell’elenco dei ‘selezionati’. Quelli del Sonderkommando erano testimoni della morte di coloro che portavano a morire nelle camere a gas
che poi ripulivano per altri selezionati. Niente di più indegno e tragico. Dunque, se
è vero che non giungono a parlare della propria fine, sono stati, come il personaggio di Dante, testimoni privilegiati dell’orrore. E anche se l’orrore è inimmaginabile, è comunque rappresentabile. A differenza del Dante actor, che suscita stupore
tra i morti che incontra perché attraversa l’Ade da vivo, cioè come uomo con la sua
ombra, il personaggio-narratore del Sonderkommando prova a descrivere l’inferno
in terra, rappresentando se stesso come già morto : « Può un morto – si chiede Gradowski – piangere i morti ? ».2
 
 
 
 
2. 2. È possibile rappresentare gli orrori dei campi ?
O quando l’estetica è un problema
 
Se la dicibilità dei campi è possibile, in quanto sono realmente esistiti, l’altro grande
ostacolo che i superstiti hanno dovuto superare è quello del modo con cui comunicare l’orrore di quel vissuto, anche per i risvolti giuridici di cui prima ho detto.
La guerra, i lager e la Resistenza al nazifascismo hanno lasciato dietro di sé molti
1
  Agamben, op. cit., pp. 26-29 e A.-V. Sullam Calimani, I nomi dello sterminio, trad. it., Torino, Einaudi, 2001.
  Gradowski, op. cit., p. 74.
2
dante nell ’ inferno moderno: la letteratura dopo auschwitz
95
testimoni. La letteratura italiana del dopoguerra – coincidente in parte con la nozione di ‘neorealismo’ – abbraccia : a) memorie, senza troppe pretese letterarie, di
persone appartenenti soprattutto alla resistenza, b) romanzi o testi letterari i cui
personaggi sono donne e uomini investiti in pieno dalla follia della guerra, protagonisti di storie ambientate durante la Resistenza e/o nei campi di sterminio. Di
quest’ultimi cito gli autori più famosi : Pavese, Vittorini, Fenoglio, Calvino, Bassani
e Primo Levi. Ma alla maggior parte delle opere di questi grandi scrittori l’etichetta
di ‘neorealista’ va troppo stretta. Fu Calvino l’autore che più di tutti si rese conto
dei pericoli che comportava la presa diretta dalla realtà, teorizzata soprattutto dai
critici militanti dell’epoca. Anni dopo egli risolve questa sua perplessità nelle Lezioni americane, in quella intitolata « leggerezza », facendo ricorso al mito di Perseo,
l’eroe che ha ucciso Medusa. È noto che, per uccidere il mostro, Perseo deve evitare
di fissarne lo sguardo, pena la sua trasformazione in una statua di pietra. Lo stratagemma per sconfiggere la Medusa, è guardarla indirettamente attraverso lo scudospecchio. Calvino coglie in questo trucco di Perseo lo stesso rapporto esistente tra
il letterato e la realtà del mondo : la letteratura può comunicarci la realtà della vita,
ma solo a condizione di farlo in modo indiretto, ponendo una distanza tra il soggetto dell’enunciazione e l’oggetto dell’enunciato, creando così una sorta di allegoria.
Il lettore che riesce a cogliere questo senso arriva alla realtà, però con il sufficiente
distacco di un osservatore che, essendone un po’ distanziato, può controllarne gli
effetti negativi.
Questa è la strada che intreprenderanno alcuni scrittori testimoni per tentare
di superare il grande paradosso della letteratura dello sterminio, di tutti gli stermini. Se racconta la verità dei fatti non è creduta ; ma se invece crea degli universi
estetici letterari per essere più verisimile, quindi più efficace, insomma ancora più
realistica, è accusata di falsità. Raccontare è una necessità, una priorità assoluta,
ma non una cosa naturale. Perché raccontare quel dramma significa accettare una
contraddizione senza via d’uscita ma che pure deve essere affrontata. Levi registra
in I sommersi e i salvati il monito beffardo rivolto dalle SS ai reclusi del campo : « In
qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi.
[…] E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, le gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere
creduti… La storia dei Lager, saremo noi a dettarla ». 1
Levi in un passo di questa stessa opera non a caso parla della Gorgona in riferimento ai sommersi, che hanno visto in faccia la realtà ultima dei campi e proprio
per questo non sono più ritornati e non hanno più potuto parlare. Il dovere, quindi,
dei salvati è di parlare con tutte le cautele necessarie per non essere inghiottiti dal
buco nero della terribile visione dei musulmani. La loro impresa esige un grande
lavoro di stilizzazione, di formalizzazione e di costruzione. Perché c’è il pericolo,
come provocatoriamente afferma Kertesz, che la descrizione del campo di concentramento possa essere letta « solo come testo letterario, e non come realtà », 2 non
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1
 
  Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 3.
  Kertesz, Essere senza destino, cit. Si veda anche Ph. Mesnard, Consciences de la Shoah. Critique des discours
et des représentations, Paris, Kimé, 2000, p. 396 e Rastier, op. cit., pp. 105-133.
2
96
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tanto perché il pubblico molto spesso prescinde dalla verità, anzi il più delle volte
preferisce essere ingannato ; ma perché ogni testo è connotato letterariamente o,
peggio ancora, finzionalmente.
Questi testi, per i quali Wiesel reclamava la nascita di un nuovo genere letterario,
quello della « testimonianza », 1 per essere attendibili come ‘testimonianza’ dovrebbero essere svincolati dal concetto di finzione letteraria, mentre invece Antelme,
Wiesel e Kertesz dichiarano di aver scritto dei « romanzi ». Una letteratura idealmente neutra dal punto di vista del genere potrebbe cogliere la differenza che separa queste opere dalle quelle i cui personaggi hanno vita soltanto nella finzione
letteraria (Madame Bovary, Sherlock Holmes, Bloom…). Ma è dunque possibile
che, non dico il testimone narrativo, quanto il destinatario della testimonianza, non
avverta in essa un legame con altri autori che usano il linguaggio nella sua funzione poetico-evocativa e, quindi, un legame con la tradizione letteraria ? Chiedersi
se è possibile leggere una testimonianza tenendola isolata dall’universo letterario
diventa una domanda retorica 2 a cui si può rispondere soltanto negativamente. La
testimonianza, per quanto si voglia proporre come realistica, una volta scritta entra a far parte dell’universo letterario e, si voglia o no, è connotata sia dal punto
di vista della letteratura sia della finzione. Il lettore, ovviamente in funzione della
sua cultura, non può non mettere un testo in rapporto alla tradizione esteticoletteraria, intesa soprattutto, si badi bene, come un insieme di strumenti retoricostilistici adeguati per comunicare un certo messaggio. Ne sono un buon esempio
le ‘strategie di reticenza’ di cui Dante si serve per esprimere l’inesprimibile e che in
alcuni dei romanzi sui campi hanno la funzione di superare il problema del realismo e di introdurre il lettore all’interno della sofferenza e dell’orrore con gli occhi
dei personaggi.
 
