Nella foresta del Sarawak

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Nella foresta del Sarawak
Viaggio attraverso alle longhouse e i fiumi delle tribù Dayak.
Long Unan, Alto Tubau longhouse Punan
Dayak in sintesi. A prima vista, la popolazione del Borneo può sembrare etnicamente
alquanto uniforme anche perché solitamente si considerano i Dayak come gli unici abitanti
originari dell'isola. In realtà, pur essendo conosciuti col nome generico di ''dayak'',
dall'espressione malese ''orang-dajak'' che significa uomo dell'entroterra, sotto questa
denominazione sono comprese oltre 200 tribù che differiscono tra loro sensibilmente nella
lingua, nella foggia del vestire, nella tipologia delle abitazioni, nelle attività artigianali e in
molti altri aspetti attinenti l'organizzazione sociale e la cultura.
Tutti i gruppi Dayak hanno tuttavia una comune caratteristica: essi vivono lungo i fiumi e
praticano la risicoltura. I Dayak della costa invece, sono coloro che nel corso dei secoli, si
sono fusi con cinesi e altri gruppi asiatici. Per quanto riguarda la religione, le differenze
sono meno marcate in quanto il cristianesimo ha fatto molti proseliti, soppiantando in parte
le antiche credenze. Tuttavia, i culti animisti sono ancora presenti in vaste aree dell’isola.
Gli antenati degli attuali Dayak sono i protomalesi che giunti nel Borneo duemila anni
prima di Cristo introdussero nell’isola la cultura Neolitica. Seguì l’ondata migratoria dei
neomalesi, con la cultura Dong Song originaria del Tonchino, che sospinsero i primi dalle
coste verso l’interno.
Gli antichi Dayak rifiutarono d’integrarsi con le strane leggi dei nuovi arrivati e in epoca più
recente con la religione musulmana che vietava loro di mangiare il maiale; ricrearono così le
condizioni dello splendido isolamento perduto, sviluppando differenti sistemi di vita. I
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nomi delle varie tribù molto spesso indicano l’area geografica di appartenenza: l’altopiano,
la valle e soprattutto il fiume lungo il quale sorge o sorgeva il proprio villaggio d’origine.
Il viaggio. Il collegamento via terra fra Bintulu e Sibu, ancora in tempi recenti, richiedeva
diversi giorni di viaggio: passava per Belaga seguendo con un ampio giro nell’entroterra i
corsi dei fiumi Kemena, Tubau, Belaga e Rajang. La realizzazione della strada parallela alla
costa e le piste camionabili tracciate dalle compagnie del legname attraverso la giungla
hanno relegato alla storia questo bellissimo percorso di trekking e canoa che, tuttavia,
continua ad attrarre i viaggiatori stranieri. Purtroppo è diventato tristemente noto, nella
regione, il dramma del giovane tedesco che, avventuratosi in questo tratto in solitario, è
scomparso nel folto della foresta. Con l’amico Marcello abbiamo completato il percorso con
l’ausilio di guide indigene reclutate in loco di villaggio in villaggio, una scelta che si è
rivelata il migliore degli investimenti. Quando possibile cercate però di scegliete gli
accompagnatori più anziani o quelli meno “vispi”, per evitare di dover correre e saltare
come scimmie.
Tubau
Da Bintulu il piccolo e rumoroso battello Tubau Ekspres parte di buon’ora dall’ampio delta
del Kemena, adornato da centinaia di palafitte, quando il sole è ancora nascosto dietro le
palme. Per operazioni di carico e scarico lungo la via sosta nelle mastodontiche longhouse
Iban di Sabauh, Pandan, Labang e dovunque venga richiesto, anche in mezzo alla giungla.
Le longhouse sono lunghe palafitte, case comunitarie che possono ospitare centinaia di
persone, suddivise tra appartamenti privati occupati dai vari nuclei famigliari ed un grande
spazio frontale dedicato alla veranda in comune; ogni longhouse è in pratica un villaggio.
