Il club delle piccole morti

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Il club delle piccole morti
Tommaso Capolicchio
Il club delle
piccole morti
Un noir metropolitano
dino audino editore
Personaggi
© 2008 Dino Audino
srl unipersonale
via di Monte Brianzo, 91
00186 Roma
www.audinoeditore.it
Coordinamento redazionale
Daniele Aluigi
Mi chiamo Giorgio ma tutti mi chiamano Maus perché somiglio a
un topo. Da bambino ok, poteva pure essere un nomignolo carino,
ma poi è rimasto per identificarmi, io topo scacciato e nascosto,
rispetto alla massa di quelli che la città accetta senza problemi.
Quando le vedo tra la folla, austere, che non alzano lo sguardo o
che ti ignorano, penso sempre che in fondo sono fortunato perché
Maus non entra nel loro raggio d’azione e può starsene da parte
senza farsi attraversare dal loro vuoto interiore.
Però, proprio perché sono uno che non ha del tutto rinunciato alla
presenza del bello mi limito a fotografarle, le spio e me ne approprio con un occhio in più, quello della Reflex.
Accontentarsi per me è una cosa che non ha senso, quando si ama
non si fanno calcoli e se non si ama beh… io a stare da solo ci sono
abituato.
Pablo è un nome del cazzo. Me l’hanno dato i miei quando tra una
scopata e l’altra parlavano di politica. E quindi Paolo gli sembrava
troppo comune e l’altro, il mio nome, decisamente rivoluzionario. Io
di rivoluzionario c’ho solo il numero di fighe che passa nel mio letto.
Vi ho delusi eh? Nessun problema. Non sono qui per ingraziarmi
nessuno.
La Dama nacque perché un giorno ero vestita di bianco e dicono
che Coppi, il ciclista, quello famoso, avesse un’amante che chiamavano la Dama bianca. È una cosa che risale al mio primo ragazzo. E
poi il nome è rimasto ma io veramente mi chiamo Lorenza. Di me
dicono che faccio sempre quello che voglio e che me la tiro.
Tutto molto vero.
Quando ho messo su il negozio, volevo che Davide sparisse.
Perché Davide è il fregnone a casa con mamma e papà. Poi ho letto
Dorian Gray. Mi piace, è un bel personaggio, mi dà l’idea che coi
vestiti ci sapeva fare. E allora mi sono fatto chiamare Grey, alla romana. Il nome fico di uno che sa sempre cosa mettersi addosso. I miei
amici ormai mi chiamano così. Gliel’ho quasi imposto.
Stampa: Pomel sas – Via Casilina Vecchia 147 – Roma
Copertina: Duccio Boscoli
Finito di stampare gennaio 2008
È vietata la riproduzione, anche parziale, di questo libro,
effettuata con qualsiasi mezzo compresa la fotocopia,
anche ad uso interno o didattico, non autorizzata dall’editore.
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Tommaso Capolicchio
“C’è un sogno ricorrente… lo faccio quasi tutte le notti. C’è tanta
gente intorno a me ma io mi sento sola e ho paura…”
“Continua…”
“C’è uno specchio. Riflette la mia immagine. Io piango e mi guardo, e ho paura perché vedo la mia stessa paura negli occhi…”
“È di te che hai paura?”
“Sì, di me.”
“A voi non capita? Intendo dire… sogni di questo tipo?”
“Non è per i tuoi sogni che sei qui…”
“Voglio che chi mi uccida abbia i miei stessi sogni.”
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Capitolo I
Si muore un po’ per poter vivere
Quando lo vedi, il vuoto, è già troppo tardi. Ti chiama, ti attira, ti
prende per i capelli e ti tira giù. Nascosto da un’apparente immobilità, il vuoto esplode nel tuo stomaco per disintegrarsi in magnetiche
particelle che risucchiano il tuo corpo.
Il cielo è azzurrino e terso. Una di quelle giornate dove non viene
voglia di ammazzarsi. I palazzoni della mia borgata si rubano la luce
a vicenda, sempre gli stessi, indifferenti ai più, ancor meno ai meno.
Per strada le solite fiumane di gente intenta a lasciarsi vivere.
