“Quanto dicono i poeti…” (Aristot. Metaph. I) La divina

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“Quanto dicono i poeti…” (Aristot. Metaph. I)
La divina theoria come forma argomentativa strumentale al
philosophos logos
Giulio A. Lucchetta
Connecting to theos, the greek term theoria means the large and complete
vision of truth that contains all the events; this is the way in wich Aristotle ricreated the historic background of the development of philosophy. My
pourpose is to examine a known argument about the existence of gods in
order to qualify the eminence of wisdom as theoria, i. e. an exaustive view
of all the different beings and the way to speak about them. The hypothesis is that god’s overlook is a kind of logical argument close to the paradox and it works only to banning the freedom that comes from wisdom because it was fighted by gods. The problem, rised from the lies of poets, regards the truth of divine revelation: the argument, that appears also in
Plato’s Phaedrus, is connected with the god’s speach in the Poem of Parmenides. But according the interpretation that Aristotle gives of the eleatic theoria of being, Parmenides, in order to explain to the humans the necessity to recognize false perception of sensible phainomena, is forced to
use falsehood in his speach.
Keywords: gods, wisdom, theoria, language, falsehood, Parmenides,
Heraclitus.
1. Forme argomentative in Metaph. I 1
Un tema caro al mio maestro Enrico Berti è il rapporto con il divino nella Metafisica per cui non manca occasione di mostrare che, se pur Aristotele manifestasse una certa accondiscendenza verso la religione ufficiale
politeistica, la via filosofica lo portava ad asserire l’unicità del motore im«Dianoia», 18 (2013)
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moto1. D’altronde nei confronti del Corpus aristotelicum P. L. Donini già
ammoniva che il termine theós era usato per lo più come predicato e che,
semmai si sostantivasse, era solo al neutro, quindi per indicare generi di
esistenza permanente: più che di dio si trattava del divino2. Di recente B.
Botter si è dedicata a questi tracciati aristotelici che portano al divino come dimensione dell’eccellenza, necessarie per eventuali definizioni di
dio3. Pietra angolare per simili ricerche rimane un saggio di più di una
ventina di anni fa, Aristote et la théologie des vivants immortels4, in cui
Richard Bodéüs, aveva acutamente approfondito il senso delle figure divine evocate nelle argomentazioni dello Stagirita: più che di tattica persuasiva si trattava per l’autore di un’autentica «appropriazione di una tradizione», poiché gli risultava evidente che Aristotele in Metaph. I otteneva informazioni aggiuntive alle posizioni sostenute dai materialisti ionici
ed italici proprio dalle indicazioni degli «antichissimi» o dei theológoi.
Dal canto suo A. W. Nightingale giungeva a qualificare theoría, connessa a theós, delineandola come l’ampio sguardo divino che coglie nell’insieme l’intero sviluppo degli eventi; e questo è, secondo la studiosa, proprio il modo in cui Aristotele ricostruiva lo sfondo storico in cui filosofia
avrebbe, a suo dire, mosso i primi passi5.
Mia intenzione è di approfondire, sulla scia di questi autori, uno spunto già noto in relazione alla natura divina del sapere, dove Aristotele argomenta proprio a partire dall’esistenza degli dei. Il passo in questione è
questo:
E. Berti, Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima con saggi integrativi, Milano, Bompiani, 2004, pp. 490-521, 529-570 e 616-650; Id., Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e ampliata, Brescia, Morcelliana, 2012, pp. 281-358; Id., Nuovi studi aristotelici. II – Fisica, antropologia e metafisica, Brescia, Morcelliana, 2005. pp. 381-420 e 427500; M. Migliori – A. Fermani (a cura), Dio e il divino nella filosofia greca, Brescia, Morcelliana, 2005; I. Ferelli (a cura), Il Dio di Aristotele. Nuovi orientamenti, “Humanitas”,
IV (2011).
2 P. Donini, La Metafisica di Aristotele, Roma, Carocci, 2007.
3
B. Botter, Dio e divino in Aristotele, Sankt Augustin, Academia, 2005; Id., Aristotele
e i suoi dei. Un’interpretazione del III libro del De philosophia, Roma, Carocci, 2011.
4 R. Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels, St.-Laurent, Bellarmin,
1992; trad. ingl. Aristotle and the Theology of the Living Immortals, a cura di J. E. Garrett,
Albany, State University of New York Press, 2000.
5 A. W. Nightingale, Spectacle of Truth in Classical Philosophy. Theoria in its Cultural Context, Cambridge, Cambridge University Press, 2005.
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Così, se si è filosofeggiato (™φιλοσόφησαν) per fuggire l’ignoranza, è evidente che si persegue la conoscenza solo al fine di sapere e non per conseguire qualche vantaggio. Lo prova quanto è avvenuto: una volta che si
era ottenuto il necessario che garantisse agiatezza e benessere, si incominciò a desiderare quest’attività mentale (¹ τοιαÚτη φρόνησις ½ρξατο
ζητε‹σθαι). È chiaro che non la si persegue per nessun altro scopo, ma come chiamiamo libero chi lavora per sé e non per altri (™λεÚθερος Ð αØτοà
›νεκα καˆ µ¾ ¥λλου êν), altrettanto vale per questa, che sola tra i saperi
è veramente libera: infatti è la sola che ha una finalità intrinseca. Perciò
giustamente si potrebbe qualificare non umano il suo possesso, dato che
spesso la natura degli uomini è schiava (πολλαχÍ γ¦ρ ¹ φÚσις δοÚλη τîν
¢νθρèπων ™στ…ν); così per Simonide «solo un dio può godere di tale privilegio», mentre l’uomo non sarebbe in grado di perseguire scienza per se
stessa. Se, stando a quello che dicono i poeti, la divinità nutre invidia (ε„
δ¾ λšγουσ… τι οƒ ποιηταˆ καˆ πšφυκε φθονε‹ν τÕ θε‹ον), verso questa soprattutto viene indirizzata e tutte le avversità sono per chi vi eccelle. Però
non si può ammettere che la divinità sia invidiosa, piuttosto che «gli aedi
dicono molte cose false» (πολλ¦ ψεÚδονται ¢οιδο…v) come dice il proverbio: col che nessun’altra deve essere considerata superiore, in quanto
la più divina e la più degna di valore; e solo questa lo è e in due modi. Infatti tra le conoscenze è divina quella che soprattutto la divinità potrebbe
possedere, o nel caso in cui questa fosse relativamente alle cose divine.
Questa sola presenta le due condizioni, perché la divinità sembra a tutti una
specie di causa o un qualche principio, e questa sola dovrebbe competere
massimamente alla divinità: tutte saranno più necessarie di questa, ma nessuna più alta6.
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Il contesto è duplice e va immediatamente sviscerato. Da una parte, per
individuare quale forma di sapere goda di maggiore considerazione, Aristotele è costretto a passare in esame le diverse figure di sapienti che si sono imposte nel giudizio dei contemporanei; dall’altra egli si concentra a
rilevare una continuità storica di tali tradizioni sapienziali, pur nei mutamenti degli ambienti storico-geografici, tenendo conto delle differenti tradizioni e operando sulle trasformazioni linguistiche. L’intero quadro che
Aristotele costruisce sulle precedenti tradizioni del pensiero greco è riassumibile secondo uno schema:
6
Aristot. Metaph. I 2, 982 b 19- 983 a 11.
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_ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ Gli antichissimi (IJȠઃȢ ʌĮȝʌĮȜĮ઀ȠȣȢ)
|
Omero (’ȍțİĮȞંȞ IJİ Ȗ੹ȡ țĮ੿ ȉȘșઃȞ… IJોȢ ȖİȞ੼ıİȦȢ ʌĮIJ੼ȡĮȢ)
|
i primi teologi (ʌȡઆIJȠȣȢ șİȠȜȠȖ੾ıĮȞIJĮȢ) Orfismo
|
/
\
|
/
i poeti antichi (ʌȠȚȘIJĮ੿ Ƞੂ ਕȡȤĮ૙ȠȚ)
|
/
(Metaph. XIV, 4, 1091 b 4-13)
|
Tra i primi che filosofarono
/
/
\
IJ૵Ȟ į੽ ʌȡઆIJȦȞ ࢥȚȜȠıȠࢥȘı੺ȞIJȦȞ
/
chi in modo misto
ȝȣșȚț૵Ȣ
|
|
/
\
/
Ferecide e i Maghi
/
\
|
I più (Ƞੂ ʌȜİ૙ıIJȠȚ)
…gli altri,
/
IJઁȞ ǻ઀Į Ȟ઄țIJĮ
|
Ƞ੝ȡĮȞઁȞ
Solo principio materiale
sostennero non solo principi materiali
|
Il principio è l’elemento
+ principio di movimento
Ȥ੺ȠȢ
| Da cui, di cui, verso cui
Esiodo (Ȥ੺ȠȢ, ਩ȡȠȢ)
੩țİĮȞંȞ
|
/
\
Parmenide (਩ȡȠȢ)
principio unico
non unico
Empedocle (ࢥȚȜ઀ĮȞ țĮ੿ Ȟİ૙țȠȢ)
/
\
Anassagora (ȞȠ૨Ȣ)
Talete (ਕȡȤȘȖઁȢ)
Anassimene
numero limitato non limitato
/
\
/ \
Anassagora
immobile mobile
/
quattro
Melisso Anassimandro due Empedocle
Parmenide Eraclito Empedocle
|
Democrito
|
Pitagorici
IJઁ ਨȞ ȝ੻Ȟ țĮIJ੹ IJઁȞ ȜંȖȠȞ---Parmenide
(nel Poema sulla natura: ࢥ੺ȠȢ țĮ੿ Ȟઃȟ, / ࢥȜȠȖઁȢ Įੁș੼ȡȚȠȞ ʌ૨ȡ / Ȟ઄țIJ' ਕįĮો)
(secondo Aristotele: șİȡȝઁȞ țĮ੿ ȥȣȤȡંȞ/ ʌ૨ȡ țĮ੿ ȖોȞ)
Va notato che quanto sopra riportato e attribuito ai poeti o agli aedi è posto all’interno di un complesso sviluppo argomentativo, anche se immediatamente non palese: il tema dell’invidia degli dei verso chi eccelle nel
sapere umano segue altri procedimenti dimostrativi ai quali risulta saldamente ancorato. Il primo, proprio in apertura (980 a 21-27), mette in parallelo il processo conoscitivo con l’attivazione sensoriale, alla luce dell’intrinseca gratificazione. L’analogia è in questi termini:
Uso (conoscenza): possesso (conoscenza) = vista: occhio
Tale connessione analogica è più ampiamente sviluppata nel De anima,
grazie ad altre due equazioni: la prima sostanzialmente è la ripresa di un argomento eracliteo (veglia: sonno), la seconda riguarda l’azione umana nell’ambito della techne (tagliare: scure)7.
7
Aristot. De an. II 1, 412 a 21-413 a 10 e chi fa uso del sapere è qewràn, 417 a 29.
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In seconda battuta (980 a 27 - b 7), dal rilevamento della singola sensazione si passava all’esperienza e alla sua organizzazione nell’ambito dell’esercizio di una professione o di un’arte. Se un’esperienza è occasione di
piacere o di dolore, per ripeterla o per evitarla diventa fondamentale il ruolo guida della memoria. Si formano esperienze personali, tessendo analogie tra i vari casi affrontati; ma è dal confronto intersoggettivo con le altrui
esperienze che è possibile generalizzare mettendo in comune un vasto bagaglio di informazioni, altrimenti inaccessibili al singolo. L’insieme dei
dati deve però essere organizzato per risultare immediatamente fruibile da
tutti; a tal fine si fa uso di tassonomie, le stesse che Aristotele rende operative per descrivere il processo cognitivo, a partire dall’osservazione generale sul comportamento degli animali:
Funzioni
senso
+ memoria
+ udito
tutti
si
alcuni
si
si
conoscenza
nessuna
esperienza
intelligenza
Questa è una prima strutturazione dei dati rilevati e eventualmente rilevanti: ma per ottenere uno sviluppo dell’argomentazione più dinamico,
progressivo e consequenziale i risultati devono venire rappresentati come
successive specificazioni all’interno di uno stesso insieme. Ecco apparire
la forma della diaíresis, o divisione, che propone distinzioni a seconda della condivisione, o meno, di predicati caratterizzanti:
Sensi
Memoria
Udito
animali
tutti
/ \
alcuni alcuni
NO
SI
/ \
alcuni
alcuni
NO
SI
intelligenza
+ intelligenza
Per considerare l’aumento di intelligenza registrato man mano che il
processo conoscitivo si ramifica diventando più complesso, è necessario riversare simile argomentazione in un sillogismo o, meglio, in una catena di
sillogismi, di modo che la conclusione del primo risulti una premessa del
secondo:
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1. Alcuni animali oltre alla sensazione hanno memoria
2. chi ha memoria della sensazione è in grado di conoscere (=esperienza);
3. si conclude che alcuni animali attraverso la sensazione conoscono.