 
 
 
 
 
3. È la commedia di Dante una possibile guida ? 32
 
George Steiner nel suo Nel castello di Barbablù afferma che molto si è scritto sui campi di sterminio, ma niente si avvicina alle osservazioni di Dante :
 
Chi capisca pienamente, nel canto xxxiii dell’Inferno, il senso dell’espressione « lo pianto
stesso lí pianger non lascia, / E ’l duol che truova in su li occhi rintoppo / Si volge in entro a
far crescer l’ambascia » potrà farsi, credo, un’idea precisa della natura ontologica dei campi
della morte. […] In essi un lungo e minuzioso lavoro della immaginazione giunge al suo
apice. Perché in essa l’immaginazione è più vigorosa che in qualsiasi altra opera, e perché
situa l’inferno al centro dell’ordine occidentale, la Divina Commedia è sempre letteralmente
la nostra guida per compiere il viaggio al falò e ai paraggi gelati, verso il gancio del macellaio. 43
 
 
In chiave profetica, Dante annuncia Auschwitz ; in chiave estetica, Auschwitz permette di comprendere Dante. Nel capitolo x di Ulysses à Auschwitz. Primo Levi le
 
1
2
  A. Wieviorka, L’ère du témoin, Paris, Plon, 1998.
  Rastier, op. cit., p. 105.
  Rastier, op. cit. p. 98-99, si fa la stessa domanda, e cita l’osservazione di Jean Améry, compagno di prigionia di Primo Levi, secondo la quale : « No había lugar en Auschwitz para la muerte concebida en su forma
4
  Steiner, op. cit., pp. 47-48.
literaria, filosófica o musical ».
3
 
 
 
dante nell ’ inferno moderno: la letteratura dopo auschwitz
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survivant, che ha il titolo Lire après, Rastier, denunciando il punto di vista « estetizzante » che secondo lui domina nella critica di Steiner, si chiede se l’Inferno di Dante può
servire da guida per capire Auschwitz. La domanda di Rastier è più che legittima. E
per quanto la letteratura dello sterminio citi frequentemente l’Inferno, soprattutto
il canto iii, quello in cui Dante scopre la sua visione d’insieme dell’oltretomba, è
necessario porsi la questione di quale funzione esso eserciti nelle opere dello sterminio, oltre ovviamente a quella di Levi. Qualunque sia la risposta – funzione di
modello di riferimento, o di modello comparativo, o addirittura di modello negato – difficilmente l’Inferno cessa di essere il paradigma. 2 Inoltre la ricezione d’una
opera – soprattutto d’una opera come la Commedia – non avviene globalmente
ma parzialmente, per piccole cellule lessicali, figurali, ritmiche, ecc. 3 È d’obbligo
ricordare, a questo proposito, che ben pochi sono stati i tentativi di emulazione
del poema nella sua totalità ; e quei pochi hanno fallito nel loro intento. La maggior parte dei testi citati nella prima parte di questo articolo hanno preso soltanto
alcuni degli elementi, anche essenziali, del poema (il viaggio, la discesa ad inferos,
ecc.), alcune immagini (la folla, il fuoco) oppure alcuni personaggi (Ulisse, Ugolino
della Gherardesca, Francesca da Rimini, Caronte, Dante e Virgilio, Beatrice, ecc.),
ma non hanno tenuto conto dell’opera nella sua totalità. Primo Levi, l’autore che
per ovvie ragioni biografiche, risulta il più legato a Dante, non si pone mai in rapporto all’intero poema dantesco ma opera una selezione delle figure, dei sintagmi
e dei momenti soprattutto contenuti nelle due prime cantiche. Dante non è un
modello, 4 è vero. Costituisce piuttosto la grammatica della narrazione, il serbatoio
dal quale attingere immagini mitiche ed espressioni plastiche, incomparabilmente
nitide nella loro violenza. Dunque, non ha molto senso negare la ricezione per il
fatto che il poema di Dante, organizzato intorno alla distribuzione dei peccati e al
desiderio della grazia divina, narra la ricerca del Senso, mentre i campi di sterminio
non ne hanno. 54Questa è una obiezione ovvia che vale anche per tutta la letteratura,
1
 
 
 
1
  Rastier, op. cit.
  Come ha dimostrato H. Blumenberg nel suo Arbeit am Mythos a proposito del mito di Prometeo nella
letteratura contemporanea (specialmente in Kaf ka) un mito funziona anche quando è oggetto di satira o
denigrazione : « Una delle estreme trasformazioni del mito è, come scopriamo qui, la sua esplicita omissione.
Perfino nella negazione di tutti i suoi elementi esso si presenta comoe diagramma di un orientamento. Esso
viene portato a termine in quanto viene “scoperto” come ricordo di copertura – nella forma di un’orgogliosa
posizione per la reale attuazione di una problematica negazione ».
3
  Ulteriore prova dell’esattezza dei ragionamenti di Dolezel riguardanti l’importanza dei rapporti fra i
mondi di finzione all’interno dell’intertestualità, quando afferma che « Le opere letterarie sono collegate non
solo a livello della texture, ma anche, in modo non meno importante, a livello di mondi finzionali. […] [Questi]
Passano da un creatore di fiction all’altro, da un periodo all’altro, da una cultura all’altra come entità estensionali, quando ormai la texture, lo stile, i modi della narrazione e di autenticazione originari sono stati dimenticati. Un mondo finzionale è più memorabile della texture che lo ha fatto accedere all’esistenza. […] Ciò spiega
perché l’intertestualità intenzionale […] è soprattutto implicita, mentre la successione dei mondi finzionali è
quasi sempre esplicita, e assai spesso in modo molto accentuato », L. Dolezel, Heterocosmica. Fiction e mondi
4
  Rastier op. cit., p. 61.
possibili, trad. it., Milano, Bompiani, 1999, p. 203.
5
  Si veda la critica al non senso dei campi di sterminio che contiene l’opera di I. Kértesz, Kaddish per un
bambino mai nato (Kaddish ez jaiotako ume batentzat), città, editore ? ?, 1990 : « E smettete finalmente di ripetere,
dissi probabilmente, che Auschwitz è il frutto di forze irrazionali, inconcepibili per la ragione, perché il male
ha sempre una spiegazione razionale, può darsi che Satana in persona sia irrazionale, ma le sue creature sono
degli esseri perfettamente razionali […] ciò che è realmente irrazionale e che veramente non trova spiegazione, non è il male, al contrario, è il bene » (p. 52).
2
 
 
 
 
 
   
 
 
 
