Homo consumens
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Zygmunt Bauman Homo consumens Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi Presentazione di Mauro Magatti Erickson 2007 Lo sciame inquieto Dall'homo politicus all'homo consumens Esistono molteplici e copiosi sintomi di un crescente disinteresse del pubblico nei riguardi delle procedure democratiche ufficialmente accreditate (in realtà, nei riguardi di tutte le principali e riconosciute pratiche democratiche): calo della partecipazione a elezioni e referendum, riduzione degli iscritti ai maggiori partiti, e una crescente ignoranza delle questioni politiche e delle persone che dichiarano il diritto e manifestano la volontà di metterle in luce e risolverle. In Gran Bretagna i fatti parlano da soli. Ricordiamo che nel 1997 il New Labour è stato sostenuto solo dal 31 % degli aventi voto e che la partecipazione a queste elezioni è stata la più bassa dal 1945. Come hanno concluso gli autori di uno studio del Nuffield College: «Le elezioni del 1997 hanno suscitato l'interesse più scarso che si ricordi a memoria d'uomo». Perfino la tanto pubblicizzata campagna pubblica intorno alla questione della devolution di Scozia e Galles non ha coinvolto l'opinione pubblica. La scarsa partecipazione a queste elezioni «storiche" del 1999 ha indicato chiaramente che i cittadini le hanno considerate più che altro come una messa in scena. La maggioranza degli elettori è rimasta a casa e solo il 46% dei gallesi sono andati a votare. In Scozia, grazie a un'aggressiva campagna di incoraggiamento al voto, si è raggiunto il 59%. Mentre in Inghilterra nello stesso giorno si sono presentati alle urne solo il 29% degli aventi diritto rispetto alle elezioni locali del 6 maggio. Le elezioni del Parlamento Europeo del giugno 1999 hanno segnato il punto ________________________ Titolo originale: Exit homo politicus, enter homo comumem, traduzione di Marina de Carneri. più basso: solo il 23% si è recato a votare. In un seggio di Sunderland ci sono stati 15 votanti su 1000 aventi diritto.1 Un recente sondaggio, condotto all'inizio della campagna elettorale del 2005, conclude che «a differenza di quel che si crede, 1'opinione pubblica britannica non è indifferente alla politica»2. Questa è la conclusione di un nuovo rapporto della Commissione Elettorale e della Hansard Society. Secondo il rapporto, il 77% delle persone intervistate da M O RI si dichiaravano interessate alle questioni nazionali. Il rapporto aggiunge, tuttavia, che solo il 27% ritiene che il voto possa influenzare le scelte politiche del Paese. Considerati i precedenti, bisogna ipotizzare che la reale partecipazione al voto oscilli tra il 77% e il 27% con una tendenza verso la percentuale inferiore. Dobbiamo anche considerare che non tutte le persone che si considerano interessate alle cosiddette «questioni nazionali» si recano di fatto al seggio per votare. Inoltre, in una società inondata di informazioni (Ignacio Ramonet osserva che negli ultimi 30 anni è stata prodotta più informazione che nei precedenti 5000 anni e che una copia del «Sunday Times» contiene più informazione di quanto una persona colta del XVIII secolo potesse accumulare nell' arco di una vita),3 i titoli dei giornali servono più che altro a cancellare dalla memoria del lettore i titoli del giorno precedente. Le questioni che i giornali definiscono «di interesse pubblico» hanno una durata di vita pari a quella di una farfalla e scarsa probabilità di sopravvivere dalla data del sondaggio fino alla data delle elezioni. Quel che più conta, le due questioni - quella dell'interesse nazionale e quella della partecipazione al processo democratico - non si cristallizzano nella mente di un numero crescente di cittadini. La seconda non sembra collegata alla prima e forse è considerata politicamente irrilevante. Il sito Guardian Student del 23 marzo 2004 ci informa che i tre quarti (77%) degli studenti universitari del primo anno non hanno alcun interesse a prendere parte a proteste politiche e secondo lo Student Panel del «Lloyd TSB/Financial Mail on Sunday» il 67% non crede che le proteste studentesche siano efficaci. Secondo Jenny Little, redattrice della pagina 1 Frank Furedi, Consuming Democracy: Activism, Elitism and Political Apathy, www.geser.net/furedi. htrnl. 2 Vedi www.politics.co.uk dello marzo 2005. 3 Ignacio Ramonet, La tyrannie de la communication, Paris, Galilée, 1999, p. 184. degli studenti del «Financial Mail on Sunday»: «Gli studenti oggi devono occuparsi di molte cose - ottenere buoni voti, trovare un lavoro part-time per pagare le tasse scolastiche, procurarsi esperienze lavorative da esibire sul curriculum [e, aggiungo io, non essere sommersi dai debiti]. Non c'è da stupirsi se la politica non è una priorità per questa generazione, anche se di fatto non è mai stata più importante». In uno studio recente dedicato al fenomeno dell'apatia politica, Tom Deluca suggerisce che 1'apatia non è il problema, ma «piuttosto un segno della nostra libertà, potere e grado di responsabilità, un segno dell' efficienza con cui siamo amministrati [...] Insomma un indice della misura in cui si soffre». 