1. Alcuni animali che fanno esperienza hanno udito,
2. chi ha udito è in grado di assumere le altrui conoscenze;
3. si conclude che alcuni animali sono in grado di conoscere la propria e le altrui esperienze.
Memoria e udito, quindi, risultano fattori nascosti di progresso e solo il
sillogismo ne evidenzia il ruolo di medi connettivi, in grado di trasformare l’esperienza in conoscenza personale e poi in sapere condiviso.
Si torni, ora, all’argomentazione del rapporto degli dei con il sapere,
per ricomporla in un sillogismo:
A 1. Se un sapere perseguito per se stesso rende liberi (assoluti);
A 2. e se chi è libero (assoluto) è solo dio:
A 3. si conclude che il sapere perseguito per se stesso è divino.
B 1. Se un sapere libero ci rende simili a dio;
B 2. e se gli aedi dicono che chi si fa simile a dio è inviso agli dei:
B 3. si conclude che il sapere libero sarebbe inviso agli dei.
C 1. Se gli dei invidiano il sapere libero;
C 2. e se l’invidia è per ciò che non si ha:
C 3. si conclude che gli dei non avrebbero alcun sapere.
La conclusione in effetti è quella che viene delineata nel libro III della
Metafisica:
Perciò ne deriva che dio sia il più felice nella misura in cui tra tutti è il meno intelligente; infatti non conosce niente8.
Simile posizione è resa possibile a partire dalle tesi dei θεολόγοι che
seguendo Esiodo «ponevano come principi gli dei»9 sembrerebbero – non
evita il sarcasmo Aristotele – mettere in stretta relazione di proporzionalità la felicità di dio con la sua stupidità, al punto che la sua condizione di
beatitudine estrema (τÕν εÙδαιµονšστατον θεÒν) coincida con la sua totale insipienza (οÙ γ¦ρ γνωρ…ζει ¤παντα), contrariamente a quanto affermava Omero. Il risultato a cui si giunge è una palese contraddizione, poiché
8
9
Aristot. Metaph. III 4, 1000 b 3-5.
Ivi, 1000 a 9-11.
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una delle premesse (B2) è stata assunta non perché certa, ma solo perché
opinione ricorrente tra gli aedi e i poeti. Per verificarne la falsità è stato
necessario condurre l’argomentazione retorica alle sue estreme conseguenze a costo di dare ragione al proverbio10.
2. Il rimando a Eraclito
Prima di abbandonare questo sviluppo di argomenti vorrei soppesare un
elemento scaturito dalla catena di sillogismi che Aristotele ha dispiegato
(contrassegnati come A, B e C). Va posto in risalto che il sapere di cui parla Aristotele è quello che, per il fatto di essere perseguito di per sé, rende
liberi (A1); ora, se nella conclusione (C3) si afferma la totale assenza di tale sapere negli dei, si potrebbe concludere che gli dei non sono liberi. La
considerazione non sembri gratuita, poiché ci porta dritto a quanto affermava Eraclito nel fram. 53 della raccolta Diels-Kranz:
Conflitto, di ogni cosa è padre e re: distinse gli dei dagli uomini, e li fece
schiavi e liberi11.
L’argomento topico mi è caro ed è stato acutamente sviscerato da autorevoli esegeti del pensiero eracliteo; confrontando le diverse soluzioni,
egualmente sviluppabili, è possibile giungere a conclusioni contrastanti, e
sempre valide. Per Kirk e Gigon12, Pólemos, analogamente a un re nella
propria città, fa pressione su tutti (pántes) agendo sulle opposizioni tra le
classi dei cittadini per stabilire una gerarchia dove ci siano gli intoccabili,
le divinità, distinte dagli uomini. Se poi gli schiavi si distinguono dai liberi, in quanto bottino di guerra, anche questo è opera di pólemos:
10 G.W. Most, The Poetics of Early Greek Philosophy, in A. A. Long (a cura), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press,
1999, pp. 336-342; S. Rosen, The Quarrel Between Philosophy and Poetry, New York London, Routledge, 1988; E. Bartky, Plato and the Politics of Aristotle’s Poetics, “The Review of Politics”, Special Sesquicentennial Issue, LIV (1992), pp. 589-619; S. B. Levin, The
Ancient Quarrel Between Philosophy and Poetry Revisited, Oxford, Oxford University
Press, 2001; G. M. Ledbetter, Poetics Before Plato. Interpretation and Authority in Early
Greek Theories of Poetry, Princeton, Princeton University Press, 2003.
11 H. Diels – W. Kranz (ed.), Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidman, Berolini
1951-1952, 22 B 53.
12 O. Gigon, Untersuchungen zu Heraklit, Leipzig, Dieterich, 1935, pp. 118-120; G. S.
Kirk, Heraclitus. The Cosmic Fragments, Cambridge, Cambridge University Press, 1954,
pp. 246-248.
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Πόλεµος π£ντων µ#ν πατ»ρ ™στι
π£ντων δ# βασιλεÚς
/
\
τοÝς µν θεοÝς
τοÝς δ ¢νθρèπους
/
\
τοÝς µν δοÚλους
τοÝς δ ™λευθšρους
L’argomentazione polare di Eraclito, riprodotta nello schema costruito
attraverso la diaíresis, permette di cogliere come l’ordine sancito in guerra sia determinante anche per la vita in tempo di pace: il pólemos che spinge contro i nemici, diventa il nómos della città, sancendo la differenza e l’irriducibilità tra classi e caste: la sua permanenza lo rende divino. La forza
che era emersa in tutta la sua violenza contro i nemici esterni al momento
di respingerli, ora tiene a sé i cittadini chiudendoli dentro le mura e vincolandoli agli interessi della città; per garantire la libertà ad alcuni la si nega
ad altri. La tesi eraclitea trova una qualche eco nella Politica quando Aristotele spiega perché una comunità diventi città.
E proprio nella Politica viene riportato il verso originale di Omero parodiato da Eraclito:
A proposito Omero evoca Zeus dicendo “padre degli uomini e degli dei”
(πατ¾ρ ¢νδρîν τε θεîν), re di tutti quanti gli esseri (τÕν βασιλšα τοÚτων
¡π£ντων), perché il re, anche se appartiene allo stesso genos, deve distinguersi per sua natura come il più anziano rispetto al più giovane, come il
genitore rispetto al figlio13.
Per Aristotele la vocazione paternalistica dell’autorità regia ha legittimato la vocazione alla propaganda ideologica degli aedi; grazie all’antropomorfizzazione dei rapporti tra entità divine, già denunciata da Senofane,
veniva sancita la sacralità e perciò l’inamovibilità dell’istituto della monarchia per impedire qualsiasi altro sviluppo politico delle comunità.
Tornando alle interpretazioni del frammento di Eraclito e sempre in tema
di despotiké, Fraenkel arriva a ben diverse conclusioni, certamente più dirompenti: gli basta riproporre la connessione tra uomini, dei e Pólemos non
più secondo il modo della diaíresis ma adottando una disposizione lineare14,
quella dell’analogia, formulando una catena di eguaglianze di rapporti:
Aristot. Pol., I 12, 1259 b 12-17.
H. Fraenkel. Poesia e filosofia della Grecia antica, Bologna, Il Mulino, 1997, pp.
542-543; sull’intera questione si veda il commento di Miroslav Marcovich a Eraclito, Frammenti, ed. M. Marcovich, Firenze, La Nuova Italia, 1978, pp. 91-104.
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δοÚλοι: ™λευθšροι = ¢νθρèποι: θεόι = θεόι: Πόλεµος
Il primo rapporto è la chiave per interpretare quelli successivi: tale relazione aurea viene delineata in termini non più antropologici, ma sociali,
determinando una distribuzione di ruoli analoghi per tutte le coppie che
seguono, così che si ripeta l’egemonia di ogni susseguente nei confronti
del proprio antecedente. Da ciò risulta che, se l’orgoglioso cittadino dell’Ellade si sente libero perché signore di schiavi, a sua volta in quanto uomo è pur sempre assoggettato agli dei e, quindi, egli stesso ne è schiavo.
Ma la condizione di quest’ultimi, d’altronde, non è diversa: se pur considerati divinità, perché sciolti da obblighi verso gli umani, i loro movimenti risultano determinati dalla scacchiera del grande gioco della guerra imposto da Pólemos. Così la libertà è solo apparenza: la sua esistenza può essere ipotizzata solo dal primo membro della lunga serie di termini delle
equazioni, data la sua limitata esperienza. Infatti dalla sua prospettiva è
impossibile vedere come vanno le cose al di là del suo padrone, né può paragonare i rispettivi destini. Dentro e fuori le mura, tra cittadini e non cittadini, nei rapporti con le divinità e in quello tra le divinità, vale pur sempre la legge della schiavitù universale, realizzata da pólemos attraverso
l’imposizione di un’autorità padronale.
Questo accostamento dell’argomento costruito sugli dei in Metaph. I al
fram. 53 di Eraclito e, poi, alle forme dell’autorità dibattute nella Politica
non è arbitrario, ma segue un filo conduttore rappresentato dalla definizione di libertà, in base alla quale Aristotele, in apertura di argomento, qualificava il libero sapere: «chiamiamo libero chi lavora per sé e non per altri». È la stessa che troviamo sviluppata nella definizione dello schiavo nel
libro I della Politica e nella successiva discussione su tale istituzione, cioè
se essa sia per natura o per legge, ossia biologicamente determinata o frutto di convenzioni sociali relative alla giurisdizione del bottino di guerra. Il
riferimento al frammento eracliteo sembra ancor più evidente se si fa conto dell’osservazione dello Stagirita sulla natura schiava degli uomini in
quanto tali, presi nella totalità, a prescindere dai ruoli e senza fare alcuna
eccezione (¹ φÚσις δοÚλη τîν ¢νθρèπων ™στ…ν)15. In questa prospettiva,
Aristot. Metaph. I 2, 982 b 29-30; si veda anche Pol. I 4-8; cfr. M. I. Finley, Schiavitù antica e ideologie moderne, Roma-Bari, Laterza, 1981: Id. (a cura), La schiavitù nel
mondo antico, Roma-Bari, Laterza, 1990; V. Goldschmidt, La teoria aristotelica della
schiavitù e il suo metodo, in L. Sichirollo, (a cura), Schiavitù antica e moderna. Problemi,
storia, istituzioni, Napoli, Guida, 1979, pp. 183-204; R. Kraut, Aristotle. Political Philosophy, Oxford, Oxford University Press, 2002; J. Frank, Citiziens, Slaves and Foreigners:
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l’anello debole di tale argomentazione è sempre la premessa B2: non avrebbe ragione di esistere l’invidia degli dei per chi si fa loro simile, perché in
effetti tutti condividono lo stesso destino di schiavitù.
3. Il rimando al Fedro di Platone
Quindi, per quanto concerne l’invidia degli dei, si sarebbe dovuto sostenere
l’esatto contrario: o che gli aedi dicono il falso sull’atteggiamento degli
dei relativamente agli umani o, addirittura, che questi dicono il falso per il
fatto stesso che parlano di dei. Penso, tuttavia, che il problema a questo
punto sia rappresentato dalla sola eventualità che gli aedi, o i poeti, possano
anche solo dire il falso.