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da quella romantica fino a quella realistica dell’Ottocento che si è servito del canone dantesco. Una cosa è registrare le palesi differenze tra la gotica Weltanschauung
del poeta italiano e l’opera moderna che stiamo trattando, un’altra cosa è negare
l’influenza che l’Inferno dantesco – e non solo l’Inferno, vista la grande ricezione
moderna del Purgatorio – può aver avuto, ha avuto e continua ad avere nella letteratura mondiale. C’è tutta una mediazione lessicale e figurale che è presumibile
sia passata da Dante agli autori – penso ovviamente a Levi, ma non è da escludere
neppure Antelme, Rousset e Wiesel.
A questo punto si deve distinguere quanto il mondo dantesco sia più o meno
presente, e se in maniera consapevole, nella strategia compositiva degli autori,
e quanto lo sia nell’immaginario del lettore che vi ricorre forzosamente come
unico parametro interpretativo. È sicuramente sufficiente l’epiteto – « il nostro
Caronte » –, con cui Levi si riferisce al soldato tedesco che con modi mostruosamente gentili invita i prigionieri a consegnargli tutti i loro averi, perché la memoria di ogni lettore, mediamente colto, voli al canto iii dell’Inferno. E nel forte
contrasto tra la brutale rudezza dell’uno (« Guai a voi, anime prave ! // Non isperate di veder lo cielo : / io vegno per menarvi a l’altra riva / ne le tenebre etterne,
in caldo e’n gelo », Inf. iii, 84-87) e la cinica gentilezza dell’altro non può non risaltare drammaticamente ai nostri occhi, la figura di questo nuovo traghettatore della
morte. Al di là delle distinzioni ideologiche e di mentalità, al di là della diversa
funzione di personaggi e di figurazioni, un mondo così articolato come quello dei
campi di sterminio, al quale si arriva dopo un lungo viaggio, toccando altri lager,
altri non-luoghi – invisibili perfino ai civili che pur vivono accanto – e che sembra
non rispondere a nessuna logica umana, malgrado pulluli di una umanità infinità e
varia, dalla quale è emerso uno sparuto numero di testimoni, questa struttura mitica, dicevo, nessuno, prima di Kaf ka, Jarry o Céline, l’ha fissata nella nostra mente
occidentale come Dante.
E chiaro che i campi non ubbidiscono, come l’Inferno dantesco, alla logica del
rapporto peccato-punizione, per la quale le violenze che subiscono i dannati trovano una spiegazione logica nella qualità e nella quantità degli errori compiuti in
vita. L’universo concentrazionario non è solo il luogo del terrore generalizzato,
ma è anche dove si esercitano vari livelli di potere, legati tra di loro, in un meccanismo che il più delle volte risulta fatale, ma eccezionalmente può essere anche
salvifico, per coloro che vi sopravvivono. Da questo punto di vista è possibile che
l’immagine dell’Inferno dantesco, come il luogo del male, sia stato d’ostacolo nel
riconoscimento delle diverse componenti “sociali” che formano la massa dei reclusi
e dei pur diversi tipi di trattamento. 1 Il fatto di ridurre la molteplicità dei campi di
 
 
 
 
 
 
1
  Mesnard, Kahan, op. cit., p. 55 : « Il est vrai que pendant longtemps, l’imagination des camps a été conditionnée par le récit mythique d’un grand camp unifié, loin des réalités concentrationnaires multiples, où
primaient les valeurs de la résistance ou de la barbarie, l’une et l’autre réparties suivant la net partage du bien,
d’un coté, et du mal, de l’autre, où la résistance occupait le devant de la scène aux dépens des déportés civils,
des raciaux juifs et tsiganes, des homosexuels, des otages. […] Il est une autre erreur qu’il faut signaler. Agamben, reprenant par là un usage venant de l’Allemagne et, pour ce qui le concerne, de la philosophie, utilise
le nom d’“Auschwitz” pour désigner les camps en génerale, la toponymie devenant antonomase. […] Sous la
plume d’Agamben, “Auschwitz” ne dit rien des “centres de mise à mort” démolis et rayés des cartes en 1944 ou
de Lublin-Majdanek, et qui caractérisent la specificité de la destruction des Juifs d’Europe ».
 
 
 
dante nell ’ inferno moderno: la letteratura dopo auschwitz 99
sterminio alla sola Auschwitz ha portato Agamben a fissarne una struttura sintetica
e paradigmatica che può proiettare la sua ombra sulla modernità politica.
L’Inferno, il « tristo buco » di dantesca memoria (Inf. xxxii, 2), l’Arschloch der Welt
per dirla con l’espressione usata dalle SS, è comunque una metafora che si trova in
tutte le narrazioni dei campi. Forse quello che più la usa, in un modo molto generico, è Gradowski, già all’inizio del suo Sonderkomando : « Caro lettore, troverai in
queste righe il racconto delle sofferenze e dei tormenti che noi, le più infelici creature di questa terra, abbiamo subito al tempo della nostra “vita” in questo inferno
in terra che si chiama Auschwitz-Birkenau ». E in seguito quando parla delle camere
a gas e dei crematori, 1 in quel luogo in cui le grida dei dannati si mescolano alle
urla feroci dei carnefici, descritti come bestie malefiche. « Laggiù » è l’indicazione
generica, quasi un eufemismo per indicare il crematorio, il cuore dell’inferno dove
bocche di fuoco divorano le tantissime vittime senza tregua. 2 Anche qui, come
nell’Inferno dantesco, Gradowski, al quale non è assente una certa preoccupazione
stilistica o estetica, si sofferma su alcuni dei condannati, per presentarci brevi istantanee di vite serene negli ambienti famigliari dei loro paesi di provenienza. Ed ecco
emergere una madre e una figlia, una madre che ha ancora il coraggio di insultare
una SS,3 fino a concludere (p. 114) :
 
 
 
 
 
 
 
 
Le porte si sono spalancate, l’inferno è pronto ad accogliere le vittime. […] Io me ne sto in
disparte e osservo i due gruppi. I banditi, i grandi assassini – e le mie sorelle, le infelici vittime. La marcia, la marcia della morte è incominciata. […] Si ha l’impressione che dei mondi,
dei mondi interi siano denudati e siano arrivati qui, per questa camminata diabolica.
Anche per Robert Antelme 4 il lager è un inferno, il luogo « dove tutto quello che si
dice o si esprime è vomitato a parità, come nel vomito di un ubriaco ». Rousset da
parte sua si lascia portare da quest’immagine quando descrive i prigionieri comuni :
« Il popolo dei campi costituisce un mondo alla Céline con ossessività kaf kiane. […]
Le violenze corrompono in modo mirabile ogni resistenza e ogni dignità. […] Non
conosco nulla che possa rendere con pari intensità, plasticamente, la vita interiore
degli internati come la porta dell’inferno e i personaggi che ne sono usciti ». 5 In queste parole forse si potrebbe riconoscere un’allusione alla ‘Porte de l’Enfer’ di August Rodin che l’anno 1937 fu collocata nel giardino del Museo Rodin a Parigi, nella
quale si riconoscono Paolo e Francesca, Ugolino e altri personaggi danteschi. 65
Anche la descrizione che ne fa Levi all’inizio del suo libro mescola suggestioni
 
 
 
 
 