Chi di noi ha ragione?
Dai, fallo Silvia, perché non si muore una sola volta e poi rinasci
più forte. Muori stupida e obesa darkettona che non hai mai combinato un cazzo, che tutti ti odiano anche se sai che non è vero e ti
piace pensare così perché quelli che ti amano non ti amano abbastanza, perché il tuo bisogno d’affetto è lacerante, perché tutto quello che assomiglia a una vita appagante non l’hai mai sentito, perché
le note della tua sofferenza echeggiano nel cervello stonate e assordanti… perché ora le tue gambe si muovono lente verso il precipizio… perché ora sotto di te… sembra veramente difficile farlo… un
solo istante e Silvia non c’è più!
Arriva il solito momento in cui mi fermo. C’è qualcosa dentro di
me che non va, non vuole morire. Perché lo desidero con tutta me
stessa ma questo corpo stronzo si rifiuta. Non solo mi è d’impaccio
durante tutta la mia esistenza ma si intestardisce come un mulo
quando si tratta di autodistruzione. Forse dovrei cambiare metodo.
La stanca routine del volo dal quinto piano deve lasciare il posto a
qualcosa di più significativo.
Pensaci Silvia pensaci…
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Capitolo II
Capitolo III
Tu non sei di buonumore con me
Per un’ora d’amore non so cosa darei
Grey ha un negozio di vestiti. È uno che se lo vedi per strada lui
abbassa la testa e non ti guarda. Forse perché è timido, forse perché
è stronzo. I suoi vestiti sono usati ma anche nuovi. Sono alternativi
e costano tanti soldi. Usati, cari e alternativi. Grey è il monumento al
radical chic. Uno che se non sai di che cosa si sta parlando ed entri
nel suo negozio, un’ideuzza potrai fartela velocemente. Il negozio è
abbastanza piccolo da accorgersi di tutti i clienti che curiosano e
abbastanza grande da permetterti di curiosare. Grey non è uno che
chiede “Posso aiutarti”. A lui di aiutarti non gliene frega nulla. Anzi
puoi pure star lì a smanettare tre ore nel calderone dei vestiti scontati tra i 15 e i 30 euro che lui neanche si accorgerà di te. È inutile
pure chiedergli consigli. Al massimo ti dirà che sì ti sta bene o no ti
sta male. Tutti i vestiti, anche quelli non in saldo, sono accatastati,
buttati, lasciati al caso senza una precisa relazione o un qualsiasi
disegno. Ma Grey conosce a memoria il prezzo di ogni capo e talvolta risulta inspiegabile il perché tra due maglioncini infeltriti che
giacciono l’uno accanto all’altro come reduci di una qualche guerra
di alta maglieria uno abbia un prezzo abbordabile e l’altro risulti
invece inespugnabile per una stragrande quantità di tasche.
Nella vita di Grey ci sono due persone. Una è il suo amico Pablo.
L’altra è Lorenza.
Una ragazzetta I-PODipendente sguscia fuori dal camerino. Una
maglietta stretching le incornicia il piccolo seno. È verde e le sta
bene. Anche il seno.
“Mi sta bene” ribadisce direzionandosi verso il Grey alle casse.
Sembra Stevie Wonder che ride e suona e ride e suona:
“Venticinque.”
“Uno sconto?”
“Ti conosco?”
“Sono amica di Sandro.”
“Ma non sei amica mia. Venticinque”, sentenzia.
E l’amica di Sandro paga. Non se la lascia sfuggire la magliettina.
La bimba sloggia, col suo pacchetto, via dal Circles.
Circles è il nome del negozio la cui insegna è formata da alcuni cerchi concentrici che, uniti e appropriatamente stilizzati, formano appunto la scritta Circles. Un po’ cerchi olimpici, un po’ cerchi alla testa.
Circles. Che ora è vuoto.
Sono le 14. Ci vorrebbe un diversivo. Siamo a Roma. Diversivi non
ce ne sono se la tua vita è impostata. Qualsiasi vita sia.