Torniamo all’argomentazione sillogistica: per il regime di necessità che
la caratterizza la non pertinenza della conclusione C3, per cui gli dei non
avrebbero alcun sapere; esautorando di credibilità i poeti, si sarebbe dovuto dire:
1. Se gli dei possiedono il sapere;
2. e se il sapere è perseguito dal sapiente:
3. si conclude che gli dei apprezzano il sapiente.
Questo diverso sviluppo argomentativo sembra trovare sponda in una
tesi del Fedro dove Platone, se pur parla di amore, andando al fondo della
questione sollevata da Lisia, giunge a tematizzare la mania inviata direttamente dagli dei e s’interroga se il vantaggio che ne traggono coincida col
bene nostro:
Questo discorso [di Lisia] potrà riportare vittoria solo se avrà provato che
l’amore non viene inviato dagli dèi a chi ama e a chi è amato al fine di giovare agli dèi medesimi. Noi dobbiamo, invece, dimostrare proprio il contrario, ossia che per nostra grandissima fortuna una mania di questo tipo ci
viene data dagli dèi. La nostra dimostrazione non sarà persuasiva per uomini terribili ma lo sarà per i sapienti16.
Aristotle on Human Nature, “The American Political Science Review”, XCVIII (2008), pp.
91-104; M. Heath, Aristotle on Natural Slavery, “Phronesis”, LIII (2008), pp. 243-270; G.
A. Lucchetta – A. Di Nardo, Nuove e antiche schiavitù. Atti del Convegno Internazionale
Chieti, Università “G. D’Annunzio”, 4-6 marzo 2008, Pescara, IRES, 2012; G. A. Lucchetta – M. De Innocentiis, La salvezza della città. Ethos e logos in democrazia, Lanciano,
Carabba, 2012.
16 Plat. Phaedr. 245 B 4-C 2; trad. G. Reale, Milano, Valla - Mondadori, 1998.
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Pure per Platone si tratta di una dimostrazione che coinvolge i sapienti, perché riguarda la natura divina del sapere e ci si imbatte, anche qui,
nelle possibili fandonie degli aedi; Socrate racconta delle bugie di Omero,
del cui primato era convinto anche Aristotele:
Soprattutto Omero ha insegnato anche a tutti gli altri a dire il falso come si
deve17.
Attraverso Socrate Platone tratta della poesia per discernere quella ispirata dal divino da quella blasfema di Omero: il contesto lo permette poiché
con Fedro si trattava di distinguere tra discorso e discorso perché certo
quello di Lisia non ha avuto una buona riuscita. Forse è perché il posto dove Fedro aveva attirato Socrate era già sede di antichi culti e risultava ancora pervaso dalla presenza delle divine cicale, oppure forse perché l’accogliente spontaneità di quegli alberi e del ruscello manifesta la positiva
semplicità della natura, sta di fatto che portato in quella situazione idilliaca il discorso dell’oratore, ridottosi a logografo, sembra decisamente “fuori luogo”: risaltano a sproposito i falsi bisogni e le scandalose aspettative
di cui è gravido, che invece erano “di casa” nell’amorale Atene, assuefatta ai più loschi traffici e ai più cinici profitti. Aiutato quindi dall’influenza
del luogo sui personaggi, Platone non permette che si banalizzi il sacro
quale orma del divino, e fa sì che Socrate e Fedro progressivamente recuperino dell’amore una visione più ampia di quella, parziale e consumistica, propagandata dall’arido discorso scritto di Lisia. A questo si contrapporrà l’ultimo discorso di Socrate, una vera e propria theoría, in cui si ravvisano vari stili espressivi: quello critico letterario, quello scientifico-logico della filosofia, quello mantico della poesia, quello dialettico della buona retorica, poiché il discorso veritiero, severo e senza colori, corre il rischio di non convincere adeguatamente18. Ma già a mettere ordine nel primo discorso di Lisia, Socrate si era accorto che era stato offeso Eros. Si rende allora necessaria una palinodia riparatrice, poiché non era stato sufficiente velarsi il capo per proferirlo senza vergogna.
A questo punto fa la sua entrata Stesicoro: Socrate afferma che la sua palinodia è come se fosse quella pronunciata dall’antico poeta in persona,
poiché costui è l’unico ‘antidoto’ a Lisia e, più in generale, a chi pensa di
poter diffondere falsi saperi senza un’autentica capacità di vedere la realAristot. Poet. XXIV 1460 a 19-20.
J. Derrida, La farmacia di Platone, Milano, Jaca book, 1985; G. R. F. Ferrari, Listening
to the Cicadas. A Study of Plato’s Phaedrus, Cambridge, Cambridge University Press, 1987.
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tà nella sua totalità. Se la mente corre a Omero, è ben a ragione, dato che
il curioso episodio che riguarda Stesicoro lo vede coinvolto:
Dunque, caro amico, bisogna proprio che io mi purifichi. Per quelli che
commettono colpe nei confronti dei miti c’è un antico rito espiatorio, che
Omero non conosceva, ma Stesicoro sì. Infatti quando Stesicoro venne privato della vista per aver parlato male di Elena, non rimase ignaro della causa come Omero, ma, devoto alle Muse come era, capì qual era e compose
subito questi versi:
«Questo discorso non è veritiero,
tu non salisti sulle ben costruite navi,
né giungesti alla rocca di Troia».
E come ebbe terminato di comporre per intero quel carme che si chiama
“palinodia”, gli tornò immediatamente la vista19.
L’episodio verte sulla presenza, effettiva o meno, di Elena al fianco di
Paride: nella ritrattazione di Stesicoro solo il suo eidólon andò a Troia, mentre la sua persona rimase presso Proteo, faraone d’Egitto. Evidentemente
qui si propone una netta frattura tra la visione limitata dei fatti, che conduce ad affrettati giudizi sulle persone, e lo sguardo assoluto ed estraneato degli dei, quel theoréin in grado di cogliere tutti gli aspetti della realtà per ricondurli all’altrimenti inattingibile totalità. Proprio per la loro comune inabilità a vedere i due aedi/poeti sono messi in parallelo; ma Platone, discostandosi dalla tradizione, non la considera contrassegno divino per chi ha accesso a una conoscenza superiore degli avvenimenti, solo ascoltando le Muse. La menomazione si qualifica per quello che è, totale incapacità di vedere e di capire, quale effetto di una cecità ben più grave, quella mentale.
Al riguardo nel testo è possibile scorgere una vera e propria contrapposizione, complici i due stili poetici, che si riflette nel rilevamento di dati contrastanti delle due biografie:
argomento
Cecità
Conoscenza dell’antico rito espiatorio
Devozione alle Muse
Ritrattazione
Guarigione
Racconto veritiero
Omero
SI
NO
NO
NO
NO
NO
Stesicoro
SI
SI
SI
SI
SI
SI
19 Plat. Phaedr. 243 A 2-B 6, trad. Reale; cfr. Poetarum melicorum graecorum fragmenta, ed. M. Davies, Oxford, Oxford University Press, 1991, fram. 192-193.
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Si configura la menomazione fisica come punizione rispecchiante una
colpa antecedente: i due poeti avrebbero messo in circolazione racconti
falsi al posto dei miti di cui le Muse sono custodi e queste li avrebbero in
tal modo segnati. Per quanto riguarda la prima parte del racconto, la sintonia tra i due personaggi è tale che sembra plausibile un parallelismo tra
le due vite secondo un unico sillogismo:
1. Se le Muse accecano chi tra i poeti dice il falso;
2. e se Omero e Stesicoro sono ciechi:
3. si conclude che Omero e Stesicoro dicono il falso.
Ma è nella seconda parte della storia che si divaricano i destini: pur presentando una prima premessa in comune, già la seconda risulta di segno opposto e di necessità, quindi, la conclusione sarà una il contrario dell’altra:
1 Se le Muse offrono ai poeti loro devoti un antico rito per espiare le proprie falsità;
2 e se Omero è rimasto cieco:
se Stesicoro ha riacquisito la vista:
3 si conclude che
si conclude che
Omero non è devoto alle Muse e Stesicoro è devoto alle Muse e
continua a dire il falso
ora dice il vero
Se le divinità sono emendate da ogni addebito, riscattando così anche i
miti, non altrettanto lo sono i loro infedeli divulgatori presso gli umani. I
destini dei due poeti presto si differenziarono in modo netto, non appena
uno ebbe riacquistato quella vista che all’altro continuava a essere negata:
se la visione che gli dei concedono a Stesicoro è ora più alta e completa,
l’handicap fisico rende manifesta l’incapacità di cogliere la verità di Omero, ghettizzato per sempre nell’oscura falsità20.
4. La divina theoria e il philosophos logos in Parmenide
Spesso si è rilevato che nella mappa concettuale di Aristotele sulle origini
di filosofia in Metaph I, alla voce «i primi che filosofeggiarono» segue la
distinzione tra «i più» (οƒ πλε‹στοι) e gli eventuali “altri”. Qui tornano utili le osservazioni di Bodéüs: il principio di movimento esterno sembra es-
20
Cfr. la risposta polemica dello pseudo Eraclito: Heraclite, Allégories d’Homère, ed.
F. Buffière, Lutetiae, Belles Lettres, 1962, LXXVII 5-10.
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sere suggerito dal mythos frequentato dagli «antichissimi» (τοÝς παµπαλα…ους) o dai primi che teologizzarono (πρèτους θεολογ»σαντας). Già su
Talete si era visto Aristotele tentare un rimando ai «genitori del divenire»
(tÁj γενšσεως πατšρας) della tradizione omerica, o, forse, dei poemi orfici che la scuola aristotelica prendeva con le pinze21. Quindi Metaph. I 4
apre al principio di movimento a partire dalle osservazioni di Esiodo e Parmenide sul ruolo di Eros; questi elementi del mito e il suo linguaggio vengono puntualmente ripresi in Metaph. III e XIV relativamente a pensatori
vicini ai poeti antichi, quali Anassagora ed Empedocle:
Gli antichi poeti (οƒ δ# ποιηταˆ οƒ ¢ρχα‹οι) egualmente sostengono che governano e reggono (βασιλεÚειν καˆ ¥ρχειν) non i principi originari come la
notte e il cielo, o il caos o oceano, bensì il dio (τÕν ∆…α)22.
Sia βασιλεÚειν che ¥ρχειν sono azioni che competono non agli elementi
primordiali, raffigurati nel mito dalla Notte o il Cielo, da Chaos o Oceano,
ma piuttosto a un principio motore distinto da essi, in grado di guidarli verso il bene: il dio, o, nuovamente, Eros. Nel caso di Parmenide la connessione col modo muqikîj è un fatto incontrovertibile stando a quel che è
possibile leggere del suo poema. Così lo sintetizza Sesto Empirico:
…τ¾ν πολÚφηµον ÐδÕν τοà δα…µονος πορεÚεσθαι τ¾ν κατ¦ τÕν φιλόσοφον
λόγον θεωρ…αν, Öς λόγος προποµποà δα…µονος23.
…la clamorosa via della dea per portare a termine una visione totale attorno al linguaggio filosofico, che è il linguaggio della dea protettrice.
Il viaggio che viene descritto è una sorta di metafora concreta di un rapimento estatico verso la luce, ε„ς φ£ος; è il tracciato che descrive Platone per la mania dispensata dagli dei. Nel proporre i primi elementi scenici, Parmenide si riconosce nella tradizione aedica ponendosi in fabula con
l’iniziale µε. Scortato dalle Eliadi fuoriuscite dalla Notte, viene portato fino al cospetto di una vera e propria dea; questa, lasciata nell’anonimato, gli
rivela tutto: la descrizione dell’intero processo di avvicinamento potrebbe
essere una rappresentazione allegorica dell’iter iniziatico per accedere ai reW. K. C. Guthrie, Orpheus and the Greek Religion, London, Metuen, 1952 (ora Princeton University Press, Princeton 1993); M. L. West, The Orphic Poems, Oxford, Oxford
University Press, 1983 (trad. I poemi orfici, Napoli, Loffredo, 1993); W. Burkert, Da Omero ai Magi. La tradizione orientale nella cultura greca, Venezia, Marsilio, 1999.