4 L’apatia politica sarebbe «un destino politico prodotto da forze, strutture, istituzioni o manipolazioni da parte dell' élite su cui abbiamo scarso controllo e forse poca consapevolezza». Deluca analizza approfonditamente tutti questi fattori e tratteggia un fenomeno che chiama «1'altro lato dell' apatia politica», dove il primo lato sarebbe, secondo vari analisti, «un' espressione di soddisfazione per la situazione presente e per la facoltà di esercitare il diritto di libera scelta e più in generale come un buon segno per il funzionamento della democrazia di massa» (queste sono le conclusioni espresse da Bernard Berelson, Paul Lazarsfeld e William McPhee nel loro famoso studio del 1954, poi riconfermate da Samuel Huntington e infine indirettamente convalidate daAnthony Giddens nel suo elogio dell' «attivismo del consumatore»). Tuttavia, se vogliamo davvero comprendere il significato e le cause sociali dell' apatia politica dobbiamo andare al di là del «secondo aspetto» che Deluca dichiara essere stato trascurato e compreso solo superficialmente dagli analisti ufficiali. Per far ciò dobbiamo ricordare 1'evaporazione del potere politico centralizzato dello Stato verso la terra di nessuno dello spazio globale sovranazionale, il passaggio di gran parte delle politiche in passato amministrate dallo Stato a «politiche di vita» gestite e servite individualmente e l' «esternalizzazione» di una parte crescente di funzioni della vita che passano dallo Stato al mercato. La divaricazione tra potere dello Stato e politica e la conseguente privazione dello Stato ormai non più sovrano sia di potere che di iniziativa politica, insieme al controllo assunto dal mercato sui servizi più importanti, trasforma i cittadini in consumatori. 4 Tom Deluca, Two Forms oJ Political Apathy, Philadelphia, TempIe University Press, 2005 Il vuoto lasciato dai cittadini in ritirata dall' agone politico, e considerato con molto favore da alcuni analisti, è invece riempito da un «attivismo» del consumatore che sembrerebbe indipendente e apolitico, ma che invece (a dispetto di quel che pensano alcuni osservatori già pronti a salutare il fenomeno come una svolta rivoluzionaria della partecipazione democratica) impegna una percentuale dell' elettorato inferiore a quella reclutata durante le campagne elettorali dai tradizionali partiti politici, i quali sono comunque in declino a causa dell'incapacità di rappresentare realmente gli interessi di chi li vota. Frank Furedi lancia un segnale d'allarme in questo senso quando dice che «1'attivismo dei consumatori prospera in condizioni di apatia e disimpegno sociale. Questi attivisti considerano le loro iniziative come un' alternativa più valida della democrazia parlamentare. Il loro atteggiamento nei confronti della partecipazione politica manifesta un forte ethos antidemocratico». Dobbiamo riconoscere che la critica dei movimenti dei consumatori alla democrazia rappresentativa è fondamentalmente antidemocratica. Essa si basa sull'idea che delle persone non elette dal popolo, ma animate da elevati fini morali, abbiano più diritto a rappresentare le istanze dei cittadini che non i politici regolarmente eletti attraverso un sistema imperfetto. Gli ambientalisti, che ricevono il loro mandato da gruppi di pressione autoselezionati, rappresentano un elettorato molto più ristretto di quello raccolto dai politici eletti. A quanto pare, la risposta dei movimenti dei consumatori al problema della rappresentanza politica è quella di evitare completamente la questione e procedere attraverso la costituzione di gruppi di pressione. Nel suo ben documentato studio intitolato L'attivismo del consumatore, Frank Furedi conclude che i movimenti dei consumatori sono un sintomo della crescente sfiducia nella politica: «[...] non c'è dubbio che la crescita dei movimenti dei consumatori va di pari passo con il declino delle forme tradizionali di impegno sociale e partecipazione politica». Inoltre, per citare Neal Lawson, «se non rimane più nient' altro da fare, è probabile che i cittadini abbandonino completamente l'idea di collettività e di società democratica per affidarsi al mercato [e, voglio aggiungere, alle proprie qualità e iniziative di consumatori] per dirimere le controversie».5 Tuttavia, un buon numero di osservatori, come Thomas Frank, redattore di Chicago del «Baffler», hanno notato la crescita spettacolare del 5 Neal Lawson, Dare More Democracy, London, The Compass, 2006, p. 18. «populismo di mercato» negli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta.6 Il mercato, così si dice, trasmette più fedelmente l'essenza della democrazia, cioè il diritto di scegliere. In quanto manifestazione della libertà di scelta, possiamo confidare nel fatto che il mercato potrà soddisfare le richieste dei cittadini. Di conseguenza, ogni interferenza nelle leggi di mercato sarebbe un attacco alla democrazia e un passo verso la tirannia. I mercati sono «naturalmente» democratici e per funzionare al meglio non devono essere intralciati da interferenze politiche e da regolamentazioni di provenienza esterna (cioè politica). In contro tendenza rispetto al principio che ha guidato l'epoca moderna, cioè l'espansione della partecipazione politica, il «populismo di mercato» proclama la politica il nemico