1
  « uomini, giovani e anziani, padri e figli, sarebbero stati condotti in questo inferno, o laggiù, nell’altro
inferno, e spinti con brutalità verso la morte » (p. 98).
2
  « Non ci vorrà molto tempo, perché questi cinquemila esseri umani, questi cinquemila mondi siano consumati nelle fiamme ».(pp. 144-145).
3
  « Poi, rivolgendosi alla donna [delle SS] : “ Sei venuta anche tu, bestia crudele, assassina delle donne, per
godere della nostra rovina. Ma ricordati ! Anche tu hai un figlio, una famiglia, ma non li godrai a lungo ! Sarai
uccisa, e il figlio tuo, come il mio, non vivrà molto di più […] Pagherete per questo, il mondo intero vi punirà.
[…] Questa donna, sulla tomba, ha strappato loro la maschera e ha predetto il futuro, molto vicino, che li
aspetta » (p. 116).
4
5
  Antelme, op. cit., p. 142.
  Rousset, op. cit., p. 59.
6
  Si vedano A. Audeh, Rodin’s “Gates of Hell”. Scultural illustration of Dante’s « Divine Comedy », in Rodin : A
magnificient obsession, città, editore ? ?, 2001, pp. 92-125 ; L. De Girolami Cheney, Rodin’s « Gates of Hell » : An
interpretation of Dante’s poema sacro, « Italian Culture », xi (1993), pp. 103-126.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
 
 
 
 
 
 
100
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dantesche con atmosfere kaf kiane o addirittura beckettiane. 1 Neanche Elie Wiesel,
pur nella sua scarna e essenziale narrazione dei fatti, quando evoca lo spettro della
selezione può evitare questa similitudine : « Poco importava adesso se il lavoro fosse duro. L’essenziale era di trovarsi lontano dal blocco, lontano dal crogiolo della
morte, lontano dal centro dell’inferno ». 2 In Essere senza destino, di Kertész, il giovane protagonista replica a coloro che parlano dei campi come di un vero inferno, con
queste parole : « L’inferno non esiste, Auschwitz esiste ». Per lo scrittore ungherese
l’Inferno di Dante è un mondo astratto che poco ha a che fare con la realtà dei lager.
Anche Neus Català, una deportata catalana a Ravensbrück, in un documentario televisivo intitolato “Ravensbrück : l’infern de les dones” comincia la sua testimonianza con queste parole : « Dante ha descritto l’Inferno, ma non ha fatto l’esperienza di
Ravensbrück ». 3
Comunque sia, la letteratura infernale e con essa l’Inferno dantesco rappresentano
un ponte che collega il narratore, e quanto da lui vissuto, con il lettore, a cui risulterebbe impossibile la comprensione senza il supporto delle figure letterarie dell’inframondo, per quanto questo supporto lo induca a considerare questi testi più per
il loro merito letterario che come testimonianza. Dice Luba Jurgenson che l’azione
di iscrivere questi testi nell’universo letterario è simultanea all’evento, il quale non
solo si costruisce nella e con la letteratura, ma è letto e capito nella e con l’aiuto della
letteratura.4 Miseria e potere della letteratura ai quali non si può sfuggire.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 1. La disumanizzazione all’ombra di Ulisse
La disumanizzazione, la perdita di ogni tratto umano è la grande preoccupazione
di tutti questi narratori, che non fanno altro che registrare il processo di degradazione verso la condizione di animale o peggio ancora di cosa, prima della trasformazione in scheletro.54« Un giorno – ricorda Wiesel (p. 112) – riuscii al alzarmi, dopo
aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al
muro di fronte : non mi ero visto dal ghetto. Dal fondo dello specchio un cadavere
mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi ha più lasciato. » Quasi tutti
i testimoni concordano nel dire che questa trasformazione è però avvenuta subito
dopo l’entrata in uno di questi campi. Leggiamo in questo senso quello che scrive
Levi in Se questo è un uomo (p. 23) :
 
 
 
 
1
  « Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi
stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di
certamente terribile e non succede niente e continua e non succede niente e continua a non succeder niente »
(p. 19).
2
  Wiesel, op cit., p. 75. Oppure quando riproduce le parole di un giovane polacco che suonano come il
rovescio della medaglia di quelle che si trovano scritte sulla porta dell’Inferno (« Lasciate ogni speranza, voi
ch’intrate ») : (p. 46) : « Compagni, vi trovate nel campo di concentramento di Auschwitz. Un lungo cammino
di sofferenze vi attende, ma non perdetevi di coraggio. Avete già superato il pericolo più grande : la selezione.
Ebbene raccogliete le vostre forze e non perdete la speranza : vedremo tutti il giorno della liberazione. Abbiate
fiducia nella vita, mille volte fiducia. Caccia la disperazione e allontanerete da voi la morte. L’inferno non dura
in eterno […] ».
3
  Il documentario Ravensbrück, l’infern de les dones, fu presentato all’interno della trasmissione « 30 minuts »
4
  Jurgenson, op. cit.
della tv catalana tv3, corrispondente al 7 dicembre 2006.
5
  « Pochi internati hanno fatto ritorno, e meno ancora sani. Quanti non sono altro che cadaveri viventi »,
ricorda Rousset, op. cit., pp. 123-124.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
dante nell ’ inferno moderno: la letteratura dopo auschwitz 101
Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera. Allora per la prima volta ci siamo accorti
che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un
uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata : siamo arrivati
in fondo. Più giù di così non si può andare : condizione umana più misera non c’è, e non
è pensabile. […] Ci toglieranno anche il nome : e se vorremmo conservarlo, dovremmo
trovare in noi la forza di farlo, di fare sí che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi
quali eravamo, rimanga.
 
 
 
Il degrado è anche psicologico e non solo fisico, soprattutto, ma non solo, per chi
fa parte dei Sonderkommando ed è costretto a soffocare ogni sentimento, a diventare freddo come Branca Doria : 1 « Ci si deve trasformare in un automa, non vedere
niente, non sentire niente, non capire niente. » 2 Il legame fraterno si è spezzato. La
debolezza dell’essere umano è emersa con tutta la sua tragicità. È rimasto soltanto l’istinto di sopravvivenza, che si rivela letale perché si è impossessato di tutti,
soffocando ogni ritegno o paura. Questa trasformazione biologica dei detenuti è
corrispondente a quella degli aguzzini, descritti come « bestie crudeli e selvagge »
o « bestiali assassini » (Gradowski), 3 in un evidente parallelismo con le tante fiere –
lonza, leone, lupa, Cerbero, Gerione, arpie, cani, porci, serpenti… – che infliggono
tormenti ai dannati.
Ma per arrivare a questo livello di disumanizzazione ci è voluto molto impegno,
molta scienza dell’inganno, come ha visto con spietata chiaroveggenza Gradowski
nei suoi diari in cui registra tutti i passaggi attraverso i quali le vittime giungono
all’atrofizzazione dei sentimenti, all’indifferenza assoluta per la sorte dell’altro, sia
esso il compagno, la madre, il figlio o il fratello. 4 La ‘selezione’ con la sua terribile
arbitrarietà era operata da SS, Kapos, o da incaricati dei Blok che, come altrettanti
Minosse, decidevano del destino dei prigionieri sia al loro arrivo nei campi, sia durante la loro detenzione. Il re di Creta Minosse che Dante situa all’inizio dell’Inferno (Inf. v, 4 ss.) rifacendosi a Virgilio (Aen. vi, 432-433), ha la funzione di smistare i
dannati in base ai loro peccati :
 