22 Aristot. Metaph. XIV 4, 1091 b 4-6.
23 Sext. Emp. Adv. Math. VII 113-114.
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quisiti necessari per ricevere la rivelazione. La verità quindi è affidata dalla divinità a quello che nel poema viene indicato non nelle vesti semplici
di un pastore, come in Esiodo, ma in quelle di un ε„δëς φèς, in un certo
senso già illuminato dalla luce veritativa; in tal caso verrebbe scelto perché
sa. Oppure il suo sapere viene nullificato dalla rivelazione, come in tutti i
riti misterici24?
Di fatto la sua competenza riguardo alla conoscenza umana risulta necessaria al momento di raccordare i due saperi, lontani e reciprocamente incommensurabili. Per ricevere quello della dea si procede per un ÐδÕς τοà
δα…µονος, un viaggio metaforico che porta lontano dalla quotidianità verso una conoscenza che non è prodotto umano; l’altro è faticosamente accumulato dagli uomini che non distinguono, nel loro universo fatto di parole, quelle necessarie, che sono, e quelle false, che non si dovrebbero neppure nominare, poiché a loro non corrisponde alcun pensiero. La contrapposizione è tra la conoscenza relativa degli umani e il sapere assoluto dal
punto di vista della divinità; il bivio proposto a Parmenide è lo stesso che
Omero illustra nel descrivere nell’Odissea il caso di Edipo25: da una parte
la conoscenza faticosa dei mortali, frammentaria, incompleta e diluita nel
tempo, dall’altra la totalità dei fenomeni visti fuori dall’ottica umana. Nella theoría i fatti vengono colti nella totalità dei tempi in cui si sviluppano
da soggetti conoscenti posti in un eterno presente al di fuori del tempo26:
di questa loro condizione le divinità fanno di quando in quando partecipi
solo esseri eccezionali quali gli aedi, Edipo e forse ora Parmenide.
Pure Platone, nel Fedro, toccherà il motivo dell’elevazione; quella che
nel poema di Parmenide avveniva su di un carro condotto da cavalle di24
2010.
U. Di Toro, L’enigma di Parmenide. Poesia e filosofia nel Proemio, Roma, Aracne,
Hom. Od. XI 271-280.
Soph. O. T. 1497-1499; G.E.L. Owen, Parmenides on the Timeless Present, “The
Monist”, L (1966), pp. 317-340; Id., The Eleatic Questions, in G.E.L. Owen, Logic, Science and Dialectic. Collected Papers in Greek Philosophy, a cura di M. Nussbaum, Ithaca,
Cornell University Press, 1986, pp. 1-26; M. Schofield, Did Parmenides Discover Eternity?, “Archiv für Geschichte der Philosophie”, LII (1970), pp. 113-135; L. Tarán, Perpetual
Duration and Atemporality in Parmenides and Plato, “The Monist”, LXXII (1979), pp.
43-53; P. B. Manchester, Parmenides and the Need for Eternity, “The Monist”, LXII (1979),
pp. 81-106; D. O’Brien, Temps et intemporalité chez Parmenide, “Les études philosophiques”, LV (1980), pp. 257-272; L. Groarke, Parmenides’ Timeless Present, “Dialogue”,
XXIV (1985), pp. 535-541; XXVI (1987), pp. 549-552; R.C. Hoy, Parmenides’ Complete
Rejection of Time, “Journal of Philosophy”, XCI (1994), pp. 573-598; M. Pulpito, Parmenide e la negazione del Tempo. Interpretazioni e problemi, Milano, L.E.D., 2005.
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venterà il trascinante desiderio di rimettere le ali, tensione costante del filosofo, e nel nominare Eros parlerà di due distinti linguaggi, uno dei mortali, l’altro degli immortali:
I mortali (θνητοˆ) lo chiamano Eros alato
gli immortali (¢θ£νατοι) Pteros perché fa crescere le ali27.
È possibile che invece di portare l’eletto altrove, questo carro scortato
da entità femminili protettrici, s’infili in una strada cittadina; in altri termini, attraverso le porte (πÚλαι Νυκτός), i cui battenti «toccano il cielo»,
il prescelto sembra non uscire da Elea ma entrare in un’altra sua parte o in
un’altra città dove di fatto regni comunque un logos seppure di natura completamente diversa28. È forse per imparare questo nuovo logos che è stato
rapito colui che per conto suo era già arrivato all’apice del sapere umano;
è necessario che sia sufficientemente “alfabetizzato” per essere pienamente consapevole del più corretto uso degli strumenti della comunicazione
umana. Parmenide propone un ideale di conoscenza dove l’esperienza sovrannaturale del rapimento si manifesta come assolutamente “altra” dalle
opinioni dei mortali (βροτîν δόξας), una verità sicura (π…στις ¢ληθ»ς)29, da
cui non si deve deviare per desiderio per saperne di più30; infatti la via da
cui non ci si deve distogliere è rappresentata dall’uso di una parola sola
(µόνος µàθος), e questa parola che si addice all’essere, ed è che ‘è’ (æς
œστιν):
µόνος δ’ œτι µàθος Ðδο‹ο
λε…πεται æς œστιν· ταÚτV δ’ ™πˆ σ»µατ’ œασι
πολλ¦31.
Plat. Phaedr. 252 B 7-8, trad. Reale.
Per l’interpretazione politica del viaggio, in ragione dei riferimenti realistici, si veda
A. Capizzi, La porta di Parmenide. Due saggi per una nuova lettura del poema, Roma,
Ed. dell’Ateneo, 1975.
29 Parm. (28) B 1, 28-30 DK.
30 F.M. Cornford, Parmenides’Two Ways, “The Classical Quarterly”, XXVII (1933), pp.
97-111; J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Assen
1964; Aa.Vv., Parmenides Studies Today, “The Monist”, LXII (1979); A.P.D. Mourelatos,
The Route of Parmenides. A Study of World, Image and Argument in the Fragments, New
Haven, Yale University Press, 1970; P. Aubenque (a cura), Études sur Parménide. II. Problèmes d’interpretation, Paris, Vrin, 1987; J.P. Hershbell, Parmenides’ Way of Truth and B
16, “Apeiron”, IV (1970), pp. 1-23; G. Imbraguglia, Via della demone o via del nume?,
“Filosofia oggi”, VIII (1985) pp. 233-284.
31 Parm. (28) B 8, 1-3 DK.
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Va posta attenzione sul fatto che una simile certezza, una volta acquisita, non svincola l’illuminato dal dialogo con i concittadini, ma deve farsi tramite per veicolare consapevolezza sul linguaggio che gli umani usano, che è in fondo la radice delle loro reciproche incomprensioni nella gestione della vita quotidiana in città. Se nel suo linguaggio la dea gli rivela
la compattezza della verità eterna, omogenea e senza spigoli, lo invita
espressamente a riflettere su come raccordare questa al parlare falso dei
mortali perché le labili differenze tutte siano salvate, salvando il tutto nell’unità:
καˆ ταàτα µαθ»σεαι, æς τ¦ δοκοàντα
χρÁν δοκ…µως εναι δι¦ παντÕς π£ντα περîντα32.
E questo impara, come le apparenze
devono autenticamente essere nel tutto, pur tutte passando.
A tal fine, è l’indicazione della dea, più che inseguire il molto sapere
(πολÚπειρον ÐδÒν)33, si deve distinguere con criterio (κρ‹ναι δ# λόγJ) tra
i molti segnali (σ»µατα) disseminati nella comunicazione quotidiana, per
fare attenzione a non essere sviati da questa34. Bisogna infatti che gli umani non si affezionino al costrutto delle loro parole, perché molte di loro
pongono in essere ciò che non è e che non è neppure dicibile. Il πιστÕν
λόγον35, il discorso sicuro, precisa che secondo ragione, la parola è ancora una sola (mÒnoj màqoj), mentre le forme poste dal linguaggio degli umani sono duplici:
µορφ¦ς γ¦ρ κατšθεντο δÚο γνèµας Ñνοµ£ζειν·
τîν µ…αν οÙ χρεèν ™στιν-™ν ú πεπλανηµšνοι ε„σ…ντ¢ντ…α δ’ ™κρ…ναντο δšµας καˆ σ»µατ’ œθεντο
χωρˆς ¢π’ ¢λλ»λων, τÍ µ#ν φλογÕς α„θšριον πàρ,
½πιον Ôν, µšγ’ [¢ραιÕν] ™λαφρόν, ˜ωυτù π£ντοσε τωÙτόν,
τù δ’ ˜τšρJ µ¾ τωÙτόν· ¢τ¦ρ κ¢κε‹νο κατ’ αÙτό
τ¢ντ…α νÚκτ’ ¢δαÁ, πυκινÕν δšµας ™µβριθšς τε36.
Con due nomi hanno chiamato per stabilire le forme
di cui una necessariamente non è – in questo si sono sbagliati.
A distinguere configurazioni per opposizione posero segni
Parm. (28) B 1, 31-32 DK.
Parm. (28) B 7, 3-5 DK; cfr. Heracl. (22) B 40 DK.
34 Parm. (28) B 8, 1-9 DK.
35
Parm. (28) B 8, 55 DK.
36 Parm. (28) B 8, 53-59 DK.
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distinti tra loro: qua il celeste fuoco fiammeggiante
ente benigno, molto leggero, dappertutto eguale a sé,
non lo stesso dell’altro ma diverso; di là, per se stesso
in opposizione a quello, la cieca notte, dal corpo spesso e pesante.
I mortali per acquisire conoscenza dalle proprie impressioni, e per comunicarle agli altri in modo non equivoco, hanno cercato di discriminare
(™κρ…ναντο) gli aspetti percepiti differenziandoli in una profusione di
σ»µατα, indicati come sovrabbondanti; si è dato forma (µορφ£ς) determinata nominando separatamente (δÚο γνèµας Ñνοµ£ζειν) sia il «fuoco fiammeggiante» nel cielo, il sole, sia il suo assentarsi, l’oscurità addensata, distinguendoli con il marchio del netto contrasto. L’opposizione tra termini
«luce e notte» (φ£ος καˆ νÚξ), o fuoco benigno e notte cieca, sono un costrutto ambiguo: Eraclito già consigliava di leggerli come sinapsi intrinsecamente legate37 invece di attribuire arbitrariamente forme compiute a ciò
che compiuto non può essere; di fatto una delle due forme è nominata solo come negazione dell’altra: ma esplicitamente la dea aveva ammonito di
tenere lontana la mente dal dire che esiste ciò che non è38.
In realtà l’operazione condotta dagli umani sulla base delle proprie impressioni rimane sostanzialmente sul piano fenomenologico, senza indagare ulteriormente sulla loro ragion d’essere: si ferma a trattare delle contrastanti nostre affezioni come se queste avessero esistenza autonoma e
non fossero invece effetti prodotti da cause comuni. Il nostro sofisticato
sistema percettivo è in grado di registrare in una manifestazione intermittente della luce, sia la sua presenza che la sua assenza, mettendole sullo
stesso piano. Nella sovrabbondanza linguistica di cui sono capaci gli umani, furono distinte e linguisticamente poste in essere alla pari sia il manifestarsi in atto che la pausa, perché ambedue circoscrivibili anche se interconnesse; il rischio, appunto, è quello di perdere di vista il perdurare dell’intero processo che collega l’uno all’altra. Al riguardo le precisazioni di
Parmenide sulla luna sono congruenti: se si può parlare di una sua assenza nel cielo notturno o delle sue fasi, in realtà c’è sempre e tutt’intera. Semplicemente non sempre riceve la luce del sole:
Heracl. (22) B 10 DK.
Parm. (28) B 8, 60-61; 7, 1 DK; Ch.H. Kahn, The Verb “Be” in Ancient Greek, Dordrecht, Hackett, 2003; Id., Being in Parmenides and Plato, “La parola del passato”, XLIII
(1988), pp. 237-261; D.A. Gallop, “Is” or “Is not”?, “The Monist”, LXII (1979), pp. 6180; R. Cherubin, Legein, noein and to eon in Parmenides, “Ancient Philosophy”, XXI
(2001), pp. 277-303.