numero uno della democrazia e considera invece il mercato come lo strumento democratico più affidabile (se non addirittura l'unico possibile). Quel che i populisti del mercato non vogliono vedere sono le devastanti conseguenze di un' attività di mercato senza regole e senza freni, cioè il fatto che i mercati sono i primi produttori di iniquità sociale. Questo, per vasti strati di persone che stanno alla base della piramide sociale, significa, guarda caso, la negazione dei «diritti del consumatore», cioè di reali possibilità di scelta che pure sono concesse formalmente. Per tutti gli altri significa la prospettiva di una vita precaria e di un futuro incerto. È stato proprio per combattere questi effetti negativi che la democrazia è stata inventata, e che, nel momento del suo maggiore fulgore, è quasi arrivata a sconfiggere. I populisti di mercato sono anche convenientemente in simbiosi con le verità dell'economia nell'individuazione dei nemici della libertà di consumo. Questi nemici stanno tutti nella sfera della politica, mentre le colpe del mercato vengono assolte ancor prima di essere confessate. È vero che il mercato non è l'unico fattore capace di manipolare e limitare anticipatamente le scelte umane - anche la politica agisce in modo analogo. Ma nel processo di riconversione degli umani in consumatori con la conseguente erosione di tutte le altre qualità e relazioni (e quindi con l'impossibilità di prevenire o compensare i danni subiti nell'unica sfera in cui sono chiamati a operare) il mercato è diventato un maestro di esclusione sociale. 6 Thomas Frank, Marché de droit divine capitalisme sauvage et populisme de marché, Marseille, Agone, 2003. Quella della produzione di consumatori è l'industria più dannosa che si possa trovare. Il controllo della qualità è rigido e spietato, gli aspiranti vengono respinti senza ricorso e hanno scarse possibilità di riabilitazione, mentre le schiere dei condannati - i consumatori scadenti o invalidi - si gonfiano con ogni successivo avanzamento del mercato. Per quanto riguarda la misura di incertezza a cui sono esposti i giocatori, il mercato non ha rivali. Mentre la democrazia, ricordiamolo, fu varata da gente che voleva trovare un rimedio agli orrori della precarietà e mantenuta in corso da altri che volevano inserirsi nei ranghi dei fortunati della prima ora. Consapevoli di questo tipo di critica, vari osservatori fanno notare che, oltre ai movimenti dei consumatori, si possono trovare altri strumenti per supplire all'inefficienza e inaffidabilità della politica di Stato gestita dai partiti politici: la rinascita della democrazia sarebbe affidata a internet. Molti studiosi hanno salutato internet e il world wide web con grande entusiasmo considerandoli come l'alternativa e il rimedio contro la debolezza della democrazia politica. E non c'è da meravigliarsi, dato che il cyberspazio è diventato l'habitat naturale degli aspiranti (e attuali) membri delle classi intellettuali, per i quali, citando Thomas Frank, «la politica diventa prima di tutto un esercizio di autoterapia individuale e un' occasione di autorealizzazione, non lo strumento per la costruzione di un movimento». Si tratta cioè più che altro di un modo per informare il mondo delle loro virtù, come dimostrano i messaggi iconoclastici che si leggono spesso sui finestrini delle automobili o la tanto ostentata predilezione per il consumo «etico». Presentare internet come un nuovo e perfezionato strumento della politica, la navigazione nel world wide web come una forma di impegno politico e la rapidità dell'informazione telematica come progressi della democrazia è solo un modo per giustificare lo stile di vita di queste classi sociali e liberarsi dalla responsabilità di un impegno politico reale. Come tutti gli altri prodotti di mercato, anche la quantità di informazione che circola in internet è molto al di sopra della capacità di assorbimento e di utilizzazione del consumatore. Quanto sia difficile, per non dire impossibile, assorbire un volume così grande e inutile di informazioni lo si può capire per esempio da ciò che dice Eriksen: «[...] più della metà degli articoli pubblicati nelle riviste di scienze sociali non sono mai citati». Tali articoli non sono mai citati perché non sono mai stati letti da nessuno salvo dai redattori della rivista stessa. Come dice Eriksen, c'è da chiedersi in che percentuale il contenuto di questi articoli riesca a lasciare una traccia nel pensiero delle scienze politiche e sociali. Secondo Eriksen c'è in giro troppa informazione: «Una strategia di sopravvivenza fondamentale nella società dell'informazione consiste nel sapersi proteggere dal 990/0 delle informazioni ricevute e indesiderate». Possiamo tranquillamente dire che la linea che separa il messaggio significativo dal suo opposto, cioè dal rumore di sottofondo, è quasi scomparsa. Nella battaglia all'ultimo sangue per catturare l'attenzione dei possibili consumatori, i produttori e i fornitori di beni e servizi si contendono le briciole di attenzione disponibile tra un consumo e l'altro e cercano di riempirle di ulteriori messaggi pubblicitari. La speranza è che una parte di coloro che cercano informazioni reali inciampino in quelle