Gli Iban, la tribù che popola questa prima parte del fiume, rappresentano l’etnia Dayak più
numerosa dell’isola e la loro lingua è parlata da quasi un milione di indigeni. Di natura
aggressiva e bellicosa, gli Iban erano un tempo tristemente famosi come tenaci cacciatori di
teste e temuti anche per le loro incursioni piratesche. Oggi sono dediti soprattutto
all'agricoltura e alla caccia. Il loro “capoluogo” commerciale si trova nella cittadina fluviale
di Kapit, lungo il Rajang e nostra destinazione sulla via per Sibu. Nelle regioni adiacenti al
corso inferiore dei fiumi, ove maggiore è stato l'influsso di missionari e funzionari
governativi, il grado di civilizzazione e di alfabetizzazione è più elevato rispetto ai territori
più a monte, in cui lo stile di vita ricalca più da vicino quello dei progenitori. Nelle comunità
rimaste pagane è assai diffusa la promiscuità tra i giovani dei due sessi prima del
matrimonio; una volta però sposati, la fedeltà reciproca e la monogamia costituiscono la
regola. Il carattere di questo popolo è tendenzialmente aperto e generoso, improntato ad un
elevato grado di onestà e senso di ospitalità.
Tornando al viaggio, l’ekspres in cui siamo saliti non è altro che un barcone cabinato con un
paio di panche ai lati delle murate, gremito di gente, ed una sola latrina coperta da una
tenda e col foro alla base, a pelo d’acqua, ma il viaggio è ugualmente molto piacevole:
passiamo buona parte del viaggio seduti sul tetto, quando non è rovente, ad osservare il
panorama inospitale e vergine dell’ambiente circostante che varia in continuazione.
Circa a metà percorso, dal folto argine di destra vediamo un giovane occidentale che fa
cenno al timoniere di accostare per essere caricato.
Restiamo abbagliati e per un attimo ammutoliti da questo ragazzo biondo curiosamente
vestito in completo di lino bianco: giacca e pantaloni, cappello a falde larghe, anch’esso
bianco, ed un borsone a sacco di tela chiara come bagaglio. Stropicciato e impataccato, ma
tutto bianco – scenografia salgariana da film anni Trenta. Si sistema a bordo con grande
padronanza senza rivolgerci neppure uno sguardo. Singolare atteggiamento in un piccolo
natante nella foresta del Borneo con tre bianchi a bordo. Silente e lo sguardo volutamente
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altrove, dopo circa mezzora indica un punto nel mezzo del nulla e scende com’è salito: senza
un cenno di saluto. Straordinario, mai capito chi fosse e dove andasse, al pari di
un’illusione.
Lungo il percorso il fiume si restringe di ora in ora finché al capolinea di Tubau, dopo dieci
ore di risalita, diventa appena navigabile. Sono le 16 e tra due ore sarà già buio; qui ci si può
sistemare con poca spesa all’Angelina Inn, accanto all’affollato ristorante dove servono mee
(vermicelli fritti o in brodo con carne e verdure) e nasi goreng (riso fritto con cipolle, fagioli,
piselli, peperoncini, aglio e pezzetti di pollo o manzo), carne di cervo e di verro, pesce,
inclusi i gamberetti di fiume e birra ghiacciata. Noi chiediamo di tutto a tutti e infine ci
sistemiamo per la notte, previo permesso, dentro ad una canoa in secca coperta da uno
spesso telone.
E’ la seconda volta che capito in questo remoto avamposto Sino/Iban (territorio Iban invaso
da commercianti cinesi) ed i cambiamenti negli ultimi anni trascorsi sono evidenti. Il
business del legname ha stravolto la vita di Tubau, anche se l’atmosfera pionieristica tipica
dei posti di frontiera è quasi immutata: un’unica strada ricoperta d’assi, Main Bazaar,
fiancheggiata da case in legno dai bui toko (magazzini) ricolmi di prodotti dagli odori
pungenti esalati da erbe medicinali, tabacco da masticare, radici, dolciumi, munizioni e
scatolame vario. I negozianti cinesi, inespressivi e solo apparentemente amorfi, passano ore
ed ore seduti in cerchio lungo il porticato a giocare con accanimento a domino o a carte di
soldi. Gli appartamenti della longhouse all’attracco sono diventati dei magazzini e sotto, nel
fiume color caffellatte, i bambini si tuffano e gareggiano, come sempre, con baby-canoe
intagliate ad arte.
Al suolo, sparse un po’ dovunque grosse chiazze color vermiglio dovute agli sputacchi da
betel. Ancora attuale ed altrettanto diffusa presso le popolazioni Dayak la credenza che una
dentatura bianca debba essere il segno caratteristico soltanto dei cani e delle bestie feroci.