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Ogni tanto tiro fuori quella teoria dell’imbuto. Mi viene in mente
nei tempi morti. Che a volte sono tanti. Tipo questa riunione del
cazzo. Io a capotavola e intorno a me bravi pischelli puntuali, ordinati, la penna in mano pronta a scattare e i fogli bianchi che imbratteranno con le mie cazzate. Sulla destra lei è molto carina, capelli
corti freschi di parrucchiere, due occhietti nocciola spalancati e orecchie pronte a ricevere chissà quali perle di saggezza. Deve averli
avvertiti il grande capo:
“Ascoltate questo ragazzo… è molto arrogante ma sa il fatto
suo…”.
Sulla sinistra quello che sembra un ragazzino appena uscito dalla
Bocconi. Anche lui talento da vendere e voglia di prendere il mondo
a morsi.
Comodi ragazzi… comodi… il vostro Paolo vi farà sognare…
E insomma com’era la teoria dell’imbuto? Devo essere chiaro ed
efficace perché questi qui si aspettano roba forte.
“Conoscete la teoria dell’imbuto?”
Le facce un po’ assenti di chi ha ripassato la lezione il mattino presto ma dev’essergli sfuggito qualcosa…
Certo ciccini non la conoscete perché è una stronzata che ho
inventato io. Parte il solito bluff…
“È una teoria di un economista australiano Joseph Kyrali… dunque, immaginate la domanda come il lato ampio dell’imbuto e l’offerta come quello stretto dove passa il liquido… se per domanda
intendiamo la ricerca di amore da parte di uomini e donne e per
offerta l’oggetto maschile e femminile di tale ricerca…”
I giovani virgulti non afferrano. Chiariamo…
“Quello che si interseca perfettamente con le nostre aspirazioni
estetiche e comportamentali è una piccola e ricercatissima percentuale di quello che in realtà noi possiamo afferrare. Ecco perché
spesso ci si innamora quando si pensa di aver veramente afferrato
quel brandello di semidei che normalmente non ci sono destinati.
Ma attenzione! Non è vero che siamo riusciti ad arrivare al nettare e
qui entra in campo una seconda tendenza…”
Vediamo un po’… espressioni sperdute da turisti in una metro
giapponese. Non riescono a capire dove voglio andare a parare.
Aspettano il trucco come una scatola cinese che si apre all’improvviso ma da cui non esce niente. Stanno sulla difensiva. No, lei, in
fondo, alza la mano. Da uno sguardo veloce sembra una che il vertice, quello alto, dell’imbuto non l’ha mai neanche sfiorato.
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Tommaso Capolicchio
“L’idealizzazione!”
Brava la mia cozza ci sei arrivata. Glielo dico e si inorgoglisce.
“L’idealizzazione…”, ripeto con enfasi e tutti scrivono. “Nessuno
accetta l’idea di non arrivare mai a beccare uno o una dell’elite ma
fa finta di crederci. Idealizza uno o una come lui fino a crederlo
meraviglioso/a con la piena convinzione di avercela fatta, di essere
entrato nel gotha dell’addominale scolpito, nel Whallala della figa,
nei Campi Elisi della boccia soda…”
Mi guardano strano e smettono di scrivere. Forse ho esagerato.
“Non è quello che si aspetta un consumatore di fronte al prodotto
di innovazione tecnologico? Far credere all’uomo comune che per
un po’ la farà finita con la sua aurea mediocritas, che ne è finalmente
uscito e che dopo aver acquistato, bello sereno, un televisore ad alta
definizione con la sua carta di credito fumante, uscirà dal centro
commerciale sfoggiando un bel ghigno che dice ‘… questa cosa gli
altri non ce l’hanno e comunque l’ho pagata di meno…’”
Il ragazzetto sveglio alza la mano.
“E quando l’idealizzazione finisce?”
“Se parliamo di un rapporto di coppia i due si manderanno simpaticamente affanculo, se parliamo di un prodotto che si vende, i
soldi sono già stati spesi. Ed è quello che ci interessa.”
“Ci interessa metterglielo in quel posto, vero?”
“Sì certo”, rispondo convinto.
La domanda è venuta dalla cozza in fondo. Ho capito che mi darà
delle grane la sua intelligenza.
“Qualche problema signorina? Lei è qui per aiutare i più deboli?”