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νυκτιφα#ς περˆ γα‹αν ¢λèµενον ¢λλότριον φîς39
luce notturna, vagante attorno alla terra, di luce non sua;
α„εˆ παπτα…νουσα πρÕς αÙγ¦ς ºελ…οιο40
sempre rivolta ai raggi del sole.
La metafora che trionfa, lo notava già Blumemberg41, è quella della luce, che può permetterci di «salvare i fenomeni», come soleva Platone, pur
affermando l’unità del tutto. Riacquisire questo sguardo illuminante capace di dare luce all’orizzonte globale di sfondo, la qewr…a di cui parlava Sesto Empirico, è il compito affidato al personaggio Parmenide nel poema;
egli deve apprendere e fare apprendere tutto lo scibile, anche quello che altrimenti sarebbe umanamente inattingibile, ma per questo deve altresì
esprimersi in quel linguaggio falso e ambiguo di cui fanno uso i mortali e
saperlo usare capendone il costrutto anche falso per non comunicare cose
non vere.
Attraverso l’esempio della luna si affaccia l’immagine del Parmenide
astronomo42, per il quale lo studio delle nature superiori dell’etere, racParm. (28) B14 DK.
Parm. (28) B15 DK.
41
H. Blumenberg, Licht als Metapher der Wahrheit. Im Vorfeld der philosophischen Begriffsbildung, “Studium Generale”, X (1957), pp. 432-447; H. Arendt, Metaphor and the Ineffable: Illumination on ‘The nobility of Sight’, in S. F. Spicker (a cura), Organism, Medicine,
and Metaphysics. Essays in Honour of Hans Jonas, on His 75th Birthday, may 10, 1978, Dordrecht - Boston, Reidel, 1978, pp. 303-316; cfr. A. Borsari, Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, “Fondazione Collegio S. Carlo di Modena”, Bologna, Il Mulino, 1999.
42 Aa.Vv., Parmenides Studies Today, “The Monist”, LXII (1979); H. Böder, Parmenides und der Verfall des kosmologischen Wissens, “Philosophisches Jährbuch”, LXXIV
(1966-7), pp. 184-202: A. Finkelberg, The Cosmology of Parmenides, “American Journal
of Philology”, CVII (1986), pp. 303-317; A.A. Long, The Principles of Parmenides’ Cosmogony, “Phronesis”, VIII (1963), pp. 90-107; Y. Lafrance, Le sujet du poeme de Parmenide: l’etre ou l’univers?, “Elenchos”, XX (1999), pp. 265-308; Fraenkel, Poesia e filosofia della Grecia arcaica, pp. 506-534; E.M. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A
New View on their Cosmologies and on Parmenides Proem, Amsterdam, Hakkert, 1978; G.
Arrighetti, Uomini e dei in Esiodo, “Grazer Beiträge”, VII (1978), pp. 15-35; L. Couloubaritsis, Mythe et philosophie chez Parménide, Bruxelles, Ousia, 1990; G. Cerri, La poesia di Parmenide, “Quaderni urbinati di cultura classica”, nuova serie, LXIII (1999), pp. 727; Id., Introduzione. La riscoperta del vero Parmenide, in Parmenide di Elea, Poema sulla natura, Milano, Rizzoli, 1999, pp. 11-110; L. Ballew, Straight and Circular. A Study of
Imagery in Greek Philosophy, Assen, Van Gorcum, 1979; O. J. Brendel, Symbolism of the
Sphere. A Contribution to the History of Earlier Greek Philosophy, Leiden, Brill, 1977; K.
Algra, Concepts of Space in Greek Thought, Leiden - New York - Köln, Brill, 1995.
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chiuso nel breve ma notevole tracciato di astronomia sferica,43 è una sorta
di grammatica fondamentale dell’essere e della capacità di parlarne. Quindi ciò che si raccomanda la dea, mostrando le ragioni delle false conoscenze dei mortali, è che Parmenide diffonda la consapevolezza di tale raccordo tra le falsità degli umani e la verità rotonda appena rivelata: non si
tratta per i mortali di abbandonare in toto il proprio linguaggio, ma di imparare le istruzioni per un suo uso più adeguato, affinché i sémata tornino
alla loro unità splendente, non ambigua.
Dunque sole, astri e luna sono detti tracciare le loro orbite attorno alla
terra, e il loro sparire dalla nostra visuale non comporta la loro riduzione a
nulla:
π©ν πλšον ™στˆν еοà φ£εος καˆ νυκτÕς ¢φ£ντου
‡σων ¢µφοτšρων, ™πεˆ οÙδετšρJ µšτα µηδšν44.
Tutto è pieno di luce e allo stesso tempo di profonda notte
ambedue eguali, poiché a nessuna delle due compete il nulla.
Il mondo visto nella sua totalità, cioè da un punto di vista cosmologico
– che è quello adottato dalla dea –, risulta tutto un mescolarsi di luce e di
ombre; né si dà luce senza che si formino ombre né si dà tenebra entro la
quale non sia percettibile la luce, pur minima, degli astri. Da fuori del mondo la distinzione è illusoria perché, nella continuità dei movimenti del sole e della luna, se c’è tenebra da una parte, dall’altra la luce non si è spenta; così la sfera non offre confini percettibili che delimitino il dominio dell’una o dell’altra, ma dall’incessante muoversi degli astri è favorito, invece, il continuo sfumare dell’una nell’altra. Avvertire netta la differenza tra
i contrari, luce e notte, o tra suono e silenzio, invece di percepirli come intermittenza o ritmo, significa attenersi agli effetti e all’irriducibilità dei singoli momenti tra loro, perdendo il senso dell’interezza del fenomeno nel
suo fluire. Lo sguardo umano è condizionato dalla posizione dell’osservatore da cui conseguono limiti prospettici, invece la natura dei corpi celesti
non è afflitta dalle limitazioni o dai cambiamenti dello sguardo umano45. Se
del conoscere è rimasto a portata della nostra mano solo la parte che coglie
gli effetti sensibili, la luce e la notte, si deve concludere che non possiamo
considerare tale sapere autosufficiente; ma neppure è possibile negarlo,
Parm. (28) B 10 e 12 DK.
Parm. (28) B 9, 3-4 DK.
45 Parm. (28) B 10 DK.
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perché luce e notte non comportano il nulla (µηδšν). Non rimane altro che
usarlo riconoscendolo come percezione parziale e relativa, quindi falsa agli
occhi della verità a cui possono accedere solo gli dei. Le distinzioni, invece, restano percettibili solo agli umani che vivono al di sotto della volta
celeste, la cui visuale è relativa al proprio orizzonte; e questi con diversi nomi danno forma compiuta e distinta agli effetti di un unico accadimento
che mai si conclude, e che sempre sembra scorrere solo per chi lo sta osservando da dentro la sfera celeste:
αÙτ¦ρ ™πειδ¾ π£ντα φ£ος καˆ νÝξ Ñνόµασται46.
Per questo tutte le cose sono state chiamate luce e notte.
In effetti a determinare i fenomeni a cui dare nome è l’opinione e questa si applica agli effetti sensibili:
κατ¦ δόξαν… το‹ς δ’ Ôνοµ’ ¥νθρωποι κατšθεντ’ ™π…σηµον ˜κ£στJ47/.
Secondo opinione… gli uomini posero nomi a contrassegno per ciascuna
cosa.
Ciò spiega che per ricevere il discorso veritativo sull’essere, non si possa rimanere tra le opinioni degli uomini, che del loro cambiamento fanno
una ragione di vita e di sviluppo, ma si deve venire trascinati fuori dall’abituale prospettiva. E ciò spiega anche che, se i nomi servono a dar massima concretezza alle diversità, che pur sono destinate a passare, il linguaggio vada usato nella piena consapevolezza della sua imprescindibile
falsità, perché sempre opinabile. Quello divino è il solo che coglie la realtà nella totalità; tale dimensione si può a mala pena intuire a partire dalla
relatività e dall’intermittenza del proprio sentire. Ne deriva che la capacità di pensare e di dire le cose come sono è, come asseriva Simonide citato
da Aristotele, privilegio esclusivo degli dei:
… τÕ γ¦ρ αÙτÕ νοε‹ν ™στ…ν τε καˆ εναι48
infatti pensare ed essere collimano;
… ταÙτÕν δ’ ™στˆ νοε‹ν τε καˆ οÛνεκεν œστι νόηµα49
il pensare coincide con il pensato.
Parm. (28) B 9, 1 DK; cfr. Heracl. (22) B 57 DK.
Parm. (28) B 19, 1-3 DK.
48 Parm. (28) B 3 DK.
49 Parm. (28) B 8, 34 DK.
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Ecco perché tale sapere, la theoría, può essere solo rivelato; invece per il
modo di intendere degli umani, il mondo è costituito di segni parziali e per trovare la loro completezza e, quindi, la loro spiegazione il rimando è ad altro,
come fa l’astronomia che connette l’avvicendarsi della luce e della tenebra con
la permanenza della sfera celeste. Resta comunque fermo che le distinzioni di
cui si serve il linguaggio umano se pur non toccano la realtà delle cose, poiché dipendono dal codice della percezione sensibile, sono un codice convenzionale utile alla comunicazione reciproca50; e di questo codice lo stesso Parmenide continua a servirsi nel rivolgersi agli umani. Infatti per dare un senso
comprensibile alla rivelazione ricevuta, è costretto a pronunciare parole che
presso gli dei sono destituite di significato perché senza corrispettivo ontologico, come µηδšν appunto51, termine che avrà fortuna presso Democrito. La
necessità dell’uso strumentale della falsità nel linguaggio, è dimostrata da Parmenide che scrive il suo poema col preciso intento di farsi capire dagli umani; d’altronde dire il falso è necessario anche solo per poter da questo discernere il vero (κρ‹ναι δ# λόγJ), non solo relativamente ai fatti ma soprattutto relativamente alle parole che li pongono in essere52. Falso semmai è il giudizio
di autosufficienza conferito al modo della conoscenza sensibile, che, per riacquistare il suo senso più vero e profondo, necessita di rimandare alla visione
della totalità. Forse, come a suo tempo intuiva Casertano53, siamo giunti molto vicini a quanto per conto suo afferma Aristotele.
5. La divina theoria di Parmenide secondo Aristotele
Solo l’inalterabile linguaggio degli dei fa aderire pensiero ed essere, e perché alla verità ben rotonda risultino educabili gli umani, questa deve potersi
R. J. Clarck, Parmenides and the Sense-Perception, “Revue des Études Grecques”,
LXXXII (1969), pp. 14-32; W. R. Chalmers, Parmendes and the Beliefs of Mortals, “Phronesis”, V (1960), pp. 5-20.
51 Parm. (28) B 9, 4 DK; cfr. n. 42.
52 B. Snell, La formazione dei concetti scientifici nella lingua greca, in Id., La cultura
greca e le origini del pensiero europeo, Torino, Einaudi, 1963, pp. 313-334; G. E. M.
Ascombe, Parmenides, Mystery and Contradiction, in Id., From Parmenides to Wittgenstein. Collected Philosophical Papers vol. I, Oxford, Blackwell, 1981, pp. 3-8.
53 G. Casertano, Parmenide. Il metodo la scienza l’esperienza, Napoli, Loffredo, 1989;
Id., Aristotele critico di Parmenide, in R. L. Cardullo (a cura), Il libro alpha della Metafisica di Aristotele tra storiografia e teoria. Atti del Convegno Nazionale, Catania, 16-18
gennaio 2008, Catania, Cuecm, 2009, pp. 37-53.
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tradurre in un linguaggio alla loro portata, sfiorando il falso pur riconoscendolo come tale. Quindi lo sguardo del filosofo deve farsi ampio, una
vera e propria theoría che comprenda il linguaggio vero e quello falso, capendo le connessioni tra i due livelli, come si auspica Platone nel
Fedro:
Se ritengo che qualcun altro sia capace di guardare verso l’Uno e anche sui
molti (ε„ς $ν καˆ ™πˆ πολλ¦), io gli vado dietro «seguendo le sue orme, come quelle di un dio» (κατόπισθε µετ’ ‡χνιον éστε θεο‹ο)54.