Pertanto usano scurirsi i denti e le gengive con una colorazione bruno-rossiccia ottenuta
masticando la polpa della noce della palma areca (betel), mescolata con spezie e polvere di
calce (kapor) e avvolta in una foglia di sirih. L'involucro viene depositato all'interno della
guancia e mantenuto a lungo fino a produrre un'intensa salivazione. Se il colore non risulta
abbastanza scuro, in svariati villaggi usano verniciarsi i denti di nero. Questa sostanza
contiene un alcaloide naturale che causa una leggera euforia ed agisce come stimolante e, al
tempo stesso, attenua la fame ed allevia la fatica al pari del kat usato nel corno d’Africa o
delle foglie di coca in Bolivia.
Tubau si trova alla confluenza fra il fiume Jelalong, ricco d’insediamenti Penan, ed il
Kemana, che da qui prosegue col nome di Tubau. Per continuare il viaggio via fiume pochi
abitanti di Tubau sono in grado di accompagnarci fino a Belaga ed è comunque prematuro
oltre che costoso. Cerchiamo quindi qualcuno diretto nella nostra stessa direzione, non una
guida: in questo avamposto del relativo benessere con una trentina di dollari malesi (US$
20ca) a testa è stato facile trovare una piroga a motore che risale il Tubau fino alla nostra
prima tappa di Long Unan, la longhouse Penan nei pressi della sorgente. Saliamo con
marito e moglie d’etnia Penan, costantemente intenti a pestare noci di betel: è molto
frequente incontrare indigeni di ambo i sessi con appresso il corredo necessario alla
preparazione del betel, consistente in una taglierina, spezie a piacimento e l’immancabile
mortaio per rompere la noce in pezzetti e tritarli finemente, il tutto avvolto in una pezzuola
di tessuto.
Col termine ''Penan'' si identificano diversi piccoli gruppi di individui appartenenti allo
strato malese più puro, popolazioni nomadi che vivono sparse nelle montagne dell'interno
cibandosi di selvaggina, pesca, vegetali e frutti che crescono spontanei. La caccia viene
praticata usando dardi avvelenati scagliati per mezzo di cerbottane lunghe oltre due metri e
mezzo, ricavate con straordinaria precisione da un unico pezzo di legno. Molti Penan del
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remoto interno abitano ancora in grotte e non hanno mai visto altra gente, tantomeno
l'uomo bianco, anche se negli ultimi decenni in parecchi hanno abbandonato la vita
nomade per dedicarsi all’agricoltura ed abitare in rozze longhouse più prossime alla costa.
Long Unan
Il primo tratto verso Long Unan è faticoso e al contempo esaltante, caratterizzato da alberi
imponenti, tronchi caduti e grovigli di rami che spesso ostruiscono il passaggio
obbligandoci a sollevare l’imbarcazione per superare l’ostacolo. Le sanguisughe che
immancabilmente si attaccano alle gambe le lasciamo succhiare o le stacchiamo usando la
brace di una sigaretta accesa: mai tirarle, per evitare che strappino i tessuti col rischio di
infezione. Uccelli bianchi e neri, dalle code lunghissime, ci osservano da alberi alti come
grattacieli, ci aspettano e fanno strada per ore. Dopo circa tre ore sostiamo nell’isolata
Rumah Any (“Casa di Any”), collegata al fiume da una interminabile passerella alta un paio
di metri, per una breve ma doverosa visita all’anziana Dayak che la abita in solitudine.