Si sente attaccata ma respira forte e controbatte. Tenta la stoccata
etica:
“Riuscire a conciliare consumismo e valori le sembra improponibile?”, sempre lei.
“No, ma non mi hanno chiamato qui per insegnarveli i buoni valori. Prima di entrare leggete l’insegna: Q-S-S-I-C-A-P ”, scandisco bene.
Di nuovo facce basite quando non interrogative. Mi sono preso la
mia pausa attoriale e ora il colpo di teatro:
“Qui si spacca il culo ai passeri”.
Uno scroscio di applausi sinceri segue la mia affermazione. La gag
della sigla l’ho fregata a un mio collega di Verona. Inizialmente non
mi piaceva ma lui col giochino delle iniziali ha fatto parecchi passi
avanti in azienda.
Dio, ma che uomo di merda…
Dio, ma come è bello tutto ciò…
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Capitolo IV
È difficile spiegare certe giornate amare
Maus parte 1
Maus vede un cane. Bello il cane. Il cane passeggia per la strada. Di
quelli abbandonati che rischiano che le macchine li prendano sotto.
Maus parte 2
Il cane si infila sotto una panchina del parco. Maus lo segue con
gli occhi. Ora ha il suo sguardo. Il cane tira fuori la lingua.
Maus parte 3
Maus si avvicina all’animale chiedendogli affetto. Il cane lo ricambia lasciandosi carezzare. Maus tira fuori la macchina fotografica. Il
cane è pronto… Click.
Maus parte 4
Maus sviluppa le foto alla vecchia maniera. Il cane comincia a
comparire. Sembra che sorrida. A Milano i cani sorridono se Maus li
fotografa.
Maus parte 5
La foto del cane che sorride è in bella mostra in una galleria. Un
signore si avvicina e lo guarda bene. Questo qui è il mio cane. Mi è
scappato qualche giorno fa, ne sono sicuro. Il cane ha fatto bene perché ora sorride. Ci sono altre foto di Maus. Un aereo sopra la città. Un
passante che si gratta il naso. Una bambina con in bocca un lecca
lecca. Un tram solitario nella notte. A volte è così bella e cupa Milano.
Maus parte 6
Quando si sveglia Maus è spesso troppo tardi. Però a volte la mattina riesce ancora a trovarla. Apre la finestra e nel suo cortile già le
vite scorrono. Prende la macchina e scatta nel vuoto. Che a volte il
vuoto si riempie da sé. E in effetti qualcosa accade.
Maus parte 7
La bella vicina si asciuga i capelli fuori. È una bella giornata e i
suoi capelli sono rossi. Sono rossi e belli pure col bianco e nero.
Maus parte 8
Non ha la ragazza Maus. Perché è brutto. È un fotografo, ma Milano
ne è piena e lui è un fotografo brutto. Quindi non ha la ragazza.
Maus parte 9
Quando cala la notte Maus va a dormire da solo. Lui non vorrebbe dormire da solo. Vorrebbe la ragazza che s’asciuga i capelli rossi
nell’aria del mattino. Ma è brutto. Quindi dorme solo.
Maus parte 10
Maus ha un amico. Si chiama Pablo e vive a Roma. Non sono veramente amici. Sono amici solo perché vivono lontani. Maus però ha
una sua foto in casa. Una foto in cui Paolo gli sorride. Come il cane.
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Capitolo V
Capitolo VI
Di notte poi si trucca lo sai e tutta la città impazzisce
La cambio io la vita che non ce la fa a cambiare me
Sono sola. È una sala piena e sono sola. Davanti a me una fabbrica di lustrini in movimento. Diverse facce che ho già vestito di suoni.
Le ho sempre viste davanti a me. Sempre le stesse in ordine sparso.
Un solo interruttore potrebbe spegnerli e con loro tutto il mio lavoro. Basta girare una rotella per impossessarsi del loro attimo. Farli
urlare preda di vibrazioni e costringerli a dedicarmi il loro sorriso
ragionevolmente soddisfatto.
“Brava Lorenza… spacchi!!”