Forse questo processo di diffusione del vero attraverso l’utilizzo del discorso falso degli umani è quello che si può cogliere nella ripresa da parte di Aristotele delle tesi parmenidee nel I libro della Metafisica:
Παρµεν…δης δ# µ©λλον βλšπων œοικš που λšγειν· παρ¦ γ¦ρ τÕ ×ν τÕ µ¾ ×ν
οÙθ#ν ¢ξιîν εναι, ™ξ ¢ν£γκης $ν ο‡εται εναι, τÕ Ôν, καˆ ¥λλο οÙθšν (περˆ
οá σαφšστερον ™ν το‹ς περˆ φÚσεως ε„ρ»καµεν), ¢ναγκαζόµενος δ’
¢κολουθε‹ν το‹ς φαινοµšνοις, καˆ τÕ $ν µ#ν κατ¦ τÕν λόγον πλε…ω δ# κατ¦
τ¾ν α‡σθησιν Øπολαµβ£νων εναι, δÚο τ¦ς α„τ…ας καˆ δÚο τ¦ς ¢ρχ¦ς π£λιν
τ…θησι, θερµÕν καˆ ψυχρόν, οŒον πàρ καˆ γÁν λšγων· τοÚτων δ# κατ¦ µ#ν
τÕ ×ν τÕ θερµÕν τ£ττει θ£τερον δ# κατ¦ τÕ µ¾ Ôν55.
Parmenide sembra invece che parli con più attenzione: presso l’essere il
non essere non vale alcunché. Sostiene che di necessità uno è l’essere e
niente l’altro (riguardo a ciò nella Fisica abbiamo disquisito in modo più
esauriente). Costretto ad aderire ai fenomeni e avvertendo che l’unità è secondo il concetto e la molteplicità secondo la sensazione, tornò a porre due
causa o due principi, il caldo e il freddo o in altri termini il fuoco e la terra. E di questi sotto l’essere si colloca il caldo, sotto il non essere l’altro.
Molte sono le posizioni attribuite a Parmenide all’interno della mappa
concettuale ricavata dal sunto di storia della filosofia desunto da Aristotele: ciò dipende dal variare dell’interpretazione del suo pensiero, prima
sostenitore di un principio unico, poi di un modo espressivo affine ai poeti e al mito. Può invece sorprendere che Aristotele gli attribuisca l’azione
di due principi materiali opposti e che per questo suo mostrarsi più accorto egli lo distingua dagli altri Eleati, in particolare da Melisso, giudicato “rozzo” (phortikós) nella Fisica56. Ma lascia interdetti che in così poPlat. Phaedr. 266 B 5-7, trad. Reale.
Aristot. Metaph. I 5, 986 b 27-987 a 2.
56 Aristot. Phys. I 2, 186 a 9.
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che righe Aristotele risulti in contraddizione non solo con Parmenide, ma
con se stesso: la chiusa interpreta ‘terra’ e ‘freddo’ come ‘non essere’,
κατ¦ τÕ µ¾ Ôν, quando aveva cominciato col dire che per Parmenide il
non essere, al cospetto dell’essere, non valeva alcunché, τÕ µ¾ ×ν οÙθ#ν
¢ξιîν εναι.
È necessario sviluppare questa contratta argomentazione di Aristotele
su Parmenide per non essere bersaglio degli strali polemici dei suoi esegeti metafisici; ciò è possibile enfatizzando le distanze tra le due affermazioni, quasi che operassero su livelli diversi. Dunque è un fatto che anche Aristotele quando afferma κατ¦ µ#ν τÕ ×ν τÕ θερµÒν sembra ricorrere all’uso di schemi: magari si tratta solo della colonna dei contrari appena evocata a proposito dei Pitagorici. Ora «presso l’Essere», παρ¦ γ¦ρ τÕ
Ôν, vi è solo la dea ed è rispetto al suo sguardo che non vi è posto per il
Non Essere: pongo iniziali maiuscole ai termini per evidenziare che si
tratta di un livello di significanza assoluta, distinta dal linguaggio ordinario, e che è attinta dal linguaggio divino, coniugato sempre al presente.
Dunque al cospetto della dea e di fronte all’Essere non si pone il Non Essere né se ne parla, perché «non vale alcunché». Ma all’interno dell’Essere e adottando una prospettiva umana, il linguaggio non può che diventare falso perché adotta il codice della sensibilità: così l’essere, che da
fuori era unico e continuo, viene frantumato nei suoi effetti discontinui,
perché determinati dalla parzialità della visuale adottata dai mortali e puntualmente registrata dal loro linguaggio57. Questo è il livello delle opposizioni tra notte e fuoco, che Aristotele traduce come caldo e freddo o fuoco e terra: e questi termini vengono posizionati nelle due colonne dell’essere e del non-essere elaborate per i Pitagorici, ma che servono a determinare i contrari dei principi materiali secondo l’opinare dei mortali. Si
tratta di essere o non-essere qualcosa di determinato, specifica Aristotele
(Óτι σηµα…νει τÕ Ôνοµα τÕ εναι À µ¾ εναι τοδ…)58, usando una accezione
relativa dei termini; Parmenide aveva d’altronde specificato che «a nessuno delle due compete il nulla».
Per differenziare i due registri del discorso torna utile la diaíresis:
57
58
H. Weinrich, Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, Bologna, Il Mulino, 1976.
Aristot. Metaph. IV 4, 1006 a 29-30.
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PARMENIDE Linguaggio divino
Linguaggio umano
Theoria
/
\
Essere
Non Essere
\
/
fuoco notte
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termini assoluti
------------------------------------------------------------------------------------------------ARISTOTELE Linguaggio filosofico
essere non-essere
termini relativi
Quindi alla fine il non-essere di cui parla Aristotele non è il Non Essere
di cui neppure si può parlare, secondo la dea; semmai è quella condizione
di possibilità che lo Stagirita indica come potenza e che altri indicano come indefinito, che secondo i Pitagorici è rappresentato dal numero pari o dal
vuoto degli atomisti: insomma siamo entrati nel linguaggio dei filosofi che,
per comunicare con gli umani in modo non equivoco, corre il rischio di suonare falso per l’uso di termini pleonastici. Del resto Aristotele si mostra consapevole dell’esistenza dei due usi linguistici nel libro V della Metafisica:
1. ‘Essere’ significa che “è” (τÕ εναι σηµα…νει καˆ τÕ œστιν), anche che è
vero, e il non essere (tÕ d# m¾ enai) che non è vero ma falso; ugualmente per l’affermazione e la negazione59.
2. ‘Essere’ significa “ente”, detto “in potenza” o “in atto” (τÕ ×ν τÕ µ#ν
δυν£µει ·ητÕν τÕ δ’ ™ντελεχε…v) rispetto a tutto quello che ne consegue; diciamo essere vedente chi può vedere che chi vede di fatto ed egualmente diciamo che è sapiente chi può fare uso della conoscenza e chi la sta usando60.
Siamo tornati a parlare del sapiente, in una forma argomentativa vicina
al De anima61: analogamente al fatto che, per Parmenide e per un accorto
osservatore sulla superficie terrestre, la Notte non escluda il ritorno del
Fuoco celeste, analogamente al fatto che una facoltà come il sapere o il vedere, per Aristotele, continua a essere patrimonio di un individuo anche se
al momento non la esercita.
È la dottrina dell’atto e della potenza per cui «essere si dice in modo duplice: vi è un modo per cui si ammette che l’essere si generi dal non essere, nell’altro no»62; attraverso questa differenza nel modo di dire ‘essere’ lo
Ivi, V 7, 1017 a 31-33.
Ivi, 1017 a 35- b 5.
61 Aristot. De an. II 5, 417 a 21-418 a 6.
62 Aristot. Metaph. IV 5, 1009 a 32-33; cfr. E. Berti, Il problema della sostanzialità dell’essere e dell’uno nella Metafisica di Aristotele, in Id., Studi aristotelici, L’Aquila, Japadre, 1975, pp. 143-158.
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Stagirita sembrerebbe volersi riconnettere all’Eleate quando si faceva carico della raccomandazione della dea sulle apparenze che «devono autenticamente essere nel tutto, pur tutte passando»63. A suo parere, se la condizione umana ci obbliga a recuperare l’unità pur nella dimensione del molteplice, ciò è possibile per Parmenide non negando completamente quanto ci appare, per affermare incondizionatamente l’unità del principio materiale, ma riconducendo gli effetti contrastanti a cause uniche attraverso
un’operazione concettuale64:
Παρµεν…δης µ#ν γ¦ρ œοικε τοà κατ¦ τÕν λόγον ˜νÕς ¤πτεσθαι, Μšλισσος
δ# τοà κατ¦ τ¾ν Ûλην65.
Parmenide sembra aver concepito l’unità concettualmente, Melisso invece
materialmente.
Per Aristotele non ci sono alternative: anche i poeti sono costretti a dire il falso, perché questa è la condizione della comunicazione umana: a
seconda dei contesti, caldo/freddo e fuoco/terra sono tutte specificazioni improprie e limitate dell’essere, frutto del linguaggio falso, eppure necessario, dei mortali che, vivendo nella provincia dell’essere, costruiscono un proprio cammino di conoscenza sui riverberi intermittenti della sua luce.
7. Conclusione sul linguaggio filosofico
Per concludere torniamo all’inizio, cioè allo schema dei predecessori di
Aristotele per riflettere sull’operazione linguistica attuata sui rappresentanti del pensiero ellenico fatti sfilare nel libro I della Metafisica. Il punto
nevralgico è il confronto tra il linguaggio tradizionale e quello che Talete
inaugura, anche se ci si muove nel totale apparente disaccordo sull’identificazione dei principi:
Parm. (28) B 1, 32 DK; cfr. n. 27.
E. Hussey, The Presocratics, New York - London, Duckworth, 1972, pp. 98-99.
65 Aristot. Metaph. I 5, 986 b 18-20; A. Finkelberg, Parmenides: Between Material and
Logical Monism, “Archiv für Geschichte der Philosophie”, LXX (1988), pp. 39-67; E.Th.A.
Hoffman, Il linguaggio e la logica arcaica, Ferrara, Spazio libri, 1991; G. Calogero, Storia della logica. I: L’età arcaica, Bari, Laterza, 1967; A. Pagliaro, La parola e l’immagine, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1957, p. 297 e segg..
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Sul numero e sulla forma di questo principio non tutti dicono le stesse cose; ma Talete, l’iniziatore di tale filosofia, dice essere l’acqua poiché affermava «la terra sopra l’acqua» (τ¾ν γÁν ™φ’ Ûδατος)66.
Se Talete riconduce tutto all’azione dell’acqua, altri parleranno del fuoco o della mescolanza di quattro elementi; ma pure sul numero, se finito o
infinito, vi è divergenza. Invece sembra non essercene se si esamina la natura di tale principio che Aristotele definisce στοιχε‹ον67, elemento, usando come metafora un termine preso in prestito dai grammatici e che significa la singola lettera che è parte di una sillaba. Aristotele fa capire che vi
è un reale bisogno di termini nuovi – un altro è Ûλη (selva o legname) che
vale come ‘sostegno’ (Øποκε…µενον)68, cioè materia – perché i più lontani
autori parlino la stessa lingua, o perché in essa vengano tradotti, ponendo
in essere quel koinos logos, auspicato da Eraclito. È chiaro che Talete non
poteva parlare di principio (¹ ¢ρχ»)69, che queste sono considerazioni di
Aristotele atte a spiegare perché il Milesio indichi l’acqua come origine di
tutte le cose; semmai gli si può attribuire solo l’indicazione secca che si è
riportata tra virgolette. Quindi ‘principio’, ‘causa’, ‘materia’, ‘elemento’,
tutti termini discussi in Metaph. V, sono contenitori del tutto nuovi e utili
per catalogare tutte quelle realtà materiali indicate da autori che potrebbero passare per filosofi. Indipendentemente dalla ragione ideologica che può
avere spinto Aristotele a reclutare tutti gli intellettuali dell’Ellade contro
Platone, ponendo così in essere una tradizione che non c’era, il merito dello Stagirita è di aver fondato il linguaggio concettuale, il logos philosophos di cui parla Sesto, in grado di unire concetti e tradizioni di pensiero
pur rispettandone le differenze. L’unicità concettuale del linguaggio filosofico permette che, nonostante le singolarità degli approcci e delle soluzioni, i più lontani filosofi potessero confrontarsi ed essere confrontati riconducendo il tutto all’interno di una comune eredità culturale: il risultato è che anche dopo Aristotele, questo linguaggio è diventato il modo di
esporre filosofia nelle più diverse scuole di pensiero.