La navigazione procede in un continuo saliscendi dalla barca a causa degli ostacoli naturali
e della profondità variabile del corso d’acqua. Dopo 7 ore di piacevoli tribolazioni eccoci a
Long Unan, in un punto in cui il letto del fiume è tornato ampio e profondo. Immersa vicino
riva un’anziana si sta lavando nuda ed il giovane capo è già ad attenderci. La zona è
parzialmente disboscata e per raggiungere la longhouse dobbiamo salire l’argine scivoloso,
alto e ripido. La veranda scoperta, tipica delle longhouse Penan, è utilizzata dalle donne per
stendere il padi (riso) ad essiccare su grandi stuoie. Le abitazioni della casa comunitaria
sono minuscole e buie, trascurate e piene di fumo, con un foro al pavimento in cui gettare i
rifiuti ai maiali che sotto la casa fungono da spazzini. In compenso, la calorosa ospitalità
del capo villaggio e di sua moglie, con gli avambracci ricoperti da tatuaggi che ne
determinano il rango, è rassicurante e di buon auspicio per i villaggi che incontreremo nel
proseguo del viaggio. In cambio dell’ospitalità un regalo è d’obbligo, così come in tutte le
longhouse dell’interno si pratica normalmente il baratto: mi offrono il fodero di un vecchio
parang (machete tradizionale Dayak) per una maglietta ed un piccolo coltello per dei
calzini. Difficile tener presente che ai Penan non bisogna mai fare domande personali in
modo diretto, in quando avvertono la presenza perpetua di spiriti maligni che origliano,
sempre in agguato. Bisogna immaginare che c’è sempre qualche figura astratta attorno, una
sorta di paranoia che obbliga i Penan a comunicare spesso con cenni e sottointesi per non
far intendere le proprie intenzioni. Ciò a parte, la dimensione generale è di massima
tranquillità: per i candidi e timidi Penan il furto e l’omicidio sono inconcepibili. Nella loro
scala dei valori il crimine più grave di cui un uomo possa macchiarsi è lo sii-hun, ossia
l’avarizia: tale manchevolezza crea cattivi sentimenti e viene punita con l’indifferenza.
Il simpatico capo di Long Unan, quale responsabile della comunità, si assume l’onere di
spargere la voce per cercare di metterci in contatto con persone dirette alla nostra tappa
successiva di Long Bangan, ad 8 ore di trekking, la longhouse della tribù dei Kenyah sul
fiume Belaga. Ci avvisano però che non è sempre facile, anzi: può capitare di attendere
poche ore come qualche giorno. Con un bel po’ di fortuna verso sera troviamo due baldi
giovani disposti ad accompagnarci per quaranta dollari malesi a testa.
Il percorso da Long Unan a Long Bangan
La partenza avviene in prima mattinata camminando sull’argine, passiamo poi nel letto del
Tubau e dell’affluente Tingong, sempre con le gambe immerse nell’acqua fino a quando il
fiume non diventa un rigagnolo poco profondo. Strada facendo, le guide procurano il
pranzo catturando quello che capita, spesso solo tartarughe di fiume e pesce; integrano il
tutto con riso bollito avvolto in foglie di banano, portato con se dal villaggio e custodito in
un fagotto legato con una corda a tracolla.
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Entriamo nel buio della foresta, il paesaggio cambia totalmente e le fatiche si moltiplicano.
Il panorama consiste in grovigli di tronchi e rami putrescenti accatastati al suolo e ricoperti
di muschio. In alto, a 30-40 metri, un enorme soffitto verde impenetrabile. Avanziamo
lentamente e con difficoltà: si cammina su tronchi scivolosi saltando a zig-zag da uno
all’altro, cercando al contempo di non perdere l’equilibrio né l’orientamento. In questo
contesto un chilometro equivale a 3-4, ma non c’è alternativa: non esistono sentieri o
percorsi migliori. Piano piano ognuno si trova a seguire un proprio percorso ideale:
l’importante è non perdersi di vista e mantenere la direzione. Le guide Dayak saltano veloci
ed agili con naturalezza e spesso si allontanano in perlustrazioni svanendo nel nulla.
Quando escono dal campo visivo può nascere la psicosi dell’abbandono seguito da un grosso
senso d’impotenza. Ma nel nostro caso siamo abbastanza tranquilli: le guide sanno sempre
in quale punto ci troviamo e ci attendono più avanti o tornano indietro a prenderci. Anche
tra noi due compagni di viaggio a volte ci allontaniamo troppo e iniziano così le “urla nella
foresta” per facilitarne l’avvicinamento. Quando i tronchi sul fondo si diradano,
obbligandoci a procedere nel fango è ancora peggio, in quanto si sprofonda fino alle
ginocchia e ogni metro è una conquista.
Raggiunto l’argine del Belaga per continuare il viaggio dobbiamo costruire una robusta
zattera tagliando una ventina di giovani tronchi del diametro di 20-25 cm. Purtroppo quel
tipo d’albero è solo sulla riva opposta e questo ci obbliga ad attraversare il fiume a nuoto,
tagliare, accatastare e sospingere i tronchi nuovamente sulla riva meridionale, dov’è stato
creato un piccolo campo base col fuoco per cucinare. I tronchi vengono poi disposti su due
file parallele e legati con erbe resistenti, infine, nella parte posteriore costruiamo un piano
rialzato per evitare che i bagagli si bagnino; anche i remi li ricaviamo a colpi di parang.