offerte a fini pubblicitari e si lascino fuorviare rispetto alloro proposito iniziale. Trasformare il rumore di sottofondo in un messaggio significativo è un processo aleatorio. L’enfasi posta dall' industria delle pubbliche relazioni su quelli che vengono considerati «desiderabili oggetti di attenzione» (come la pubblicità di un nuovo film o libro, di una trasmissione televisiva con molti sponsor, o l'inaugurazione di una mostra) serve a separare questi da tutti gli altri messaggi non produttivi e quindi non redditizi e a condensare per pochi minuti o pochi giorni l'attenzione frammentata, ma insaziabile, del pubblico sempre in cerca di nuovi oggetti del desiderio. Per questa ragione, l'aspro verdetto di Jodi Dean è calzante: le moderne tecnologie della comunicazione sono «profondamente depoliticizzanti» e «oggi la comunicazione funziona in modo feticistico e serve a mascherare una fondamentale inibizione a livello dell' azione politica».7 Il feticcio tecnologico diventa un sostituto dell'impegno politico dandoci l'impressione di essere, dopo tutto, cittadini partecipi e informati. Non dobbiamo più fare la nostra parte e assumerci le nostre responsabilità politiche, visto che la tecnologia lo fa per noi, come se l'universalizzazione di una particolare tecnologia bastasse a produrre un ordine democratico e giusto. La realtà è molto diversa dall'immagine allegra e fiduciosa proiettata dai «feticisti della comunicazione». Il continuo flusso di informazione a cui siamo sottoposti non è un affluente del fiume della democrazia, ma un 7 Jodi Dean, Communicative capitalism: Circulation and the fòreclosure oJ politics, "Cultural Politics» March 2005, pp. 51-73. vortice che cattura contenuti rigurgitandoli in laghi artificiali maestosi e giganteschi, ma stagnanti e stantii. Più è grande questo flusso, maggiore è il rischio che il fiume della democrazia si inaridisca. I canali mondiali dell'informazione nutrono la moderna «cultura liquida» sostituendo l'imparare con il dimenticare. Fagocitano tutti i segni di dissenso e protesta permettendo alla moderna cultura liquida di procedere senza rischi e senza scosse producendo soundbites e immagini invece di discussioni e pensieri reali. Questi flussi di informazioni telematiche non sono facilmente utilizzabili a fini democratici: Bush e Blair hanno potuto mentire liberamente sulle ragioni dell' entrata in guerra nonostante l'abbondanza di siti web che smascheravano i loro motivi. La politica «reale» e il dissenso politico vengono neutralizzati, sterilizzati e resi irrilevanti nel momento in cui entrano nei magazzini elettronici. Coloro che si agitano in queste acque paludose possono anche congratularsi con se stessi per la propria forza e vitalità, ma nessuno nei corridoi del potere si interessa a loro. Anzi, le più sofisticate tecnologie dell'informazione servono appunto a disinnescare i potenziali;problemi e smantellare preventivamente le barricate dell' opposizione. La politica reale e quella virtuale viaggiano in direzioni opposte e la distanza fra di esse si sta allargando, con grande vantaggio per ciascuna delle due. L’età dei simulacri non ha cancellato la differenza tra realtà e apparenza, tra l'autentico e il reale, ha solo scavato un abisso tra i due che è sempre più difficile attraversare. Per il momento, non esiste un metodo alternativo alla democrazia e alla partecipazione democratica e in ogni caso il mercato e i movimenti dei consumatori non possono sostituirli perché sono essi stessi i sintomi della caduta dell'impegno politico e della fiducia nell' azione politica e nell' autorità dello Stato nella vita pubblica. Sono un segno di resa da parte dei cittadini. Il segreto di un sistema sociale duraturo, cioè in grado di riprodursi, è la capacità di proiettare i suoi «prerequisiti funzionali» nei comportamenti dei suoi membri. In altre parole, la socializzazione efficace è quella che obbliga/induce/persuade gli individui a desiderare di fare quel che il sistema, di fatto, ha bisogno che essi facciano per continuare a esistere. Questo si ottiene in modo diretto o indiretto: in modo diretto raccogliendo il consenso attorno al sistema all'insegna dello «Stato» o della «nazione», attraverso una campagna permanente di «mobilitazione spirituale», «educazione civica», «difesa dei valori», «indottrinamento ideologico» e a volte «lavaggio del cervello» (questo è stato fatto nella fase della piena modernità, cioè nella «società dei produttori»). D'altra parte, agendo in maniera indiretta, è possibile addestrare gli individui a seguire certi comportamenti e ad affrontare i problemi seguendo certi protocolli. Quando questi modelli sono stati osservati e assorbiti fino a diventare comportamenti automatici, gradualmente i modelli alternativi e le capacità necessarie per metterli in pratica spariscono. Questa è la fase della modernità liquida, cioè della società dei consumatori. Nella società dei produttoti i «requisiti sistemici» e i comportamenti individuali erano tenuti insieme dalla svalutazione del momento presente e dalla rinuncia al godimento (cioè alla jouissance, un termine francese virtualmente intraducibile in inglese). Di conseguenza, si viveva all'insegna della procrastinazione, della