D’altronde, usando simile linguaggio, Aristotele mostra come siano possibili anche raccordi col mythos, nel caso dell’acqua di Talete:
Aristot. Metaph. I 1, 983 b 18-21.
Ivi, 983 b 10-11; W. Belardi, Platone e Aristotele e la dottrina sulle lettere e la sillaba, “Richerche linguistiche”, VI (1974), pp. 1-86.
68 Aristot. Metaph. I 1, 983 a 29-30.
69 Ivi, 983 b 19 e 27.
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ε„σˆ δš τινες ο‰ καˆ τοÝς παµπαλα…ους καˆ πολÝ πρÕ τÁς νàν γενšσεως καˆ
πρèτους θεολογ»σαντας οÛτως ο‡ονται περˆ τÁς φÚσεως Øπολαβε‹ν·
’Ωκεανόν τε γ¦ρ καˆ ΤηθÝν ™πο…ησαν τÁς γενšσεως πατšρας70.
Ci sono alcuni che credono che anche gli antichissimi, molto prima della nostra generazione, costruendo teorie sugli dei abbiano sostenuto sulla natura
qualcosa di simile: infatti sostennero «Oceano e Teti genitori del divenire».
Il linguaggio del mythos impiega per le entità divine denominazioni che
portano alla personificazione e delinea rapporti sotto il segno delle relazioni umane; si è visto come Eraclito attribuisse l’autorità regia a pólemos
parodiando il verso di Omero, e come Aristotele, nella Politica, riconoscesse in questo uso del mito il tentativo di rendere inviolabile la monarchia. Ora è la volta delle parentele familiari per identificare l’origine dell’universo: il termine ‘genitori’ (πατšρας) sta per ‘cause’ o ‘principi’ della
generazione. Tutto ciò è a conferma che il linguaggio per Aristotele è frutto di convenzione condivisa71 e per questo quando si parla, lo affermava anche Platone nel Fedro per il dialogo tra anime72, bisogna rispettare le abitudini vigenti presso l’uditorio.
Infatti pur dicendo le stesse cose, alcuni non le accettano se non si tirano in ballo gli dei:
L’ascolto è in accordo alle abitudini (αƒ δ’ ¢κρο£σεις κατ¦ τ¦ œθη), apprezziamo che si parli come siamo abituati; altrimenti le cose non sembrano le stesse ma per disabitudine sono più incomprensibili e strane
(ξενικèτερα); la consuetudine è più conoscibile (σÚνηθες γνèριµον). Quanta forza abbia la consuetudine lo dimostrano le leggi („σχÝν œχει τÕ σÚνηθες
οƒ νόµοι δηλοàσιν) nelle quali ciò che è legato al mito (µυθèδη) o ciò che
è elementare, ha per abitudine (δι¦ τÕ œθος) maggior rilevanza che la conoscenza delle stesse. Ci sono quelli che non danno retta a ciò che viene
detto se non si parla in formule matematiche, altri se non attraverso esempi, altri prendono in considerazione le testimonianze dei poeti (οƒ δ#
µ£ρτυρα ¢ξιοàσιν ™π£γεσθαι ποιητ»ν)73.
Ivi, 983 b 27-31.
N. Kretzmann, Aristotle on Spoken Sound Significant by Convention, in J. Corcoran
(a cura), Ancient Logic and its Modern Interpretations, Dordrecht - Boston, D. Reidel Publishing Company, 1974, pp. 3-21; W. Belardi, Il linguaggio nella filosofia di Aristotele, Roma, Kappa, 1975; G. Sadoun Bordoni, Linguaggio e realtà in Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1994; E. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Roma-Bari, Laterza, 2003.
72 Plat. Phaedr. 271 D 2-272 A 8.
73 Aristot. Metaph. II 3, 994 b 32-b 8.
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Appendice
Alla dimensione linguistica di Aristotele sono giunto seguendo le orme di
Giovanni Vailati che ne tradusse il libro I nel 1908/9 per la casa editrice
Rocco Carabba74; con la Metafisica Giovanni Papini inaugurò la collana
“Cultura dell’Anima”, un’iniziativa editoriale d’assalto nei confronti dell’establishment accademico75. In anticipo sull’esegesi aristotelica Papini e
Vailati decisero che si potesse smembrare il testo della Metafisica76; se Papini poteva essere affascinato dall’ampio confronto con fonti letterarie e
mitologiche in una parte del testo che si presentava compiuto in sé (lo affermerà nell’Introduzione), dall’altra Vailati sembra intenzionato a mostrare la piena consapevolezza linguistica di Aristotele, necessaria per intrecciare il serrato dialogo tra autori e ambiti culturali così lontani e differenziati, e che porta alla formulazione di un “lessico filosofico” nel libro
D. Una testimonianza in tal senso è offerta da un articolo immediatamente a ridosso della traduzione di Aristotele, poi condotta per la Carabba:
Tra i più importanti tentativi di determinare in modo sistematico i diversi
sensi che, nel linguaggio ordinario, si trovano attribuiti ai termini più importanti, e più frequentemente adoperati nelle discussioni filosofiche, è da
porre il quarto libro della “Metaphysica” di Aristotele, dove appunto si tenta di enumerare e precisare i diversi sensi di tali termini, facendo risaltare
i legami e le differenze che sussistono tra essi. È certamente da porre tra gli
episodi più curiosi della storia della cultura occidentale, medioevale e moderna, il fatto che la stessa esposizione, destinata da Aristotele a servire di
cura e di rimedio preventivo contro gli effetti di certe ambiguità o imperfezioni, caratteristiche nella lingua greca, finì per diventare alla sua volta,
in seguito al predominio dell’influenza aristotelica sullo svolgimento del
74 Aristotele, Il primo libro della Metafisica. Saggio di traduzione dal greco di G.V. con
notizie su Aristotele e le opere sue, Lanciano, Carabba, 1909.
75
M. Del Castello – G. A. Lucchetta (a cura), Papini, Vailati e la “Cultura dell’anima”.
Atti dei convegni di studio Chieti, maggio 2009 e gennaio 2010, Lanciano, Carabba, 2011.
76 Poteva esserci stata solo l’influenza di P. Natorp, autore citato in bibliografia con
Thema und Disposition der aristotelischen Metaphysik, “Philosophische Monatshefte”,
XXIV (1888), pp. 37-65 e 540-574: perché i due studi fondamentali al riguardo di W. Jaeger sono decisamente posteriori (Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des
Aristoteles, Weidmannsche Buchhandlung, Berlin 1912 e Aristoteles. Grundlegung einer
Geschichte seiner Entwicklung, Weidmannsche Buchhandlung, Berlin 1923); cfr. E. Berti,
Aristotele nel novecento, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 24-43; E. Berti, Modelli di ermeneutica aristotelica tra ottocento e novecento, in M. Migliori – A. Fermani (a cura), Platone e Aristotele. Dialettica e logica, Brescia, Morcelliana, 2008, pp. 23-44.
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pensiero latino medioevale, una sorgente di nuove confusioni e di nuove
ambiguità che vennero ad aggiungersi a quelle, tutt’affatto diverse, e naturalmente non contemplate da Aristotele, che presentava già per se stesso
l’impiego della lingua latina per la trattazione di questioni filosofiche. Basta accennare, per esempio, a quelle derivanti dalla mancanza in latino dell’articolo77.
Simile convinzione conduce Vailati, nella prima traduzione integrale
del testo del libro I, a interpretare e a tradurre in modo completamente diverso da quella che sarà poi la consuetudine che si consoliderà presso i
successivi esegeti: giungerà a marcare le parole di Aristotele con un taglio
di tipo storico e sociologico, atto a offrire un quadro relativistico ed evolutivo della conoscenza e della cultura. Per fare una storia del sapere è opportuno avere un’idea di quale sapere andare in cerca; la prospettiva imboccata da Aristotele è rintracciare tutte le figure di quelli che sono stati comunemente riconosciuti come grandi sapienti – intellettuali, artisti, poeti,
medici, agronomi o astronomi – che di volta in volta abbiano goduto di tale fama; una volta recuperate, si può cercare di ricostruire nella tipologia
del sapiente evidenziando quei caratteri che, nonostante le differenze, risultino ricorrenti nelle varie epoche. A questo punto, spiegando le differenze con il variare dei contesti storici nell’evoluzione della civiltà umana,
Aristotele s’impegna a recuperare per il termine ‘sapiente’ e, quindi per
‘sapienza’, un’unità semantica, pur nella mutazione dei contesti applicativi e delle mansioni di volta in volta designate, che permetta di individuare in modo analogo una funzione sociale ben riconoscibile. Ora se per i filosofi la pratica del conoscere deve poter essere allargata a tutti, al punto
da usufruire pubblicamente dei risultati, esiste pur sempre un vincolo
di parentela con il modo di procedere attraverso meraviglia, proprio del
mythos:
Vi è un certo contrasto tra la posizione in cui ci troviamo rispetto ad essa
[=sapienza], e quella in cui si trovarono quelli che se ne occuparono fin da
principio. Come s’è detto sopra il primo impulso che spinse alle ricerche filosofiche fu la meraviglia destata dai fatti più ovvi: per esempio il movimento di meccanismi automatici quando non si vede da che cosa siano mes-
G. Vailati, Il linguaggio come ostacolo alla eliminazione di contrasti illusori, “Rinnovamento”, II (1908), in G. Vailati, Scritti, a cura di M. Quaranta, Bologna, Forni, 1987,
I, pp. 112-113; poi in G. Vailati, Il metodo della filosofia. Saggi di critica del linguaggio, a
cura di F. Rossi-Landi, Laterza 1967, 203-214; infine, a cura di A. Ponzio, Bari, Graphis,
2000, pp. 131-132.
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si in azione, le irregolarità del movimento del sole, l’incommensurabilità
della diagonale al lato di un quadrato (pareva mirabile infatti che non si
potesse trovare in questo caso una misura in comune, anche essendo permesso di prenderla tanto piccola quanto fosse necessario). Ma succede poi
una specie di investimento della meraviglia, e se ne ha un esempio appunto nella suddetta questione geometrica. Chi abbia fatto progresso, infatti,
nello studio della geometria, di niente tanto si meraviglierebbe, quanto del
fatto che la diagonale di un quadrato fosse commensurabile col lato78.
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Va notato che traduzioni più recenti prediligono far piegare l’argomentazione su un versante psicologico per sottolineare come esista un cambiamento nel singolo soggetto conoscente dallo stadio del primo stupore alla fase in cui la mente realizza l’atto conoscitivo. Il soggetto è unitario,
quindi «chi indagava al principio» (τîν ™ξ ¢ρχÁς ζητ»σεων)79 muta d’animo di fronte a certi fenomeni paradossali della realtà, gli oggetti che si
muovono da sé o l’incommensurabilità della diagonale al lato del quadrato, subentrando all’ingenua curiosità la consapevole accettazione che le
cose non possono stare che così.
La traduzione di Vailati invece, come si vede, si discosta fin dalla prima proposizione del brano riportato, optando per due soggetti collettivi,
ben distinti da uno iato temporale: noi, nella «posizione in cui ci troviamo
rispetto» alla sapienza, e «quelli che se ne occuparono fin da principio».
Tornano gli «antichissimi» con cui si era aperta la sfilata dei predecessori
e il modo di conoscere in uso ora è affermato non essere più quello in uso
allora; quello più attuale risulta decisamente emancipato dalla meraviglia
appoggiandosi al criterio della necessità razionale; l’altro, consolidato dalla tradizione dei «più antichi», rimarrebbe invece saldamente ancorato all’intervento del sovrannaturale, cioè quello che coerentemente Aristotele attribuisce alla credenza nell’operato degli dei.