Spacco. Ancora una volta spacco. Lascio andare qualche beat di
troppo e qualcuno se ne accorge. Non sei in serata Dama. Il sudore
non ti ha mai ripagato. Quello degli altri s’intende. Che il tuo, di
sudore, neanche si vede quando scivola tra i piatti…
Tra loro alcune facce spiccano. Riconoscenti mi guardano ancora, e
ancora. Facci ballare cristo Lorenza, fallo ancora come sai fare tu. La
sala è ampia. C’entrano tutti con le loro vite sospese. Perché alle cinque del mattino saranno più stronzi di prima. Perché li ho fottuti. Dove
gli fa più male. Nella loro debole e inferma vita. Che ha bisogno di
me. Dei miei battiti sempre più sequenziali. Suoni aerei si impossessano dei loro corpi, matematiche pulsioni li riportano a una rigorosa
libertà di movimento. Colpisco più volentieri quelli che non hanno
altro che me. Perché sono bella e perché sono brava. Poi ci sono quelli che io o un altro fa lo stesso. Quelli li risparmio. Cazzo se mi fa male
la testa… diamogli questa attesa… dai rallenta… rallenta fino a farli
fermare. Li voglio vedere mentre arrivano a bloccarsi e con lo sguardo mi chiedono spiegazioni: “Perché ti sei fermata stronzetta?”.
E io gli sorrido: “Perché il gioco lo decido io…”.
Dai rallentate, rallentate fino a smettere… ecco bravi così… sembrate
manichini bagnati… ora riprende un battito lento… un piccolo cuore
che fa fatica a riprendersi… ma loro lo sentono… sentono sempre tutto
e sanno che poi riparte… e come va a finire perché sono ancora lì con
le orecchie tese e vigili. Calati come troie strafatte. Le loro braccia bruciano l’aria e dipingono linee ellittiche. Sempre più ipnotiche.
Immergermi nel magma e confondermi. Ma uno sguardo mi blocca.
Devo inchinarmi alla sua incisività. Non è uno sguardo che si può trattare così, con noncuranza. È lo sguardo di un diavolo. Che ti fissa a
lungo e ti taglia dentro. Che ti senti una merda fatta a pezzettini. L’ho già
visto quello sguardo. E non lo reggo. Lasciami stare maledetto che ho la
pasticca facile stasera e poi ti vedo come non dovresti essere. Lasciami
perdere perché mi guardi ancora? Un incessante voglia di averti Devil.
Mi hai seguito fin qui e io… Non mi guardare Devil, non mi guardare…
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In casa Paolo è solo. Le sue mani frugano nei cassetti per lenire il
sovraccarico d’ansia. Niente. Lui nei cassetti ci tiene solo le camicie
ben stirate. Forse qualche foto delle vacanze a Ponza. Niente. Una
donna? Impossibile, lui se le scopa e poi cancella il telefono. Allora
non resta che il Grey.
“Pronto?”
“Ciao Pablo.”
“Mi chiamo Paolo.”
“Sì… come no! C’hai un nome fichissimo e ti devo chiamare solo
Paolo. È come se al Che Guevara lo chiami che ne so Giuseppe
Guevara… Maurizio Guevara…”
“Sto male cazzo…”
“Come?”
“Male… mi senti? Sto male…”
“Vieni al Gamma. Ne parliamo.”
“Sì.”
La Smart di Paolo sfreccia tra le strade deserte della città indovinando le vie che conosce a malapena. Paolo guida con gli occhi fissi
sulla strada, scatti nervosi gli prendono il corpo. Si ferma a una fontanella e vomita scostando violentemente una coppia di turisti irlandesi intenti a riempire una bottiglia di plastica.
“Ma che cazzo c’ho?”
Dentro il Gamma, solita gente. Qualche biondina che ti guarda,
Paolo, perché anche sei hai sbrattato non sei proprio da buttare. Hai
l’occhietto azzurro e la faccia da stronzo. Caratteristiche forse un po’
obsolete per qualcosa di serio ma sempre in gran voga nell’ambito
dei rapporti superficiali.
Attraversi i lunghi e stretti corridoi del localetto romano incrociando sorrisi e smorfie di gente che ti ha individuato come
Pariolocazzocifaiquidentroquestoèunpostopergenteveramentealternativa.