 
 
 
 
 
 
 
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia :
esamina le colpe ne l’intrata ;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa ;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa ;
 
 
 
 
1
  […] ché Branca Doria non morì unquanche / e mangia e bee e dorme e veste panni » (Inf. xxxiii, 140-141).
Parla Dante alla vista di Lucifero : « Io non mori’ e non rimasi vivo ; / pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
/qual io divenni, d’uno e d’altro privo » (Inf. xxxiv, 25-27). Cfr. Rastier, op. cit., pp. 28-29.
2
  Gradowski, op. cit., p. 142.
3
  « Tra loro e noi – scrive Antelme, op. cit., p. 276 – esiste una relazione che nulla può distruggere. Sanno
quello che fanno, sanno quello che fanno di noi. Lo sono. Voi siete noi stessi ! Si guarda ciascuno di questi
esseri “che non sanno”, si vorrebbe entrare in ogni coscienza che vorrà non aver visto che un pezzo di tessuto
a righe, o una fila di uomini o una faccia barbuta o la SS dell’aspetto marziale che è in testa ».
4
  Nella seconda parte invece analizza l’effetto della divisione e della selezione anche sui membre del cosidetto Sonderkommando.
 
 
 
 
 
 
 
 
102
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cignesi con la coda tante volte
quantumque gradi vuol che giù sia messa.
Un procedimento analogo era quello seguito nei campi.
In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che
accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora
né dopo : la notte inghiottí, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella
scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich ; sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau,
non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di
tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi. 1
 
 
Ma la selezione poteva avvenire in qualsiasi altro momento della vita dei campi,
come testimoniano con terrore i diversi autori (Wiesel, Rousset). 2
Ricordiamo qui i famosi versi contenuti in Inf. xxvi, 116-118 : « Considerate la vostra semenza / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir vertute e conoscenza ». Essi sono la parte finale dell’orazion picciola che l’Ulisse dantesco rivolge
ai suoi compagni, ma sono anche le parole che suonano all’orecchio di Levi « come
uno squillo di tromba, come la voce di Dio », che risvegliano in lui un altro Ulisse,
colui che dovrà non solo usare la razionalità per capire quel mondo ma anche seguire la legge morale adeguata alla responsabilità di cui si sente investito. La frase
che chiude il capitolo “Il canto di Ulisse” è enigmatica : « qualcosa di gigantesco che
io stesso ho visto ora soltanto, forse il perché del nostro destino, del nostro essere
oggi qui… » lascia interdetto il lettore perché è l’unica frase non conclusa di tutto il
libro. È come se il narratore fosse stato folgorato da una visione grandiosa e apocalittica. In un’intervista di parecchi anni dopo l’autore in parte spiega questa visione,
dicendo di essersi sentito colpevole, ma non dice per che cosa. Noi possiamo supporre che abbia a che fare con il doppio destino dell’eroe greco, il quale ricorda ai
compagni l’alto comune destino caratterizzato da virtù e canoscenza, ma che, al
contempo, è capace di usare tutti i mezzi, compresa la frode, pur di ottenere l’ambito obbiettivo personale. Se Dante vedeva in Ulisse la ragione priva della grazia
divina, è probabile che Levi ci abbia visto la ragione immorale. E abbia avvertito
in questa doppiezza un parallelismo con se stesso e con il proprio tempo. Essere
uomo significa sì seguire la propria indole umana caratterizzata dalla ragione, che
si oppone alla irrazionalità dominante, ma anche una morale che si contrappone
all’immoralismo del marinaio greco per il quale tutti i mezzi, compresa la frode, so 
 
 
 
 
 
 
 
1
  Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 17 ; « Sappiamo anche – continua Levi – che non sempre questo pur tenue
principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema
più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzion i ai nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio ; andavano in gas gli altri ». Anche
Wiesel, op. cit., p. 37 ne fa un racconto simile : « Al centro c’era il dottor Mengele, questo famoso dottor Mengele (tipico ufficiale delle SS, volto crudele, non privo d’intelligenza, monocolo), una bacchetta da direttore
d’orchestra in mano, in mezzo ad altri ufficiali. La bacchetta si muoveva senza tregua, una volta destra, una
volta a sinistra. […] Noi non sapevamo ancora quale direzione fosse quella buona, se quella a sinistra o quella
a destra, quale strada portasse alla prigionia e quale al crematorio ».
2
  Rousset, op. cit., P. 35 : « L’SS solleva una palpebra pesante, fa cadere sul detenuto uno sguardo impassibile,
espira una voluta di fumo e con la mano accenna il gesto : “Il prossimo” ».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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no leciti per raggiungere la meta. L’Ulisse di Dante non fa ritorno, non è l’eroe del
nostos. Naufraga davanti alla montagna del Paradiso terrestre. Anche Ulisse-Levi
in qualche modo naufraga non tanto nel tentativo di narrare l’umanità sommersa,
quanto nel liberarsi della colpa di aver contribuito anche individualmente alla costruzione di quell’universo selvaggio e senza senso. Il suo viaggio non ha la serena
conclusione di cui gode l’Ulisse di Du Bellay, citato da Antelme :
 
Hereux qui, comme Ulysse, a fait un bon voyage,
ou comme cestuy-là qui conquit la toison,
Et puis est retourné, plein d’usage et raison,
Vivre entre ses parents le reste de son âge ! 1
 
che ha fatto ritorno a casa, il centro di mai interrotti affetti famigliari. I prigioneri
finché sono nei campi continuavano a sognare il ritorno allo stesso focolare di prima, ma presto scopriranno che Auschwitz, come un ciclone, si è portato via il « dolce mondo » di prima. Certamente da Auschwitz non si ritorna, tra l’altro perché il
mondo al quale si vuole tornare non c’è più.
L’Ulisse che torna dai lager non trova più casa, né moglie né parenti. Nella migliore delle ipotesi trova una casa occupata da altri e dei familiari che non intendono e non sono disposti ad intendere ciò che questa specie di Ulisse va dicendo.
Antelme costruisce tutto il suo libro, non a caso intitolato L’espèce humaine, intorno
al progressivo allontamento del recluso dalla condizione umana. E giunge alla constazione che l’umanità dei campi si è trasformata in un’altra specie, forse animale
o vegetale, in qualcosa « che si batte solo per mangiare e muore se non mangia »,
perché è stata costretta a « vivere in condizioni che nessuno – dico nessuno – potrà
mai immaginare » (p. 229). Ciò nonostante, e anche a rischio di contraddirsi, è convinto che nessuno può togliere all’uomo la sua appartenenza alla specie umana.
« Proprio perché siamo uomini come loro, le SS in definitiva saranno impotenti davanti a noi. […] noi non possiamo diventare né bestia né albero. Né noi possiamo,
né le SS possono farci arrivare a questo punto. […] Può ammazzarlo un uomo, ma
non cambiarlo in qualche cosa d’altro. » 2 Qui tornano alla mente certi personaggi
danteschi, come Piccarda e Costanza di Altavilla, che nessuna violenza fisica riesce
a privare della loro libertà spirituale (Par. iii).
 