In definitiva, per Vailati, ciò a cui fa riferimento Aristotele non è semplicemente l’inversione di uno status psicologico, da prima a dopo la conoscenza; sembrerebbe, a suo dire, voler considerare la diversità dell’impatto del sapere nelle diverse società e il suo conformarsi a seconda delle
mentalità dominanti. Non vi è un unico modo di conoscere, dunque, e anche il mythos è sapere; il contrasto, semmai, è tra due forme di sapere, quello del logos e quello del mythos, che non si sostituiscono l’uno all’altro, ma,
78
79
Aristotele, Il primo libro, pp. 33-34; cfr. Aristot. Metaph. I 2, 983 a 11-20.
Aristot. Metaph. I 2, 983 a 12 (Aristotele, Il primo libro, p. 33).
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l’uno di fronte all’altro, si confrontano direttamente delimitando e sempre
più differenziando i propri ambiti e modi d’agire:
Fu per effetto della meraviglia che gli uomini cominciarono in passato a
filosofare, come è per questo stesso motivo che essi continuano a filosofare al presente. In origine la meraviglia loro era eccitata dai problemi più
ovvi; in seguito, a poco a poco, seguendo un medesimo processo, arrivarono a proporsi questioni più difficili, come per esempio quelle sulle fasi
della luna, sui moti del sole e degli astri, o sulla evoluzione dell’universo.
Chi si trova davanti a difficoltà e si meraviglia ha l’impressione di essere
ignorante. Si connette a ciò anche l’amore dei filosofi per i miti e le favole, in quanto queste si compongono di elementi atti a eccitare la meraviglia80.
Appropriatamente Aristotele dopo aver citato l’esempio del movimento del sole indica problemi di geometria: se i corpi astrali con i loro movimenti sono da sempre oggetto delle narrazioni allegoriche dell’epica mitica, la geometrizzazione delle loro traiettorie sembra rendere superfluo tutto l’armamentario narrativo e metaforizzante, offrendo al fenomeno un
principio di ragion sufficiente che rende necessario e incontrovertibile tutto ciò che a prima vista sembrava eccezionale e arbitrario. Questa differente
natura dei modi espressivi potrebbe spiegare la variazione di registro nell’uso dei termini essere e non-essere nel passaggio da Parmenide ad Aristotele: il primo, legato al modo linguistico del mito, l’altro impegnato a dar
conto razionalmente delle differenze:
Parmenide però pare avere avuto più chiara coscienza di quello che diceva. Sembrandogli che il “non essere”, di fronte all’“essere” non fosse nulla, ne concludeva per necessità che l’“essere” era “unico” non potendo esistere altra cosa. Di questo soggetto ci siamo occupati più per disteso nei libri sulla Fisica. Costretto ad adattare le sue teorie ai fatti, e accorgendosi
che la “unità” è propria soltanto dei concetti, mentre fra le sensazioni regna
la molteplicità, Parmenide tornò all’ipotesi di due principi o cause: il caldo e il freddo, o in altre parole il fuoco e la terra. Di questi il primo corrisponderebbe, secondo lui, all’“essere”, l’altro al “non essere”81.
Si torni ora al confronto tra Parmenide e Melisso, ma nella traduzione
di Vailati:
80
81
Aristotele, Il primo libro, pp. 30-31; cfr. Aristot. Metaph. I 2, 982 b 12-18.
Aristotele, Il primo libro, p. 53; cfr, Aristot. Metaph. I 5, 986 b 26-987 a 2.
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Parmenide sembra aver concepita la dottrina dell’unicità della materia in un
senso che potrebbe chiamarsi “concettuale”, mentre Melisso la concepì in
senso “materiale”. Per questa ragione il primo chiama “limitata” l’unità, e
l’altro la chiama “illimitata”82.
Il rimando alla concettualità per quanto riguarda la traduzione di κατ¦
τÕν λόγον risulta coerente con la scelta di tradurre come ‘definizione’ il
τÕν λόγον œσχατον che appare nell’elencazione delle quattro cause premesse al cap. 3, indicato da altri come ‘forma’ o ‘essenza razionale’ o ‘nozione ultima’83:
Si è mostrato sopra che il conoscere qualche cosa equivale a saperne la
causa. Occorre ora notare che di “cause” si può parlare in quattro diversi
sensi: secondo uno di questi, per “causa” di una cosa è da intendere sia la
sua “essenza”, o, in altre parole, ciò che la fa essere quello che è. In questo senso sarebbe causa prima di una cosa la sua definizione, in quanto questa fornisce le ultime ragioni delle proprietà di essa (τÕ δι¦ τ… ε„ς τÕν λόγον
œσχατον, α‡τιον δ# καˆ ¢ρχ¾ τÕ δι¦ τ… πρîτον)84.
E sul problema della definizione in Aristotele, Platone e nella filosofia
antica, Vailati aveva posto mente per tutta la sua vita di studioso, anche se
breve85.
Per ultimo, si torni ora lì dove si era cominciato il percorso sul libro I
della Metafisica e si vada a leggere la traduzione di Vailati dell’argomento costruito a partire dagli dei:
Aristotele, Il primo libro, p. 52; cfr, Aristot. Metaph. I 5, 986 b 18-21.
P. Eusebietti: Padova, Cedam, 1950; G. Reale: Milano, Bompiani, 2000 (già Rusconi, Milano 1993); M. Zanatta: Milano, Rizzoli, 2009.
84 Aristot. Metaph. I 3, 983 a 24-29.
85 G. Vailati, La teoria aristotelica della definizione, “Rivista di Filosofia e scienze
affini”, V (1903), ora in Vailati, Scritti, I, pp. 317- 333; Id., I tropi della Logica, “Leonardo”, III (1905), in Vailati, Scritti, I, pp. 21-28; Id., Per un’analisi pragmatistica della Nomenclatura Filosofica, “Leonardo”, IV 81906), in Vailati, Scritti, I, pp. 73-87: Id., La teoria del Definire e del Classificare in Platone e i rapporti di essa con la Teoria delle Idee,
“Rivista filosofica”, 1906, in Vailati, Scritti, I, pp. 364-373; Id., Il metodo deduttivo come
strumento di ricerca, “Revue de Metaphisique et Morale” 1898, in Vailati, Scritti, II, pp. 1848; Id., Gli strumenti della conoscenza, a cura di M. Calderoni, Carabba, Lanciano 1916;
Id., Alcune osservazioni sulle questioni di parole nella storia della scienza e della cultura,
Prolusione al corso libero di Storia della Meccanica (12 dicembre 1898), in Vailati, Scritti,
II, pp. 49-74 ora in G. Vailati, Gli strumenti della ragione, a cura di M. Quaranta, Padova,
Il Poligrafo, 2003, pp. 141-178.
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I direttori dei lavori sono considerati come più sapienti degli operai, in
quanto conoscono le cause di ciò che questi fanno, mentre gli operai, come se fossero cose inanimate, agiscono senza sapere quello che fanno, allo stesso modo come, per esempio, il fuoco brucia. La sola differenza fra i
due casi è questa che, mentre le cose inanimate agiscono per proprietà ad
esse insite, gli operai agiscono per abitudine (τοÝς δ# χειροτšχνας δι’ œθος).
Chi li guida è ritenuto più sapiente, non tanto perché sappia fare di più di
loro ma perché conosce le ragioni o le cause di ciò che essi fanno … Dire
che gli uomini si dettero a filosofare per fuggire l’ignoranza equivale a dire che essi cercavano il sapere per il sapere stesso e non per alcun vantaggio che sperassero di ricavarne. Dell’acquisto di tali conoscenze essi cominciarono a preoccuparsi proprio quando si trovarono sufficientemente
provvisti di ciò che era necessario per garantire la loro tranquillità e il loro benessere. Risulta da quanto si è detto che la scienza di cui si parliamo
non è cercata in vista di alcun vantaggio ulteriore. Allo stesso modo come
chiamiamo libero che lavora per proprio conto e non per conto di altri, così questa che è la sola veramente “libera”, è anche la sola che abbia valore
per se medesima. Da ciò si potrebbe essere indotti giustamente a riguardare il suo possesso come qualcosa di superiore all’uomo (poiché in più di un
senso l’uomo è da riguardare per sua natura come uno “schiavo”) dando ragione a Simonide secondo il quale essa costituirebbe un privilegio della divinità, e l’uomo non sarebbe degno di ricercare la sapienza per se stessa. E
se è da credere ai poeti quando dicono che la divinità è capace d’invidia, sarebbe naturale che su questo punto la sua invidia si manifestasse: e per questa ragione toccassero spesso disgrazie agli uomini sapienti. Ma non è credibile che gli dei siano capaci di una tale invidia: come dice il proverbio
“molte sono le fandonie che spacciano i poeti”. A ogni modo però nessuna
scienza è da riguardare superiore in pregio e dignità a questa di cui parliamo. E per due motivi essa merita di essere qualificata come la più “divina”di tutte. Anzitutto per essere quella tra tutte le scienze che è più presumibile sia posseduta dalla divinità; in secondo luogo per il fatto di riferirsi e avere per oggetto la ricerca di cose “divine”. Essa è la sola a presentare tali due caratteri: poiché la divinità è in un certo modo una specie di causa e di principio; e, d’altra parte, alla divinità spetta in particolar modo la
conoscenza delle cause e dei principi. Vi saranno scienze più necessarie di
essa alla vita umana ma nessuna la supera in valore intrinseco86.
È stata espunta, perché già analizzata, la notazione dedicata alla funzione della meraviglia suscitata da miti e favole; risalta così meglio la stra86 Aristotele, Libro primo, pp. 32-33; cfr. Aristot. Metaph. I 1, 981 a 30 – b 6; 982 b 19983 a 10.
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tegia implicata dalla scelta terminologica di Vailati che anche in un ambito metafisico è riuscito a far parlare Aristotele di lavoro, di cantieri, di luoghi dove risulta chiaro chi dirige e chi, invece, deve solo eseguire. Ciò è
possibile se, dopo aver definito libero «chi lavora per conto proprio e non
per conto degli altri», e dopo aver connotato come «privilegio» la possibilità di esercitare un libero sapere, venga mostrato come chi dirige il cantiere
goda di maggior considerazione nell’opinione comune rispetto a chi è semplicemente subordinato. Quella che viene delineandosi tra le righe è una società dove ci sono privilegiati, sottomessi e schiavi; ma queste distinzioni
convenzionali non sono solo differenze di casta bensì sono già distinzioni
di classe87, diventate consolidata abitudine (δι’ œθος) in una società che
considera chi esegue il lavoro manuale (χειροτšχνας oppure β£ναυσος
τεχν…της) alla stessa stregua di quello dello schiavo (δοÚλος), dato che tutti risultano essere parimenti strumenti animati sul cui lecito impiego si discute nella Politica88.
Forse la sensibilità novecentesca di Vailati per le questioni sociali si è
sovrapposta agli interessi squisitamente logici di Aristotele, oppure è il Macedone che effettivamente non riesce più a trattenere i suoi rilievi critici nei
confronti della società ateniese che ancora blinda le proprie convenzioni sociali appellandosi al volere e all’invidia degli dei?
87
M. Capozza (a cura), Schiavitù, manomissione e classi dipendenti nel mondo antico.
Atti del colloquio internazionale GIREA di Bressanone, 25-27 novembre 1976, Roma, l’Erma di Bretschneider, 1979; G. E. M. de Ste Croix, The Class Struggle in the Ancient Greek World, London, Duckworth, 1983; J. Ober, Mass and Elite in Democratic Athens. Rhetoric, Ideology, and the Power of the People, Princeton, Princeton University Press, 1989;
Id., The Athenian Revolution. Essays on Ancient Greek Democracy and Political Theory,
Princenton, Princenton University Press, 1996; E. Meiksins Wood, Contadini-cittadini &
schiavi. La nascita della democrazia ateniese, Milano, Saggiatore, 1994; M. Moggi – G.
Cordiano (a cura di), Schiavi e dipendenti nell’ambito dell’“oikos” e della “familia”. Atti
del XXII Colloquio GIREA, Pontignano (Siena), 19-20 novembre 1995, Pisa, Ets, 1997.
88 Aristot. Pol. III 4, 1277 a 36-b 1.
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