Fino a trovarsi di fronte il Grey. Il Grey ti squadra Paolo. Hai una cera
di merda. Vieni qui. Davide ti passa una mano sulla faccia. È bagnata.
“Beh… che c’hai?”
“Non lo so, sto male… ansia, panico… quelle cose lì…”
Sospira, il Grey.
“Ok vediamo un po’. Mi finisco una birra. Chiedi una roba forte e
fuggiamo.”
“No, non bevo, poi è peggio.”
Allora Davide lo fa sedere vicino. Agli occhi di Paolo tutto è
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Tommaso Capolicchio
mostruoso. È dentro una stamberga dalle pareti gelate e odorose di
sangue. Uno squallido luogo popolato da ombre distorte che gli sorridono grottescamente. È questo il panico.
“… mi sento di morire… lo so che non è vero ma lo sento lo stesso… lo so che morirò questa sera e non so perché… cazzo muoio
Grey…”
Davide gli mette in bocca una cosa. Poi sono in macchina. Non
parlano. Il Grey ha uno sguardo da persona matura e responsabile.
Gli viene naturale, perché non lo è mai in situazioni normali, e questa non sembra esserlo. Paolo riapre gli occhi. Grey cerca di capirci
qualcosa:
“Ok, ora dimmi che è successo…”.
“È iniziato tutto mentre facevo i bagagli per domani. Ho l’aereo
prestissimo per Milano. Ad un certo punto una sensazione di panico. Stupida, fuori luogo, immotivata. Cerco qualcosa per calmarmi
ma in casa non c’è nulla. Non sono abituato a dovermi calmare, ho
sempre vissuto sull’adrenalina, la so gestire. Ma questa è un’altra
cosa è un senso di… morte.”
“Ora come va? Dovrebbe fare effetto…”
“Era una pasta quella…?”
Grey sghignazza.
“… ma stai meglio no?”
“Boh…”
“Hai ancora paura di morire?”
“Non lo so, ora è tutto ovattato, morirò?”
“No, non morirai.”
Nella mente di Paolo tornano immagini di tranquilla routine. Il
capo ha detto che l’azienda farà un salto di qualità. Il suo lavoro?
Vediamo un po’…
Quando sfogliamo un quotidiano ci chiediamo perché questa pubblicità o perché quella. Una supermacchina vicino alla notizia di un
incidente sull’autostrada? Crema antirughe a fianco alla foto della
vecchietta messa sotto per sbaglio? L’ultimo profumo francese sotto
l’articolo su una donna lapidata in medio oriente?
Con Paolo non accadrebbe mai. Subliminale è la parola d’ordine.
E allora lo yogurt della multinazionale accompagna la notizia che
oramai la vita si è allungata. Il mega lettore dvd si impossessa della
pagina che esalta il comfort di un appartamento nel verde. Il bikini
troneggia accanto all’elenco delle cento spiagge più pulite d’Italia.
Semplice? Forse.
Comunque Paolo viene pagato bene per questo. Così bene che ora
deve andare a Milano per parlare con l’imperatore della faccenda.
Entrano soldi. No, niente panico. Mai più.
Ah, se queste cose contano ancora qualcosa Pablo è di destra,
Grey di sinistra.
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Il club delle piccole morti
“Come vorresti morire?”
“Sparire. Tutto qui.”
“Devi dirmelo. Hai chiesto che fossi io, perché?”
“Mi dai sicurezza. Sembri uno che l’ha già fatto…”
“No, nessuno di noi l’ha già fatto.”
“Beh, non importa voglio credere che sia così.”
“Non mi hai detto come vuoi morire.”
“Sparami. Cinque metri. Braccio teso. Mira al cuore.”
“Quando?”
“Domani.”
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Il club delle piccole morti
Capitolo VII
Quello che sei per me è inutile spiegarlo con parole
Normalmente le cose non hanno suono. Inanimate per convenzione a volte vorrebbero ribellarsi e parlarci.
Sull’aereo Paolo è scosso. Non ama l’aereo e non ama le cose
inanimate. E quello che gli è stato offerto per pranzo ha l’aria di
esserlo.