gratificazione ritardata, del sacrificio del presente in nome di non meglio precisati benefici futuri e del sacrificio del singolo a beneficio della collettività (la società, lo Stato, la nazione, la classe sociale, il genere, oppure anche un generico «noi»). Nella società dei produttori, ciò che è «a lungo termine» aveva priorità su ciò che è «a breve termine» e i bisogni del «tutto» avevano la priorità su quelli delle sue «parti». Inoltre, la gioia e la soddisfazione derivanti dai valori «eterni» e «sovrapersonali» venivano considerate superiori ai capricci individuali che sono falsi, artificiali, illusori e in fin dei conti degradanti. Così la felicità della maggioranza era più importante e autentica delle possibili sofferenze della minoranza. Con il senno di poi, noi abitanti della modernità liquida siamo portati a considerare quei metodi di riproduzione sistemica assurdamente dispendiosi, abominevolmente oppressivi e avversi alle naturali inclinazioni umane. Freud fu uno dei primi pensatori a notarlo, ma poiché visse agli albori della società industriale di massa non fu in grado, nonostante la sua grande immaginazione, di concepire un' alternativa alla repressione degli istinti e fece l'errore di considerarla la condizione necessaria allo sviluppo della civiltà in quanto tale.8 8 Tutte le citazioni seguenti vengono da Sigmund Fteud, The Future o/ an lllusion e Civilization and lts Discontents, nella traduzione di James Snachey (The Penguin Freud Library, voI. 12, Civilization, Society and Religion), London, Penguin, 1991, pp. 179-341. In italiano si vedano le Opere complete pubblicate da Bollati Boringhieri Freud riteneva che la rinuncia pulsionale non potesse essere volontariamente abbracciata e che la maggior parte degli uomini obbedisse ai precetti morali «solo sotto la minaccia di una coercizione esterna». Di conseguenza «è allarmante pensare alla mole di coercizione necessaria per promuovere e instillare scelte di civiltà» come ad esempio l'etica del lavoro (cioè una completa condanna dell' ozio e l'elogio del lavoro fine a se stesso, indipendentemente dai benefici materiali), o il principio della coabitazione pacifica suggerito dal comandamento di amare il prossimo come se stessi (Qual è il senso di un precetto pronunciato con tale solennità», si chiede Freud, «se non è ragionevole metterlo in pratica?»). Freud continua il suo ragionamento in termini ben noti che non abbiamo bisogno di ripetere qui: la civiltà si basa sulla repressione e quindi è inevitabile che si verifichino continui tentativi di ribellione. Il dissenso e la rivolta non possono essere eliminati perché la civiltà è fondata sulla coercizione e la coercizione è rivoltante. Il fondamento della civiltà è la sostituzione del potere dell'individuo con il potere della comunità. L’essenza della civiltà è il fatto che i membri di una comunità rinuncino alle possibilità di gratificazione senza restrizioni che avrebbero in quanto individui singoli. Excursus. L’individuo e la comunità, ovvero il dilemma dell'uovo o la gallina Lasciamo da parte l'obiezione che l'esistenza di un individuo che non sia già membro di una comunità è un mito quanto lo è per Hobbes lo stadio presociale della guerra di tutti contro tutti, oppure è un dispositivo retorico come il parricidio originario per il tardo Freud. Il punto è che in qualsiasi maniera lo si voglia formulare, l'esortazione a mettere gli interessi della comunità in primo piano rispetto agli impulsi e alle inclinazioni degli individui, e a preferire il soddisfacimento ritardato a quello immediato nel campo dell' etica del lavoro, non sono cose che possano essere facilmente accettate dai più. Per questo, la civiltà (e con essa la coabitazione pacifica e i suoi benefici) deve basarsi sulla coercizione, o almeno sulla minaccia della coercizione. Volenti o nolenti, dobbiamo ubbidire al principio di realtà a spese del principio di piacere, se vogliamo mantenere la civile coabitazione umana. Freud vede questo meccanismo in tutti i tipi di relazioni umane (poi indicate retrospettivamente come «civiltà») e lo presenta come una legge universale della vita sociale. Tuttavia, a prescindere dalla questione se la civiltà richieda oppure no la repressione degli istinti, dobbiamo riconoscere che la questione stessa non poteva che essere formulata all' alba dell' età moderna, cioè solo dopo la disintegrazione dell' ancien régime. È stata la disintegrazione di quel regime e delle sue istituzioni fondate sulla monotona ripetizione di diritti e doveri consuetudinari (Rechts- e Pflichts-Gewohnheiten) a mettere in luce l'artificiosità delle nozioni di ordine <<naturale» e «divino» costringendo ci a pensare alla logica della creazione divina come a una produzione del potere umano, cioè a farla passare da mero dato a compito. Se il potere della coercizione era molto ampio anche prima dell' era moderna, non era tuttavia brandito con tutta quella convinzione e senso pratico con cui Jeremy Bentham immagina una prigione in cui i detenuti vengano messi nella condizione di dover scegliere fra lavorare o morire, mentre i guardiani li sorvegliano da una torre per fare in modo che davvero non abbiano altra scelta. Il potere della comunità non