Tuttavia, col peso dei nostri corpi la zattera affonda di una spanna e procediamo “a mollo”
per un paio d’ore, fino a quando incontriamo la canoa di un pescatore. Dopo aver
contrattato il compenso si trasborda abbandonando la zattera lungo il fiume e nel tardo
pomeriggio giungiamo alla longhouse della tribù Kenyah di Long Bangan ormai esausti.
Dall’attracco seguiamo la linea di tronchi a tacche, lunga un centinaio di metri, che ci
conduce alla longhouse (uma dadò) costruita su una lieve collina da sembrare una fortezza.
L’ultimo ripido palo intagliato a scalini ci introduce alla veranda coperta (oseh bì-o), piena
di gente che discute e ci osserva curiosa appoggiata al parapetto, di bambini che vociano e
di donne che pestano le granaglie in grossi mortai. Il paran lepo (capo villaggio) e la moglie
ci invitano a lasciare le scarpe nell’apposito spazio all’esterno e si prendono cura di noi,
ospitandoci nel loro appartamento posto al centro di questa affascinante casa comunitaria;
i figli abitano nell’appartamento accanto. In segno di benvenuto ci allungano alcune
“porzioni” di betel: il sapore è a dir poco intenso, all’inizio irrita lingua e palato, ma ci si
abitua presto ed avendo inoltre un significato rituale e simbolico non ci si può esimere.
Anzi, è un piacere da condividere: per i Dayak la masticazione del betel è considerata una
“prova di sincerità e modestia nel modo di comportarsi e di esprimersi”.
Finiti i convenevoli, si è lasciati liberi di girare, vedere e schedare a piacimento: questa
vivace longhouse di 90x30 metri ospita 190 persone suddivise in 21 appartamenti, ognuno
con la porta dipinta da singolari raffigurazioni simboliche tipiche della tribù. Nelle regioni
interne dei fiumi Rajang e Baram vivono due importanti agglomerati costituiti dai
cosiddetti Kenyah e Kayan, circa 40.000 persone accomunate da caratteristiche socioculturali analoghe. Queste tribù sono tra quelle che hanno subito minori cambiamenti
rispetto al passato e meglio conservano le tradizioni culturali Dayak. Si distinguono dagli
Iban e dai Penan per la statura più alta, così come si diversificano per la lingua, le tradizioni
e il sistema sociale. Quest'ultimo è basato sull'esistenza di stratificazioni gerarchiche, in cui
alcune famiglie hanno maggiori privilegi ed autorità rispetto ad altre. La schiavitù era un
tempo molto diffusa. Le famiglie che si trovano oggi al livello più basso della scala sociale
sono i discendenti degli schiavi. Un tempo fortemente superstiziosi, in molti hanno oggi
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abbracciato la religione cristiana – perlopiù protestanti del BEM (Borneo Evangelican
Mission). Alcuni gruppi sono molto abili nell'intaglio del legno e generalmente sono tutti
molto portati per la musica e per la danza. Vere opere d'arte sono costituite da oggetti in
metallo forgiato e dai tatuaggi che vengono effettuati sulle varie parti del corpo con tecniche
molto accurate.
Il mattino seguente notiamo il fermento, i preparativi per quello che ci pare un grosso
evento: abbiamo avuto la fortuna “sfacciata” di capitare proprio durante una delle rare
visite del Paran Bio (Penghulu), considerato al pari di un sovrano. Una figura di grande
rilievo che amministra e filtra le dispute tribali di un vasto territorio da parte del governo
centrale malese. E’ il capo dei capi, capace di sedare le liti e determinare le giuste punizioni
in base alle leggi tradizionali. Dalla cima della veranda assistiamo al suo arrivo, indossa
pantaloni corti, maglietta viola, cappello di paglia ed al seguito la scorta. Nell’ora di cena,
appena calato il sole, tutti si siedono in una sequela di cerchi per l’intera veranda, ricoperta
di stuoie con sopra ciotole e tegamini ricolmi di cibi e di bevande, perlopiù alcoliche.