Sulle strade di Roma cartelli elettronici incombono come passi del
vecchio testamento e minacciano di toglierti punti alla patente anche
se fai un rutto in curva. Lorenza non è religiosa e passa col rosso. I
suoi bellissimi occhi verdi inquadrano con abile maestria i pertugi
che si aprono tra una macchina e l’altra incuneandosi come una
lucertola tra le fessure di un muro bruciato dal sole. I suoi capelli
nerissimi, strapazzati dal vento, sventolano come la bandiera di uno
stato che nella sua costituzione recita: “Lorenza è fondata sulla capacità di vivere la vita come viene. Si aggrappa alle passioni di qualunque tipo. Sparisce e ricompare”.
Tempo di saldi. Fuori dal Circles una scritta coi caratteri sixtys
annuncia che forse su qualche capo un po’ vecchiotto si sarebbe
lasciato correre. Una ragazza sui 20 entra veloce nel negozio giungendo presto al bancone dove Grey staziona scazzato come al solito. Niente frasi. Conosce il codice. Le mostra un vestito lungo nero
di velluto che ha pescato nel locale. È il più bello lì dentro. La ragazza è abbastanza grossa, grassa, sì insomma siamo sui 75 kg. Grey
pensa che va bene, se lo può provare, cazzi suoi. Le indica il camerino. Una tenda bianca, uno specchio. A volte si intravede qualcosa.
Alle ragazze non crea problemi. Subito dopo entra Lorenza. Sorride
a Grey.
“Ah sei tu…?”, fa lui.
“Contento di vedermi…?”
“Come una mosca la sua merda.”
“Se vuoi me ne vado.”
“No, no, resta che ci facciamo un bel discorsetto. Tanto sono in
pausa caffè…”
Una felpa viola li ha visti. Sulla felpa una scimmia stilizzata con i
dentoni che ridono. Quella felpa con la scimmia costa 70 euro. Il
Grey non fa sconti. È il pezzo pregiato del negozio. La scimmia ci
racconta di Grey e Lorenza. Lui la bacia e sulle labbra di lei il sapore acre del Devil. Un testadicazzo che ci sa fare. Compare sempre
quando Grey non c’è. Nessuno l’ha visto in faccia. Lo chiamano
Devil perché sparisce come il diavolo. Devil non ha mai bisogno di
fare niente di speciale. Se vuole una donna se la prende. Devil le
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guarda e se le prende. Alcuni dicono che non sia uno solo, ma che
siano due gemelli. Altri, che il Devil sia la classica scusa per giustificare lo squitting (Dal verbo squittire: “Fare il sorcio”).
Tipo: “Sai passava il Devil e ci sono cascata!”.
“Che vuoi… era tardi… c’era il Devil… come si fa a resistere?”
Insomma uno a cui non si deve e non si può dire mai di no. Ma
il Grey al Kaisersoze de noantri non ci ha mai creduto. Però se poi
chiedi a Lorenza come è fatto, lei ti dice che era troppo fatta, che si
ricorda solo gli occhi penetranti e le braccia che la stringono, che era
buio e lui era sopra di lei e che non lo farà mai più, che è stata una
cazzata Grey…
“PUTTANA!!”
Grey non fa sconti neanche a lei. È il pezzo pregiato della sua vita.
La felpa ci parla di uno schiaffo. E un urlo:
“Ancora con quello stronzo!”.
Il viso di Lorenza è spinto a una torsione innaturale che fa indietreggiare di scatto l’avventore venuto a chiedere la sua solita razione di jeans a vita bassa.
Lorenza alza gli occhi ferita. È a terra. Lui la sovrasta. La scimmia
ride coi dentoni. Davide la fa rialzare. No, non la scimmia.
Lei lo odia e comincia a piangere. Il cliente fa marcia indietro perché la vede brutta.
“Come fai ad esserne così sicuro? C’era parecchia gente, tutti strafatti…”, protesta Lorenza.
“Gli strafatti vedono cose immaginarie, futuribili, psichedeliche…
le tue porcate col Devil sono il massimo del realismo… praticamente un documentario del National Geographic…”
“Credi più agli altri che a me?”