si è costituito a spese del potere individuale, in realtà tale potere esisteva prima che fosse presentato come urgente e necessario. L’idea che questo potere fosse un «compito» da realizzare non sarebbe venuta né all'individuo, né alla comunità. La comunità poteva avere potere sopra gli individui (un potere totale e assoluto) solo se questo potere era un fatto universale e incontestabile e non un compito da realizzare. In altre parole, la comunità poteva controllare gli individui solo nella misura in cui questi non si rendevano conto di essere una comunità. Il momento in cui la comunità viene concepita come un organismo che ha dei bisogni che devono essere soddisfatti segna un'inversione di logica nello sviluppo moderno. Quest'inversione di logica, prodotta da un processo storico, fu legittimata dal mito eziologico dell'individuo solitario e senza legami che deve essere domato e addestrato a moderare e reprimere le sue inclinazioni barbare e antisociali. La comunità è antica quanto l'umanità, ma l'idea della comunità come condizione necessaria dell' umanità poteva nascere solo dall'esperienza della sua crisi. Quest'idea è nata dalle paure prodotte dalla caduta dell'ancien régime (successivamente denominato nel linguaggio social-scientifico «società tradizionale»). Il moderno «processo di civilizzazione» (l'unico ad autodenominarsi in questa maniera) è stato innescato dallo stato di incertezza prodotto da questa situazione e diagnosticato come disgregazione e impotenza della «comunità». La «nazione», questa invenzione moderna, è stata concepita sul modello della comunità: doveva essere un nuovo tipo di comunità, una comunità scritta tutta in maiuscolo e fatta su misura della nuova rete di scambi e rapporti umani. Gli sviluppi incerti, oscillanti e sempre a rischio di regressione che più tardi sono stati definiti «processo di civilizzazione», non erano altro che il tentativo di regolamentare e ri-strutturare i comportamenti umani sfuggiti alla pressione omologante delle istituzioni premoderne. In apparenza, quel processo mirava agli individui: la nuova capacità di selfcontrol (e di auto inibizione) degli individui si sostituiva agli antichi meccanismi di coercizione esterna e controllo sociale non più attivi. Ma il vero obiettivo era il reclutamento della capacità di auto controllo degli individui al fine di ricostituire una comunità a un livello più alto. Se il fantasma del defunto Impero Romano aveva presieduto alla costruzione dell'Europa feudale, il fantasma della comunità perduta si innalzava sulla costituzione delle nazioni moderne. La fondazione di una nazione aveva bisogno di patriottismo e di una disposizione (appresa e indotta) al sacrificio dei propri interessi a favore di quelli della comunità. Come ha detto Ernest Renan: la nazione è (o meglio può esistere solo se è) il plebiscito quotidiano di tutti i suoi membri. Nel tentativo di interpretare storicamente il modello trans-storico di civiltà proposto da Freud, Norbert Elias ha definito la nascita dell'io moderno (cioè la consapevolezza di una propria verità interiore e la necessità di esprimerla) come un' internalizzazione di coercizioni esterne. La formazione degli Stati nazionali si è sviluppata nello spazio intermedio fra i poteri panottici sovraindividuali e la capacità dei singoli di adattarsi a questi poteri. Il nuovo concetto di libertà di scelta (inclusa la scelta della propria identità personale), che deriva da un allentamento senza precedenti dei tradizionali legami sociali, presuppone in realtà, paradossalmente, la soppressione della possibilità di scegliere o meno, che minaccerebbe lo Stato-nazione inteso come una comunità. L'obbligo di scegliere come libertà di scelta Nonostante i suoi meriti di natura pratica, il potere di stile «panottico», basato sul «governare, disciplinare e punire» e sulla manipolazione sistematica dei comportamenti, si è rivelato dispendioso, complicato e altamente conflittuale. Inoltre, era scomodo per i governanti stessi poiché imponeva rigidi limiti alla loro libertà di azione. Tuttavia, non era l'unica strategia attraverso cui la stabilità sistemica, cioè «l'ordine sociale», poteva essere assicurato. Dopo aver teorizzato la «civiltà» come sistema centralizzato di coercizione e indottrinamento (più tardi ridotto, sotto l'influenza di Michel Foucault, al suo aspetto coercitivo), ai sociologi non è restato altro che salutare l'avvento della «condizione postmoderna» (che coincideva con il trinceramento della società dei consumatori) come l'effetto di un processo di imbarbarimento. Quello che è in realtà è successo è stato l'emergere di un metodo alternativo (e meno grossolano, dispendioso e violento) di manipolazione comportamentale. Si è fatto strada un altro tipo di processo di civilizzazione, un modo più efficace e conveniente per raggiungere l'obiettivo. Questo metodo, tipico della società dei consumatori all'epoca della modernità liquida, non solleva alcun dissenso o ribellione e presenta l'obbligo di scegliere come libertà di scelta. In questo modo, viene superata l'opposizione tra principio di realtà principio di piacere. La sottomissione alle dure ingiunzioni della realtà può essere sentita come un esercizio di libertà