 
 
 
 
 
 
 
3. 2. Narratore e personaggio
Occorre però fermarsi un momento a considerare il diverso statuto dell’io narratore (colui che parla) e dell’io personaggio (quello di cui si parla) nella Commedia e nei testi moderni oggetto della nostra indagine, in quanto ci può fornire qualche nuovo dato utile alla loro interpretazione. L’auctor della Commedia è
« libero, dritto e sano » (Purg. xxvii, 140) e, non ha più bisogno di guide perché si è
liberato dalla servitù delle passioni e perché ‘sa’ il modo di operare della giustizia
divina. Nell’agens, cioè nel pellegrino, invece, si riflettono le miserie e le debolezze
dell’umanità coeva a Dante che egli tenta di spronare sul cammino della redenzione. Bisognoso anch’esso di essere guidato, s’immedesima nei tanti personaggi che
 
 
1
  Antelme, op. cit., p. 229.
2
  Ivi, pp. 257-258.
104
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incontra lungo la strada perché li sente vicini nello stato di confusione e di smarrimento.
Invece l’agens, il protagonista dei testi moderni, si è trovato, senza nessuna guida, a vivere – a subire suo malgrado – un’esperienza di cui non comprende né le
dimensioni né il senso, indeciso tra la volontà di soppravvivere e l’indifferenza per
il proprio destino, spesso tentato di diventare uno dei tanti anonimi musulmani
che – per dirla con le parole di Levi – « si esita a chiamare vivi : si esita a chiamare
morte la loro morte, davanti a cui essi non tremano perché sono troppo stanchi
per comprenderla ». Ciò nonostante, esso ha imboccato la strada della salvazione.
Sono i salvati, infatti, oltre che per una enorme dose di fortuna agli altri non concessa, coloro che sono riusciti ad orientarsi nell’universo dei campi e a sfruttare le
loro competenze, a partire da quella della conoscenza della lingua tedesca. Come
Dante non riesce a reprimere un moto di simpatia o di compassione per certi dannati (ad esempio Paolo e Francesca), così anche loro soffrono davanti alla visione
di quell’umanità degradata, anche se nel momento dei fatti, che poi narreranno, in
loro non c’è spazio per nessun’altra preoccupazione che non sia quella di mangiare
(« quello che si batte solo per mangiare e muore se non mangia » – scrive Antelme)
e di salvare la propria pelle. Il contatto se non addirittura la stessa vista dei cosidetti « musulmani » deve essere evitato, in quanto agli occhi di quelli che non hanno
ancora raggiunto quello stadio di disumanizzazione essi rappresentano il punto di
non ritorno, dopo il quale non resta che la gasificazione.
A differenza dell’agens, risulta più difficile omologare l’auctor di queste narrazioni
del campo. C’è infatti il narratore autobiografico e analitico delle opere di Levi,
Rousset, Wiesel e Antelme, quello ‘finzionale’ di Essere senza destino di Kertész,
quello diaristico di Salmen Grawdoski, per il quale la distanza fra i fatti narrati e la
scrittura è minima rispetto a quella degli altri testi 1 (« Le porte si sono spalancate,
l’inferno è pronto ad accogliere le vittime. […] Io me ne sto in disparte e osservo
i due gruppi. I banditi, i grandi assassini – e le mie sorelle, le infelici vittime »). 2 La
voce è, comunque, quella di un narratore per sempre segnato dalla schiacciante
esperienza vissuta, che s’interroga costantemente sul senso di quegli eventi, senza
mai trovarlo. Più che avvicinarsi a Dio, egli perde ogni speranza nel Dio che ha
permesso un simile inferno in terra. 32 Strappato alle persone, alle case e alle cose
famigliari, egli si ritrova, senza sapere come né soprattutto perché, in treni merci maleodoranti. All’inizio fiducioso in una rapida e felice soluzione dell’equivoco
(atteggiamento questo comune anche ad alcuni dei protagonisti del romanzo di
Kertesz, Essere senza destino), precipita ben presto nella più spietata macchina di
violenza mai realizzata, dalla quale pochi si salvano. Egli a differenza di Dante,
non era stato scelto per essere immerso in questo abisso della degrazione umana ;
ma ora che è tornato, si sente, come Dante, investito di una missione, raccontare
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1
  P. V. Mengaldo, Lingua e scrittura in P. Levi, in Primo Levi : un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero,
Torino, Einaudi, 1997, pp. 169-242 ; Idem, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, Torino,
2
  Gradowski, op. cit., p. 114.
Bollati Boringhieri, 2007.
3
  « Non era il solo – scrive Wiesel – ad aver perduto la fede in quei giorni di selezione. Conobbi un rabbino
di una piccola città polacca […] un giorno mi disse : – È finta. Dio non è più con noi. […] Dov’è Dio ? Come
posso credere a questo Dio di misericordia ? ».
 
 
 
 
   
 
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esattamente quello che ha vissuto, affinché i posteri conoscano l’entità del crimine
contro l’umanità perpetrato dai nazisti e ne traggano la necessaria lezione.
Sente irrefrenabile la necessità di comunicare la verità per salvare dall’anonimato
della morte almeno la memoria dei sommersi. E in questo il suo compito è simile
a quello di Dante auctor. Ma a differenza di Dante, il sopravvissuto è in preda a un
forte senso di colpa (si vedano, per esempio, i casi di Levi e di Jean Amery), di vergogna addirittura per il fatto di essere sfuggito a quel destino atroce. 1 E ovviamente
non può essere uomo « libero, dritto e sano » come l’auctor della Commedia, perché
è intrappolato per sempre nella memoria dei campi. È un superstite. Un cadavere
vivente. Uno che non è mai tornato da Auschwitz. Da Auschwitz non c’è ritorno.
Si è vivi-morti per sempre. Come Branca Doria (Inf. xxxiii, 141) 2 e il Vecchio Marinaio di Coleridge che Levi cita nella poesia Il superstite, il sopravvissuto non si sente
veramente vivo, ma neanche del tutto morto. È una sensazione simile a quella che
Dante vive al cospetto di Lucifero :
 
 
 
« Io non mori’ e non rimase vivo ;
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo ». (Inf. xxxiv, 25-27)
 
 
 