“C’erano almeno mille persone. Forse potevi scegliere un luogo
più appartato…”
Lei continua a piangere. A lui dà fastidio:
“Non piangere. Non servirebbe…”.
“Non piango per te, piango per me. A me serve.”
Una quarantenne vestogiovane entra. Ciuccetti biondo tinto. E lentiggini. Tante. Troppo sole anni ’90. Non sembra intimorita dallo
scazzo.
“Posso?”
Cazzo ha afferrato la felpa con la scimmia! La scimmia non vuole
finire in pasto alla tardona. E poi vuole continuare il racconto.
Perché il Grey è furioso con la Dama e non degna la tardona di un
solo sguardo.
“È stata una cazzata. Non succederà più…”, si giustifica Lorenza.
“Certo… è stata una cazzata che capita regolarmente due volte al
mese… posso chiamarti troia o trovi il termine antiquato?”
Lorenza è indecisa: lacrima su, lacrima giù? Lacrima giù.
Crolla a terra dilaniandosi in microcellule.
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Tommaso Capolicchio
“Posso?”, ripete la tardona. Vuole proprio provarsela quella felpa.
Grey le fa un cenno che potrebbe, grazie all’aiuto di qualche illustre
semiotico, assomigliare a un sì. Una brezza leggera si ricorda di Roma
e comincia a soffiare lì fuori. Grey vuole una sigaretta… adesso!
“Usciamo.”
La felpa alla tardona sta male. È troppo stretta e la scimmia ghigna
felice. Ma lei non se ne accorge e la vuole comprare. La fa tanto
ragazzina. Si chiama Gilda e ha trovato un venticinquenne che ogni
tanto se la tromba. La scimmia caccia dentro i dentoni terrorizzata.
Finirà che Gilda se la porterà appresso per le sue scorribande erotiche e quando finalmente troverà un coetaneo e smetterà di vestirsi da
bimba la butterà via perché le ricorderà un suo momento un po’ patetico, lasciando la scimmia alla mercé dell’usato di terza categoria.
Grey e Lorenza sono fuori e discutono. Lui sembra appartenere
alla brezza perché soffia ma non punge. Lei si fa piccola. Ha bisogno di lui, di essere rimproverata. È il loro equilibrio.
“Ti ricordi quando ci siamo conosciuti?!”
“Certo.”
La prima volta l’aveva incontrata ad Arezzo a un dj set di una tedesca: Eva Morgenstern. Si stava sull’erba tra amici. Lei si era avvicinata alla consolle e studiava i gesti, i movimenti e persino i tic della teutonica. Suoni robusti, roba da tarda serata più che da primo pomeriggio quando il caldo scioglie qualsiasi velleità. E infatti, il Grey,
quella ragazzina l’aveva lasciata correre. Incapace di domandarle
banalità da concerto. Poi l’aveva rivista ancora in un pub irlandese.
“Un’aria afflitta che stonava con la tappezzeria del locale. Intorno
a te gente che beveva e rideva. L’avessi fatto apposta non ti si poteva notare meglio… mi avvicino e faccio:
Ciao sei triste e tu che rispondi?”
“Sono così triste che quando taglio le cipolle, piangono loro.”
“La battuta mi era piaciuta. Lo so, un certo autocompatimento fa
effetto sulle ragazze, mettici pure che non eri proprio da buttare…”
“A me invece mi avevano già avvertito sul tuo conto: attento alla
sexy gattina, la micia mannara, Dio li fa lei li accoppia, Lorenza la
magni-fica sembravano i ‘prossimamente’ di un cinema porno anni
’70.”
“C’è gente che non sa stare al gioco.”
“Tu invece stai dentro i giochi di tutti…”
La terza volta si erano visti al Circles. Lei cliente, lui capo della baracca.
Lorenza gli sorrideva felice di averlo ritrovato e lui le aveva regalato un paio di jeans da uomo che lei ancora si mette.
“Non me li devi regalare”, aveva detto. “Sennò poi mi sento in debito.”
“Niente debito. Mi fa piacere.”
Se ne uscì soddisfatta col suo jeans ma volle pagare una cravattina new wave viola da applicarsi su una camicia bianca. E poi tornò.
Più volte. Fine della storia.
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