e un atto di autoaffermazione. La punizione, quando arriva, non si mostra qual è, ma si manifesta come 1'effetto di un passo falso o di un' opportunità mancata. Così, invece di mostrare i limiti della libertà individuale, li maschera ancora più efficacemente'sbandierando invece la capacità di scelta del singolo come l'unico fattore determinante nella conquista della felicità. La «totalità» alla quale l'individuo dovrebbe giurare fedeltà e obbedienza non si manifesta più come obbligo al sacrificio per la nazione e indefettibile sottomissione al dovere, ma come una continua e invariabile celebrazione dello stare insieme e dell' appartenere, come in occasione della coppa del mondo di calcio o dei tornei di cricket. In questa maniera, arrendersi alla «totalità» non è più uno sgradevole e oneroso dovere, ma un tuffo nel piacere e nel divertimento. Come giustamente osservava Bachtin, i carnevali sono esplosioni di divertimento che interrompono l'insipidità della vita quotidiana, degli intervalli in cui l'ordinaria gerarchia di valori è sospesa e rovesciata e i comportamenti che normalmente sono proibiti vengono ostentati spudoratamente. Se, durante gli antichi carnevali, si assaporavano le libertà individuali negate, oggi si tende ad annegare l'angoscia dell'individualità abbandonandosi al «grande tutto» e immergendosi nel mare dell'indistinguibile. La funzione (e il potere deduttivo) del carnevale nella modernità liquida è quella di risuscitare per un istante il perduto senso di comunanza. Questi carnevali sono celebrazioni in cui le persone, tenendosi per mano, invocano lo spirito della defunta comunità. Una parte non insignificante del loro appeal è che il fantasma farà solo una veloce apparizione e si congederà rapidamente alla fine del rito. Ciò non significa che la condotta quotidiana delle persone sia diventata disordinata e imprevedibile. Significa invece che l'affidabilità e la regolarità delle azioni individuali può essere ottenuta tranquillamente senza bisogno di disciplina, coercizione e sorveglianza. Lo sciame Nella società dei consumi della modernità liquida, lo sciame tende a sostituire il gruppo con i suoi leader, le gerarchie e l'ordine di beccata. Lo sciame può fare a meno di tutti questi meccanismi e accorgimenti. Gli sciami non hanno bisogno di imparare l'arte della sopravvivenza. Essi si radunano e si disperdono a seconda dell' occasione, spinti da cause effimere e attratti da obiettivi mutevoli. Il potere di seduzione di obiettivi mutevoli è generalmente sufficiente a coordinare i loro movimenti rendendo superfluo ogni ordine dall' alto. In verità, gli sciami non hanno un «altro», ma solo una direzione di fuga che in se stessa determina la posizione dei leader e dei seguaci per la durata di quella traiettoria, o almeno per una sua parte. Gli sciami non sono squadre: non conoscono la divisione del lavoro. A differenza dei gruppi veri e propri non sono più dell'unità delle loro parti - sono particelle autopropellenti. Possiamo paragonarli alle immagini di Warhol: repliche di un originale assente o impossibile da rintracciare. Interpretando Durkheim, possiamo dire che abbiano una solidarietà puramente meccanica: ogni elemento ripete singolarmente i movimenti degli altri dall'inizio alla fine (e nel caso dei consumatori, il lavoro così eseguito è quello del consumo). In uno sciame non ci sono specialisti; nessuno ha particolari risorse o capacità da esercitare o da insegnare agli altri. Ogni elemento deve saper fare tutto il lavoro da solo. Nello sciame non c'è né scambio, né cooperazione, né complementarità, solo prossimità fisica e una generale direzione di movimento. Per gli umani, il conforto della vita nello sciame deriva dalla fede nei numeri, l'idea che la direzione del volo è giusta perché un così gran numero di persone la segue, e che di certo tutte queste persone non potrebbero essere ingannate. La sicurezza dello sciame è un efficace sostituto dell'autorità dei leader. Gli sciami, a differenza dei gruppi, non conoscono eretici e ribelli, solo «disfattisti»,_«pasticcioni» o «pecore nere». Gli elementi che fuori escono dal perimetro dello sciame sono semplicemente «perduti», o si sono «smarriti». Devono arrangiarsi per conto loro, anche se non potranno sopravvivere a lungo perché è difficile e rischioso trovare una meta realistica da soli, al di fuori dello sciame. Le società di consumatori tendono verso la disgregazione dei gruppi a vantaggio della formazione di sciami perché il consumo è un’ attività solitaria (è perfino l’archetipo della solitudine) anche quando avviene in compagnia. Essa non stimola la formazione di legami durevoli, ma solo di legami che durano il tempo dell' atto di consumo. Questi legami possono mantenere unito lo sciame per la durata del volo (cioè, fino al prossimo cambio di obiettivo), ma rimangono del tutto occasionali e superficiali; non hanno alcuna influenza sui movimenti futuri dello sciame e non proiettano alcuna luce sul passato dei suoi componenti. Quel che in passato ha tenuto uniti i membri di un nucleo familiare attorno a un focolare e ha reso il focolare lo strumento di integrazione e affermazione della famiglia è stato in larga parte l'aspetto produttivo del