Il tuak ed il borak sono due tipi di vino lattiginoso dal sapore aspro ed amarognolo ricavato
dal riso, dalla palma, dal sago o dal miglio, che i Dayak lasciano fermentare in antiche giare
cinesi di ceramica per un mese, prima di trasformarlo nel protagonista principale delle loro
feste canore. I Dayak, di entrambi i sessi, hanno la reputazione di essere forti bevitori e
visite o feste del raccolto a parte, ogni occasione è buona per liberare l’anima con cori di
canti ancestrali provenienti dalla notte dei tempi, inimitabili! Nel momento top della serata
con Marcello abbiamo provato ad unirci ai loro singolari acuti col risultato di essere
freddati da sguardi truci e non abbiamo più osato ripeterci. Giriamo da un cerchio all’altro,
quelli più prossimi al capo sono di rango più elevato, tutti ci passano gusci di cocco ripieni
di borak. Beviamo anche in compagnia del sovrano, che con noi è gentile ma
profondamente distaccato. Si avverte di essere in compagnia di “gente viva”, custode di un
radicato carattere aristocratico. Festa grande fino a notte fonda; colossali ubriacature e
soprattutto i nobili vocalizzi nel mezzo della foresta pluviale, ripetuti di serata in serata,
ripagano abbondantemente delle fatiche del viaggio.
L’ultima tappa: Belaga
Da Long Bangan non è stato difficile contattare un paio di Dayak diretti a Belaga. Per il
tragitto, che si effettua in parte in canoa e in parte a piedi, occorrono circa 9 ore e il
compenso che paghiamo è di M$ 50 a testa. Partiamo col fresco di primo mattino, ma dopo
sole due ore di pagaia le braccia s’intorpidiscono e il sole comincia a dardeggiare. La prima
serie di rapide, denominata Timbang, è impressionante, con mulinelli vorticosi, passaggi
stretti tra i massi e salti nel vuoto. La serie successiva, Pasang, è preceduta da un tranquillo
specchio d’acqua dove sostiamo per riposare e permettere alle guide di valutare il passaggio
più idoneo tra le onde impetuose, che seguono poco più a valle. Tuttavia, in questo periodo
dell’anno a causa delle condizioni mutevoli del fiume l’ostacolo rapide viene considerato dai
nostri accompagnatori troppo rischioso e decidono di portare in secco la canoa
mimetizzandola nel verde.
Proseguiamo faticosamente a piedi in un susseguirsi interminabile di colline ricoperte da
monconi di alberi anneriti e colture incenerite per la coltivazione del padi col tipico metodo
indigeno “taglia e brucia”. In cima ad una di queste mi accascio al suolo grondante e
ansimante, per l’alta percentuale di umidità l’aria è “densa”, pare di respirare batuffoli di
cotone. Il punto più problematico del percorso, specie per chi soffre di vertigini, è
certamente il superamento del baratro nei pressi delle cascate Kayo: un semplice tronco del
diametro di circa 40 centimetri che funge da ponte, unico passaggio per una traversata di 45 metri da panico. Le guide risolvono il problema compiendo due balzi felini senza neppure
voltarsi, mentre noi restiamo paralizzati dalla visione del precipizio e dal “modesto legno”,
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affiancato da un fusto più sottile, che dovrebbe servire da rinforzo.
Non ci sono tante opzioni: passare o tornare indietro. Tra noi due inizia un accanito “pari o
dispari ai tre” per chi deve passare per primo e vinco io “tre a due”. Zaino in spalla, vedo
Marcello che a metà percorso inizia a barcollare, sospeso nel vuoto, appoggia allora il piede
destro sul piccolo tronco laterale che col peso si spezza, oscilla vistosamente ma grazie alla
prontezza tipica della disperazione effettua prima un passo e poi un salto che lo vede
“planare” al suolo sul lato opposto del canyon. Un filmaccio thriller che mi ha suggerito di
avanzare a gattoni, con l’adrenalina ugualmente a mille.
Quando, all’imbrunire, si arriva nel centro di Belaga e si vedono negozi, ristoranti e
alberghi, tutto torna finalmente normale. Da qui un battello ci conduce a Kapit e poi di
villaggio in villaggio scendiamo il Rajang verso la foce fino alla “città cinese” di Sibu.
Giò Barbieri
17 agosto 2012
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