Le lacrime e il dolore sono stati congelati per sempre sul viso del superstite, schiacciato dal peso di un proprio costante dolore, e da quello dei sommersi ai quali vuole
dar voce.
« Due anni fa – scrive Antelme (p. 5) – subito dopo il nostro ritorno siamo stati
tutti in preda a un vero delirio. Volevamo parlare ed essere finalmente ascoltati. Ci
dissero che il nostro aspetto fisico era di per sé abbastanza eloquente. Ma si tornava
allora, riportavamo nella carne la memoria della nostra viva esperienza, sentendo
il bisogno frenetico di dirla così com’era. Si capì subito però che ci sarebbe stato
impossibile colmare la distanza che si andava scoprendo, tra il linguaggio di cui
disponevamo e l’esperienza che quasi tutti stavamo inseguendo dentro di noi ».
La memoria, è una delle questioni fondamentali nella letteratura di cui ci stiamo occupando. Essenzialmente è di due tipi : la memoria nei campi e la memoria dei campi di concentramento. Le accomuna il dolore straziante che comporta
l’evocazione del passato. Si differenziano per il grado di difficoltà nel rievocarlo : la
memoria del passato nel campo è possibile, anche se non è conveniente allo sforzo
di sopravvivere e di adattarsi alla realtà del campo ; la memoria del campo risulta
quasi sempre impossibile, almeno inizialmente. È infatti comune ai deportati sopravvissuti un periodo più o meno lungo di amnesia, che però in seguito passa,
per loro disgrazia o per loro fortuna. Ci sono casi di amnesie lunghe decenni. È
come se essi dovessero strappare i ricordi alle fi bre più profonde del corpo dove
gli eventi traumatici vissuti sono stati indelebilmente registrati, marchiati a fuoco. 3
 
 
 
 
 
1
  Agamben, L’aperto, cit., pp. 82 ss.
  « […] ché Branca Doria non morì unquanche / e mangia e bee e dorme e veste panni », dice a fra Alberigo
(Inf. xxxiii, 140-141). Cfr. Rastier, op. cit., pp. 15-16 e 25-36.
3
  Afferma L. Jurgenson : « Je crois que c’est par le corps que le texte s’écrit. […] Le corps est le principal
acteur de l’œuvre sur le camp. Dans la logique concentrationnaire, il est toujours en trop, et c’est de cela qu’il
porte témoignage. Dans tout procès réel ou virtuel, le corps est l’ultime pièce à conviction, il est en soi un
témoin. Il est ce lieu où se réalise l’état extrême de l’individu. Car le corps concentrationnaire est déjà un texte,
marqué par le camp comme pourrait l’être un livre ».
2
 
 
 
 
 
106
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Col tempo invece, per una parte importante dei sopravvissuti, ricordare coincide
con la trasmissione dei ricordi, per quanto dolorosi. « Scrivo – dice Gradowski – con
l’intenzione che almeno una parte della verità giunga a conoscenza del mondo,
e che tu possa reclamare vendetta, mondo, vendetta per tutto ! » Ancora a questo
proposito, leggiamo in Levi : « I ricordi della mia prigionia sono molto più vividi e
dettagliati rispetto a qualsiasi altra cosa che è accaduta prima o dopo », « direi – aggiunge – quasi una preparazione inconscia a testimoniare ». 1
Il primo tipo di memoria ha come epigrafe le parole che Francesca da Rimini
rivolge a Dante nel canto v dell’Inferno, servendosi delle parole di Boezio : 2
 
   
 
 
 
 
 
 
“Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria ; e ciò sa il tuo dottore ».
 
 
(vv. 121-123)
Questi versi costituiscono l’asse intorno al quale si dispongono tutti i riferimenti
alla memoria del passato nel racconto dei reclusi : la memoria del dolce mondo, è
chiamata da Levi nella poesia intitolata Buna (« Se ancora ci trovassimo davanti
/ Lassù nel dolce mondo sotto il sole / Con quale viso ci staremo in fronte ? »), 3
con lo stesso sintagma, si badi bene, usato da Farinata. 4 Nella maggior parte
dei casi, l’evocazione dei momenti della loro vita civile e libera è fonte di nuova
sofferenza, così come la consapevolezza che l’esperienza del campo rende impossibile qualsiasi parvenza di ritorno alla identità passata. Antelme scrive : « Erano
nella notte di Natale come in una nuvola. […] A un certo punto hanno cercato
di raccontare delle storie. Hanno parlato della moglie e dei figli. […] L’inferno
della memoria funzionava in pieno ». 5 Il linguaggio è una malia che toglie il fiato, che marcisce il corpo. Bisognava quindi allontanarsi dalle parole evocanti il
« dolce mondo ». Lasciare caso mai per più tardi queste evocazoni, « quando non
si sarebbe potuto prendere altro né dal fisico né dalla volontà. Quando si sarebbe
stati sicuri che il mare non lo avremmo rivisto più. Ma finché un avvenire era
ancora possibile bisognava starsene zitti ». 65 L’Ulisse dantesco, con il suo non ri 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1
  Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 225 e 220.
  « nei momenti di avversità l’essere stati felici costituisce la forma più straziante di dolore » (Cons. iii, 4. 2).
3
  Cfr. Rastier, op. cit., 2005, pp. 63-67.
4
5
  Inf. x, 81, verso che citiamo subito.
  Antelme, op. cit., pp. 128-129.
6
  E anche Gradowski, op. cit., p. 59 : « Quando esco dalla mia tomba in questa terra maledetta e dannata, e
vedo con quanta insolenza la luna rischiara un lembo del mio mondo di tenebre, nel quale sono così profondamente immerso e di cui sono impregnato – faccio ritorno di corsa nella mia tomba oscura. Non riesco più a
fissare il suo chiarore. […] Solleva una tormenta che sconvolge il mio spirito, fa zampillare in me una quantità
di ricordi che mi lasciano privo di forze, mi spezzano il cuore. Sono trascinato da quest’onda schiumeggiante
in un oceano di sofferenza. Mi ricorda il tempo passato, l’incanto di allora, e mi svela tutto l’orrore di questo
tragico presente. […] La notte scura è la mia compagna, i pianti e le urla sono i miei canti, il fuoco che bruccia
le vittime è la mia luce, l’atmosfera di morte è il mio incenso, l’inferno è la mia dimora » ; p. 63 : « Non devono
più vedere la tua luce [luna] gli uomini che si sono trasformati in bestie selvagge e sanguinarie » ; p. 65 : « e guarda come si danno da fare, come pazzi furiosi, i servitri del diavolo, i barbari di questo mondo, e come cercano,
frugano le strade e le case, forse riusciranno ancora a catturare una vittima […] Guardali, mentre setacciano i
campi […] per trovare altre vittime […] tante ne ha divorate in questi anni [il loro dio] – ed è sempre affamato, furioso e folle, e attende fremendo nuove vittime […] senti la confusione e le grida ? » ; p. 81 : « Piangono,
si tormentano, scossi da spasmi. Pensare alla propria vita, fare il bilancio degli anni li sconvolge, li scuote nel
2
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
 
 
 
 
 
 
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torno, costituisce anche in questo caso la rappresentazione letteraria della loro
condizione.
L’altro tipo di memoria, quella esercitata dai salvati va, invece, nella stessa direzione della domanda che Farinata rivolge a Dante, a sua volta modellata su quella
di Enea a Didone in Aen. ii : « regina, un dolore terribile tu chiedi ch’io rinnovi… Ma
pure, se tanto è il tuo desiderio di udire le nostre sventure… » : 1
 
 
 
 
« E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi : perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge ? ».
 