consumo: la famiglia che si siede a tavola per cena è l'ultima fase (quella distributiva) di un lungo processo produttivo che è cominciato in cucina o anche prima, nell' appezzamento familiare o nella bottega. Ciò che univa il gruppo familiare era la collaborazione in un unico processo produttivo, non il godimento comune dei suoi frutti. Possiamo immaginare che l'imprevista conseguenza dell'invenzione del fast food, del cibo da asporto e delle cosiddette TV dinners (o forse, meglio, la loro funzione latente e la vera causa della loro crescente popolarità) è quella di rendere obsoleti i pasti familiari attorno a una tavola, ponendo fine al momento del consumo condiviso, ma anche quella di indicare simbolicamente l'irrilevanza dei legami umani nella società dei consumatori della modernità liquida. La società dei consumatori aspira alla gratificazione dei desideri più di qualsiasi altro tipo di società del passato, ma tale gratificazione deve rimanere una promessa. Il desiderio deve rimanere insoddisfatto perché finché il cliente non è soddisfatto sentirà il bisogno di acquistare qualcosa di nuovo e diverso. I «lavoratori tradizionali» del passato, che erano facilmente soddisfatti e non desideravano lavorare più di quel che era necessario per mantenere il loro normale stile di vita, erano una minaccia per la nascente società dei consumi. Allo stesso modo, i «consumatori tradizionali» di oggi, ove fossero immuni dalla seduzione del consumo, sarebbero la fine del mercato, dell'industria e della società dei consumi. Una visione più sobria e realistica della possibilità di soddisfazione dei desideri, unita alla disponibilità sul mercato dei beni veramente necessari a prezzo ragionevole, sono i nemici della società consumistica. Sono la non-soddisfazione dei desideri e la fede nella infinita perfettibilità delle merci a guidare la società dei consumi. La società dei consumi si fonda sull'insoddisfazione permanente, cioè sull'infelicità. Una strategia per ottenere una permanente insoddisfazione è quella di denigrare la merce che è appena stata messa sul mercato dopo averla promossa come la migliore possibile. Un altro modo, più efficace e più subdolo, è quello dì soddisfare così completamente ogni desiderio che non possa nascere l'impulso a desiderare qualcosa di diverso: il desiderio si trasforma in bisogno e diventa un' esigenza compulsiva e una dipendenza. E funziona, come dimostra il diffuso bisogno di fare shopping per trovare sollievo contro l'angoscia e il dolore. In realtà, questo comportamento non è solo permesso, è anche vigorosamente incoraggiato perché la società dei consumatori ha bisogno, per funzionare adeguatamente, di ricoprire con un velo di ipocrisia la differenza tra le convinzioni popolari e la realtà della vita dei consumatori. Se bisogna ovviare alla non-soddisfazione di un desiderio con un altro desiderio, le promesse fatte devono essere costantemente infrante e le speranze devono essere frustrate. Ogni promessa deve essere falsa o quanto meno esagerata, altrimenti il desiderio rischia di affievolirsi. Senza la continua frustrazione dei desideri, la domanda dei consumatori potrebbe esaurirsi e i mercati perderebbero vigore. L’abbondanza totale delle promesse neutralizza la frustrazione causata dal carattere eccessivo di ciascuna di esse presa singolarmente e pone un freno al montare della frustrazione prima che questo raggiunga il livello di guardia. Oltre ad essere un' economia basata sull' eccesso e sullo spreco, il consumismo è anche un' economia dell' inganno. Solo che l'inganno, e con"esso reccesso e lo spreco, non si manifestano come sintomi di qualcosa che non funziona, ma al contrario come segni di buona salute e ricchezza e come una promessa per il futuro. La continua obsolescenza delle merci si riflette nella marea montante delle speranze deluse. E così deve essere perché la società dei consumi si fonda sulla frustrazione delle attese. Ma nuove speranze e desideri devono continuamente entrare a sostituire e superare quelli vecchi, e per far ciò la strada tra il negozio e il secchio della spazzatura deve essere sempre più breve e veloce. Ma c'è un'altra cosa che distingue la società dei consumi da tutte le altre: le strategie per mantenere i modelli di comportamento e gestire la tensione (tanto per citare i prerequisiti di un «sistema autoequilibrante» enunciati da Talcott Parson). La società dei consumi ha sviluppato una straordinaria capacità di assorbire e riciclare a suo beneficio il dissenso che provoca (come ogni altro tipo di società). Valga ad esempio il caso di un processo che Thomas Mathiesen ha denominato come «tacito tacitamento» (della protesta e del dissenso) attraverso lo stratagemma dell'assorbimento: «[...] gli atteggiamenti e i comportamenti che hanno un' origine trascendente [cioè che minacciano di far esplodere o implodere il sistema] sono integrati nel sistema in modo da continuare a servirlo. In questa maniera, vengono resi inoffensivi».9 Da parte mia vorrei aggiungere: e vengono anche trasformati in strumenti per la riproduzione del sistema stesso. 9 Thomas Mamiesen, Silently Silenced: Essays on the Creation ofAcquiescence inModern Sociery, Winchesrer, Warerside Press, 2004, p. 15.