 
 
 
(Inf. x, 82-84)
Come Farinata, anch’essi si chiedono il perché di tanta empietà e di tanta violenza.
Lungo il suo percorso Dante incontra diverse anime che gli chiedono di ricordarle al suo rientro nel mondo dei vivi. L’esercizio di memoria più meno ossessivamente presente è quello che ha come lemma il verso « ricordati di me, che son
la Pia » (Purg. v, 134). Sono le parole con cui Pia de’ Tolomei gli chiede di essere
ricordata dai vivi per accorciare la sua penitenza in Purgatorio. Invece gli autori
della letteratura dei campi evocano la richiesta di molti dei sommersi, a volte indicati con un nome comune (il Greco), a volte con il loro nome proprio (Hurbinek,
ecc.), tutti emergono come la moltitudine di anime dantesche quali reali raffigurazioni dell’orrore. Le più strazianti sono le memorie affidate ai Sonderkommando. Il
narratore è conscio che loro, i sommersi, vivono solo grazie alle sue parole. Levi
parlando del caso del bambino di tre anni chiamato Hurbinek, conclude dicendo :
« Nulla resta di lui : egli testimonia attraverso queste mie parole » « Tutti i musulmani – scrive ancora Levi – che vanno in gas hanno la stessa storia, o, per meglio dire,
non hanno storia. […] La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato ; sono
loro, i Muselmänner, i sommersi, il nerbo del campo ; […] Essi popolano la mia
memoria della loro presenza senza volto ». 2
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
4. Conclusioni
Un’indagine meno affrettata della nostra avrebbe dovuto dar maggior risalto alla
presenza di altri inferni della letteratura moderna (di Kaf ka, di Ubu, di Céline, di
Beckett) e non limitarsi ad uno solo. Spero, comunque, di aver sufficientemente
provato che la mediazione letteraria è fondamentale sia nella fase di costruzione
mentale del lager, sia in quella successiva della sua rappresentazione narrativa. Anzi, entrambe queste fasi sono un tutt’uno, perché derivano da un medesimo immaginario collettivo. All’interno di questa mediazione letteraria sono convinto che i
profondo. […] Si ricordano del tempo passato, quando la loro vita era bella, quando era felice ! Rivedono il
film dei tempi passati, ormai finiti per sempre, e allora si mostra in tutto il suo orrore la cruda realtà, che sta
davanti ai loro occhi. Si sentono travolti e disperati nell’attesa della fine. Sono tutti oppressi e tormentati dalla
pena, dall’attesa che arrivi l’attroce e orribile morte ».
1
  « Infandum, regina, iubes renouare dolorem […] Sed si tantus amor casus cognoscere nostros / et breviter
Troiae supremum audire laborem, / quanquam animus meminisse horret luctuque refugit, / incipiam » (vv.
2
  Levi, La tregua, cit., p. 167.
3, 10-13).
 
 
 
 
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moduli stilistici, retorici e narrativi della Commedia hanno un peso fondamentale
sull’interpretazione del vissuto sia da parte del narratore sia da parte del lettore.
Non sfugge a nessuno il ruolo che ha avuto il Levi di Se questo è un uomo nell’ermeneutica dei campi. Egli, ponendosi all’ombra di Ulisse – confondendosi in certo
qual modo con lui –, 1 ha fatto della Commedia la chiave interpretativa di ogni visione-lettura dell’universo concentrazionario, non solo per essere stato uno dei primi
a pubblicare (nel 1947, lo stesso anno in cui Antelme pubblica L’espèce humaine, un
anno dopo L’univers concentracionnaire de David Rousset e molto prima de La notte
di Elie Wiesel uscito nel 1958) ma innanzitutto per l’universale successo raggiunto,
che non poco deve alle sue straordinarie qualità letterarie.
Questo mio articolo vuole essere un modesto tentativo di esaminare la continuità della ricezione del poema dantesco nel nostro tempo e in particolare all’interno
di uno degli ambiti narrativi più scottanti, che, come ho tentato di dimostrare, ha
incontrato molte difficoltà già dai suoi inizi. Difficoltà e ostacoli continueranno
a presentarsi ai testimoni ogni qualvolta un genocidio, per quanto più modesto
nelle dimensioni di quello nazista, e privo di quella folle scientificità, riproponga il
bisogno di raccontare l’incontro con la medusa e con il suo sguardo pietrificante.
Auguriamoci che ciò non debba accadere, ma nel caso, il parallelismo con il viaggio
dantesco nel sottomondo continuerebbe a fornirci alcune delle chiavi interpretative ed espressive dell’orrore a cui possono affacciarsi gli occhi umani. Non invano la
sensibilità e l’intelligenza di Dante ci ha trasmesso una delle riflessioni più profonde
sul destino dell’umanità, nel bene e nel male.
L’enfer n’est pas le lieu de la douleur. Il est le lieu où l’on fait souffrir.
E. Jabès, L’Enfer de Dante (1991)
Bibliografia
“Des voix sous la cendre ; manuscrits des Sonderkommandos”, Paris, Ed. Calmann-Lévy, 2005.
Antelme Robert, La specie umana [1957], Intr. di A. Cavaglion, trad. it., Torino, Einaudi,
1997 [1969].
Bruck Edith, Signora Auschwitz. Il dono della parola, Venezia, Marsilio, 1999.
Delbo Charlotte, Auschwitz et après, tome 1 : Aucun de nous ne reviendra, Paris, Minuit,
19 ? ? ? ?.
Delbo Charlotte, Auschwitz et après, tome 2 : Une connaissance inutile, Paris, Minuit, 1970.
Delbo Charlotte, Auschwitz et après, tome 3 : Mesure de nos jours, Paris, Minuit, 1971.
Gradowski Salmen, Sonderkommando. Diario da un crematorio di Auschwitz, (1944), a cura di PH. Mesnard e C. Saletti, Venezia, Marsilio, 2002.
Jabès Edmond, L’Enfer de Dante, Montpellier, Fata Morgana, 1991.
Kertész Imre, Essere senza destino, Milano, Feltrinelli, 1999.
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2004.
Kogon Eugen, L’Etat SS, [1950], Paris, Seuil, 1993.
Levi Primo, Informe sobre Auschwitz, a cura di L. Debenedetti, Castelló, La trossa, 2005.
Levi Primo, Se questo è un uomo, in Idem, Opere, vol. i, a cura di C. Cases, Torino, Einaudi,
1988.
 
 
 
 
 
 
 
 
1
  Come indica anche il titolo del libro di F. Rastier, Ulysse à Auschwitz. Primo Levi, le survivant.
dante nell ’ inferno moderno: la letteratura dopo auschwitz 109
Perec George, L. G. Une aventure des années soixante, Paris, Seuil, 1992.
Perec George, W ou le souvenir d’enfance, Parigi, Denöel, 1975.
Rousset David, L’Univers concentrationnaire [1965], Paris, Editions de Minuit - Documents,
1981 (réed. Hachette, 1998).
Semprun Jorge, La Mort qu’il faut, Paris, Gallimard, 2001.
Semprun Jorge, Le grand voyage, Paris, Gallimard, 1972.
Semprun Jorge, L’Écriture ou la vie, Paris, Gallimard, 1996.
Spiegelman Art, Maus : un survivant raconte, Paris, Flammarion, 1998.
Wiesel Elie, La notte (1958), trad. it., prefazione di F. Mauriac, Firenze, La Giuntina, 1980.